INDIETRO

 

 

L’ARTE DELLA RETORICA

 

 

1. Tecnica e arte del discorso.[1]1]

 

Un discorso potremmo definirlo molto rapidamente come una stringa di significanti connessi tra loro. Tuttavia non è sufficiente questo, perché un discorso sia tale occorre un elemento fondamentale, vale a dire il motivo, il motivo per farlo. Questione che può apparire di primo acchito banale, ovvia, però può anche mostrare degli aspetti notevoli. Ciascuno si trova a fare continuamente dei discorsi con sé oppure con il prossimo, a seconda dei casi, per qualunque motivo e in qualunque circostanza. Il discorso ha un motivo e questo motivo è soltanto in minima parte connesso con la trasmissione di informazioni, per lo più un discorso avviene o si fa per confermare, per persuadére o per persuadersi di qualche cosa. Il più delle volte in cui vi trovate a parlare, vi trovate a cercare di convincere o persuadére qualcuno delle vostre ragioni o della verità di ciò che state dicendo, anche quando raccontate un episodio qualunque, comunque, il vostro discorso darà per implicito il più delle volte il fatto che voi stiate dicendo cose reali o vere a seconda dei casi, anche quando mentite spudoratamente comunque il vostro discorso per potere mentire tiene conto di un altro discorso che è considerato la verità.

Questione fondamentale il discorso perché è ciò con cui ciascuno ha continuamente a che fare. Anche durante il sonno avvengono quei fenomeni noti come sogni in cui ci sono dei discorsi; in ogni caso il racconto che se ne fa è sempre necessariamente un discorso. L’arte della retorica si è occupata da sempre, almeno da quando esiste, del discorso, di come costruirlo al fine di renderlo o più bello o più persuasivo, oppure entrambe le cose, anzi più spesso entrambe le cose dal momento che una cosa ritenuta bella generalmente facilita anche la persuasione come è noto. Ciascuno parlando, in qualunque circostanza si trovi, anche se non ha come obiettivo un discorso particolarmente bello e elegante, cercherà comunque di esporre ciò che ha da dire nel modo che ritiene migliore anziché nel modo che ritiene peggiore. Vi siete mai chiesti perché? Perché esporlo nel modo migliore comporta in moltissimi casi una maggiore forza proprio per via di una questione estetica: più il discorso è bello e più è persuasivo. Di fatto un discorso, anche cosiddetto reale, che racconta cioè cose immaginate tali se è brutto e mal costruito rischia di non essere creduto o comunque di essere mal considerato. Da qui la necessità della retorica di tenere conto anche dell’aspetto estetico, di addestrare cioè a costruire discorsi ben fatti, piacevoli ad ascoltarsi. Se voi leggete le famose arringhe di Cicerone vi accorgerete immediatamente che sono scritte molto bene, le ha scritte molto bene non per un gusto estetico particolarmente sviluppato ma perché sapeva benissimo che più il discorso è bello e più è facilmente persuasorio, le persone si lasciano per lo più convincere di più da qualcosa di bello che da qualcosa di brutto. Non soltanto l’aspetto estetico ovviamente importa nella costruzione del discorso, importa che sia anche verosimile, e questo per persuadére. Un discorso costruito per essere creduto risulta più facilmente credibile di ciò che generalmente è inteso come verità, perché la verità cosiddetta può non essere costruita per essere creduta mentre il discorso sì e quindi risulta più facilmente credibile. Ma tutto questo appena per accennare all’importanza che ha un discorso. Un discorso che voi fate ad altri può decidere se l’altro sarà persuaso oppure no di quello che gli dite, sia che diciate la verità o che mentiate, è la stessa cosa. Dal fatto che l’altro sia persuaso oppure no può dipendere molto della vostra esistenza, per questo vi impegnate in alcuni casi moltissimo perché il discorso risulti persuasivo. Ma anche nei confronti di sé, nel cosiddetto soliloquio, il discorso che si costruisce comunque è costruito in modo tale da persuadermi, andrò cioè a cercare tutti quegli elementi che confermano le cose che credo, passando in silenzio tutto ciò che potrebbe metterlo in discussione. Esattamente come fa un avvocato di fronte ad un giudice: sottolinea tutti gli aspetti, tace oppure ridicolizza o confuta quelli che non gli sono favorevoli. Quando una persona ragiona fra sé e sé fa molto spesso qualcosa del genere finché alla fine è assolutamente convinto della conclusione cui è giunto: si è cioè costruito un discorso che è persuasorio, persuasorio per sé ovviamente. Quando per esempio in una psicanalisi una persona racconta alcune cose che lo riguardano, queste cose sono dette in un certo modo, cioè sono costruite; quando vi descrive per esempio il suo disagio, il suo malessere, lo descriverà in modo tale da essere convincente, perché? Perché gli crediate. Si costruisce un discorso per essere creduti anziché il contrario. Questo ha delle implicazioni notevoli, come dire che ciascuno, ciascuna volta in cui chiacchiera con qualcuno, mette in atto questo procedimento, cerca di persuadére, di qualunque cosa non ha nessuna importanza e per il momento non ha nessuna importanza neppure che ci riesca oppure no.

