1 febbraio 1994

 

Freud distingue tra giudizio di attribuzione e giudizio di esistenza nel saggio sul Diniego, dicendo che il giudizio di esistenza procede dal giudizio di attribuzione. Prima c’è un giudizio intorno al fatto che qualcosa sia buono, dopodiché, e solo dopo questo, viene attribuita l’esistenza, cioè se è buono esiste altrimenti non esiste.

Si tratta di intendere, e su questo Freud sorvola, che cosa sia questa attribuzione di buono o cattivo a qualche cosa.

Il giudizio, nella elaborazione di Verdiglione, attiene alla divisione, nel senso che rileva e mantiene la divisione. Vale a dire, mantiene il due. Infatti, nella elaborazione di Verdiglione la divisione è il due. Un due che non può diventare uno ma resta irriducibilmente un due, che non procede dall’uno e non si ricompone nell’uno. Il giudizio, procedendo dalla divisione, attiene all’odio, come indice dell’insormontabilità della divisione. L’odio non è l’odiare. L’odiare ha a che fare con la rappresentazione dell’amore, con la sua economia.

Il giudizio attiene al due, non è una prerogativa, non è una facoltà umana: non c’è chi possa giudicare, cioè non c’è chi possa dividere, non c’è chi possa attribuirsi la divisione, non c’è chi possa economizzarla, gestirla, farla propria o parteciparla. Il giudizio procedendo dalla divisione attiene alla logica dell’inconscio, cioè alla logica delle funzioni, anziché alla logica predicativa. La logica predicativa, invece, giudica tra il vero e il falso, tra il bene e il male, supponendo il giudizio una funzione umana, praticabile, dunque, rappresentando questa divisione.

Dire che non è possibile giudicare, cioè che il giudizio non sottostà al criterio del possibile, è come dire in altri termini non si dà un criterio tale da potere decidere ciascuna volta come giudicare. Perché, se il giudizio è strutturale, è già dato nell’atto di parola. Come?

Il giudizio, anziché dividere un elemento in due, reperisce e mantiene questa divisione che rileva e che riscontra nella parola. Ciò che viene giudicato non esiste prima del giudizio. Semmai, dopo. È dopo che il giudizio rileva la divisione, a questo punto può esistere l’oggetto del giudizio, esistere per esempio il vero e il falso ma non come ciò su cui si tratta di giudicare ma ciò che, procedendo dal giudizio, non è più soggetto alla giudicabilità. Tant’è che parlare di vero o falso non è proibito né crea dei malanni. Si tratta di intendere che intervengono come figure retoriche, cioè che non esistono prima che parli, non esiste un vero a cui attenersi o il falso, ma sono figure nella parola.

Occorre distinguere tra giudizio e decisione.

Decidere non è scegliere. La scelta comporta sempre la possibilità di potere rinunciare. Scelgo tra due o tre: in questo caso, la scelta immagina la padronanza della decisione.

C’è una decisione strutturale, inconscia, che attiene alla logica della nominazione. Questa decisione procede dal taglio.

Non sono mai io che decido, è ciò che dico che decide. Tant’è che in molti casi suppongo di scegliere questo e poi decido tutt’altro. Non so perché avviene la decisione: appunto, in molti casi, contro ogni raziocinio avviene che a un certo punto qualcosa si decide. Posso anche pensare moltissimo ma in molti casi questo pensare moltissimo è per non accogliere una decisione che è intervenuta e che per qualche motivo non si accoglie.

Freud non è che si dilunghi molto sulla nozione di giudizio. Dice solo che il giudizio di attribuzione precede il giudizio di esistenza, come dire che le cose esistono se vengono accolte. Occorre che prima ci sia un accoglimento, dopo le cose esistono. E questo ci dice che le cose non esistono di per sé ma esistono in seguito a un accoglimento. Potremmo dire che non esistono in natura, sono artificiali anziché naturali.

Il giudizio di attribuzione è ciò con cui illustra la sua teoria della percezione, di cui aveva già parlato nell’Interpretazione dei sogni. Nel saggio sul Diniego illustra la sua teoria della percezione con questo processo che insiste in tutta la sua opera e che lui chiama Nachträghlich, che potremmo tradurre in francese après-coup, che in italiano è difficilmente traducibile, che non è contraccolpo né colpo dopo ...

Qualcosa accade, io mi accorgo di qualche cosa, questo accorgermi di qualche cosa fa sì che ciò che è accaduto accada effettivamente. O meglio, un elemento esiste soltanto in questo movimento di andata e ritorno. Lui usa spesso questo modo, anche nella rimozione, rimozione e ritorno del rimosso, è sempre la stessa struttura. Lui dice che del rimosso ne so qualcosa soltanto dal ritorno del rimosso, ma è il ritorno del rimosso che struttura il rimosso in quanto tale: non ci sarebbe rimosso senza ritorno del rimosso.

Questione non semplicissima da affrontare perché allora ci si potrebbe chiedere che cos’è questo rimosso se non ne so nulla fino a che qualcosa non ritorna ma ritorna da dove non è mai partito. In effetti, è proprio così, torna da un luogo da cui non è mai partito.

C’è un motivo per cui Freud mantiene la nozione di rimosso. E cioè per indicare che ciò che ciascuno incontra, immaginando che sia il reale, concreto, è una costruzione e illustra anche il motivo per cui non potrebbe essere altrimenti. Il motivo è che ciascun elemento è preso nella parola. È questo che rende possibile questo movimento. Se io parlo di qualche cosa è perché questo qualcosa esiste (magari anche solo nella mia immaginazione). Perché? Freud affronta in questo modo la questione, dicendo che è una costruzione che procede da un elemento che provoca qualche cosa, ma nell’istante stesso in cui lo provoca già cessa di esistere. Per cui non potrò mai sapere nulla di lui né inferirne l’esistenza.

La connessione. Un elemento si connette con altri che per qualche verso mi riguardano. Questo sarebbe il giudizio di attribuzione a cui segue il giudizio di esistenza: una volta che si è connesso poi esiste.

Come avviene l’accoglimento, come ci si accorge di qualcosa?

Le connessioni tengono conto di una struttura linguistica e avvengono nel modo che indicavo prima, secondo questo processo. È quando qualche cosa si connette che si avvia questo processo di ritorno di cui mi accorgo dell’esistenza. Difficile stabilire qual è ciascuna volta l’elemento di connessione, anche perché quando mi metto a riflettere è già scomparso, infiniti altri si affacciano nel frattempo.

Non sono io a decidere, non sono a giudicare. In questa accezione non ha più nulla a che fare con il giudicare giudiziario, con lo stabilire che cosa è bene e cosa è male. Questo procede dalle nozioni di bene e di male. C’è l’eventualità che queste nozioni siano assenti nella logica della nominazione. Quindi, procederebbero da una sorta di economia, di gestione.

L’idea del possesso è il garantirsi la possibilità di un responsabile per il desiderio o per il godimento, a seconda dei casi. È un mettersi al riparo da una responsabilità. Il possesso di qualunque cosa, qualcuno, qualcosa. Una localizzazione del desiderio.

Giudicare, invece, è sempre muovere da un criterio, dall’idea che possa darsi un criterio, che cioè sia possibile. C’è certamente tutta una storia intorno alla necessità del giudicare, che è la necessità dell’esistenza del bene e del male.

Il giudicare come facoltà è ciò che mantiene la possibilità della divisione, come possibile, in potenza anziché attuale, anziché in atto. Quindi, mantiene il bene e il male, la rappresentazione, la localizzazione e l’isolabilità della divisione. E è per questo che non è possibile togliere questa facoltà di giudicare allo stato. Tolta la facoltà di giudicare crolla tutto, crollano le istituzioni, lo stato precipita nel nulla. Alcuni immaginano cataclismi biblici.

Mantenere possibili questi criteri, cioè la divisione deve essere pensata possibile. È solo questo che garantisce che l’atto possa essere identico a sé. Soltanto la divisione, pensata come gestibile, può essere applicata o no. E se non può essere applicata ma accade nella parola, come posso giudicare alcunché? Come posso dividere se mi trovo già preso nella divisione?

Quindi, anche la nozione di bene o di male non sarebbero più identiche a sé. Le stesse, prese nella divisione, si mostrerebbero come significanti anziché come ipostasi.

Ne va dell’esistenza dello stato che giudicare sia possibile. Molto hegelianamente. Era Hegel che voleva che lo stato fosse la rappresentazione suprema della morale civile, il luogo dell’etica. In questo caso, lo stato come l’unico che poteva stabilire che cosa era bene o male.

È importante per lo stato mantenere la possibilità o la pensabilità del giudicare. Se lo stato non può più giudicare non può più esistere. È praticamente la sua unica funzione, quella che lo regge in piedi, il resto sono orpelli.

 

Il discorso ossessivo dà l’abbandono come già avvenuto, però non di fatto, la cosa non è stata stabilita. Il godimento è già avvenuto una volta per tutte, solo che non riesce mai a riprodurlo allo stesso modo, quindi totale. Deve essere l’altro, il partner a dirlo, cioè deve costringere l’altro a abbandonarlo. Generalmente, ci riesce.

Il discorso isterico abbandona, non senza un grande travaglio, una grande sofferenza. Anche il discorso isterico preferisce che la responsabilità se la prenda l’altro. Il discorso isterico abbandona sì, ma la colpa è sempre dell’altro.

Nel discorso paranoico la questione dell’abbandono è posta in modo strano in quanto pone in atto in modo drammatico ciò che il discorso ossessivo non riesce mai a fare. Quindi, l’abbandono nel discorso paranoico è totale irreversibile. Quando una persona è abbandonata non esiste più. Che è esattamente ciò che il discorso ossessivo teme, che non esista più, che il gesto sia irreversibile. Quindi, sono abbandoni drammatici, drastici. Il discorso paranoico non conosce mezze misure, immaginando di distruggerlo cancellandolo dai propri pensieri.

Nel discorso schizofrenico non c’è l’abbandono perché non c’è il possesso. Sono due nozioni per lui sconosciute. È come se abitasse un vuoto e quindi non immagina né di abbandonare né di essere abbandonato.

Questi sono modi di pensare l’abbandono, di economizzare l’abbandono.

C’è un abbandono strutturale nella parola, dove non c’è chi possa abbandonare oppure no. Le parole abbandonano in quanto sono sempre inafferrabili, altre, sempre fuori portata. Abbandonano mano a mano che accadono, che avvengono. Potremmo dire che le rappresentazioni dell’abbandono di cui parlavamo prima è un tentativo di gestire questo abbandono strutturale. Ciò che importa ciascuna volta è che le cose siano gestibili o siano pensate come gestibile, cioè che io possa controllare la parola, che io sia padrone della parola e quindi padrone delle cose.

La struttura dei vari discorsi si distingue dal modo, dalle figure in cui ciascuno cerca di porre rimedio a tutto ciò, all’ingestibilità, alla trasformazione e alla variazione della parola.

Mentre il discorso isterico accusa l’altro dell’intenzione di abbandonare, del desiderio di abbandonare, il discorso ossessivo cerca conferme di un abbandono già avvenuto. Si tratta soltanto di ratificare, trova continuamente conferme di qualcosa che è già accaduto, mentre il discorso isterico cerca i segni del desiderio di fare, di operare questo. Nel discorso ossessivo non c’è mai la ricerca del segno che l’altro desidera abbandonare, l’abbandono è già avvenuto, si tratta di trovare le prove che lo certificano.

Il discorso ossessivo suppone di sapere tutto dicendo paradossalmente di non sapere niente, mentre il discorso isterico “vuole” sapere tutto dicendo di sapere tutto.

 

Il divenire analista del proprio discorso comporta il trovarsi nelle condizioni di audacia e umiltà per accogliere ciò che si dice senza significarlo, senza riportarlo, quindi ascoltandolo, lasciando che altri elementi possano accogliere elementi adiacenti nella parola. Ciò porta a intendere mano a mano ciò che si dice.

Quando cerco di giustificare è perché c’è un altro motivo per cui mi sono mosso, che mi trascende e di cui non sono responsabile.

 

 

EQUIPE PRATICA CLINICA

15 febbraio 1994

 

 

Che cosa resiste? E resiste a che?

Quando Freud elabora queste nozioni di resistenza e di rimozione, colloca a fianco di queste due nozioni di condensazione e di spostamento (che per lui non avevano ancora valenza linguistica, la stavano acquistando in quegli stessi anni con de Saussure) come quelle di metafora e di metonimia. Freud accosta la condensazione alla rimozione e lo spostamento alla resistenza. Come dire che ciò che resiste non è ciò che è rimosso, non è ciò che si condensa, ma ciò che questa condensazione rilascia, quindi l’impossibilità a decidere. Potremmo dire così: che ne di ciò che è rimosso, cosa ne vengo a sapere del rimosso? Vengo a sapere qualcosa a partire dal ritorno del rimosso, che è questo elemento che è l’unico di cui “dispongo”.

Sono due nozioni che occorre porre in una simultaneità, come dire che non c’è rimozione senza resistenza e viceversa, senza che queste due funzioni possano sovrapporsi o cancellarsi l’una a vantaggio dell’altra.

