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CHE COS'È UN'ARGOMENTAZIONE

 

 

(perduti i primi minuti di trascrizione)... questa questione ha una portata non indifferente, se si tiene conto che il fine dell'argomentare è quello di giungere a una conclusione che sia il più possibile, se non proprio vera, la più prossima al vero. Se no perché uno argomenta? Mica per passare il tempo, si argomenta per giungere a una certa conclusione, per sapere cioè come stanno le cose, ma generalmente si argomenta... (entra Sandro) ecco dicevo, perché si argomenta se non per questo motivo? Già gli antichi avevano intesa la questione, utilizzandola per giungere a stabilire lo stato delle cose. Come sappiamo se le cose stanno in un modo oppure in un altro? Quali strumenti abbiamo a disposizione? L'argomentazione... poi alcuni hanno aggiunto anche l'osservazione, però anche l'osservazione è inserita in un sistema inferenziale senza il quale l'osservazione si limiterebbe a prendere atto, nel migliore delle ipotesi, di quello che vede. Questo sistema inferenziale, che è sempre stato accostato in effetti a qualcosa di divino, in quanto mezzo, tramite per giungere alla conoscenza alla verità (pensate solo ad Aristotele per esempio, tanto per dirne uno, e all'Organon, questa serie di scritti fondamentali per intendere la questione della logica e a tutt'oggi più o meno insuperati, diciamola così), questo sistema dunque inferenziale sembra connaturato, almeno così è parso, con gli umani, i quali si chiamano tali perché esiste questo sistema, se no non sarebbero giunti a formulare un sillogismo, un sillogismo tale che potesse consentire di dire che le cose sono così. Che cosa questo significhi è un altro discorso, però di fatto giunge a questa conclusione attraverso un sistema di inferenze, cioè di "se... allora" per farla breve. Dicevamo che l'argomentazione deve avere fra le sue prerogative quella di mantenere una consequenzialità tra le proposizioni di cui è fatta, e qui in effetti sorgono vari problemi, per esempio se dico che:

ci sono stati dei tafferugli tra extracomunitari,

questi sono extracomunitari,

questi provocano tafferugli.

Questa argomentazione ha una sua struttura, per quanto stupida sia, che non è molto dissimile da quella che afferma:

Pietro e Paolo sono apostoli,

gli apostoli sono dodici,

Pietro e Paolo sono dodici.

Perché non funziona una cosa del genere? Perché è immediatamente evidente l'assurdità di una tale affermazione? Evidentemente c'è qualcosa che stona, Pietro e Paolo sono due, non possono essere dodici. Ma ciò che già Aristotele insisteva a dire, ciò che è necessario che sia, è che ciò che segue a una premessa sia implicito nella premessa. Naturalmente il sillogismo, per essere necessario, costrittivo, logicamente inoppugnabile occorre che sia deduttivo, perché muovendo da qualcosa di necessario, ciò che potrà dedursene sarà qualcosa di altrettanto necessario, la conclusione sarà di conseguenza necessaria pure lei, e questo è il tipo di argomento deduttivo che perlopiù si cerca di mettere in atto in ciascuna argomentazione, anche la più banale, perché è il sistema più potente, come quello più famoso di Aristotele:

Tutti gli animali sono mortali,

l'uomo è un animale

dunque l'uomo è mortale.

Anche qui non fa una grinza, però il fatto che l'uomo sia un animale risulta necessario dalle definizione date in precedenza sempre dallo stesso Aristotele. Ma come vedete ciascuna argomentazione trae sempre la propria necessità, supposto che ne abbia qualcuna, da quelle precedenti, e anche qui Aristotele si è accorto che oltre a un certo punto non si può andare, non si può andare perché ciò che si incontra è una sorta di regressio ad infinitum, e questo sembra creare qualche problema. Tuttavia gli si era posta la questione. Perché mai per costruire un sistema scientifico, perfettamente coerente e perfettamente dimostrabile (perché occorre che sia anche dimostrabile, badate bene, e cioè che sia coerente non soltanto per me, ma anche per altri), è necessario che parta da qualche cosa che sia altrettanto inoppugnabile e necessario? Ma da che cosa esattamente? E' sorto qualche problema dal momento che qualunque cosa fosse presa a necessità, questa poteva comunque essere messa in discussione, e allora perlopiù si è preso il dato esperienziale, il dato esperienziale vale a dire il luogo comune.