Ma torniamo a un aspetto di cui abbiamo detto all’inizio, del motivo, perché si fa un discorso? Abbiamo detto che l’aspetto prettamente tecnico cioè la trasmissione di informazioni pura e semplice è un caso piuttosto sporadico, se i discorsi fra gli umani dovessero ridursi a questo probabilmente pochi minuti al giorno sarebbero più che sufficienti e invece il più delle volte si parla moltissimo, ma non per trasmettere informazioni. Una eventuale trasmissione di informazioni è semplicemente e soltanto un pretesto, un pretesto per parlare come se la cosa più importante fosse il parlare. In effetti, gli umani parlano sempre incessantemente o con sé o con il prossimo, il più delle volte con sé anche perché con sé ci stanno ventiquattro ore al giorno, è un discorso continuo senza sosta. Questo discorso ciascuna volta in cui si fa è mosso da un motivo che se ci si riflette bene sfugge. Anche se ciascuno può trovarsi degli infiniti motivi perché parla con una persona, poi in definitiva l’unico motivo che può effettivamente stabilire è questo: lo fa perché gli piace, vale a dire perché dal parlare trae delle sensazioni, delle emozioni, trae del piacere puro e semplice. Ora, accade che la più parte dei discorsi che vengono fatti sono fatti per questo motivo, per il piacere di farli, che è in definitiva il motivo fondamentale per cui si fa la più parte delle cose, il piacere di farle. È questo ciò che muove per lo più gli umani a parlare, il piacere che questo produce. Ma se fosse soltanto così non ci sarebbe la necessità, per esempio, di persuadére; uno fa un discorso e fa piacere lo stesso sia che persuada oppure no. Ma c’è un elemento in più connesso con il piacere ed è la verità, questione antichissima, di cui c’è traccia da quando c’è traccia degli umani. Il dire, il conoscere o il divulgare la verità sembra essere una delle attività principali degli umani, i quali pare che vivano malissimo in assenza di questo elemento. Perché cercare la verità anziché no? Che vantaggio offre visto che è la ricerca che ciascuno a modo suo fa con gli strumenti che dispone. La verità è intesa generalmente come ciò che è, ciò che necessariamente è. Il conoscere questo comporta da una parte un potere sull’altro, dall’altro anche una soddisfazione personale, la stessa soddisfazione che si ha quando si risolve un problema o quando si vince una partita a scacchi, la soddisfazione cioè di avere risolto un problema comporta avere vista la verità anche se limitata, per esempio, ad un gioco particolare. Poi, la cosa si estende e comunque ciascuno parlando, vuole sapere, cerca di dire sempre e comunque la verità, anche quando mente, perché per potere mentire occorre che sappia cos’è la verità se no non lo può fare e quindi gli è fondamentale sapere questo dettaglio. C’è una connessione piuttosto stretta fra il motivo per cui si parla e la verità. Per poco che ci riflettiate vi accorgete che la più parte dei discorsi che voi fate mirano a dire la verità, conoscere la verità o a divulgarla, quindi non è un dettaglio marginale. Sapete che la retorica fino dall’inizio non si è occupata propriamente della verità in quanto tale, cosa che sarebbe piuttosto compito della filosofia, si è occupata soltanto di rendere credibili le cose, fossero vere oppure no era assolutamente marginale. Ma anche in questo caso, cioè nel caso in cui non mi curi della verità di ciò che sto dicendo, mi curo del fatto che voglio persuadére qualcuno, per qualche motivo, e questo motivo lo considero vero, in ogni caso, se no difficilmente lo farei. Con tutto questo stiamo introducendo una questione notevole perché il discorso coinvolge ciascuno in qualunque momento, non c’è chi sia esente dal produrre discorsi; producendo discorsi, chiaramente, si fanno un’infinità di cose, si mettono in gioco un’infinità di cose. Prima fra queste, ciò che è messo in gioco è il parlante, chi sta facendo il discorso, chi sta facendo il discorso è colui che si espone, generalmente; si espone al suo discorso anche se questo discorso è costruito, talvolta addirittura imparato a memoria, ciò nonostante il discorso ha sempre e necessariamente delle aggiunte, degli elementi che sono imprevisti che intervengono magari a rendere le cose più difficili, perché uno degli aspetti particolari del discorso è quello di essere difficilmente controllabile, gestibile, soprattutto per gli effetti che questo ha su chi lo tiene. Sono questi effetti che buona parte costituiscono ciò che la psicologia chiama personalità e cioè l’insieme di tutte le cose in cui una persona crede, la somma di tutte le sue superstizioni: questa è la personalità. Ma queste si formano con dei discorsi, non c’è altra via, occorre cioè una struttura che organizzi degli elementi che possano incontrarsi in modo tale da essere pensati veri, credibili, quindi attendibili quindi degni di fare parte del bagaglio di esperienza. Affermare che l’unico motivo per cui si tiene un discorso, o il motivo essenziale per cui una cosa avviene, è il piacere di farlo può apparire bizzarro, anche perché in molti casi ci sono persone che suppongono di fare discorsi importantissimi, degni di essere ascoltati e creduti. Sia come sia, resta che una cosa del genere, anche il pensare questo produce del piacere e il piacere si sa ha una forte presa sugli umani, una delle più forti insieme con le emozioni che comunque producono piacere. Il motivo di un discorso, cioè ciò che lo muove, è sempre necessariamente qualcosa di importante, importante per la persona ovviamente. E cosa c’è di più importante per una persona se non il suo piacere e ciò che glielo produce? Anche nei casi di estremo altruismo il piacere personale ha una portata notevolissima, lo stesso in qualunque discorso voi facciate. L’aspetto più interessante della forma persuasoria di un discorso non è tanto quella rivolta al prossimo ma quella rivolta a sé, cioè come ci si persuade di alcune cose, come si giunge a credere ciò di cui si è persuasi. La persuasione è uno dei primi passi. Se qualcuno vi racconta qualche cosa e se vi persuade, da quel momento ciò che ha detto, fa parte della vostra esperienza, del vostro cosiddetto bagaglio culturale, cosa non marginale visto che ciascuno è fatto di questo, delle cose che acquisisce. E in qualche modo ciascuno lo sa perché sa che se riesce a persuadére l’altro di ciò che gli va dicendo, quest’altro si modificherà in qualche modo e cioè la cosa che incomincia a credere modificherà la sua condotta. Faccio un esempio banalissimo: se io riesco a persuadére un ateo a diventare un fervente cattolico o un buddista o un islamico, ecc., da quel momento questa persona muterà la sua condotta. Questione non marginale. Allo stesso modo ciascuno muta la sua mano a mano che acquisisce delle nuove credenze, delle nuove superstizioni, così come avviene generalmente. Quando una persona è persuasa?