Che non ci sia rimozione senza resistenza comporta che ciò che viene eliso produce simultaneamente l’impossibilità di stabilire che questo elemento possa costituire qualcosa di decidibile. Cioè, non posso decidere se questo termine per esempio risponde a qualche cosa, non posso decidere se è l’ultimo elemento. Non posso decidere in quanto è preso in uno spostamento, non riesco a isolarlo, a fermarlo. La rimozione comporta, sull’altro versante, questo spostamento di un elemento. Simultaneamente alla sua rimozione incontra anche una resistenza.

Come illustra tutto questo Freud? Laddove qualcosa interviene in una sorta di condensazione, questa condensazione aggiunge all’elemento rimosso un altro elemento, ché per condensarsi occorre che siano due. Di questo elemento, il rimosso, a cui si aggiunge il secondo, non c’è traccia, non c’è possibilità di coglierlo (Lacan lo poneva sotto la barra della rimozione, questa barra che indica l’impossibilità di passare da una parte all’altra). Questa condensazione, questa aggiunta, questo supplemento, comporta che a fianco dell’elemento rimosso intervenga qualche cosa che impedisce di delimitare, di conchiudere, di definire, di isolare, cioè comporta, in altri termini, una sorta di spostamento. L’elemento, insieme con il ritorno del rimosso, producono uno spostamento. Questo spostamento è la resistenza, cioè questo significante resiste.

Cosa comporta che ci sia una simultaneità, una non sovrapponibilità?

Comporta che tra le due funzioni insiste quella che Verdiglione chiama la funzione vuota, cioè la impossibilità di incollare le due funzioni. Se fosse possibile si potrebbe per esempio rimuovere la resistenza. Rimossa la resistenza, un elemento, almeno uno, cesserebbe di resistere, cioè sarebbe decidibile, potrebbe costituire l’ultima parola.

 È la questione che incontra, per esempio, il discorso scientifico, rispetto all’indecidibilità, anche quello logico e matematico, muove anche da questo: ciascun elemento non è mai decidibile. Decidibile come ultimo, come ultimo di una serie, ultimo di una stringa di proposizioni. Sarebbe, nella logica, l’ultimo teorema.

La difficoltà, l’impossibilità in questo caso di stabilire questo, rileva in effetti dell’incidenza della struttura della parola anche nella ricerca logica, scientifica, ecc., e cioè di qualcosa che resiste comunque. Resiste in quanto preso in uno spostamento. Questo spostamento è ciò che Freud chiama resistenza. Nell’Interpretazione dei sogni dice che non c’è condensazione senza spostamento, come dire che la rimozione comporta “necessariamente” la resistenza.

Poi, già con Lacan, si sono affiancati a questi termini altri due, a cui Lacan attribuisce la denominazione di “retorica dell’inconscio”, la simultaneità della metafora e della metonimia. Abbiamo indicato come la rimozione abbia la struttura della metafora. La metonimia, nell’accezione in cui ne parliamo, non è propriamente quella della retorica classica, cioè la parte per il tutto, il contenente per il contenuto, ecc., che sono piuttosto delle sineddochi. La metonimia in questo caso come lo spostamento che si produce.

 È la rimozione che incomincia le cose, lo zero.

Verdiglione riprende lo zero dall’elaborazione di Peano, soprattutto dal Formulario che incomincia così: “Numero est classe”, “Zero est numero”. Questi assiomi sono proposizioni primitive, originarie, non ulteriormente scomponibili, non è possibile risalire oltre. Questione questa straordinaria anche per il diritto e la questione morale.

Lo zero come l’incominciamento. La numerazione non parte da uno ma da zero. Ciò vuol dire che, non partendo da uno, non ha un’origine (l’uno, come unità, come origine, da cui partirebbe tutto il resto per scomposizione), ma lo zero, questa cifra, questo elemento insituabile, ingestibile, inafferrabile. Lo zero non costituisce l’origine perché non è localizzabile in nessun modo, non è un’unità, non è un doppio, non è niente, ma non è un nulla.

Allora, ci si è avvalsi di questa nozione, ripresa da Peano, per indicare l’origine, l’originario o l’impossibilità di situare l’origine. Parlare di originario comporta il non attribuire a questo elemento un luogo di origine ma è qualcosa da cui le cose incominciano ciascuna volta, da cui ciascuna volta il discorso prende avvio. Verdiglione indica rispetto allo zero la rimozione, cioè il rimosso. Il rimosso dice che non è altro che uno zero, appunto questo elemento insituabile, illocalizzabile, ma da cui le cose, le parole, incominciano. Il rimosso è questo zero, propriamente questa illocalizzabilità dell’origine.

In effetti, anche Freud indica il rimosso, distinguendolo dal ritorno del rimosso, come qualche cosa di cui non può sapersi, che non è individuabile, isolabile, localizzabile. Altro è il ritorno del rimosso che è questo significante che è adiacente, che giace a fianco allo zero. Ma questo significante che giace a fianco incontra un senso unicamente perché esiste questo zero. Ecco la questione della metafora. Perché la proposizione “questa fanciulla ha i capelli d’oro!” abbia un senso occorre che ci sia un elemento, che nella retorica è noto e consente la formazione della metafora, nella rimozione non è noto e consente la formazione di un senso che si produce, di un controsenso, di un senso imprevisto, senso non determinato. La metafora della retorica vorrebbe che il senso fosse previsto oltre che prevedibile, sennò la metafora come effetto vuoi di persuasione vuoi di ornamento del discorso, perderebbe di portata: se non si sapesse che “capelli d’oro” significa “biondo”, la metafora non direbbe assolutamente nulla.

La metonimia è lo spostamento che tutto ciò comporta nell’atto di parola. Spostamento rispetto a che, a quale luogo? In effetti, muove dall’utilizzo improprio del linguaggio, la catacresi si mostra qui con tutta la sua portata, questo abuso inevitabile nella parola. Lo spostamento comporterebbe il muoversi da un luogo a un altro. Occorre che questo spostamento sia percepibile, dunque, che un elemento sia fermo perché possa darsi movimento, spostamento. Ma non essendo così, si può porre l’accento sull’improprietà di questo termine e quindi sulla necessità di rimetterlo in gioco. Qui lo spostamento non è uno spostamento topico, da un luogo a un altro, ma la non possibilità di localizzare un elemento. Diciamo che si muove per l’impossibilità di localizzarlo. Localizzare varrebbe a poterlo definire, cioè, decidere, mentre questa impossibilità mantiene la sua indecidibilità.

 

Unlust non è il dispiacere ma l’impiacere.

 

La coazione a ripetere è un tentativo di fermare una fantasia, immaginando che la sua riproduzione economica possa fornire l’ultima versione, quella definitiva. Come dire che il gesto, o altro, si pone come se fosse l’ultimo.

L’idea dell’ultima scena sarebbe quella decidibile, quella che dice la verità, quella che non mente. È una variante del tentativo di fermare o di rappresentare l’ultima parola, quella che finalmente ha un significato definitivo, quella che non avrà più la necessità di essere ripetuta. Ha, invece, necessità di essere ripetuta perché ciascuna volta c’è un qualche cosa che sfugge alla costruzione della scena perfetta, per esempio, l’idea che qualcosa sia intervenuto per cui “non ha chiuso il gas”, un’inezia, un dettaglio, una sfumatura, che interviene. Ciascuna volta ce ne è sempre una nuova. Manca qualcosa in quanto qualcosa si è aggiunto, cioè manca il suo obiettivo perché qualche cosa si è aggiunto, si è aggiunto un pensiero, un’immagine. In effetti, il ritornare di sopra a controllare se ha chiuso il gas comporta che qualcosa si è aggiunto rispetto a questa scena, ecco un’idea in più, che prima non c’era o che si pensava controllabile. Invece, si accorge che non lo è e lo costringe a tornare di sopra. Cioè, la scena deve riprodursi ciascuna volta in modo economico, gestibile, e ciascuna volta occorre che sia l’ultima.

 

 

EQUIPE PRATICA CLINICA

 22 febbraio 1994

 

 

Lo stato è autorizzato da sé in quanto, seguendo un concetto che va da Aristotele sino a Hegel, rappresenta il bene supremo. Più che rappresentante è l’incarnazione del bene supremo. Quindi, tutto ciò che fa lo stato è bene, inesorabilmente, perché rappresenta il tutto. In quanto tale è perfetto, le parti sono imperfette e, quindi, in debito rispetto a questa unità. Questa unità, questo tutto, è superiore alla somma delle parti. Poi, con Hegel ha raggiunto il massimo vertice; per lui c’è l’identificazione assoluta fra lo stato e il bene supremo.

Lo stato, come bene assoluto, è posto come un ideale che è raggiunto idealmente, esiste come riferimento, più che esistere concretamente. È ciò cui ciascuno fa riferimento idealmente, quindi non esistendo in quanto tale, non è soggetto a controversie. Qualunque cosa che non esista non è soggetta a controversia; lo stato ideale, in quanto tale, non esiste, dunque, non può essere soggetto a controversie, non può essere discutibile, non si può discutere ciò che non esiste.

L’idea dell’assoluto, che è dio. Qualunque istituzione che si ponga in questi termini è come se si mettesse al posto di dio oppure emanasse direttamente da lui. Così tutta la dottrina intorno al diritto, alla giustizia, nei padri della chiesa si muove in questo termini. se procede da dio, è chiaro che è assoluto.

Assoluto: letteralmente, senza soluzione, cioè non può solversi in altre cose.

C’è un’insistenza dell’assoluto, di ciò che non ha soluzione, nella parola. C’è dell’assoluto per ciascuno. L’assoluto è il punto vuoto. Il punto vuoto è assoluto in quanto indivisibile, non offre soluzioni di sorta.

Dire che c’è questo aspetto di non soluzione è come dire che le cose non possono risolversi in altro: una cosa, per esempio, che si risolve o si riporta a altro oppure, trovando una sua soluzione, troverebbe un principio primo oppure la sua causa.

La questione posta in termini clinici riguarda questo: come per ciascuno interviene l’assoluto, come reperire l’assoluto nel proprio discorso.

L’assoluto è ciò che fa da ostacolo a qualunque tentativo di soluzione. Avevamo individuato questo come l’oggetto nella parola. L’oggetto nelle due accezioni: Gegenstand e Object, ciò che sta contro e ciò che è gettato innanzi. Dire che c’è dell’assoluto comporta il tenere conto che la soluzione, che per qualche motivo posso immaginare di andare cercando, è un inganno, un modo per aggirare la questione. Cercare la soluzione, cercare di risolvere qualcosa, è il modo per evitare di confrontarsi con questo qualcosa, perché ogni volta che si è risolto cessa di esistere, cioè cessa di interrogare.

Non c’è soluzione delle cose, cioè non c’è possibilità che la pulsione cessi di intervenire e che quindi la domanda finisca.

Può dissolversi la superstizione che questa domanda debba essere necessariamente drammatica.

Potremmo anche dire che Freud inventa la psicanalisi accorgendosi che non c’è soluzione, cioè quando la soluzione, fornita dalla medicina e dalla psichiatria, mostra la corda. Mostrare la corda, cioè, mostrare il limite oltre il quale c’è la rottura.

 È sull’interminabile che Freud inventa la psicanalisi, come dire che l’analisi si instaura proprio sull’interminabile. È dove c’è l’interminabile che c’è analisi. Se non c’è soluzione c’è analisi, cioè se non c’è il male, se non c’è la demonologia per cui questo è il male e deve essere eliminato.

 

C’è una priorità nel discorso isterico dell’immagine sull’idea, mentre nel discorso ossessivo la priorità è dell’idea.

Freud ha rilevato che nel discorso isterico ciò che insiste non è tanto l’idea in quanto modo di ripercorrere, attraverso dei pensieri, degli eventi, ma piuttosto il ripercorrerli attraverso immagini. È come se pensasse per immagini e queste immagini sono le sue idee. Invece, il discorso ossessivo pensa preso continuamente da queste idee ma queste idee sono senza immagini, come se le immagini fossero un’altra cosa, per cui può dire questi pensieri ma questi pensieri sono senza immagini. Se c’è l’immagine di colpo si ferma. Il discorso ossessivo si ferma bruscamente quando c’è una sovrapposizione fra l’idea e l’immagine. A questo punto si paralizza perché è come se non si trovasse più distante da ciò che dice (nel senso che tiene a distanza ciò che dice per non esserne coinvolto), ma si trova preso in mezzo per via di queste immagini e allora si ferma per non rischiare di trovarsi preso nella parola e di accorgersi di essere in ciò che sta dicendo.

Il discorso isterico, invece, è preso da questa serie di immagini. Non che non ci siano idee, c’è pensiero, ma è come se pensasse per immagini, per cui ciascun pensiero è una scena isolata con cui deve confrontarsi ogni volta. È questo un lavoro immenso, perché ogni volta è come se si giocasse tutto perché la scena è tutta lì. Cosa che non avviene nel discorso ossessivo che, invece, può sentirsi di rinviare all’infinito l’incontro con questa scena. Difatti, laddove incappa in un’immagine si arresta immediatamente.

L’immagine non può controllarsi. Ciascuno è preso continuamente da immagini mentre parla, mentre pensa, né può isolare, fermare le immagini.

Il discorso isterico fa la parodia di questo, accorgendosi che ciascuna volta l’immagine, che costituisce la scena, è inadeguata perché ce ne è sempre un’altra che più adeguata o che si oppone a questa. È un modo di parodiare questa anamorfosi delle immagini. Ecco “la scena è questa!”, però accade qualcosa per cui non è più questa ma è un’altra scena.