Paradossalmente l'operazione che ha compiuto Aristotele è quella di muovere verso un sistema straordinariamente rigoroso per giungere esattamente al punto da cui era partito, dal luogo comune, il dato dell'esperienza come luogo comune, cioè ciò che è creduto dai più. Ciò che i più hanno stabilito, per una serie di circostanze che qualcosa si chiami vero, ho detto "si chiami" e "non che sia" perché la questione è ancora più complicata. E in effetti introduciamo qui la questione della verità rispetto a un'argomentazione che, come abbiamo detto fin dall'inizio, è essenziale, perché una persona argomenta per raggiungere una verità o, se non la raggiunge, comunque immagina di avvicinarsi alla verità, perché se non avesse nessuna di queste chanches, probabilmente, come dicevamo prima cesserebbe di argomentare (forse, non ne abbiamo la certezza). Comunque sia, a questo punto la verità merita una piccola riflessione, anche questo è uno dei temi fondamentali degli umani. Sapete che da tremila anni (dico tremila perché prima non ci sono tracce di un certo rilievo) la questione si è posta con varie vicissitudini, con alti e bassi, definita in vario modo, ma se teniamo conto di ciò che abbiamo detto prima e cioè che non c'è uscita dal linguaggio, salvo ritrovarlo in qualunque tentativo che si faccia per compiere questa operazione, allora la verità non potrà non essere un elemento linguistico, e quindi connesso alla struttura del linguaggio, e quindi dipendente dalla struttura del linguaggio o, se preferite, per dirla in termini più recenti, strettamente dipendente dal tipo di gioco linguistico che si sta compiendo. Sicuramente vi sarà capitato di chiedervi che cos'è la verità, molti prima di voi l'hanno fatto.

Adesso ve ne dico una bella, volete sapere che cos'è la verità? La verità è esattamente ciò che voi credete che sia. Né più, né meno. Come dire, in altri termini, la verità è un elemento linguistico dipendente, dicevamo, necessariamente dipendente dal gioco linguistico in cui è inserito. Se un gioco linguistico prevede che la verità sia una certa cosa, allora la verità sarà quella cosa, oppure un'altra cosa se è prevista quell'altra cosa.