Occorre forse fare una distinzione tra il persuadére e il convincere riprendendo la posizione di Perelman che, tutto sommato, ha qualche interesse. La persuasione mira al cuore e non all’intelletto. Si è persuasi per esempio da una religione, da una dichiarazione di affetto, non si è convinti; invece si è convinti da una calcolo logico, da un procedimento matematico. Pertanto, è possibile essere convinti ma non persuasi o viceversa. In questo modo ciascuno può essere persuaso di molte cose anche senza esserne convinto. L’esempio più evidente è quello della religione: la più parte delle persone è persuasa che esista un Dio anche senza essere del tutto convinta, nel senso che non riesce a trovare della spiegazioni che lo soddisfino del tutto o che siano logicamente ineccepibili, ma è persuasa e una persona può essere persuasa da una dichiarazione d’amore senza esserne convinta. La retorica, in effetti, si occupa di persuasione più che di convinzione, non interessa che la persona sia convinta, occorre che sia persuasa, cioè che ci creda, solo questo. E per persuadére, per persuadersi, occorre utilizzare strumenti che sono totalmente differenti da quelli che si utilizzano per convincere; chi vuole convincere, muove da inferenze logiche, non si cura del fatto che queste inferenze possano infastidire l’interlocutore, che l’interlocutore si infastidisca oppure no gli è totalmente indifferente, ma se lo deve persuadére no, è fondamentale. È fondamentale che l’interlocutore non soltanto non sia infastidito ma sia interessato, affascinato e soprattutto disposto al discorso che sta facendo e perché una persona sia disponibile ad un discorso occorre che questo discorso sia per la quasi totalità dei casi un discorso religioso; solo la religione persuade, la religione cioè il luogo comune per eccellenza. Dicendo che solo la religione persuade sto dicendo che soltanto un discorso, che per definizione non può essere sostenuto, può essere creduto. Mi spiego meglio. Prendete una qualunque religione, come sapete non è provabile ciò che sostiene ma sapete altresì che la quasi totalità degli abitanti del pianeta crede in qualche cosa; provate invece a costruire un ragionamento logico assolutamente ineccepibile, pochi lo seguiranno. Pochi lo seguiranno perché vi diranno che, sì, questo discorso che fate non fa una grinza, è assolutamente ineccepibile, ma è anche altrettanto inutile, non serve a niente. Con questo, questa persona vi dice una cosa fondamentale, che ciò che è ritenuto utile è qualcosa di molto particolare, ciò che in definitiva poi gli umani vanno cercando e cioè un qualche cosa che possa consentire di costruire un discorso avendo come riferimento un elemento che si suppone vero, fermo, stabile, certo, sicuro. Questo a tutt’oggi e nonostante tutte le posizioni attuali sia della logica che della filosofia; come dire qual è il luogo comune più diffuso? Questo: non so perché ma qualche cosa fuori di me, al di sopra di me ci deve essere. è un’idea come un’altra, ovviamente, solo che questa a differenza di altre è creduta dalla quasi totalità degli abitanti del Pianeta, cosa non indifferente visto che nessuno li obbliga a credere nulla, è una libera scelta, libero arbitrio. Dunque, il discorso per essere persuasorio occorre che sia un discorso religioso e cioè che confermi una verità oppure indichi un’altra verità, l’importante è che ne sostenga una e che la sostenga con forza. Già moltissimi anni fa, circa 2500, Aristotele affermava esattamente la stessa cosa quando addestrava gli avvocati per parlare di fronte ai giudici: “poche cose dovete dirgli perché non è che capiscano moltissimo, ma queste poche devono essere chiare e sono quelle che loro credono”. Come dire, occorre costruire un discorso religioso. Qual è un discorso religioso? Quello che si fonda sulla verità, qualunque essa sia, cioè su un elemento ritenuto necessario ma del quale tuttavia non è possibile dare nessuna prova. Il discorso occidentale e comunque il discorso in generale è fatto, costruito in modo bizzarro: esige delle prove quando si afferma qualcosa, ma vieta di farlo. È ben curioso. Da qui qualche problema. Costringe a farlo perché se qualcuno vi viene a dire il contrario di quello che voi pensate, immediatamente gli chiedete conto di quello che sta dicendo, gli chiedete una ragione, un perché, cioè gli chiedete delle prove, le esigete, ma la struttura del discorso impedisce di farlo, non potete farlo. Questo costituisce un intoppo anche nei discorsi fra sé e sé. Io voglio persuadermi di qualche cosa, posso farlo, ma non sarò mai sicuro al cento per cento perché non lo posso essere e allora se accade che uno cerchi disperatamente questa certezza, allora può sorgere qualche problema. Prendete il nichilismo o la sua variante nota come depressione: è una ricerca disperata del senso delle cose, se il senso, il senso come l’ultimo elemento, la verità, non si trova è la catastrofe. Dunque, si pretende, si esige una prova che non si può fornire in nessun modo e per nessun motivo, salvo naturalmente dare per acquisiti una serie di elementi i quali non possono essere provati. Ma come si costruisce un discorso religioso? Non è difficile. Supponiamo che vogliate persuadére qualcuno di qualche cosa, occorre muovere da una posizione che è fondamentale: la superiorità. Se voi volete persuadére qualcuno di qualche cosa, o immaginate di conoscere qualche cosa che l’altra persona ignora oppure vi ponete nella posizione di chi può anche riuscire in questa operazione e quindi condurre l’altro dalla propria parte, essere più forte di lui, ridurlo in definitiva alle vostre ragioni. Muovendo da questo, che è essenziale, dico essenziale perché c’è un caso in cui questo non avviene; questo caso è noto agli umani come innamoramento; nell’innamoramento questa posizione non riesce. Dunque, da questa posizione che è fondamentale, voi dovete semplicemente costruire un discorso che sia verosimile e che muova o che abbia come principi o assiomi quegli stessi assiomi su cui poggia il discorso della persona che dovete persuadére. Se una persona crede alcune cose, allora il sistema è questo: voi prendete queste cose in cui crede dopodiché, partendo dagli stessi principi, costruite un discorso che sia ancora più persuasivo del suo; lui sarà contentissimo perché avete provato un qualche cosa che lui stesso crede e a questo punto già persuaso, poi insinuate che la cosa di cui volete persuaderlo è altrettanto legittimamente deducibile dagli stessi assiomi, dagli stessi principi e cioè se crede questa cosa deve credere anche quell’altra e lui la crederà la maggior parte delle volte. Non è una legge altrimenti sarebbe tutto molto semplice, però è una delle strutture più efficaci. In questo modo sarà persuaso della cosa di cui volete persuaderlo esattamente così come è persuaso delle cose in cui lui stesso crede, è uno dei sistemi più efficaci. Se invece volete provare a dimostrargli che ha torto e che invece voi avete ragione, vi troverete di fronte un nemico che cercherà, chiaramente, di fare esattamente il contrario, come in una guerra. Se ad esempio l’Italia decide di invadere la Francia, la Francia si difende, un interlocutore fa esattamente la stessa cosa. I manuali di arte della guerra possono essere a buon diritto, a buon titolo considerati dei manuali di retorica e viceversa. Dunque, dicevo se cercate di convincerlo della vostra ragione vi farete un nemico e quindi una persona che sarà mal disposta comunque ad accogliere le vostre ragioni. Se lo piegherete con la forza della logica lo convincerete ma non lo persuadérete ma comunque, anche se sarà vagamente persuaso, gli rimarrà sempre il dubbio che forse aveva ragione lui e la cosa peggiore da farsi per persuadére qualcuno è farselo nemico. Pensate che la stessa cosa avviene non soltanto nel discorso che si fa nei confronti di altri ma e soprattutto nei confronti di sé, avviene esattamente la stessa cosa. Ciascuno che parla fra sé e sé non si fa di sé un nemico ma un amico, si blandisce esattamente come un buon venditore. La retorica è un arte di notevole interesse perché in parte se qualcuno di voi avesse mai voglia di dedicarsi a studi di retorica, addestra anche a parlare meglio, a inserire nel discorso delle figure che abbelliscono il discorso, a trovare più rapidamente e meglio argomentazioni a favore e contro e ad accostare le parole in modo tale che risultino al suono più gradevoli. Lo stesso Cicerone aveva intesa la questione affermando che chi parla meglio pensa anche meglio, è ovvio perché ha migliori strumenti per farlo: più strumenti avete a disposizione, più parole, e più le cose sono facili e possono diventare facili a tal punto che non c’è più la necessità della difficoltà. Quando una persona incontra un problema, per esempio, un problema personale ma non soltanto, cerca immediatamente una soluzione e allora mette subito in atto tutti i meccanismi che si diceva; quando trova la soluzione, se la trova, questa soluzione è generalmente abbastanza soddisfacente, finché dura poi avviene qualcosa che ripropone continuamente il problema. Ciò che Freud andava descrivendo per esempio come nevrosi è un procedimento del genere, un tentativo continuo e fallito di aggiustamento della proprie superstizioni. Essere persuasi o soddisfatti di una conclusione comporta un certo ordinamento abbastanza stabile; questo ordinamento non è tuttavia stabile a sufficienza per essere “tetragono ai colpi di ventura”, come diceva Dante, è un equilibrio purtroppo sempre instabile e quindi deve essere continuamente sorretto, confermato, sostenuto e soprattutto difeso dal resto del mondo, ciascuno dice delle cose che danno fastidio, che inquietano, che possono mettere in gioco qualcosa, soprattutto possono far vacillare questo sistema esattamente come uno stato che si sente minacciato dai vicini e allora schiera le truppe ai confini in modo da difendersi. Quando vedete, per esempio, una persona molto diffidente, sempre preoccupata, spaventata, è come una nazione che è circondata da nemici; deve difendersi continuamente se no immagina di essere sopraffatta. Il proprio discorso subisce le stesse vicissitudini, deve essere difeso continuamente dagli attacchi propri e altrui. Supponete che questo discorso non debba più essere difeso; buona parte delle energie che ciascuno spende durante la giornata per proteggersi potrebbero essere utilizzate altrimenti, ma a quali condizioni è possibile una cosa del genere cioè non avere più paura di ciò che si dice, di ciò che si pensa, di ciò che si fa? Se uno ha paura di una certa cosa è perché immagina che questa certa cosa sia reale anche se è un fantasma, e credo questo? Credo che ci sia? Se non ci credessi come potrei avere paura, se non credessi in dio non avrei paura dell’inferno, per esempio. La paura è fondamentale. Non si può reggere uno stato, un governo, senza la paura né persuadére senza la paura. La paura è uno dei motori più potenti su cui si è sempre retta l’umanità e chi si adopera nel persuadére questo lo sa molto bene, in assenza di paura diventa difficile persuadére e quindi governare, perché una governo si fonda sulla persuasione, tanto difficile che nessun governo si sognerebbe mai di togliere questo elemento. Uno si persuade di fronte ad un discorso religioso perché questo sostiene la verità; se io non accolgo la verità allora o non ho capito, quindi sono un cretino, oppure è perché voglio credere altrimenti perché ho paura delle conseguenze. Faccio un esempio stupidissimo: lei dice che mi ama, non ne sono affatto convinto ma ci credo lo stesso perché se non ci credessi comincerei a pensare che allora ci lasceremo e che allora io rimarrei da solo. È un esempio banalissimo ma la cosa può estendersi a cose molto più sofisticate come discussioni politiche, ecc.