Le immagini sono semoventi. L’immagine che ho e che non so di avere, perché, laddove la trasformo in una possibilità, è già un’altra.

Neanche l’idea posso fermare trasformandola in ideologia, come discorso sull’idea, come se potesse dirsi l’idea. Ciò che dico non è l’idea, l’idea è ciò che opera in ciò che dico. Opera come operatore sintattico, frastico, pragmatico, ma non posso dirla. Risulta parodistico, se non paradossale, dire “questa è la mia idea”.

Non è possibile pensare, non è una facoltà.

Il discorso ossessivo tenta una gestione del pensiero. Gestire il pensiero è immaginare di trovarsi a supporre la riproducibilità dell’idea. Il discorso ossessivo rimugina moltissimo, è sempre preso dai pensieri, ma questo rimuginare è come un girare in tondo, non approda a nulla. Cosa pensa il discorso ossessivo? Pensa a quale astuzia mettere in atto per ingannare sé o altri. L’astuzia che consente di dire senza esporsi, consente di restare celati mentre qualcosa si fa. Una fantasia è quella di osservare senza essere osservati e, eventualmente, ridere dell’altro che non sa di essere osservato.

Il discorso ossessivo, in definitiva, deve ingannare la parola come tentativo estremo di padronanza sulla parola. Parlando, la parola mi mostra, mi espone, e allora io compio tutte le astuzie per restare celato. Pensando di poter ingannare l’altro, compie un’operazione tale pensando di poter dirigere le cose attraverso il suo pensiero.

Il discorso ossessivo, talvolta, immagina di essere ingannato. Dante parlerebbe a questo proposito della legge del contrappasso. Infatti, il discorso ossessivo immagina che altri facciano a lui ciò che lui fa a altri, perché inganna continuamente.

Il discorso ossessivo inganna supponendo di controllare l’inganno, cioè di esserne il padrone, l’artefice. Il discorso isterico inganna “inconsapevolmente” nel senso che, un momento prima fornisce una versione che è vera e dopo ne fornisce un’altra che per il discorso isterico è altrettanto vera. Non solo ma quella precedente cessa di esistere e subentra quella nuova. Interrogato intorno a qualche cosa che ha fatto, il discorso isterico dice delle cose, assolutamente certo di dire la verità. Poi qualche cosa interviene per cui queste cose si trasformano nel suo discorso, cioè, per lo stesso discorso isterico non sono più le stesse cose, si accorge (tra virgolette, perché non si accorge di nulla) che non è proprio così che le cose sono avvenute. Allora, che cosa accade? Accade che la prima versione non viene messa in discussione, non pone degli interrogativi, ma viene cancellata letteralmente. Cancellata nel senso che non è mai esistita, per cui fornisce questa immagine, per chi si trova a confrontarsi con questa situazione, un po’ disorientante, nel senso che l’accusa, che può rivolgersi in questo caso al discorso isterico, è quella di mentire, il quale si difende dicendo che non mente affatto. Il discorso isterico è come se sapesse di essere in buona fede e si difende strenuamente.

Il discorso ossessivo mente deliberatamente perché immagina di ingannare l’altro.

Non così per il discorso isterico. C’è sempre una sfida nel discorso isterico che viene dalla certezza che l’altro non sa che lui sa. O meglio, per dirla con Lacan, il discorso isterico sa di non sapere e per questo sfida chiunque a sapere: io so di non sapere, però ti sfido a sapere tu. A questa sfida gli inquisitori rispondevano con il fuoco.

 

La supposizione che se potessi mai dirigere, controllare, la parola, ebbene, a questo punto, le cose che io dico e che penso avrebbero un significato fermo, unico, duraturo nel tempo. Ma, più che altro, le cose che io dico e che io penso sarebbero garantite, garantite dall’alterarsi, dal trasformare, dal variare, dall’essere sempre diverse e differenti, quindi, sempre inafferrabili. A questo punto, ci sarebbe qualcosa di stabile, di fermo, di identico a sé.

In ciascun discorso il tentativo è sempre questo: di poter isolare un elemento, di renderlo identico a sé.

Tutto il pensiero filosofico è una colossale costruzione che verte intorno a questo, a reperire la possibilità del discorso, del pensiero, per potere stabilire una sostanza. In questo si distingue dalla religione che suppone di averla (la sostanza) già data. La scienza suppone che esista e che si tratti soltanto di trovare la chiave giusta, come voleva Galilei, per leggere l’universo.

 

Il tornaconto secondario è un vantaggio fittizio, non è un vantaggio, non porta da nessuna parte, comporta un girare in tondo, mentre il tornaconto primario è il continuare a parlare, che le cose non si fermano. Questo è strutturale, il primo no. Il tornaconto primario è strutturale, non può togliersi dalla parola. Qualunque cosa ciascuno si trovi a fare, comunque lo muoverà verso il proseguire a dire, a parlare.

Il tornaconto secondario tenta di porsi come rimedio al tornaconto primario, rimedio alla non gestibilità della parola, alla non gestibilità del pensiero.

Tutte le domande che gli umani si pongono “da dove vengo? dove vado?” attengono a una questione linguistica, nel senso che immaginano, tentano o cercando di dare uno statuto a ciò che si dice, alla parola, quindi al “da dove vengono le parole? da dove vengono i nomi delle cose?”, anche perché il porsi la domanda “da dove vengo?” necessita di una struttura linguistica che la precede e che consente a tutto ciò di essere pensato e quindi di essere formulato.

 

Accade questo che ci si accorge di una struttura che opera. Lungo l’itinerario analitico accade di accorgersi mano a mano di varie cose, non è che uno sia folgorato a un certo punto come Paolo sulla via di Damasco. Accade che parlando ci si accorge di una struttura, si reperisce una struttura. A questo punto, è possibile tenere conto di questa struttura e, quindi, trovarsi a ridire le stesse cose ma in un altro modo, come se non fossero più dicibili e pensabili allo stesso modo. Dopodiché incomincia il lavoro vero e proprio dell’analisi e cioè l’elaborazione teorica del proprio discorso che comporta questo: una ricerca intorno ai termini che si enunciano inizialmente come termini magici. Ciascuno lungo la propria vicenda reperisce dei termini che hanno questa funzione: può essere l’amicizia, la relazione, il giusto, ecc., sono i termini privilegiati su cui verte in qualche modo la propria interrogazione. Si tratta, allora, di una ricerca scientifica intorno a questi termini per verificare come si sono strutturati, che funzione hanno, che cosa devono mantenere immutato, quale superstizione, quale certezza. Compiere una ricerca scientifica intorno a un termine non è altro che giungere al transfinito rispetto a questo termine. Supponiamo che il termine in questione sia il giusto. Ciò che incomincia a avvertire è che a questo significante possono attribuirsi altri significati, che non aveva previsto prima perché prima attribuiva soltanto un significato, e quindi questo significante incomincia a essere meno inchiodato, meno fermo. La chance è quella di accorgersi che non c’è significato possibile da attribuire a questo significante perché qualunque significato io voglia attribuire risulta sempre aleatorio, inadeguato, incredibile, nel senso che non può credersi. A questo punto è già a buon punto, perché resta il significante ma perde la sua connotazione drammatica che gli è fornita dal fatto di dovere sempre e necessariamente ricondurre qualunque cosa a ciò che credo essere il giusto. Cessa questa necessità di interrogarsi in modo drammatico intorno al giusto, nel senso ci trovare che cosa possa essere ricondotto ciascuna volta a questo termine. Si avverte che nulla può essere riconducibile a questo termine che, a questo punto, diventa come il vuoto. Vuoto nel senso che non significa ma è significante, cioè produce un effetto di significazione, in quanto per ciascuno produce qualche cosa, produce delle immagini, del senso, del sapere. Quindi, non resta che tenere conto che questo significante apre, in effetti, a una quantità infinita di elementi, perché, non essendo più costretti a doverlo significare, lo si può ascoltare e ascoltandolo ci si accorge di connessioni, di elementi che sono lì a fianco, che apparentemente non hanno nulla a che fare con questo significante “giusto”, ma che, invece ... lo sostengono. Quindi, mi sono liberato dalla necessità di doverlo significare, di dargli un significato. Posso, invece, ascoltarlo, posso lasciare che incominci a dire delle cose e verificare in atto che questo termine è infinito, che non c’è una fine a tutti questi elementi che gli sorgono a fianco. A questo punto sono libero rispetto a questo significante, che è diventato un termine.

 

Assoluto è il punto vuoto, l’irrelato, non può essere relato a alcunché.

L’assoluto non si cerca, si deve cogliere.

Dio è l’idea dell’assoluto.

 

Le cose si dicono e dicendosi sono legate fra loro in modo particolare. Questa è la materia del dire.

La sintassi è il modo in cui si dispongono, non il loro essere legate, ma il modo del loro legame, la dispositio.

La metafisica è nella struttura di ciò che si dice. Immaginare che sia una produzione del linguaggio, che sia un quid, è un modo metafisico di pensare la metafisica, che esista fuori della struttura.

 

Generalmente, la materia è supposta inerte, informe, che attende la forma. Invece qui la materia non attende nulla, cioè esiste già in quanto forma, la materia non si dà senza forma. Questo comporta che non esiste materia inerte che attenda di essere formata, ma è nell’atto, non è altrove. Quindi, non è debitrice di una forma, come molte dottrine politiche si attengono a questo, immaginando la materia come una massa che deve essere formata da qualcuno che ne è l’informatore e questo giustificherebbe la necessità dell’intellettuale organico. L’intellettuale organico ha questa funzione: di essere colui che dà forma alla materia inerte e informe che attende il vasaio che la forma, come in Platone.

Credere alla materia inerte conduce a supporre che occorra l’animatore, che anima e che dà vita a questa materia inerte.

 

La parola non è un tutto, è un intero

 

 

EQUIPE PRATICA CLINICA

 25 febbraio 94

 

 

Il controsenso è un effetto della rimozione.

Due elementi intervengono simultaneamente; però, di questi due uno soltanto è presente e è soltanto grazie a quello assente che trae la sua esistenza. Il senso si produce proprio lì.

Un significante è rimosso, cioè è assente, e proprio perché assente consente alla metafora di esistere. Quello che è presente interviene come senso. Ma è anche un controsenso, non perché si oppone a quello precedente, ma in quanto è un senso imprevisto, imprevedibile.

 

Dire che una persona mi odia, come fa Freud nel saggio sul Presidente Schreber, procede da un’attribuzione di qualcosa che mi riguarda.

C’è, in questo caso, un’attrazione nei confronti di una persona. Questa attrazione non è ammessa né ammissibile e allora succede che si instaura una fobia nei confronti di questa persona. Questa fobia comporta che io possa enunciare di odiare questa persona. Però, dice Freud, questa conserva una connessione troppo stretta con la questione di cui si tratta, cioè il fatto che io sia attratto da questa persona. E allora c’è questo rovesciamento: non dice più “Io lo amo”, “Io lo odio”, ma si rovescia in “Lui mi odia”.

 

Il controsenso è un elemento strutturale che procede dalla rimozione. Riguarda il significante che è adiacente a quello rimosso. Si effettua del senso come controsenso, senso imprevedibile, non gestibile.

Mi trovo preso in un nome che immagino essere una certa cosa. Questo nome non è ciò che immaginavo. In quanto adiacente a questo nome c’è un altro elemento e, quindi, il senso che incontro non è quello che potevo supporre.

Il controsenso procede dal significante che giace (adiace) a fianco del significante rimosso, del nome. In questa adiacenza c’è il controsenso. Del significante rimosso non se ne sa nulla. Non si ha accesso al rimosso in quanto è ciò che parlando resta non detto. Questo non detto è laddove c’è una struttura come quella della metafora.

Il controsenso è ciò di cui, in qualche modo, ci si accorge rispetto al funzionamento del nome. Può intendersi come effetto di godimento rispetto alla rimozione.

 

Il desiderio attiene alla metonimia, alla frase.

Lì si reperiscono, attraverso le sue rappresentazioni, le varie figure di non ammissione del desiderio.

Il desiderio non è rappresentabile, è desiderio di niente, è intransitivo.

Il desiderio è la struttura stessa della frase. Nulla a che fare con ciò che si desidera. Questa è una rappresentazione per renderlo decibile, ma il desiderio non si lascia rappresentare da nulla.

 

L’odio è l’indice dell’insormontabilità della divisione.

L’odiare qualcuno è molto più vicino all’amore che all’odio, in quanto immagina di poter afferrare l’oggetto dell’odio. Laddove c’è la supposizione di poter afferrare l’oggetto, di poterlo gestire, è sempre una rappresentazione dell’amore.

L’odio non ha nulla a che fare con l’oggetto, l’amore sì.

L’odio è strutturale, è un indice, indica che le cose si dividono, che la divisione è incolmabile.

L’odiare è una variante dell’amore (Odi et amo).

L’amore mantiene l’inafferrabilità dell’oggetto. L’amore è ciò che tende verso un oggetto che rimane imprendibile. Laddove si suppone di afferrare l’oggetto, questo oggetto è morto in quanto isolato, messo fuori del linguaggio e quindi reso osservabile, localizzabile.

L’amore trova l’oggetto nella parola. Lo mantiene nella parola. Non lo ritrova altrove.