Quando si argomenta cosa avviene? Se, come dicevo prima si tenta, si cerca almeno di raggiungere la verità come obiettivo, cioè l'ultima proposizione, quella che è nota come conclusione, questa dovrebbe essere qualche cosa che, se non proprio descrive la verità, quanto meno gli si approssima, ma se la verità è esattamente ciò che io credo che sia, mi sono già bell'e approssimato. Allora è ovvio che argomentare in questi termini, cioè nei termini in cui si immagina che l'argomentazione debba o possa concludere alla verità, esclude per definizione l'eventualità che la verità sia ciò che io credo che sia, lo esclude per definizione, perché in questi termini in effetti non avrebbe molto senso mettersi ad argomentare. Se non per gioco, per fare un gioco linguistico, cioè per produrre altre immagini, poi perché uno argomenti, motivi può trarne quanti ne vuole. Perché uno scrive poesie? Perché Dante ha scritto la Divina Commedia? Anziché andare in giro a dare sprangate ai ghibellini? E invece no, magari ha anche fatto questo, però nello stesso tempo ha scritto anche la Divina Commedia, perché? Non è neanche diventato ricco. Almeno, non fu un best seller in quegli anni che io sappia, che non c'era Maurizio Costanzo che lo reclamizzava, ci fosse stato... ma sia come sia, perché dunque argomentare allora? Potremmo dire in prima approssimazione per lo stesso motivo per cui si parla in definitiva, e cioè per produrre altre parole, per produrre sensazioni, emozioni, ci sono molti altri motivi, d'altra parte il reperimento di un motivo, e cioè la risposta alla domanda "perché si parla?" non lo raggiungiamo se non attraverso argomentazioni. E di nuovo siamo daccapo, chi ci garantirà che queste argomentazioni siano vere e poi, si potrebbe dire: rispetto a che? Ecco che allora a questo punto c'è una sorta di contraccolpo ma, anche se di primo acchito potrebbe non risultare così evidente, una eliminazione radicale di quella che potremmo chiamare, un po' per gioco, l'ingenuità argomentativa: lo scetticismo. Gli scettici, e poi dopo di loro i nichilisti, e dopo di loro ancora i depressi (non fa molta differenza), sono molto ingenui, qualunque bravo metafisico saprebbe fare tacere, qualunque scettico o comunque risulterebbe la discussione come un nulla di fatto: pari, uno a uno; e così è stato nell'ultimo millennio, grosso modo. Dicevo dell'ingenuità, lo scetticismo giunge alla considerazione che non è possibile dimostrare alcun senso delle cose. Perché è ingenuo? perché muove dall'idea che intanto questo sia eventualmente possibile, e poi che questa stessa operazione abbia un senso e poi, soprattutto muove dalla considerazione che le cose debbano necessariamente avere un senso, perché se no la questione non si porrebbe. Perché dovrei dimostrare che non c'è cosa che abbia un senso, se non mi si pone il problema che ce l'abbia oppure no? Semmai rifletto intorno alla nozione di senso, eventualmente, non sto a chiedermi una cosa del genere. Che cosa posso intendere con senso e perché mai intendo una cosa anziché un'altra? Per esempio. Ecco, questo già può essere più interessante. Se voi prendete, come già abbiamo visto l'anno scorso, il depresso, cosiddetto depresso (la depressione oggi è un fatto importante, un business di miliardi, chi riesce ad entrarci fa soldi a palate, bisognerebbe trovare il modo). Dicevo della depressione, ecco il funzionamento è molto simile, conclude ad un certo punto che nulla ha senso, senza domandarsi come mai dovrebbe averne uno. Ecco questo è un tipo di argomentazione, io posso giungere a concludere che le cose non hanno nessun senso muovendo da alcune premesse, una delle quali, e fondamentalissima, è che debbano averne uno, necessariamente, se non muovo da questa premessa l'argomentazione diventa nulla. Argomentare è importante, o meglio saper argomentare, qui stiamo soltanto sfiorando la questione, ma cos'è sapere argomentare? Cosa intendiamo in questo frangente? Con sapere argomentare intendiamo esattamente questo: il trovarsi nelle condizioni di non doversi fermare da qualche parte. O meglio, uno può anche fermarsi da qualunque parte, nessuno lo costringe a proseguire, ma sapendo perfettamente, avendo la totale e assoluta consapevolezza e responsabilità che si sta fermando a un punto qualunque e che la conclusione a cui giunge non è definitiva, può proseguire all'infinito. Ma allora non troverà mai la verità? No, se non ha stabilito prima che cosa sia, se invece ha stabilito prima che cosa sia allora la trova. Io dico che la verità è questo, tutto quello che collima con questo è la verità, ciò che non collima è falso, semplice no? Basta stabilirlo prima, poi, una volta stabilito non c'è problema. O dobbiamo considerare altrimenti? Che per esempio ciò che indichiamo con verità, qualunque cosa sia, corrisponda a qualche cosa che non è vincolato alla struttura del linguaggio ma ne è fuori, e che quindi da questa posizione può mantenere una sorta di immutabilità e garanzia che qualunque cosa collimi con lei sia esattamente ciò che è o ciò che necessariamente è. Con verità possiamo anche intendere ciò che necessariamente è, naturalmente si tratta di intendere cosa sia il "necessario che sia", e qui ciascuno ha delle opinioni molto divergenti. Un po' come il bene, ciascuno a suo modo sarebbe disposto a sottoscrivere che il bene è ciò che conviene ai più, poi che cosa convenga esattamente, lì magari ci sono delle piccole divergenze che scatenano grandi guerre, però poste in termini generali, così come "è meglio la giustizia dell'ingiustizia", chi non sarebbe pronto a sottoscrivere una cosa tanto inutile? Chiunque, appunto perché essendo assolutamente inutile può essere sottoscritta in qualunque momento, ma ecco dunque, la questione della verità che qui ritorna è essenziale. Qui non ci occupiamo della verità, uno dei grandi temi metafisici, che è sempre posta negli stesi termini, e cioè come adæquatio rei et intellectus, o come massima approssimazione a qualche altra cosa, non cambia poi un granché, abbiamo detto l'anno scorso in varie occasioni, anche rispetto a Popper, però adesso non ci interessa Popper. Allora, vi dicevo che l'argomentazione necessita, così come è pensata generalmente di un obiettivo, e questo obiettivo deve essere il vero. E dicevamo ancora che se un'argomentazione legittimamente non può fermarsi in nessun punto allora la verità in quanto tale non esiste e ci chiedevamo se possiamo considerare altrimenti. Sì, possiamo certo e infatti adesso lo facciamo: se la verità o qualunque cosa si chiami con questo nome è fuori dal linguaggio, questo che cosa comporta? dire che è isolato naturalmente, isolato rispetto al linguaggio, ma se è fuori dal linguaggio come so di questo elemento? Necessiterà necessariamente di un terzo elemento che li metta in connessione, un po' come la vecchia storia del terzo uomo di Aristotele e poi ce ne vorrà un altro fra il terzo e il primo e così via all'infinito. Qualcuno potrebbe supporre che tutti questi discorsi siano sofismi, e in effetti lo sono. Sofisma è una forma argomentativa caduta in disuso, in buona parte a causa della sua inutilità a servire qualunque causa e della sua pericolosità. Un sofisma è un'argomentazione che muove dalla totale consapevolezza, qualunque sia la premessa, qualunque sia la conclusione, che entrambe saranno inesorabilmente e assolutamente gratuiti, questo è un sofisma, cioè un'argomentazione che non muove né dalla supposizione di dire la verità, nell'accezione che dicevamo prima cioè di una verità extralinguistica, né dalla supposizione di poterci giungere alla verità. In questa accezione, la verità ha un senso soltanto inserita in un certo gioco linguistico che dice che cosa sia, se no la verità è soltanto un significante, un lessema, in attesa di significare qualcosa. Ma se non c'è uscita dal linguaggio possibile o pensabile le implicazioni immediate riguardano proprio l'argomentazione, in quanto toglie a questa sequenza di proposizioni combinate in un certo modo, tali per cui si chiamino argomentazioni, ogni velleità di raggiungere altro che non sia la manifestazione o la messa in atto di un gioco linguistico, qualunque esso sia. Dicendo che la verità è esattamente ciò che ciascuno crede che sia, non ho detto poi un granché, ma qualche cosa che tutto sommato può indurre a considerare meglio ciò produce un'argomentazione: se questo allora quest'altro, ma se quest'altro allora quest'altro ancora, ma se quest'altro ancora... e quindi quest'altro. Bene, e allora? Al di là del fatto che muovendo dalle stesse premesse è possibile, nove volte su dieci giungere a conclusioni opposte, se anche questo non riuscisse che cosa abbiamo tratto da questa sequenza di proposizioni di cui l'ultima (che io stabilisco essere ultima) è la conclusione? Possiamo trarre questo: che abbiamo utilizzato abbastanza bene le regole del linguaggio. Se incontriamo qualcuno che lo usa meglio allora le sue conclusioni saranno più convincenti e più costrittive delle mie, quindi più vere e così via. Più vere, cioè saranno credute tali. il sofisma, come forma argomentativa, può essere ripreso, perché non è che differisca un granché dalle forme argomentative normali, quelle usate in qualunque discussione. Dalla discussione sulla partita di pallone alla discussione scientifica. Deduzione e induzione, Peirce ci metteva di mezzo anche l'abduzione. Induzione, l'induzione che cosa dice? E' un luogo comune che qualcosa, essendosi ripetuto un certo numero di volte, diventa certezza scientifica, per esempio non si è mai verificato che al mattino il sole non sorgesse, fino ad oggi non si è mai verificato, quindi abbiamo buone probabilità che domani mattina succeda la stessa cosa. Ma in effetti ho detto: abbiamo una buona probabilità, la certezza dovrebbe essere un'altra cosa. Dovrebbe escludere l'eventualità che non accada e questo non possiamo farlo. In questo senso non abbiamo la certezza. Questo per dire dell'induzione che, dicevo prima, è un luogo comune la cui frequenza è diventata una certezza scientifica. Queste due forme inferenziali sono quelle che vengono utilizzate dall'argomentazione, come dicevo prima quella deduttiva è quella più costrittiva, quella più potente, perché di fronte all'induzione uno può sempre obiettare che sì, è possibile, ma se non lo fosse? Con la deduzione no, esclude l'eventualità del contrario, non può non essere che così, date le premesse ovviamente. Ora non affronto la questione della tecnica argomentativa, di cui diremo la volta prossima, ma intendo qui questa sera soltanto fornire qualche elemento intorno all'argomentazione, alla sua struttura, per riflettere insieme con voi su come è fatta un'argomentazione, da dove viene, che cosa la sostiene, e abbiamo visto che è il sistema per giungere a una conclusione. Ci sono altre forme altrettanto costrittive, c'è l'osservazione, però anche questa fuori da un sistema deduttivo o comunque inferenziale, avrebbe poco rilievo. Poi c'è la minaccia, anche questo è uno strumento di persuasione per giungere a una conclusione, e poi altri ancora ma comunque, quello più seguito è quello argomentativo. Una persona è più soddisfatta se convince una persona attraverso una argomentazione piuttosto che con la minaccia delle armi, per una questione personale, è proprio più contento.