Questo appena per fare un accenno sulla questione del discorso. Il discorso è un qualche cosa con cui ciascuno ha praticamente a che fare 24 ore su 24 e che viene costruito in questo modo, in modo da essere persuasivo e cioè per lo più in modo religioso. La questione religiosa comporta la paura, che di per sé non è necessaria, però è utilissima per persuadére: se non ci fosse la paura forse la persuasione avrebbe qualche difficoltà. Freud diceva qualcosa di molto prossimo quando affermava che senza senso di colpa non si governa. Occorre la paura, il senso di colpa, e quindi l’aspetto religioso appare essere fondamentale perché è quello su cui si regge la persuasione, si pone come la condizione della persuasione. Supponiamo che io reciti il Macbeth, supponiamo che sia un abile e fine dicitore; allora io reciterò questa cosa in modo tale da commuovermi, da commuovere voi e tutti gli astanti, insomma farò in modo tale che voi vi troviate quasi immersi in questa tragedia; tanto più io riuscirò a fare questo, quanto più avrò successo, tanto più io vi farò piangere, tanto più avrò successo, tanto più starete male, tanto più mi applaudirete. Ma questo perché, vedete le cose che in quel caso io andrei raccontando e cioè il Macbeth, riuscirei in quel caso a renderle vive, vere, autentiche. Dove sta l’aspetto religioso in tutto ciò? Sta in questo: riesco a piangere, a commuovermi in modo disperato solo se credo che queste cose siano male. Supponiamo che non lo creda, non succede niente e allora supponiamo che ci siano due tipi di spettatori, gli uni che credono fermamente, gli altri no. I primi saranno travolti da ciò che ascoltano, travolti dalle cose in cui credono, dal male a cui assistono, dall’angoscia che questo riproduce; gli altri sono piacevolmente divertiti, commossi perché no, sapendo benissimo che ciò che sta avvenendo non ha nulla a che fare con il bene o con il male, cose che magari hanno abbandonato da tempo. Faccio un esempio sempre sull’innamoramento in quanto è una della questioni più diffuse e facilmente comprensibili. Se una donna mi dice “ti amo”, questo può commuovermi anche se so che mente. Ciò che accade quotidianamente è esattamente le stessa cosa: tutto ciò di cui vi persuadete, tutto ciò che dite ha questa funzione, per lo più, di farvi credere. Taluni dicevano “ma senza tutta questa religiosità si perdono le emozioni, i sentimenti”. No! Perché mai, non si perde nulla, si acquisisce la possibilità di goderne, di gioirne senza esserne schiacciati.