 

Originario il due. Le cose si dividono da sé. In questa divisione l’oggetto non c’è ancora. Dividendosi, succede che si avvia una sorta di tripartizione fra la rimozione e la resistenza e, fra le due, la funzione vuota.

La parola si divide da sé e, dividendosi, distinguiamo la rimozione, la resistenza e la funzione vuota.

Si può immaginare che la rimozione comporti, fra ciò che è rimosso e ciò che è adiacente, una simultaneità. C’è una simultaneità fra ciò che è rimosso e ciò che è adiacente.

Quando si parla di oggetto, si indica questa simultaneità. La simultaneità comporta qualcosa che è gettato innanzi continuamente perché, essendo simultaneo ciò che è rimosso e ciò che è adiacente, c’è qualcosa che è continuamente proiettato, cioè è simultaneo qui e altrove.

Oggetto: Gegenstand, ciò che sta innanzi come ostacolo, Object, ciò che è gettato innanzi. La simultaneità sta contro la possibilità di fare un tutt’uno, di togliere, per esempio, la rimozione, o di fare del controsenso un senso certificato, definitivo, ultimo. Allo stesso tempo, oltre a essere ciò che sta contro, è ciò che è gettato innanzi e comporta immediatamente un rilancio, per ché questi due sono simultanei e non sovrapponibili.

 

Amare, nella sua accezione romantica, comporta il farsi carico dell’oggetto, assumendosene la responsabilità (in questo caso giudiziaria), la sua non reperibilità e la sua non gestibilità.

 

Delirio di grandezza nel discorso paranoico.

Il discorso paranoico immagina di essere l’unico detentore della verità. Per qualche motivo, il discorso paranoico immagina che ciò cui è giunto, ciò che immagina ciò che pensa, sia la rappresentazione delle cose. Chiaramente, si rende conto che non tutti sono di questo avviso. E allora come risolve la cosa? La risolve dicendo che sono stupidi, che non hanno capito nulla. Anzi, parte dall’ipotesi, o meglio dall’ipostasi, che l’Altro è stupido.

Muovendo da questa ipostasi è chiaro che non c’è nessuna generosità nel discorso paranoico.

Il delirio di grandezza si accompagna, come sua variante, al delirio di interpretazione, che non riguarda il discorso isterico ma il discorso paranoico. Anche nel discorso isterico c’è la persecuzione, c’è il persecutore. Nel discorso paranoico ci sono i persecutori. Nessuno è individuato in quanto tale, cioè sono tutti coloro che non sanno, che non capiscono. Tutti tranne me.

Delirio di interpretazione. In base a ciò che immagino e che suppongo sia la realtà delle cose, qualunque cosa mi passi per la mente, io interpreto tutto. Vale a dire che la prima sciocchezza che mi passa per la mente diventa una certezza assoluta, in base alla quale io interpreto l’universo.

Il delirio di grandezza riguarda una grandezza che è tale in un universo di stupidi: è l’unico grande. È una grandezza paradossale perché, se sono tutti stupidi, che grandezza è? È una delle aporie del discorso paranoico, per cui ricorre a delle astuzie, eleggendo di quando in quando un maestro che prima o poi deve essere anche lui uno stupido.

Come tutti i deliri è sempre perfettamente coerente.

Intervento nel discorso paranoico. Se ci si oppone dicendo che sbaglia, questi avrà la sensazione immediata della pochezza dell’interlocutore, perché penserà che non ha capito niente. E allora come intervenire?

Generalmente, il discorso paranoico contrappone una cosa a un’altra. La propria verità è la verità assoluta contrapposta a qualche altra cosa. O tutto nero o tutto bianco. Supponiamo dia una priorità al nero. Occorre, allora, mantenere questa opposizione ponendo però l’accento, anziché sul nero, sul bianco.

È un modo per mantenere lo stesso impianto del discorso paranoico in un confronto con la sua struttura (perché non ha modo di uscirne immediatamente). In questo modo si consente al discorso paranoico di considerare l’eventualità che possa esistere anche il bianco, che lui considera solo per indicarne la non esistenza.

Il discorso paranoico dice: “Io so che tu non sai che io so”.

Il discorso schizofrenico dice: “Io so che tu sai che io so”. Dà come acquisito che tutto sia manifesto, che la cosa si mostri da sé, che tutti sappiano ciò che lui sa.

 

 

 

EQUIPE DI PRATICA CLINICA

1 marzo 1994

 

 

La nozione di struttura.

Ci siamo avvalsi della nozione più diffusa e accreditata, cioè quella di Benveniste.

De Saussure parla di sistema anche se, di fatto, ne parla come se fosse una struttura. Si fa risalire lo strutturalismo a de Saussure ma lui non parla mai di struttura ma di sistema. È stata, dopo di lui, la Scuola di Praga a incominciare a parlare di struttura, poi i francesi con Levi-Strauss.

La struttura è un insieme di elementi tale per cui la variazione di un solo elemento all’interno di questa struttura comporta necessariamente la variazione di tutto l’insieme. La struttura è un intero da cui non può togliersi nessuna parte senza che l’intero non risulti trasformato.

Anche Lacan pone la questione in questi termini, nel senso che ciascun elemento che interviene all’interno del linguaggio comporta una variante nella parola, cioè ciascuna variazione linguistica comporta una variante nella parola e, quindi, questa parola subisce queste variazioni, queste trasformazioni, laddove anche un solo elemento varia.

Levi-Strauss ha cercato le strutture elementari, potremmo dire, parafrasando Barthes, il grado zero della struttura, che è la struttura più struttura di tutte. Questa struttura elementare corrispondeva per Levi-Strauss in una sorta di paradigma della famiglia.

Verdiglione ha sovvertito questo titolo del libro di Levi-Strauss Le strutture elementari della parentela parlando di “elemento strutturale”, cioè non la struttura elementare ma l’elemento strutturale. La nozione qui di strutturale comporta una variazione rispetto alla nozione fornita dallo strutturalismo.

La struttura per Levi-Strauss è individuabile, isolabile e, quindi, studiabile, tanto che giungerà a formulare una struttura elementare, isolata e ridotta alla sostanza.

Nella nozione di Verdiglione la struttura non è più isolabile.

Come può parlarsi di qualche cosa che non è isolabile, che non può individuarsi? Di che cosa si parla?

Se la struttura è questa combinatoria significante che non è mai identica a sé, isolabile, fermabile, cosa posso saperne?

Intanto, possiamo dire che non ne sappiamo nulla prima. Durante: qui ricadiamo nelle aporie di Agostino intorno al tempo, ciò che era prima non c’è più e pertanto non ne posso sapere, non posso dirne; ciò che ci sarà non c’è ancora e ciò che è ... come facciamo a maneggiarlo, perché nel momento in cui dico ciò che è già non è più. Tuttavia, ci si trova a parlarne continuamente. Di questo parlare possiamo dire questo, che ciò di cui parliamo non è dell’inconscio in quanto tale, né parliamo della struttura in quanto tale, né della rimozione in quanto tale, ecc. Parliamo di elementi intorno a dei termini che ciascuna volta funzionano come punto vuoto.

Ciascuna volta che parliamo ad esempio dell’inconscio, questo oggetto della ricerca resta un punto vuoto, non qualcosa. Un punto vuoto che interroga, che anzi è la condizione dell’interrogare. Potremmo dirci che non parliamo dell’inconscio: certo, però a questo punto occorrerebbe dire che cos’è. Giustamente, Sara dice che non sappiamo che cos’è. In altri termini, non c’è una definizione che lo descriva. Già Lacan si era lamentato di questo con l’Unbewüsste, che aveva trasformato in une bevue, una svista, l’inconscio come svista.

L’inconscio di Freud si presta a molti equivoci come se fosse la negazione di qualche cosa, come ciò che non è conscio, mentre Freud stesso precisava che l’inconscio non è ciò che non è conscio.

La struttura non possiamo indicarla come un qualcosa, così le illustrazioni che ne diamo non definiscono né isolano un quid che corrisponderebbe alla struttura o all’inconscio in quanto tale.

La domanda di Sara si presta, in effetti, a qualunque cosa. Come si può parlare dell’inconscio se l’inconscio non si sa che cosa sia? Ma da che cosa sappiamo esattamente che cos’è? Ecco che allora la questione può riferirsi a qualunque cosa di cui ci si trovi a parlare e si incapperebbe pertanto nell’anatema di Wittgenstein “Ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. E, invece, non si tace affatto. Nemmeno lui ha taciuto.

Viene il sospetto che si parli proprio per questo motivo, che non si trova il modo di definire la cosa, di circoscriverla. Non riuscendo a circoscriverla, questa continua a interrogare. Come se Ida continuasse a pormi una domanda e, non riuscendo a rispondere alla domanda di Ida, mi trovo di fronte a lei che continua a interrogare. Non si fermerà mai finché non troverà la risposta adeguata, soddisfacente. È da qui, peraltro, che Freud inventa la nozione di pulsione.

Possiamo parlare di struttura e di inconscio senza sapere che cosa sono. Non sappiamo cosa sono, tuttavia, proseguiamo il discorso e incontriamo degli elementi che ci consentono di stabilire dei termini.

Ad esempio, posso dire che l’inconscio è strutturale. Cosa comporta questa proposizione? Come faccio a sapere che l’inconscio è strutturale se non so nulla dell’inconscio? Lo dico, non per un ghiribizzo ma per una riflessione, in quanto con strutturale intendiamo qualcosa che non può togliersi dalla parola, per cui ogni volta che c’è atto di parola questo elemento insiste. È una variante rispetto a Benveniste per il quale non c’è l’elemento strutturale, qualcosa è strutturale rispetto a una determinata struttura. Qui, invece, l’elemento è strutturale in quanto non può togliersi dalla parola. Come sappiamo che non può togliersi?

Alcuni considerazioni ci inducono a questo. L’inconscio intanto lo possiamo porre come una logica della parola. Dire che questa logica è strutturale è come dire che non c’è atto di parola in cui non ci sia una logica, non c’è atto di parola che non comporti delle funzioni come la rimozione, la resistenza, la funzione vuota, un punto vuoto, una relazione, un operatore. Tutti questi elementi li indichiamo strutturali perché il pensare che uno di questi elementi possa non essere presente nell’atto di parola comporterebbe la possibilità di gestire la parola, di renderla identica a sé.

Ciò che si rileva nella nostra elaborazione è che non c’è atto di parola che non riesca a porsi come identico a sé. È la parola stessa a imporcelo, nel senso che qualunque discorso incontra questi elementi di cui dicevamo prima.

Cosa avviene parlando? Questione ardua perché chiedersi cosa avviene parlando avviene per l’appunto parlando.

Impossibile uscire dal linguaggio creando un metalinguaggio.

L’inconscio è strutturale nel senso che, tolta la logica dalla parola, la parola diventa gestibile, manipolabile. A quel punto posso parlare, anziché trovarmi preso dalla e nella parola, perché, non avendo logica qualcun altro gliela inserisce, c’è qualcuno che anima la parola, che dà anima e vita alla parola. Da questa considerazione possono trarsi poi tutte le religioni e le varie fantasie. L’idea della gestibilità della parola muove dalla considerazione che non esista una logica in atto nella parola ma che qualcuno o qualcosa gliela fornisca. Sarebbe la parola come corpo morto, materia inerte, amorfa, in attesa di essere formata. Molti considerano la parola come simbolo, cioè come qualcosa che riceve il suo senso da altro che sta altrove e quindi la logica di questa parola, la portata e il suo effetto di senso vengono da un altro elemento.

Sono tutti modi di considerare la parola che attende da altri, dal soggetto eventualmente, il senso, la propria portata, la propria verità.

 

Il senso di colpa procede dalla rimozione, dalla condensazione.

L’effetto di senso della rimozione è il senso di colpa. Il senso di colpa è un elemento linguistico strutturale e non c’è chi possa assumerlo.

 

Rappresentazione verbale è per Freud ciò che de Saussure indica come immagine acustica.

L’immagine acustica è la riduzione fonetica di un certo termine che però non è isolabile dal significato. Il fatto che non sia isolabile comporta che il significante ha effetti di significazione per ciascuno, vale a dire, che comporta, in quanto immagine che si ascolta, una semovenza per cui non è mai identica a sé, ma soprattutto un’immagine che non si vede. Sottolineando che è acustica, de Saussure dice che è un’immagine che si ascolta. L’immagine acustica è propriamente ciò che produce un significante che io pronuncio, che penso, che ascolto. L’immagine acustica va al di là della verbalizzazione.

La rappresentazione di cosa è l’idea. L’idea è ciò che opera nella parola, l’idea che ho e che non so di avere. Non sono padrone dell’idea salvo trasformarla in ideologia, che è un discorso sul’idea, ma anche qui c’è l’idea che opera in questo discorso. L’idea è un operatore che connette un elemento a un altro, come i connettivi nella logica. È ciò che mi consente di connettere le varie cose che sto dicendo. Senza l’idea che opera non ci sarebbe nessuna connessione. L’idea o fantasma. In analisi si tratta per lo più di reperire il fantasma, cioè l’idea che opera in un discorso.

Questa connessione non è che esisteva prima e io debba reperirla.