Ma allora ecco, argomentare è cosa che, abbiamo detto fin dall'inizio, ciascuno fa continuamente, da sempre, almeno da quando si ricordi e il più delle volte senza nemmeno prestarci molta attenzione. Fa male a non prestarci attenzione, perché ciò che trae come conclusione della sua argomentazione può essere tale che alla fine lui stesso ci crede, cosa abbastanza curiosa. E in effetti come si struttura una credenza, una qualunque credenza, non ha nessuna importanza. Dalla credenza nel gatto nero che attraversa la strada e che porta catastrofi, fino alla credenza nella legge di gravitazione universale, che sembrano non avere troppo in comune in effetti, forse. Perché se io argomento in un certo modo, e mentre vado avanti in questa argomentazione, e le proposizioni seguono l'un l'altra, in modo che non siano contraddittorie tra loro, e sono magari anche consequenziali, cioè l'una segue "naturalmente" quasi da quell'altra, quando arrivo al "punto", tra virgolette, in cui decido di fermarmi, a questo punto non ho nessun motivo per pensare che ciò a cui sono giunto sia falso. Non avendo nessun motivo per pensare che sia falso, deve essere necessariamente vero. E se è necessariamente vero non posso non crederci, perché la verità, abbiamo visto, nella vulgata è ciò che necessariamente è, se qualcosa è vera allora necessariamente è, quindi come posso non crederci. In questo caso "credere" è dare il proprio assenso a qualche cosa che sì, a questo punto si sa essere necessariamente vero.