 

- Intervento: Partendo da Aristotele: egli dice ai giudici solo ciò che essi vogliono sentire e nel secondo libro della Retorica lui fa anche un’analisi dei vari tipi di interlocutore e quindi è necessario un’indagine preliminare del retore all’interlocutore in modo da capire quali sono le cose che gradisce ecc.., e allora su che cosa il retore basa i dati che raccoglie cioè in che modo questi dati possono essere ritenuti giustificati da un punto di vista epistemologico? E poi c’è un’altra questione: se a un retore successivamente si chiede di palesare quali erano i dati in base ai quali ha fatto la sua arringa o ha deciso di utilizzare delle armi retoriche piuttosto che altre, è abbastanza facile che lui esponga questi dati, ma in un soliloquio, cioè in un rapporto fra sé e sé, se si chiedesse alla propria persona di palesare quali sono i dati in base ai quali sta facendo un certo tipo di discorso, non sempre si ottiene con la stessa facilità l’esposizione di questi dati; volevo sapere che cosa ne pensa.

 

In quest’ultimo caso per lo più questi dati sono impliciti e sono dati come acquisiti. Ma andiamo per ordine. Diceva Aristotele che il retore deve sapere quali sono i gusti del pubblico, quali sono le cose che per lo più crede e la stessa cosa se è un singolo. Se non sa assolutamente nulla della persona che ha di fronte si trova in difficoltà, comincerà a dire qualche cosa per vedere la reazione e da lì cominciare a valutare gli effetti. Nel caso di un’arringa, il retore sa che cosa il giudice pensa, sa che dovrà sostenere, per esempio i valori della nazione, i valori morali ecc.. Nell’impeachment a Clinton, i valori americani fondamentali sono posti in primo piano, la moralità e tutto quello che pensano i quaccheri e i mormoni ecc., quindi l’avvocato in questo caso deve fare leva su questi aspetti, sulla moralità, sul fatto che senza la moralità la nazione va a catafascio, mentre invece con la moralità si tiene ben salda. Rispetto una singola persona, certo occorre avere della informazioni per potere persuaderla, il fatto che ad esempio desideri una certa cosa è già un’informazione. Un retore ha l’orecchio avvezzo a queste cose e sa cogliere da un discorso qualunque di una persona quali sono gli aspetti più significativi per quella persona, le cose che ritiene più importante, i suoi valori in definitiva, anche se in linea molto generale, comunque saprà già in quale direzione muoversi. Nel soliloquio tutto questo da una parte è molto semplificato perché non hai da acquisire informazioni che già ti sono disponibili, dall’altro è più complicato perché la difficoltà di persuadersi è estrema non essendoci nessun intoppo, tutto fila liscio dal momento che se io sono colui che vuole persuadére e che vuole essere persuaso, facciamo in fretta. Certo, l’aspetto è comunque importante, ciò che avviene nel soliloquio che poi non è neanche sempre così facilmente percepibile; il proprio pensiero fa passaggi molto rapidi, semplifica, come nel calcolo matematico, un po’ come fa un avvocato di fronte ad una giuria, non sta a dimostrare perché è importante la nazione, perché è importante che la nazione sia salda; può farlo in alcuni casi se lo ritiene opportuno, ma generalmente sono dati ritenuti acquisiti da tutti e che nessuno oserebbe mettere in discussione. Così anche nel soliloquio la più parte delle cose una persona non oserebbe metterle in discussione e quindi procede rapidissimamente verso una conclusione, con una facilità estrema.

 

- Intervento: Vorrei un chiarimento: ha usato un’espressione molto singolare che mi ha colpito “necessità delle difficoltà”; mi è sfuggito il contesto in cui ha inserito questa frase. Parlava della persuasione del fatto di conoscere il modo di pensare dell’interlocutore e di porre delle condizioni, delle argomentazioni che siano accettabili allo stesso, far notare la similitudine tra le proprie considerazioni e il suo modo di pesare, dopodiché trarre delle conclusioni e far sposare le due cose. Subito dopo ha fatto una considerazione di cui non ho capito il significato, però mi ha colpito quest’espressione: in questo caso, diceva, non c’è la necessità della difficoltà; è un’espressione molto singolare e non vorrei essermi perso qualche cosa di altrettanto singolare ed interessante.

 

Sì, la difficoltà come necessità, certo perché parlando si incontrano un’infinità di difficoltà.

Ora, queste difficoltà, che dipendono dal non possedere sufficienti strumenti o elementi per inferire altrimenti da come accade, sono necessarie in quanto non ci sono gli strumenti. Però possono non essere necessari e quindi abbandonare ogni difficoltà e poi curiosamente accade spesso che le persone quasi cerchino questa difficoltà, cerchino cioè di rimanere con pochi strumenti, pochi elementi. Questi pochi elementi gli rendono la vita difficile, ovviamente, però continuano a immaginare che invece questo li agevoli secondo l’antico adagio “poche idee e chiare”. Queste poche idee non sono mai chiare, sono sempre confusissime, però sono poche e la persona ha che fare con queste cose, non riesce ad andare molto più lontano. Per questo, dicevo, che più elementi ci sono più è facilmente risolvibile un qualunque problema, fino al punto di accorgersi che eventualmente non è neppure un problema, lo si era pensato ma non era così.

 

- Intervento: Quando lei parlava di senso religioso, di senso della religione in un tentativo di persuasione, come avviene il processo, la difesa o l’accusa, entrambi la sentono, la usano davvero convinti, oppure lo usano soltanto come strumento?

 

Dipende. Se è un agone dialettico, come quello a cui addestravano i gesuiti i futuri capi di stato, allora sì, è fine semplicemente ad un addestramento: sapete che nella ratio studiorum narrano come addestrassero le future leve del potere, impegnandoli in agoni dialettici dove uno sosteneva una cosa e l’altro doveva confutarla; ma anche in quel caso comunque è come una partita a scacchi o a poker, ciascuno cerca di vincere l’avversario perché la vincita gli comporta un tornaconto. Ma il senso religioso? In un agone dialettico fine a se stesso ciò che è in gioco è battere l’altro, ridurlo alle proprie ragioni in modo che l’altro non abbia nulla da obiettare e generalmente a questo punto la vittoria è assicurata. L’aspetto religioso in un’operazione del genere consiste nella necessità che ci sia uno dei due che necessariamente ha ragione, uno dei due deve avere ragione per forza, perché la verità sta da qualche parte: se io vinco vuole dire che sono più abile a mostrare la verità - può anche essere falsa questa verità - in questo caso ho semplicemente utilizzato meglio dell’altro gli strumenti dialettici. Un agone dialettico può farsi anche senza religiosità, solo per il gusto di farlo, ma ciò che invece avviene generalmente nelle conversazioni è un aspetto che riguarda la verità molto pesante, che insiste. Certo, se lei ed io ci mettessimo a discutere per dimostrare due cose differenti, in questo caso forse sarebbe un puro divertimento, ma in ogni caso potrebbe anche esserci quello che lei indica come aspetto religioso, nel fatto che se io riesco a persuadére chiunque di quello che voglio acquisisco un potere sconfinato e il potere in questo caso è messo al posto della divinità che io devo assolutamente soddisfare: diventa appunto una cosa necessaria.