Se una persona fa un discorso di qualunque genere e che apparentemente dice nulla ... ma quando diciamo che in questo discorso c’è altro che si sta dicendo, diciamo che c’è un’idea che opera, che opera una connessione fra i vari elementi che formano il discorso. Quando questa persona termina il suo discorso e si trova a riflettere su ciò che ha detto e reperisce magari una connessione fra un qualcosa che ha detto e qualcosa che è accaduta tempo prima, connessione che non soltanto gli consente di intendere da dove venisse questo discorso che sta facendo ma anche sapere qualcosa del perché si trova a fare queto discorso, ecco questa idea non è che fosse presente necessariamente mentre stava parlando. Non lo sapremo mai, ma sappiamo però che a un certo punto pone questa connessione, cioè rileva questo connettivo. L’operatore non può dirsi, è un elemento strutturale che attiene a questa logica che non può dirsi. Tuttavia, parlare di questo operatore comporta che questa persona si trova a fare una costruzione nell’analisi.

Ciò che si dice lungo il racconto non è il fantasma. Il fantasma non può dirsi. Ciò che dico è una costruzione in cui mi trovo a fare un altro racconto. Se prima ho raccontato della zia, adesso faccio un altro racconto che tiene conto di un altro elemento, cioè, inserisco un altro elemento nel racconto che pertanto varia, è un altro racconto. Questo elemento che inserisco è tratto da qualcosa che ha costituito una connessione. Nel momento in cui ne parlo non costituisce più una connessione, altre connessioni possono intervenire. In effetti, l’analisi si svolge in questo modo, cogliendo altre connessioni al punto che ciascun elemento che viene a dirsi è immediatamente connesso con altri elementi che sono a fianco e quindi in nessun modo può pensarsi come identico a sé, come drammatico, ecc., perché è preso in una continua anamorfosi, in una continua trasformazione. Aggiungendo ciascuna volta sempre altri elementi, il termine è sempre una altro, non è mai lo stesso.

L’idea, il fantasma, è inconscio. Non posso dire l’idea. Dico qualcosa che tiene conto di qualcosa che è intervenuto come fantasma, ma una volta che ne dico è chiaro che altri elementi interverranno come connettivi. Questo elemento diventa una costruzione, questo elemento si aggiunge e comporta una variante nel racconto o, più propriamente, comporta un altro racconto, il racconto si altera, si trasforma.

Nel momento in cui si avverte una connessione, si avverte un’alterità del racconto, vale a dire, il racconto cessa di essere identico a sé, cessa di significare e quindi non costringe più a comportarsi di conseguenza. Si è liberi.

 

 

Equipe Pratica Clinica

5 aprile 1994

 

 

L’afasia è l’impossibile strutturale connesso alla parola, cioè, le cose non possono dirsi. Non possono dirsi in quanto si dicono, non c’è modo di padroneggiare la parola. L’afasia procede dalle funzioni, dalla simultaneità della rimozione, della resistenza e della funzione vuota, per cui c’è una trasformazione nella parola e la parola non è identica a sé.

Come parlare? L’afasia dice che non c’è un come se non parlando, non c’è una padronanza possibile, non c’è un modo con cui parlare, né una facoltà sulla parola. Tutto ciò che Freud scrive sul motto di spirito, sulla psicopatologia e sul sogno verte intorno questo, cioè le parole non sono identiche a sé, si alterano, si combinano, si torcono, si piegano, impendendo qualunque isolamento della parola.

L’afasia si incontra in modo particolare laddove si cerca di dire la cosa. Tutta l’elaborazione intorno alla metafisica è un tentativo di eliminare l’afasia, immaginando che l’afasia non sia altro che l’inadeguatezza del linguaggio rispetto alla cosa, come se questo potesse ovviarsi. Tutto il sistema filosofico, quello che punta a stabilire quali sono i modi per potere dire le cose, per potere identificare le cose, con tutte le prove ontologiche che sono state fatte, partendo da Aristotele, passando per Agostino, fino a Sartre, indica questo: il tentativo estremo di stabilire qualche cosa, l’essere, da cui l’afasia può essere tolta, in quanto possibile dire l’essere, isolarlo. Togliere l’afasia varrebbe a questo: sapere esattamente di che cosa si sta parlando mentre si parla, non ciò che sta accadendo mentre si parla ma esattamente ciò di cui si sta parlando, come se l’oggetto potesse osservarsi.

Tutti i disturbi che rileva Freud come afasie sono strutturali. Soltanto, riscontra manifestazioni macroscopiche, ma non c’è disturbo che lui rilevi che non sia di fatto qualcosa di intoglibile dalla parola, confusione fra significanti, paronomasie, assonanze. Di fatto, Freud trova delle figure retoriche più che dei disturbi patologici, come in qualche modo Jakobson nel suo scritto Il farsi e il disfarsi del linguaggio dimostra di credere. Per Jakobson le afasie sono una malattia. Se è ritenuta una malattia, è chiaro che il riferimento è a una normalità, a un corretto modo di dire, che è quello per cui è possibile sapere ciò di cui si parla.

 È stato per primo Freud a formulare in termini precisi che non è possibile sapere ciò di cui si parla. Già altri prima di lui avevano messo in dubbio che potesse sapersi, come Gorgia che aveva escluso questa possibilità, poi gli scettici, fino a Montaigne, i nichilisti, Leopardi, Nietzsche. Anche il nichilismo anarchico che, però, ha un’altra origine: viene da Dostoevskij. L’eroe dostoevskiano è un eroe nichilista, pensate ai Demoni. Questa provenienza è ciò che poi ha prodotto l’anarchismo russo, con Kropotkin e Bakunin. L’anarchismo è una variante del nichilismo.

Non c’è nichilismo se c’è afasia, perché il nichilismo immagina che, non potendo togliere l’afasia, le cose si distruggano necessariamente e, quindi, portino a nulla. È un retaggio metafisico in quanto l’idea che permane è che comunque debbano le cose avere un significato. Se non ce l’hanno, allora ... muoia Sansone con tutti i filistei. È una sorta di nichilismo presente in una mitologia che appartiene a tutti coloro che tendono a autodistruggersi, come i tossicodipendenti, gli alcolisti, ecc. Distruggersi come se questo comportasse la distruzione del mondo. Visto che le cose non significano non hanno diritto di esistere. Ecco, in questo c’è molta metafisica. Come dire che, tolta l’afasia, c’è la metafisica. Soltanto tolta l’afasia le cose possono significare. Non c’è disturbo del linguaggio, il linguaggio si disturba da sé, in quanto come Freud ha indicato nella Psicopatologia c’è un’altra scena. Le parole sono prese in un’altra scena, che fa da sfondo, e che rende impossibile distinguere i confini, i limiti delle cose che sono su questo sfondo e che pertanto non possono isolarsi.

L’afasia è, in definitiva, ciò cui giunge l’analisi.

Tenere conto dell’afasia è confrontarsi in ciascun atto di parola tenendo conto del modo in cui interviene l’afasia. Non può togliersi l’afasia. Se c’è l’afasia le cose non significano, si dicono senza significare. Questione che è una delle più ardue perché, per una particolare struttura del linguaggio, ciascuno è portato a immaginare che invece significhino, che cioè abbiano un referente. Non c’è nessuno, né tra i filosofi né tra i linguisti, che giunga a considerare che l’esistenza del referente è nella parola, non altrove, in quanto la nozione stessa di esistenza è nella parola.

 

Leopardi pone un nichilismo assoluto, molto più di Nietzsche. Per leopardi non c’è nessuna speranza. Mentre per Nietzsche esiste l’eventualità di un mondo dove gli umani non siano più schiavi delle proprie paure, delle proprie leggi, per Leopardi no. Per lui non c’è assolutamente niente, c’è un abisso, un baratro orrendo come l’unico premio per l’esistenza.

La questione che si pone in Leopardi è di un certo interesse oggi per quanto riguarda tutte le stupidaggini che si dicono intorno alla malinconia, alla depressione, al tedium vitae. Leopardi si chiede continuamente che ci stiamo a fare, che ciascuna risposta è nulla.

Il pensiero per Leopardi è una finzione che lo conduce a ingannarsi continuamente, cioè, immaginare un futuro, un avvenire, una speranza. Nulla di più vano, dice, che immaginare tutto ciò.

 

Non c’è speranza nella malinconia, nella depressione, nell’accidia. Non c’è speranza, quindi, non c’è futuro, non c’è relazione. In questo senso, le cose fanno uno. C’è l’eventualità che la depressione sia connessa con la fantasia di unità da raggiungere. Nel testo di Freud, in effetti, l’oggetto in quanto parziale deve venire assunto per poterlo isolare, per potere dargli una sorta di unità.

Quando il depresso, come dice Freud, dice delle cosacce, le dice di qualcuno, non di sé. Solo che, per qualche motivo, queste cosacce non può dirle a quella persona e, allora, le dice di sé, le assume su di sé, assume questo oggetto parziale. C’è l’impossibilità di dire queste cosacce alla persona perché l’ha scambiata per l’oggetto, in quanto tale parziale. Le assume su di sé tant’è che, se, dice Freud, ripetete le stesse cosacce che lui dice di sé, si arrabbia moltissimo .... perché lui non parlava di sé.

C’è una difficoltà nello spostare la questione rispetto al depresso, perché comporterebbe il ricollocare la questione rispetto al destinatario, che è generalmente una persona cara. Questo è impossibile per lui. Come dire che c’è sempre nella depressione uno spostamento, un’assunzione su di sé di qualcosa che originariamente era attribuita a altri.

Cosa dice il depresso quando dice che non c’è più nessuna speranza per lui, che non riesce più a fare niente? Se non parla di sé, dice che non c’è più niente da fare per quest’altra persona, che è perduta. Ecco il lutto: è come se avesse perduto questa persona. Persona che ama per qualche motivo, che si trasforma in un mostro, non può accogliere questa trasformazione, assume su di sé questa mostruosità e, facendo questo, in qualche modo avverte di avere perduta questa persona.

Non si riesce a intendere nulla della melanconia senza intendere nulla della questione del lutto.

Certamente c’è un lutto una persona cara è morta. Freud si avvale di questa nozione di lutto per indicare ciò che accade in ciascun caso laddove si suppone che l’oggetto debba rimanere immobile, sempre identico a sé, quindi, sempre disponibile. A un certo punto, il lutto interviene necessariamente perché, se l’oggetto è in perdita, questo essere in perdita dell’oggetto viene tradotto in oggetto perduto. Anche la persona che muore pone la stessa questione. Anche nel lutto c’è un oggetto in perdita che viene immaginato perduto: non si è mai posseduta questa persona che muore, non si è mai conosciuta propriamente, è sempre stata in perdita, in ciascun atto. Tuttavia, si immagina perduta in questo evento che è come se sancisse questa perdita da quel momento in poi. Sono due modi differenti di avvertire l’oggetto in perdita come l’oggetto perduto. Anche nella malinconia, infatti, l’oggetto in perdita si immagina perduto e assunto. Da qui la formulazione “sono perduto!”, “non c’è più niente da fare”.

Il lutto, nell’accezione di cui parla Freud come lavoro psichico primario, è questo essere in perdita dell’oggetto. Il lavoro psichico primario ha come condizione l’oggetto in perdita, cioè il punto vuoto, che è sempre in perdita in quanto inafferrabile, non isolabile.

Il malinconico agisce come se fosse morto qualcuno, in effetti, e come se questa morte la assumesse. C’è nella malinconia, nelle metafore che intervengono, questa rappresentazione della morte.

Nella depressione, avendo assunto l’oggetto, c’è qualche problema rispetto alla sessualità. Non può ammettersi la sessualità nella depressione, salvo che come farmaco, cioè come modo per togliere la depressione. Come farmaco, in quanto dovrebbe riconsentire all’oggetto una certa mobilità. Chiaramente, è una supposizione. La sessualità non si sottopone a nessuna ideologia, a nessun criterio di salvezza, tanto che dopo è più depresso di prima. Però, l’idea che toglie la depressione è quella di poter controllare l’oggetto, compiendo un’unità. L’oggetto sarebbe di nuovo possibile e dà questa sorta di euforia. Come lo psicofarmaco.

 

 

 

EQUIPE PRATICA CLINICA

12 aprile 1994

 

 

 

Come definire il fantasma?

Freud parla del fantasma senza nominarlo indicandolo nelle fantasie, nei pensieri non consapevoli, che operano. Pensieri inconsci che attengono a una logica.

Verdiglione dice che il fantasma è il pensiero, il connettivo, ciò che connette gli elementi tra loro, opera questa connessione.

Freud descrivendo, per esempio nell’Uomo dei lupi, il modo in cui operano questi pensieri inconsci, indica che tali pensieri sono esattamente ciò che connette un discorso con un altro, per esempio. La connessione è inconscia.

L’idea come connettivo, l’idea che non so di avere ma che opera. Connette proprio nell’accezione logica formale, che sono la congiunzione, l’implicazione, la negazione, l’esclusione, ecc. Se dico A e B non dico niente. Ma se dico “Se A allora B” ecco che c’è una proposizione, dico qualcosa. Come dire che la disposizione di questi termini è tale per via del connettivo.

Questa idea che senza che io lo sappia interviene in modo tale da disporre le cose, che si dicono, in un certo modo.

Generalmente, il fantasma viene considerato in modo negativo, come fantasia, fantasticheria, ecc. Ma il fantasma è l’operatore.

Il fantasma è strutturale, non può togliersi.