Vedete subito che è molto importante sapere argomentare e sapere, paradossalmente, non fermarsi. Può essere la condizione, questo sapere non fermarsi, per non credere, ma è così importante non credere? Non ha nessuna importanza, ciascuno può credere quello che gli pare o il suo contrario, non è che stiamo promuovendo una religione o chissà che, stiamo soltanto considerando delle questioni. Chiunque creda una qualunque cosa, può continuare a farlo, ciò che stiamo facendo è soltanto una riflessione che, per una serie di coincidenze, si è trovata ad un certo punto a non fermarsi là dove generalmente si arresta, ma è proseguita. Abbiamo varcato quelle famose colonne d'Ercole, di cui parla Dante, e si è posta proprio là, dove generalmente gli umani non vanno, non vanno perché ciò che incontrano è qualcosa su cui non è possibile costruire nulla di ciò che è stato costruito, non è possibile costruire nulla nei termini della ideologia o della religione o di qualunque altra struttura che muova dalla necessità di un elemento, almeno uno, che sia fuori dal linguaggio. Se non c'è questo elemento l'argomentazione non si ferma. Se io argomentando giungo a considerare una certa cosa, è come se avessi la certezza che se mai proseguissi ad argomentare, questa conclusione a cui sono giunto si dissolverebbe o, propriamente, rimarrebbe come tale, ma insieme ad altre mille, che dicono magari tutt'altro e tutte altrettanto legittime, altrettanto dimostrabili e consolidate. Ma ecco, forse adesso veniamo alla questione centrale in tutto ciò, tutto questo perché? Perché andare a smuovere cose che non portano a niente, distruggono soltanto ciò che c'è e fanno del male? C'è un motivo che ci ha spinti a questa operazione, il motivo è che mano a mano che si procede lungo questa argomentazione ciò che si incontra, tutte le pietre miliari delle varie cose in cui si crede, che si danno per acquisite, per necessità o per qualunque altra cosa, è vero che queste si dissolvono, ma altro si offre immediatamente. Se voi riflettete, ogni volta che la vostra argomentazione, per un qualunque motivo o per vostra decisione si arresta, a questo punto tutto ciò che viene dopo vi è barrato e non lo saprete mai, non saprete mai quali altre infinite cose ciò che voi pensate può produrre. Quali altre infinite cose vi sono barrate da una decisione presa di non andare oltre? E` una questione questa abbastanza antica, in effetti il canto di Dante intorno a Ulisse evoca almeno una parte di questo, ma qui si tratta ancora di qualche cosa in più, non si tratta soltanto di inseguire "virtute e canoscenza" ma di chiedersi a quali condizioni io posso parlarne. Allora dicevo prima, qualunque cosa io creda arresta lì, a quel punto il mio discorso, una argomentazione, tutto ciò che di altro si produce, e sono cose infinite e sterminate, tutto ciò mi è impedito.