 

- Intervento: Stavo cercando di capire, perché sicuramente ho molto da imparare, perché vorrei veramente sentire qualcosa di più sulla retorica. Secondo me si è parlato molto del linguaggio, ma vorrei una risposta alla domanda “che cos’è la retorica?”. Non l’arte della retorica ma che cos’è la retorica, non applicata al contesto quotidiano di uno che vuole convincere l’altro di…; questa è comunicazione che a volte avviene senza retorica, secondo me, e avviene talvolta in modo volgare da chi non conosce il linguaggio. La retorica esattamente cos’è?

 

La retorica è una disciplina divisa in cinque parti: Inventio, elocutio, dispositio, memoria e actio. Consta in questo: come si costruisce un discorso. Primo, bisogna trovare le cose da dire, e di questo si occupa l’inventio; trovate le cose da dire occorre disporle, e di questo si occupa la dispositio; una volta disposte queste cose devono essere dette in certo modo ecc..

 

- Intervento: Può allora essere l’arte della seduzione espressa in parole?

 

Sì, certo, la retorica ha a che fare con la seduzione.

Vede, ad esempio, il discorso parenetico, quello che deve magnificare un qualche cosa; il giorno della commemorazione dei caduti si fa un discorso che inneggia la Patria, i martiri ecc.. , poi un discorso che deve invece persuadére i giovani ad andare a farsi uccidere da qualche parte. La retorica poi viene utilizzata soprattutto nei discorsi forensi ma è comunque e sempre una disciplina che mira a persuadére altri e quindi a costruire dei discorsi in modo tale che sia funzionale a questo.

 

- Intervento: Ma un uomo è abituato nella quotidianità, nel proprio linguaggio ad adottarla la retorica?

 

Sì, certo.

 

- Intervento: E consapevolmente?

 

Sì, diceva un tizio che scrisse un manualetto di retorica che ci sono più figure retoriche in una mattinata in un mercato qualunque di quante se ne trovino in un manuale ponderoso. Ciascuno cerca di fare questo: la persona che deve vendere la frutta, cercherà di persuadére il possibile compratore che la sua frutta è buonissima e la più buona di tutte.

 

- Intervento: Ma io non ci trovo retorica, ci trovo solo persuasione.

 

Ma la retorica è questo soprattutto. Ad un certo punto gli umani si sono detti “ma io mi trovo a persuadére delle persone ma faccio difficoltà”, magari un avvocato di fronte ad una giuria, e allora ha cominciato a pensare. Cicerone per esempio “io, quando cerco di difendere una persona, che cosa faccio esattamente?” Intanto devo trovare che cosa dire, degli elementi stabili, sicuri, cioè che lui per esempio non era lì il giorno del delitto, poi devo aggiungere qualche cosa perché non basta dirlo, non avviene così generalmente, c’è tutto un’operazione complicatissima che è appunto la retorica e cioè quell’arte di trovare le cose, di dirle nel modo migliore, di renderle verosimili, credibili, non importa che siano vere, occorre che siano verosimili quindi credibili: questo è lo scopo della retorica, non ne ha altri. Facendo questo chiaramente ha trovato una serie di figure retoriche che ha catalogato. Se lei si prende un manualetto di retorica trova una lista notevole di figure retoriche, solo che un manuale del genere ha un utilizzo che è particolare perché chi non conosce le figure retoriche non sa dove andarle a cercare, chi le conosce non ha bisogno del manuale, comunque dà delle indicazioni interessanti. Sarebbe interessante leggere anche Perelman, Il trattato dell’argomentazione, che è quanto di meglio ci sia come contemporaneo intorno alla retorica e vedrà che dopo avere partita la retorica in cinque parte uguali e distinte cominciano a raccontare come si deve costruire un discorso. Le figure retoriche sono invece un listaggio di elementi che abbelliscono il discorso, che lo rendono più potente: dire che una persona non ha coraggio o dire che non ha un cuor di leone potrebbe essere la stessa cosa, però può essere più opportuno in alcuni casi dire che non ha un cuor di leone e quindi utilizzare una figura retorica, in questo caso una litote che non è nient’altro che la negazione di un’iperbole. Se dicesse che non ha coraggio potrebbe essere offensiva, allora dice che non ha cuore di leone e ammorbidisce la cosa usando una figura retorica.

 

- Intervento: Prima faceva distinzione tra persuasione e convinzione e faceva notare che nel primo caso si cerca di non creare un contraddittorio, nel secondo caso invece questo non accade. Però poi il discorso si è approfondito sulla persuasione che è come la credenza di un religioso e ha introdotto il concetto dell’utilizzo della paura in senso religioso, inteso in senso lato; quindi se il discorso della persuasione, inteso come introdotto inizialmente può essere un percorso fiancheggiato da qualche cosa di gradevole, nel secondo caso non è come se questo discorso, fiancheggiato da qualcosa di gradevole in fondo presentasse qualche cosa che, l’oggetto della paura, urta contro la sensibilità; non c’è un’apparente contraddizione in questo?