 

La vista inganna continuamente. Uno può supporre di vedere chissaché e, invece, non vede niente. Vede ma di rimbalzo, in un certo senso. Qualcosa si percepisce, attraverso il fantasma, e ciò che si percepisce attraverso il fantasma rende conto di ciò che si vede. Il fantasma, pertanto, toglie la supremazia alla visione che vorrebbe essere esente dal fantasma, come una visione catalettica, visione totale, pura, vergine, innocente. Tutto l’empirismo fino a Popper si muove lungo questa superstizione: che la vista consenta di percepire come stanno le cose e, quindi, di stabilire degli assiomi da cui muovere per la teorizzazione scientifica.

Io vedo perché c’è il fantasma. Dicevo di rimbalzo ma nel senso che qualcosa viene percepito. La percezione, però, è “fatta” dal fantasma. E ciò che percepisco decide di ciò che vedo e di come vedo.

Il fantasma è ciò che connette le proposizioni e gli elementi linguistici.

Non posso sapere del fantasma, dell’idea, perché opera mentre sto dicendo. Dopo che ho detto posso saperne qualcosa. A questo punto, non è più il fantasma, è un significante, che io dico e che un altro fantasma sta operando. Cosa avviene mentre sto parlando? Posso saperne qualcosa solo in seguito, aprés-coup per così dire.

Il fantasma non è isolabile. Per questo motivo non può dirsi. Nulla è isolabile dalla parola e nulla può dirsi. Le cose si dicono senza potere dirsi, cioè senza padronanza.

 

La definizione non dice come stanno le cose. No, la definizione è paradossale, parodistica. Perché, in un certo senso, dovrebbe dire a che cosa è uguale. Ma l’uguale, come abbiamo già visto, è il colmo della differenza. La definizione dice dove sta la punta della differenza.

 

Ognuno è tutto insieme. Ognuno, cioè ogni uno, tutti gli uno.

Anche nella logica matematica esiste questa formulazione: per tutte le x o per ogni x. In effetti, dire “per ognuno” è l’utilizzo di un quantificatore universale.

 

La meta della pulsione è l’impiacere, l’Unlust. Il soddisfacimento si situa là dove il piacere trova il transfinito. Non èla cifra ma una condizione della cifra. La cifra non può darsi senza la soddisfazione, la riuscita. Non è la cifra ma un aspetto della cifra.

 

Per Freud (Motto di spirito, pag. 107) il significato è dato dai nessi tra la rappresentazione acustica e la rappresentazione delle cose. Indica il significato come una connessione tra la rappresentazione acustica e la rappresentazione di cose, non tra il suono e la cosa. Esattamente come de Saussure, tra l’immagine acustica e il concetto, la rappresentazione di cosa, non la cosa, non il referente. Il nesso tra il significante e il significato.

Nelle psicosi è come se ci fosse la rappresentazione acustica senza la rappresentazione di cose. È come se il suono fosse senza fantasma, senza concetto. Come il matto prende le cose troppo sul serio e, quindi, diventa buffo.

 

Verdiglione dice che il riso viene dall’Altro perché la distanza è una distanza incolmabile fra le due funzioni di rimozione e di resistenza. Questa distanza incolmabile, la divisione, dove c’è l’Altro. C’è il significante, il nome e Altro dal nome e dal significante.

Il risparmio psichico comporta il riso come effetto. Questa distanza è tra le funzioni per cui, per via della funziona vuota, c’è il riso, non c’è il dramma, la tragedia. L’Altro ride. L’Altro, la funziona vuota.

 

 

EQUIPE DI PRATICA CLINICA

14 giungo 1994

 

 

Rimozione e resistenza.

Freud ne parla continuamente. Sono nozioni basilari nella teoria psicanalitica di Freud.

Comincia a considerare sin dall’inizio sugli Scritti sull’isteria che avviene qualche cosa nei discorsi delle persone per cui c’è una sorta di caduta, di condensazione. Per esempio, l’isteria condensa. Freud è partito dall’isteria, i suoi primi saggi sono quasi prevalentemente sull’isteria. Si prenda il caso di Anna O., Berta Pappenheim, che fu la prima analizzante di Freud. Lì si accorse che quanto andava raccontando questa ragazza molti dei significanti che intervenivano condensavano moltissimi elementi, come se, per esempio, tutta una storia fosse condensata in un significante. Freud constata che, lungo il discorso che fa Anna O., mancano degli elementi che però vengono rappresentati, messi in scena. Freud considera inizialmente che questi racconti che ascolta spesso comportano delle metafore, dei giri di parole, delle perifrasi, come se fossero degli elementi molto importanti per questa persona e che sono diventati per qualche motivo inaccessibili.

Nell’Interpretazione dei sogni elabora la teoria intorno alla rimozione e alla resistenza.

La rimozione è tale per cui qualcosa non ha accesso alla catena combinatoria dei significanti, si sottrae, scompare, ma a fianco di questo elemento cui non si ha accesso ne compare un altro. Freud indica questi due elementi come il rimosso e il ritorno del rimosso, qualcosa si rimuove ma questo qualcosa che si rimuove non è che scompare del tutto. Il fatto che non abbia accesso non significa che non ci sia più. Lui dice che ritorna altrimenti. Del rimosso non sappiamo assolutamente niente, ne sappiamo qualcosa dal ritorno del rimosso. Però, se non ci fosse il rimosso non ci sarebbe neanche il ritorno del rimosso

 

 

LOGICA E RETORICA

 

24 ottobre 1994

 

 

Difficilmente la retorica e la logica vengono accostate alla psicanalisi. Eppure da moltissimo tempo parliamo di queste cose, cioè di come la psicanalisi abbia tenuto conto, tenga conto e occorre che tenga conto della logica e della retorica.

Come sapete, la logica si occupa o dovrebbe occuparsi della struttura delle argomentazioni e cioè stabilire come si argomenta se si vuol argomentare in modo corretto. Mentre la retorica si è sempre occupata, non tanto di giungere a conclusioni assolutamente corrette, ineccepibili, quanto, come sapete, verosimili o credibili.

Per usare la distinzione che fa Perelman, che è antica più di lui, ché già ne parlava Cicerone: la logica convince, la retorica persuade.

La logica è da sempre considerata anche uno strumento, uno strumento per accedere alla verità. A tutt’oggi, nonostante tutto, nonostante qualche obiezione alla nozione di verità, opera nello stesso modo: ciascuno parlando, argomentando, per qualunque motivo e in qualunque occasione, punta a formulare argomentazioni che ritiene vere e, quindi, suppone, attraverso una serie corrette di inferenze, di giungere a qualcosa che sia vero.

Ciò che importa qui è intendere questo, che proprio la logica, fornendo degli strumenti per giungere alla verità o comunque alla corretta formulazione di conclusioni, fornisce anche gli strumenti ciascuna volta per dimostrare in modo altrettanto ineccepibile la falsità delle stesse conclusioni. È dunque uno strumento, chiamiamolo così, che consente non soltanto di giungere alla verità ma, allo stesso tempo, di dimostrare che questa verità è falsa. Ha questa curiosa prerogativa, nota già peraltro ai sofisti che utilizzavano proprio questo, delle deduzioni corrette, che possono formularsi lungo un discorso, per giungere a qualunque conclusione. Ciascuna di queste conclusioni è assolutamente ineccepibile ma non inconfutabile. È corretta logicamente, non c’è nessun errore in questa serie di deduzioni. Tuttavia, può dirsi la stessa cosa dell’argomentazione che afferma esattamente il contrario, cioè che dimostra la falsità di questa affermazione. Una questione curiosa questa della logica tant’è che è sempre stata considerata molto importante perché sembra l’unico strumento, in possesso degli umani, che consenta loro di argomentare in modo corretto, cioè di giungere a conclusioni corrette. Come faccio a sapere che ciò che dico è vero?

La prima ipotesi, quella più antica ma seguita in parte ancora adesso, è la verifica con i fatti, secondo l’antico adagio secondo cui la verità non è altro che un’adæquatio rei et intellectus, cioè la verifica se ciò che dico corrisponde alla realtà. In tal caso, allora, è vero. Poi, come sapete, con l’andar del tempo molti hanno cominciato a porre delle obiezioni intorno alla realtà. Come viene esperita? Appunto dall’esperienza. Ma questa esperienza è così veritiera, così innocua, così innocente da poter essere fondamento, base di ogni certezza? No. E allora su che cosa possiamo fondare la nostra certezza? Soltanto sulla deduzione.

E la questione è ancora aperta. C’è chi sostiene che l’unico modo per giungere a conclusioni corrette sia soltanto la deduzione logica, chi invece continua a supporre che occorre che ci sia una verifica empirica.

La logica, pur nel rigore delle sue implicazioni, muove da premesse: se questo, allora questo; oppure, se questo, allora non quest’altro, ecc.

Ma il questo, da cui prende le mosse, chi lo produce? Occorre che sia pur fornito da qualcuno o da qualcosa. Ciò che ha sempre costituito la premessa di tutte le argomentazioni ha sempre dovuto essere considerato stabile, sicuro, fermo, oppure è indimostrabile.

Dicevamo qualche tempo fa che l’unico elemento indimostrabile che può intervenire come garanzia è Dio, che ha la virtù di essere indimostrabile. Chiunque può affermare che qualcosa è Dio e di fronte alla richiesta di una dimostrazione può ribaltare la cosa chiedendo a chi gli obietta qualcosa di dimostrare il contrario, il che non può farlo. Non posso dimostrare che qualcosa è Dio né dimostrare il contrario. È chiaro che ci si è dati molto da fare per dimostrare le prove dell’esistenza di Dio, alcune anche molto ben articolate, molto ben congegnate. Tuttavia, la questione che si pone è questa: chi dimostrerà l’assioma principale? O, come direbbe Wittgenstein, chi dimostrerà la dimostrazione?

Ecco che la logica si trova di fronte a una difficoltà, cioè il fatto di non potere dimostrare le proprie premesse, salvo, come gli scettici avevano perfettamente avvertito, una regressio ad infinitum che non porta da nessuna parte.

Allora queste premesse, che pure sono indispensabili, donde vengono?

Quando un certo Alfred Tarski diceva che l’unico enunciato vero è quello che dice che “la neve è bianca se e soltanto se la neve è bianca” non aveva torto. Ma mentre il primo, in quanto nome dell’enunciato, viene virgolettato, il secondo no e il secondo dovrebbe corrispondere al dato di fatto mentre invece non è così perché corrisponde soltanto a ciò che io credo che sia.

E che cosa o qual è l’arte che mi consente di credere alle cose, che fa sì che io sia persuaso di una cosa o del suo contrario senza esserne convinto, senza bisogno di dimostrazioni. Chi compie questo miracolo?

La retorica. Che è esattamente questo: l’arte di persuadere. O, detto altrimenti, l’arte con cui le cose si dicono, attraverso cui le cose si dicono. Non importa, diceva Aristotele nei Topici, che le argomentazioni che si dicono al giudice siano vere, assolutamente vere. Ciò che importa è che siano verosimili, che siano credibili. Dopo che saranno credute vere saranno “incondizionatamente” vere e quindi saranno le premesse per una serie di argomentazioni.

Il problema che molti si sono posti, se il modo in cui pensano gli umani tenga conto prioritariamente della logica o della retorica è un problema mal posto. Potremmo dire che non può darsi l’una senza l’altra. Ciascuno costruisce delle argomentazioni in modo tale per cui le deduzioni che compie sono perfettamente corrette e giunge a una certa conclusione che, dunque, è assolutamente corretta. Ma, allora, questo che cosa dice? Dice che se la conclusione è giusta anche la premessa dovrà essere necessariamente giusta.

 È una argomentazione che i retori chiamerebbero una petizione di principio. Tuttavia, è ciò che avviene per lo più e che consente a ciascuno di formularsi una serie di certezze, di credenze, di sicurezze, di cose che ritiene incondizionatamente vere, perché le deduzioni che lo hanno condotto a questa conclusione sono assolutamente corrette. L’intoppo sta in questo, che la premessa che a posteriori ritiene assolutamente vera non lo è, ovvero, non è né vera né falsa, è soltanto ciò che crede.

Prendete il caso di una psicanalisi. Cosa avviene lungo una psicanalisi? Avviene che una persona enuncia cose che ritiene certe, sicure, oppure che ritiene insicure, incerte e vorrebbe traformarle in certe, in sicure. Ma sia che le ritenga incerte o il contrario, muove per giungere a queste conclusioni da premesse, da assiomi. Che più che assiomi sono principi primi, dati come acquisiti, indubitabili. Perché indubitabili? Perché sono le cose che ritiene vere, che le vede così, le avverte così, cioè le avverte lungo l’esperienza, senza tenere conto che questa esperienza è la sua e che tiene conto delle questioni che lo riguardano, tiene conto di fantasmatiche, di ricordi, cioè di come le cose si strutturano per questa persona.

Per questo motivo dicevamo che l’esperienza non è così innocente, è sempre molto pilotata.

Dunque, queste premesse sono assolutamente indubitabili e soprattutto incrollabili. Ciò che segue è una serie di deduzioni corrette per cui a nulla vale mettere in discussione queste deduzioni: sono assolutamente corrette, non c’è nulla da obiettare.

Tuttavia, si può mettere in discussione ciò che sostiene questa deduzione, mettere in discussione i principi. I principi sono ciò in cui ciascuno crede, che lo voglia o no, che lo sappia o no. Sono le cose in cui crede assolutamente, assolutamente indubitabili, delle quali pensa che ciascuno non potrebbe non sottoscrivere esattamente come fa lui.