Dicevamo già tempo fa, proprio a questo proposito, che la questione riguarda soltanto la ricchezza, nient'altro che questo, la ricchezza sterminata di cui ciascuno dispone. Immaginate di sapere argomentare pro e contro qualunque cosa, senza esclusione, in modo altrettanto persuasivo, inoppugnabile e incontrovertibile, bene, questo è il minimo che ciascuno di voi occorre che sappia fare. Un po' come dicevamo l'anno scorso, un po' per gioco, il minimo che occorre sapere fare è dimostrare l'esistenza di dio, proprio il minimo, se uno sa fare questo, dimostrarlo in modo inoppugnabile, allora sa argomentare o sa usare il linguaggio sufficientemente bene, ma deve saperlo fare. Può non essere facilissimo sapere dimostrare l'indimostrabile, però queste cose le vedremo più avanti, adesso ci limitiamo soltanto a qualche riflessione deduttiva. Questo per dire dell'importanza dell'argomentazione e del "sapere" tra virgolette, ed è un sapere che metto tra virgolette perché non è così semplice che uno sappia argomentare, perché le cose che glielo impediscono sono molte e alcune di queste le ha illustrate Freud. Freud è stato un grande illustratore di luoghi comuni, ha listato i più noti, più accreditati luoghi comuni aggiungendone altri per esempio rispetto a quelli descritti da Aristotele nei Topici, cioè ha indicato le cose che le persone credono perlopiù. Aristotele si è fermato a ciò che le persone credono perlopiù degli altri, Freud ha esplorato invece i luoghi comuni che riguardano sé, cioè le cose che ciascuno generalmente pensa di sé. Sono quei pensieri che Freud chiamava fantasie e che ciascuno pensa di possedere al contrario di tutto il resto dell'umanità, e immagina che solo lui pensi queste cose e non sa che altri tre miliardi di persone pensano grosso modo la stessa cosa, ciascuno di loro pensando di pensare una cosa che nessuno degli altri pensa. Perché riguardano aspetti che la civiltà occidentale ha resi di difficile espressione, e vertono perlopiù, ha descritto Freud, intorno alla sessualità, ma appunto questo è un luogo comune, la sessualità come luogo comune. Ma sia come sia, adesso ci interessava questo aspetto tale per cui l'argomentazione occorre che diventi, proprio per giocare, un gioco linguistico sempre più raffinato, sofisticato e quindi più interessante, occorre quindi che questa argomentazione non si fermi, ma che mano a mano che voi proseguite vi troviate nella necessità di elaborare, di costruire giochi linguistici sempre più sofisticati. Per lo stesso motivo, dicevo agli amici qualche giorno fa, per cui una persona adulta non si interessa più di giocare con le palline, come sulla spiaggia da ragazzino. Da bambino giocavo sulla spiaggia con le palline, con gli amici facevamo le gare, adesso non lo faccio più, per quale motivo? Perché questo tipo di gioco non è più sufficiente per interessarmi, esigo qualcosa di più, chiedo qualcosa di più. Se ciascuno di voi sapesse argomentare pro e contro a qualunque cosa in modo assolutamente inoppugnabile, a questo punto vi trovereste di fronte all'esigenza di produrre da voi dei giochi linguistici più interessanti, perché quelli che trovate non vi interessano più, non vi interessano più perché sapete già come si fa a costruirli, a smontarli, sarebbe come giocare a poker con tutte le carte scoperte e in tavola, non esisterebbe più il gioco, nel senso che non sarebbe più interessante; non punterei mai mezzo milione avendo due sette, vedendo quell'altro che ha un poker d'assi. Dunque qualcosa accade lungo questo percorso, e cioè la necessità e quindi la produzione di altri giochi linguistici, sempre più elaborati, più sofisticati e di conseguenza più interessanti, che vi provocano a pensare in termini sempre più elaborati e sofisticati, come si diceva prima, meno ingenui. Che cos'è l'ingenuità? L'ingenuità è la supposizione che possa darsi qualcosa fuori dalla parola e quindi qualcosa sia necessariamente vero, così di per sé, perché mai?