 

No, nel caso della persuasione è così effettivamente, ma nel caso non più della retorica ma della logica, possono compiersi delle affermazioni che puntano a non essere confutabili in nessun modo. Per esempio, se io sostenessi che “gli umani in quanto parlanti parlano” o che “non c’è uscita dal linguaggio”, non c’è modo di confutare un’affermazione del genere perché in qualunque modo lei cerchi di farlo utilizzerà esattamente ciò che nega di esistere. Ecco, in questo caso una simile affermazione non si cura di persuadére il prossimo, pone di fronte qualche cosa che non può essere eliminato, non può essere confutato in nessun modo. Certo, se poi questa cosa deve renderla più gradevole, perché sia più facile accoglierla, allora interviene la retorica ma se no di per sé enuncia qualcosa di inevitabile, di ineluttabile, che non può essere confutato e lì rimane

In effetti, questi elementi spesso risultano fastidiosi proprio perché non sono negabili e non essendo negabili non possono facilmente essere tolti dal discorso, rimangono lì a dare fastidio, in un certo senso, perché non si sa come utilizzarli ma allo stesso tempo non li si può più eliminare. Poi, che la scienza utilizzi a piene mani l’aspetto retorico, questo è un altro discorso, perché da sempre un discorso scientifico ha bisogno della retorica per essere divulgato, per essere creduto, non basta una prova perché una qualunque prova è sempre passibile di essere confutata e quindi occorre una buona dose di persuasione. Anche nei casi apparentemente più rigorosi occorre qualcosa che si creda se no la spiegazione scientifica non significa niente.

 

- Intervento: Quando lei parlava di recitare il Macbeth, lei è convinto che l’attore che lo interpreta è molto preso dal suo essere Macbeth?

 

Dipende se segue le direttive di Diderot o quelle di Stanislawsky. Nel primo caso, mentre recita Macbeth pensa alle bollette che deve pagare e alla moglie che lo ha tradito, nel secondo caso invece lui diventa Macbeth, si fa prendere dalla cosa e si sconvolge.

 

- Intervento: E quale dei due è più capace nella persuasione?

 

Credo che siano entrambi sufficientemente persuasivi, dipende poi dall’abilità della persona che sta recitando.

 

- Intervento: Ma quali di questi due è retorico?

 

Entrambi .

 

- Intervento: Questo è curioso perché in teatro si dice che né l’attore Diderot né quello di Stanislawski sono retorici, perché un attore se è retorico è una noia.

 

Questa è l’accezione negativa del termine, però io parlavo di retorica in un’accezione differente, l’accezione antica come un’arte nobile degna di essere perseguita non come una caricatura eccessiva di atteggiamenti spropositati che in effetti sono stucchevoli. La retorica ha seguito nel corso dei secoli varie vicissitudini, una volta era considerata e nacque come una cosa molto nobile, praticata da persone abilissime, poi dopo Quintiliano, nei primi secoli dopo Cristo, è invalso invece l’uso di eccedere caricaturando molti gesti, molte figure retoriche che intervenivano anche a sproposito al punto di diventare talmente fastidiose e insopportabili che la retorica è diventata malfamata. Nel luogo comune l’affermazione che un discorso è retorico è generalmente connotato negativamente.

 

- Intervento: Potrebbe raccontarci come Cicerone si preparava a fare una sua arringa e qual era la scuola di Cicerone?

 

Cicerone era un eclettico, aveva preso da moltissimi, soprattutto dai Greci, da Platone, da Gorgia e da altri. Lui passava le notti prima del processo, doveva essere assolutamente sicuro che la sua arringa sarebbe stata efficace e quindi costruiva il discorso nei minimi dettagli tenendo conto di qualunque cosa, di qualunque possibili obiezione, cioè lui costruiva da sé tutto il controargomento, la controargomentazione, in modo da poter prevedere tutte le possibili obiezioni. Così era pronto a qualunque cosa. Oltre a questo una certa sensibilità anche per il linguaggio gli rendeva più facile costruire dei discorsi anche belli, fluidi, facili ad ascoltarsi, piacevoli e quindi più facilmente comprensibili.

 

 

LOGICA O RETORICA?[2][2]