Può accadere che, laddove gli accada di esporre questi principi, possa incontrare qualche obiezione. Ma è straordinariamente raro che incontri per lui l’eventualità di una messa in gioco di questi principi. Altre persone non sono d’accordo o perché non hanno inteso come stanno le cose o perché non capisce, perché è in malafede o perché la pensa altrimenti, cioè vive in un mondo tutto suo. Ognuno la pensa altrimenti, si può dire che ognuno la pensa come vuole. Si, certo, ma è come dire quell’altra cosa che si sente spesso, che ciascuno ha la sua verità, senza tenere conto minimamente di ciò che sta dicendo e cioè che di fatto, posta in questi termini, la questione non significa assolutamente niente. Questa è una verità rispetto a che? Per poter affermare una cosa del genere occorre stabilirne almeno una, rispetto alla quale altre sono verità che più o meno si avvicinano a quella suprema. Si pongono come cose in cui si crede, ma non si porrebbe nemmeno l’eventualità di poter discutere di una cosa. Ciascuno discute per saggiare, nella migliore delle ipotesi, una propria opinione. Ma se non esistesse questa idea di verità assoluta rispetto a cui è possibile saggiare le proprie opinioni per vedere se si avvicinano o si discostano da questa, tutto ciò non potrebbe esistere, non avrebbe nessun senso. Sarebbe come chiedersi se le cose che penso io sono più gialle o più rosse di quelle pensa un altro: non ci direbbe moltissimo tutto ciò.

Parlando di logica parliamo naturalmente di quella predicativa, di quella più diffusa, corrente. Ci sono molte altre logiche. Ma la definizione che ho dato prima tiene conto di ciò che ciascuno che si occupa di logica in qualche modo ritiene che la logica sia.

 È curioso che la logica, quindi le sue inferenze, le inferenze di cui è fatta, siano state considerate tali, logiche, quindi certe, senza porsi mai delle questioni intorno al criterio per cui l’inferenza compiuta in un certo modo debba essere corretta; perché cioè io sia costretto a concludere che se A allora B e se B allora C, allora se A allora C. Perché? Chi ha stabilito questa legge universale? Donde viene? E perché è sempre stata accreditata in modo così totale senza che di fatto ci sia stato chi ha messo in discussione questo.

Pochi si sono posti questa questione ma la questione può porsi e argomentarsi nel modo che segue: che, per potere mettere in discussione la giustezza di queste implicazioni, che poi ritenga vere o false non ha alcuna importanza, io utilizzo un sistema che è quello logico a cui appartengono anche queste cose che sto cercando di mettere in discussione. Allora, mi trovo in una sorta di circolo dove mi è molto difficile orientarmi, vale a dire che per porre delle obiezioni a delle implicazioni occorrerebbe che in una mia argomentazione non intervenissero delle implicazioni, il che è piuttosto improbabile.

Questo ha fatto supporre che queste leggi delle implicazioni fossero naturali.

Ma, allora se non è possibile argomentare, se non è possibile parlare fuori da questa logica, neanche se io compio un’interiezione, perché se io compio questa interiezione è perché suppongo che ci sia una risposta da un’altra parte, qualunque essa sia. Anche se faccio un’imprecazione, comunque questa avviene connessa con una serie di implicazioni, di deduzioni o di discorsi che preesistono e che rendono sensato ciò che faccio.

In ogni caso posso riflettere in questo modo, cioè che in qualunque modo io rifletta, qualunque cosa io dica, interviene questa struttura logica, da cui, come dicevo prima, sembra non ci sia uscita. Come se fosse un aspetto a margine del linguaggio, cioè c’è il linguaggio poi c’è la logica, ecc. No, il linguaggio è preso nella logica, non esiste senza logica. Semplicemente.

Ma potremmo dire qualcosa di più, che non esiste neanche senza la retorica.

Sono aspetti del linguaggio senza i quali il linguaggio non c’è. Questo non va senza implicazioni, senza conseguenze. C’è la grammatica, la sintassi nel linguaggio. Che poi questi elementi possano intervenire in modo più o meno automatico non toglie il fatto che per acquisire questi elementi io debba già possedere un apparato logico per cui se c’è il verbo allora so che c’è un’azione che si compie in un certo modo e in un certo tempo, che ci sarà qualcuno che la compie.

Come so tutto questo? Soprattutto come so, come mi trovo a sapere di queste implicazioni? Eppure, nessun infante viene addestrato alla logica aristotelica, i bambini non leggono l’Organon aristotelico, neppure i manuali più recenti di logica. Come sanno tutte queste cose?

Dal momento in cui a un certo punto si accorgono di parlare, in quel momento loro hanno la logica, perché il linguaggio è fatto di questo. In altri termini ancora, la logica propriamente dice del modo in cui si accostano le cose perché se ne producano altre. Certo, è possibile stabilire, come per la retorica, una serie di figure, di strutture che intervengono. Ma il linguaggio è ciò che stabilisce ciò che può dirsi e ciò che non può dirsi.

Prendete la legge del terzo escluso. Siamo al punto di prima. Il principio del terzo escluso dice che se è vera un’affermazione è necessariamente falsa l’affermazione che la nega. Come sapete, ci sono delle logiche che prevedono o meglio scavalcano la legge del terzo escluso ma anche queste logiche lo reintroducono, non soltanto perché sono logiche che la restringono soltanto in alcune accezioni, ma nelle stesse argomentazioni che utilizzano per compiere tutte queste operazioni si trovano necessariamente a utilizzare questo strumento.

Questo pone delle questioni notevolissime, tutt’altro che semplici da elaborare. Quando ciascuno espone una propria opinione e si incomincia a porgli delle questioni, c’è un punto dove chiaramente si avverte che o a quel punto ci si ferma o che da quel punto in poi può accadere di tutto. Può accadere di tutto perché a quel punto non c’è più nulla di finalizzato, le cose sembrano andare avanti da sé, senza alcuna direzione, senza nessuna finalizzabilità.

Qualunque elaborazione teorica non finalizzata, ma finalizzata per così dire unicamente a proseguire se stessa, incontra un punto dove, come diceva in un modo un pò umoristico Sini, provoca delle vertigini in quanto ciascuna cosa perde non soltanto di significato ma perde direzione, perde valore, non è più niente. Si trova a essere assolutamente in balia delle altre cose che stanno per dirsi. Acquistano un senso, una portata soltanto per ciò che sta per seguire. Qui si avverte una difficoltà estrema. Non soltanto nulla ha più alcunché di sicuro, di certo, di ponderato. Non soltanto non c’è più questo ma lo stesso criterio, la stessa eventualità di un criterio che possa stabilire una cosa del genere, si dissolve.

Che succede a questo punto? Potrebbe essere il marasma, il caos totale e assoluto e irreversibile. In un certo senso. Anche se la cosa non è così drammatica, anzi, è esattamente il contrario.

La psicanalisi si è trovata riflettendo intorno a questo, non sempre ma nei casi migliori, in alcuni la psicanalisi non si interroga assolutamente su niente, e ha colto questo aspetto. E cioè, lo stare male, o ciò che Freud andava indicando come nevrosi, psicosi, di che cosa sono fatte tutte queste cose? Perché una persona sta male senza che nessuno la obblighi, senza che nessuno glielo chieda? È una bella domanda, che sembra assolutamente banale ma che se interrogata può presentare dei risvolti tutt’altro che semplici, tutt’altro che banali. Qualcosa lo muove sicuramente lo stare male, ma che cosa?

Prendiamo il caso di una fobia. Cosa muove qualcuno a provare una fobia?

Prendiamo la fobia dei topi. Nessuno costringe una persona ad avere questa fobia, tuttavia, questa fobia c’è. Perché?

Possono darsi delle risposte. Queste risposte possono essere freudiane, kleiniane, junghiane, adleriane, reichiane. Ciascuna di queste risposte cosa dice? Dice che se c’è una certa cosa c’è quest’altra, come dire che che questa cosa, date certe premesse, è la conseguenza. Anche lì poi molto resta al caso perché queste premesse possono essere le stesse anche di altri e produrre tutt’altri effetti.

Quindi, possiamo dare una risposta alla fobia, una o due o cento, mille spiegazioni. Quando queste spiegazioni hanno degli effetti? Quando chi riceve queste spiegazioni crede che sia così. In questo caso può funzionare. È sullo schema ipnotico: quanto ti sveglierai non avrai più paura dei topi. Il tizio si sveglia e non ha più paura dei topi. Miracolato. Dopo un po’ compare la paura degli scarafaggi. Altra operazione: quando ti sveglierai ecc.

Come dire che questo spostamento non toglie la questione, a meno che si instauri nella pratica psicanalitica una struttura e quindi una pratica religiosa. Allora ha degli effetti, perché la persona che riceve questa interpretazione crede che sia così. Ecco la potenza della retorica, che può persuadere anche delle cose più strane.

In effetti, non esiste il plagio ma se qualcuno, per qualche motivo, vuole credere fermamente una cosa, allora è possibile fargliela credere. Naturalmente questa credenza potrà essere messa in discussione e tanto più fermamente vi crederà e tanto più fermamente dovrà proteggersi da tutto ciò che la mette in discussione.

Le guerre più furibonde sono state spesso guerre di religione. Ancora oggi ci sono persone pronte a dare la vita per la religione in cui credono.

Soltanto una fede molto forte può spingere qualcuno a una cosa del genere. Ma se questa fede è così forte, allora la certezza di essere nel vero non può essere tenua, incerta. Deve essere assolutamente certa e, quindi, coloro che non riconoscono questa verità o sono ignoranti, e pertanto vanno addestrati, oppure sono in malafede, oppure sono nemici e in quanto tali vanno eliminati.

Ciò che a noi interessa adesso è come si struttura la credenza per esempio in seguito a una interpretazione, perché funziona esattamente così come funziona una struttura del discorso religioso. Vale a dire, laddove qualcosa questiona, far supporre che a questa domanda esista una risposta e che questa risposta sia già stata accolta da altri, che l’hanno ritenuta vera. Questo Aristotele insegna nella sua Retorica. Questo è il motivo per cui una persona accoglie un’interpretazione. Poi c’è l’autorità di chi la dice. Le auctoritates sono importantissime fin dagli antichi: una cosa detta da Omero era più accreditata di una cosa detta da uno qualunque. Quindi, se la dice una persona che è accreditata, ecco, c’è già un elemento in più perché questa interpretazione sia ritenuta. Ma cosa autorizza a pensare che lo sia? Il fatto che funzioni, che la mia fobia sia atttenuata? No, proprio no. Sarebbe come dire che Dio esiste perché dal momento in cui ho incominciato a credere in lui mi sono sentito meglio.

In modo indiretto è una delle prove dell’esistenza di dio il fatto che ci sia una fede così forte da costringere alcuni a credere a ciò che è assurdo. Come diceva Agostino, quale prova maggiore del fatto che io credo così apertamente?

E questo è esattamente lo schema che indicavamo all’inizio, di quel tale che compie una serie di inferenze corrette, giunge a una conclusione corretta e ritiene pertanto che se è corretta la conclusione debba essere corretta anche la premessa.

Così funziona quasi sempre l’interpretazione nella psicologia e nella psicanalisi, come dire che potrebbe darsi una spiegazione o una qualunque altra. Le persone che sono in analisi con un analista reichiano stanno meglio o stanno peggio di quelle che sono in analisi con uno junghiano? È una bella domanda. Se credono a ciò che viene loro detto stanno provvisoriamente bene tutte quante. Anzi, in alcuni casi so di persone miracolate da analisti junghiani. Nulla contro gli junghiani, ovviamente, ma neanche nulla a favore.

 È una struttura quella della teoria psicanalitica inventata, come sapete, da Freud che ha indotto e che induce con estrema facilità a dei risvolti religiosi, dei risvolti addirittura mistici in alcuni casi. Sapete che Jung faceva parte della Società Internazionale di Teosofia e in varie occasioni ha avuto delle visioni. Un giorno gli è comparsa la Madonna ai piedi del letto e poi credeva che la moglie fosse la reincarnazione di Nefertiti.

(Cambio cassetta)

La stessa nozione di inconscio può porsi in termini mistici, come se fosse una sorta di deus ex machina o di primum movens, che tutto muove e tutto giustifica. L’inconscio, per esempio nel caso di Jung, è un inconscio collettivo, quindi, comune a tutti, la stessa cosa per tutti, per dire in altri termini che il destino di ciascuno in qualche modo è viziato da questo elemento, da questa verità, che rende tutti uguali, che rende, come dicono altrove, tutti fratelli in Cristo.

La questione non è di grandissimo interesse perché non consente di cogliere moltissimi aspetti, che possono cogliersi, ma che la struttura del discorso religioso impedisce. E come lo impedisce? Dicendo che la ricerca, anche rispetto al proprio discorso e alla propria vicenda, deve arrestarsi a un certo punto. Una sorta di rassegnazione della propria impotenza, questo è il messaggio dello junghismo, trasmesso anche recentemente da Aldo Carotenuto.

La dottrina è tale in quanto pone l’ultima parola, che non può essere messa in discussione, salvo demolire ogni cosa, salvo demolire in questo caso la dottrina.

Basterebbe formulare questa ipotesi: e se l’inconscio non fosse collettivo? Che ne sarebbe allora dello junghismo? Si dissolverebbe perché si fonda su questo e su altri principi che hanno comunque a che fare con questo. E perché dovrebbe essere proprio così? E perché non affermare che l’inconscio è solo di Alessio? Oppure qualunque altra cosa, chiaramente.

Ma se la logica, anche soltanto quella aristotelica, che tutto sommato non è poi tutta da buttar via, dice che non è possibile provare alcunché, anche se lui ci prova chiaramente, nel senso che gli strumenti che fornisce per provare sono gli stessi che fornisce per demolire. Avevamo fatto tempo fa un esempio, che Aristotele stesso fornisce e cosidera e che lo infastisce non poco. Diceva così Aristotele, ed è abbastanza emblematico tutto ciò, che se io considero che X è necessario, devo ammettere a fortiori che X è anche possibile, perché non posso affermare che X è necessario ma non è possibile, sarebbe una contraddizione in termini. Dunque, devo ammettere logicamente che è anche possibile, ma se è possibile devo ammettere anche necessariamente che è anche non possibile, in quanto se è possibile questo dice che è anche non possibile. E, quindi, se anche non possibile come posso non dedurre necessariamente che è anche non necessario? Quindi, se X è necessario è anche simultaneamente e necessariamente non necessario. Però, dicendo non necessariamente ci troviamo di fronte al problema di prima.

Voglio dire questo, che non c’è argomentazione logica, anzi, più un’argomentazione è logicamente corretta e ineccepibile più si trova di fronte all’eventualità che mano a mano che prosegue, e ciò diventa inevitabile, di trovarsi di fronte a un’aporia, a qualcosa di insolubile.

Dunque, di qualunque cosa che io possa dimostrare come vera, posso dimostrare il falso. E allora? Come la mettiamo?

Allora, è proprio l’enunciato “la neve è bianca” è vero se e soltanto se la neve è bianca, cioè se io credo che sia così. E se io credo che Alessio sia un nemico mortale per me? Allora, mi trovo nella condizione di doverlo eliminare prima che lui elimini me. Qualcuno può dire che Alessio non è un nemico mortale. Come non è vero? Provate a ascoltare un delirio paranoico. Vi dimostrerà in modo assolutamente ineccepibile, vi elencherà una serie di segni incontrovertibili che dimostreranno inequivocabilmente che Alessio è un mio nemico e che quindi devo eliminarlo necessariamente prima che lui faccia la stessa cosa con me. E avrete un bel cercare di dirgli che non è così, perché le sue argomentazioni, i suoi segni sono interpretatati in modo corretto, tanto che potreste avere qualche problema a porre delle obiezioni logiche, anche se avvertite che c’è qualche cosa che non funziona. Eppure, se io credessi questo mi troverei nella necessità di eliminare Alessio. Questo per Alessio sarebbe molto seccante dal momento che lui non nessuna intenzione malevola nei miei confronti. Eppure, io mi sono dimostrato con argomentazioni assolutamente ineccepibili della mala intenzione di Alessio. Quindi, come sbrogliarsela a questo punto? Dicendo che io mi inganno, che mento? Provate a dire il contrario e io vi dimostro che vi ingannate voi. E quindi, come facciamo a questo punto?

Il discorso paranoico si muove per estremi, o è tutto bianco o è tutto nero. Una persona è la persona più degna di questo mondo o è la peggiore canaglia che sia mai esistita, non vi sono vie di mezzo. Generalmente, anzi sempre, dando la supremazia a una delle due cose. Per esempio, il bianco. Poi esiste anche il nero che si contrappone. Non si tratta di dimostrare a questa persona che non è bianco o che non è tutto bianco o tutto nero. Penserà soltanto che siete degli sprovveduti, che non vi rendete conto di come stanno le cose. Potrebbe anche avere compassione di voi che non vedete come stanno le cose. Non è facilissimo intervenire nei confronti del discorso paranoico. Si tratta di accentuare l’altro aspetto, l’altro corno del dilemma, mantenendo quindi questa dicotomia ché, in caso contrario, vi abbandona perché non avete capito niente.

Tutto questo appena per dire che se dunque la logica consente di dimostrare qualunque cosa che si voglia, allora noi possiamo cominciare a riflettere sul fatto che qualunque cosa che crediamo assolutamente vera, perché ragionevolmente vera, può altrettanto ragionevolmente considerarsi falsa o qualunque altra cosa, in alcuni casi senza grande difficoltà.

Allora, come posso continuare a credere? Sarà più difficile. Mi troverò ciascuna volta di fronte a un’esplosione di cose e allora io credo questo. E perché? Posso cominciare a pensare che forse potrebbe non essere assolutamente così. Già c’è un barlume. E che quindi la cosa in cui credo fermamente potrebbe non essere proprio così. Ma se non è così? Come non è così? Io ho creduto da sempre che fosse così e in alcuni casi si è costruita la propria esistenza su questo. Certo, può essere non facilissimo affrontare questa eventualità, eppure la logica dice questo, che qualunque affermazione può essere confutata. Anche questa. Aprendo a una serie di aporie e di paradossi che si incontrano inevitabilmente. I paradossi sono strutturali. Poco poco che si avanzi in un’argomentazione li si incontra.

Avete due possibilità: o il regressum ad infinitum o il paradosso. Non ci sono altre vie.

Ciascuno può sapere questo con una certa facilità. Per questo cessa di credere? No, se non c’è nulla che possa dimostrarsi vero. Può essere convinto ma non persuaso, nel senso che continua tranquillamente a credere a qualunque cosa. Messo di fronte all’eventualità che anche questa cosa potrebbe risultare anche non credibile trova mille artifici per nascondersi dietro a questa superstizione. E allora in quel caso non vuole saperne assolutamente della logica. Come facevano già gli antichi, chiamerà le vostre argomentazioni inutili sofismi, “questi sono sofismi, non portano da nessuna parte”. In un certo senso non ha torto, nel senso che non hanno una direzione non avendo un significato prestabilito. Non portano a nessuna certezza, non danno niente su cui appoggiare il piede, mentre io ho una certezza, che Alessio è il mio nemico mortale. E, quindi, su questo io misuro il mondo che mi circonda. Questa cosa che mi ha detto quel tale significa o no? Ciò che io già so lo conferma oppure no? Se no, non ha alcun interesse, viene cancellato. Se si, ecco la prova.

Come quando accade qualche cosa e ci si dice “ecco, sapevo che sarebbe successo! L’avevo già immaginato prima”. Ma aveva già immaginato una quantità sterminata di cose che non si verificano mai, però quando se ne verifica una, ecco “allora è vero che quando immagina una cosa poi si verifica”, utilizzando lo stesso ragionamento che abbiamo utilizzato prima.

Ciò che abbiamo detto stasera è appena una premessa. Può intravedersi che cosa avviene laddove c’è l’eventualità che ciò che io credo possa cominciare a non essere più creduto. Si dice “ma, allora, non si crede più a niente”. Ma anche questa non è forse una credenza? No. La credenza è come una superstizione, comporta un’idea, che ci sia da qualche parte un’ultima parola e, cioè, che la questione sia chiusa o possa chiudersi.

Dire che non credo non implica né comporta assolutamente l’idea che qualche cosa debba essere chiusa, anzi, c’è l’eventualità che qualcosa, rimanendo aperto, possa continuare a interrogare, possa continuare a dire. Ma dove conduce tutto ciò che abbiamo detto finora? Quali considerazioni, visto che nemmeno l’interpretazione ci viene in aiuto?

L’interpretazione è interpretazione di qualcosa o interpretazione di niente? Stiamo facendo il verso ai sofisti. Se è interpretazione di niente non è neanche interpretazione. Se è interpretazione di qualcosa c’è qualcosa di cui l’interpretazione è tale. Dunque, esiste un quid, chiamiamolo un testo, che posso interpretare. Ma quali condizioni posso interpretarlo? Che questo testo sia identico a sé, sia immobile, certo. Come facevano gli esegeti, quelli biblici, che supponevano questo. Poi, con il passare degli anni, qualcuno ha posto delle obiezioni. Per esempio, uno degli ultimi è Derrida. Se io leggo questo testo per interpretarlo, mentre lo leggo non è che forse io già lo interpreto. Da qui il decostruttivismo: il testo non c’è più. Trovando, però, un paradosso: se non c’è il testo che cosa interpreto? Cioè, l’interpretazione è interpretazione di che? Di nuovo ecco un paradosso oppure una regressio ad infinitum: questo che interpreta questo che interpreta questo che interpreta questo, ecc. Allora, il testo diventa come la tartaruga per Achille, non lo raggiungerò mai, oppure se lo raggiungo non è più il testo.

Sono gli stessi paradossi che ha incontrato la matematica. Pensate a Peano o alla sua curva o a cose del genere inventate dai matematici. La famosa curva di Peano: una linea continua, all’interno di un quadrato, compie un certo percorso tale che a un certo punto non ci sarà più la linea ma all’infinito sarà una macchia. Ma quando? È o non è una macchia? Simultaneamente lo è e non lo è. Così come nella matematica la nozione di limite: lo è e non lo è simultaneamente. All’infinito è qualcosa ma l’infinito, per definizione, non lo raggiungerà mai. Da qui qualche problema teorico, non pratico perché nel calcolo si sostituisce all’incognita il numero a cui tende e bell’è fatto, ma la questione teorica rimane.

Quindi, nemmeno l’interpretazione, posta in questi termini, ha alcuna chance, risulta assolutamente impossibile. Oppure, qualcuno sostiene che parlando si interpreta continuamente. Sì? Che cosa? Ciò che penso? E come lo so?

Sono tutte questioni che occorre pure porsi. Così come accade lungo una psicanalisi, si ha a che fare con le parole, di fatto si ha a che fare con questo. Sì, ma le persone mica si pongono tutte queste questioni così strampalate. Certamente no, non se le pongono. Le subiscono.

Le subiscono talvolta in un modo drammatico, quando credono in una certa cosa e poi questa cosa in un nonnulla si dissolve, si trovano come se stessero di fronte a un abisso, non sanno più da che parte voltarsi e vivono in un modo drammatico una depressione, che oggi va di moda. Sapete che ci sono le mode. Ai tempi di Freud andava di moda l’isteria, poi la schizofrenia negli anni ‘70, adesso è la volta della depressione.

Anche la depressione è un modo drammatico di subire dei contraccolpi.

La depressione procede da qualche cosa in cui si crede. Cosa dice il depresso? Che non c’è più nulla che abbia interesse, che abbia un senso. E perché dovrebbe averlo? Questa è una domanda che il depresso, se vuole essere tale, non può porsi perché potrebbe avviare una serie di pensieri che potrebbero distoglierlo dalla depressione, che comunque è sempre funzionale a qualcosa.

La depressione in quanto tale non esiste, è un modo di pensare le cose che ha seguito anche, per dirla così, un iter filosofico. Gli scettici dicono “Nulla vale”. Poi arrivano i nichilisti che dicono “Se nulla vale, allora è inutile fare alcunché, tanto vale che nulla esista”, togliamo di mezzo tutto.

Ecco la depressione fa il verso, mette in scena tutto ciò. Ma per pensare che nulla vale occorre che ci sia una certezza che dà un senso a questa affermazione, cioè che tutto vale o che tutto deve valere, perché sennò la proposizione “nulla vale” ci lascia totalmente indifferenti. Dice “nulla vale”. E allora?

Invece no, se ciascuna cosa deve valere allora sì è un problema, allora sì che mi sento male.

Questo per dire che tutte queste questioni, apparentemente astruse, non sono poste in questi termini ma sono subite, talvolta in modo drammatico.

Ma non è questo che ci interessa, cioè che qualcuno le possa vivere in modo drammatico, quanto che ciascuna superstizione, certezza, credenza, posta in questi termini, mortifica, restringe, impedisce di andare oltre. Impedisce, se volete, di pensare. Come se potessi pensare fino a un certo punto oltre il quale mi è proibito. Le famose colonne d’Ercole, poste là acciocché l’uom più oltre non si metta. Eh sì, perché se si mettesse più oltre accadrebbe quello che è accaduto ad Ulisse in Dante: un gran sovvertimento.

Però, c’è l’eventualità che lo stare male non sia altro che un tentativo di porre rimedio, di arginare, di gestire quanto meno questo impossibile che ciascuno incontra ciacuna volta che parla, potremmo dire, che incontrano gli umani in quanto parlanti. Gli umani sono umani proprio perché parlano, perché possono dirselo. Potendo dirlo decide di esserlo o di non esserlo.

Si può riflettere se lo stare male non sia un rimedio. Già Freud alludeva alle nevrosi, alle psicosi come a dei rimedi, rimedi a qualcosa di impossibile, di ingestibile. Può accadere che qualcuno addirittura a questa impossibilità preferisca la morte come ultimo rimedio. Non a caso la morte è stata posta, nel discorso occidentale, come l’ultima parola, con Hegel addirittura come il padrone assoluto. Sapete che Lacan giocava molto su questo rispetto al discorso ossessivo e all’hegelismo. Se leggete l’introduzione di Kojève alla Fenomenologia di Hegel trovate un trattato sulla nevrosi ossessiva di grande interesse.

 

Trascrizione a cura di Sandro Degasperi non rivista dall’autore.