Istituire un’associazione culturale oggi è un’impresa di un certo interesse perché, come sapete, di associazioni culturali o comunque di associazioni che fanno cultura ce ne sono un’infinità. Ciascuna di queste istituzioni, organizzazioni, promuove un discorso ovviamente. Come è stato detto in varie circostanze è proprio in seguito ad un confronto anche con vari discorsi che si decise di non soltanto istituire l’associazione culturale ma di inventare un discorso totalmente differente, differente al punto da risultare in moltissimi casi incompatibile con la più parte di ciò che attualmente è inteso come cultura. Questa incompatibilità procede dal fatto che tutto ciò che è stato elaborato in questi anni è andato distanziandosi man mano sempre di più da una struttura di discorso religioso. In questo si pone in termini totalmente differenti da qualunque altra organizzazione. Questo ha molto a che fare con ciò che sto per dirvi, cioè con ciò che riguarda il tema di questa serata: “Logica o retorica?”. Sono due aspetti che ci hanno condotti a pensare in modo radicalmente differente. Come sapete si considera che la logica sia una struttura che consente, date certe premesse, di giungere a delle conclusioni coerenti, attraverso l’induzione o la deduzione ma comunque attraverso un percorso inferenziale e quindi legittimato dalle regole di inferenza logica. La retorica no, la retorica si considera un discorso che non muove necessariamente attraverso passaggi rigorosi, anzi il più delle volte consiste di affermazioni assolutamente illecite o quantomeno arbitrarie, cosa che la logica invece non dovrebbe fare. Una delle dicotomie fondamentali del discorso occidentale è da sempre stata quella di considerare se un discorso, un qualunque discorso o più propriamente il discorso corrente, dia la supremazia alla logica oppure alla retorica e cioè se parte dei discorsi che si fanno muovano da alcune premesse e giungano alle loro conclusioni attraverso un sistema rigoroso o quantomeno riproducibile o dimostrabile, oppure se invece ciascun discorso sia costruito sul nulla e insegua, assolutamente a piacer suo, tanto le premesse quanto le conclusioni e quindi non sia in nessun modo dimostrabile. Un’affermazione retorica generalmente non è dimostrabile, così per esempio una figura retorica non è sottoponibile ad un criterio verofunzionale, un discorso logico invece dovrebbe esserlo. Il discorso occidentale si è sempre attenuto a questa divisione, più o meno netta, più o meno marcata a seconda dei casi, e a tutt’oggi esiste un dibattito che verte proprio su questo, se cioè il discorso si appunti correntemente alla logica o alla retorica o comunque se sia preferibile l’una cosa all’altra per giungere a delle conclusioni. Dicotomia che si riscontra poi in moltissimi altri casi, dicotomia tra le fede e la scienza, tra il sentimento e la ragione, tutte quante hanno lo stesso fondamento: da una parte un discorso rigoroso, provabile, dall’altra invece un discorso che non è sottoponibile a nessun criterio di dimostrabilità. Il fatto che la più parte del discorso occidentale mantenga questa divisione ci ha indotti a considerare in termini molto attenti la questione tanto da riprenderne almeno i temi fondamentali. Consideriamo un discorso logico. Si dice che debba muovere da premesse possibilmente certe per giungere, attraverso una serie di regole di inferenza, a una conclusione altrettanto certa. Ma il problema della logica, almeno da Aristotele in poi, è sempre stato quello di potere reperire delle premesse certe, perché se le premesse non sono certe, se sono costruite su nulla, allora anche le conclusioni subiranno la stesa sorte. La trovata generalmente è quella di fondare queste premesse, su cui si costruisce tutto il pensiero, o su dati dell’esperienza oppure su ciò che è creduto dai più. Aristotele optava per questa seconda soluzione. Però, in entrambi i casi si ha a che fare con elementi che poco hanno a che vedere con la certezza di cui invece la logica si picca di essere la portatrice. Quale conseguenza, quale conclusione può essere certa se le premesse comunque sono sempre discutibili? Nessuna, a meno che si decida che la vox populi sia vox dei e allora viene accolta come premessa universale, oppure il dato dell’esperienza che, in ogni caso, è riconducibile alla vox populi: la più parte delle persone esperisce in questo modo quindi è giusto questo. Il problema che ci si pose a quel punto era che, stando in questi termini le cose, una qualunque altra premessa sarebbe potuta andare altrettanto bene. Ma, ci domandammo, c’è una premessa che invece non è necessariamente, assolutamente arbitraria? Solo a questa condizione il discorso logico si sarebbe potuto fare procedere in modo rigoroso, preciso, oppure invece è effettivamente come taluni pensano, soltanto una questione retorica e cioè che ciascun discorso è sempre e necessariamente retorico. La logica fornisce soltanto qua e là degli strumenti perché le conclusioni non siano del tutto strampalate ma in ogni caso seguono a delle premesse che sono assolutamente opinabili. Per esempio, un discorso che afferma che se Dio esiste allora esiste anche l’inferno e il paradiso può apparire per alcuni logico ma è un discorso retorico in quanto le premessa è comunque opinabile, muove cioè da una premessa non certa. Questa dicotomia fra logica e retorica ha avuto ed ha molti risvolti. C’è stata da sempre un’attribuzione alla logica di una forza e di una potenza che in buona parte invece non ha, le si attribuisce generalmente un carattere costrittivo, perché se affermo che “se A allora B” e “se B allora C”, ne segue necessariamente che “se A allora C” e nessuno al mondo può obiettare nulla rispetto ad una cosa del genere. Quindi la logica, e di conseguenza anche il discorso scientifico, per esempio, hanno sempre avuto fama di essere indubitabili, certi, sicuri, anche se ultimamente, in effetti, alcuni hanno incominciato a porre qualche obiezione. Come sapete alcune dottrine relativamente recenti, come per esempio l’ermeneutica, si fidano molto poco della logica perché hanno abbandonato l’idea di potere raggiungere la certezza. Non soltanto l’ermeneutica, anche una sorta di relativismo intellettuale, teorico, dove la certezza non c’è più ma soltanto una sorta o di adattamento o di avvicinamento a qualche cosa che si ritiene più certo, oppure l’utilità, per cui una tesi è accolta se è utile a fare qualche cosa, altrimenti viene abbandonata. Però, un discorso teoretico generalmente poco si cura dell’utilità ma cerca dei fondamenti per potere stabilirsi. Pensate a tutto il discorso occidentale, tutto ciò che è stato della religione, della metafisica, la necessità che si è sempre avuta di appoggiarsi su qualche cosa di solido, di stabile, di duraturo, se non addirittura eterno. Poi, in quest’ultimo secolo, con la famosa crisi dei fondamenti, molte delle cose che si ritenevano certe sono vacillate. Vacillando queste certezze, anche la logica ha perso almeno una parte della sua credibilità, ciò nondimeno questo nulla toglie al fatto che ciascuno quando parla cerca di seguire un ragionamento logico. Anche se non ha fatto delle conoscenze specifiche nel campo della logica, comunque cercherà di muovere da qualche cosa che sia abbastanza affidabile e poi giungerà ad una conclusione attraverso una serie di passaggi che ritiene quantomeno legittimi se non proprio certi e cioè cercare di costruire un ragionamento logico. Ma se, come dicevo, la logica in quanto tale ha perso almeno una parte della credibilità, se continua ad essere utilizzata continuamente, forse merita di essere considerata. Certo, non la logica degli antichi, quella che cercava di giungere a conclusioni assolutamente sicure; la logica dell’incerto, del possibile, del verosimile e quindi nel campo prettamente della retorica. Per questo, come dicevo all’inizio, molti abbandonano la logica a vantaggio delle retorica, cioè abbandonano la certezza a vantaggio del verosimile, del credibile, del possibile. Questioni quantomeno bizzarre, come per esempio la nozione di verosimile: se aboliamo il vero, la verità assoluta, questo verosimile sarà simile a che cosa esattamente? è un’obiezione legittima e torniamo alla questione posta da Popper: in assenza di verità la scienza procede per aggiustamenti e per approssimazioni. Ma approssimazioni a che, se non si è data una verità da qualche parte, almeno come possibilità? Ecco, allora, la possibilità di costruire invece un discorso che non cerchi più la verità laddove non la può trovare ma rifletta intorno alla verità per verificare se questo significante sia ancora utilizzabile. La verità è da sempre intesa come “ciò che necessariamente è”, altrimenti non è più verità, è qualcosa che può essere ma non è la verità. Il problema non è stato certo nel definirla come “ciò che necessariamente è” ma trovare qualche cosa che necessariamente sia. Qui sono sorti alcuni problemi perché di ciascuna cosa si riscontrava che, certo, era ma non così necessariamente, cioè poteva anche non essere e non succedeva niente. Si è trattato allora di trovare un qualche cosa che necessariamente fosse e non potesse non essere. Pensate a tutto il pensiero occidentale, alla metafisica, a questo enorme sforzo compiuto in 2500 anni, anche dalle menti più addestrate, fervide e scaltre, le quali hanno incessantemente cercato quel qualche cosa che, se mai fosse stato trovato, avrebbe risolto definitivamente il quesito fondamentale che gli umani si pongono da 2500 anni, e cioè se si dà un qualche cosa necessariamente e se questo necessariamente possa essere assoluto, inequivocabile e pertanto dimostrato. Come sapete, gli sforzi di tutto il pensiero filosofico, linguistico e logico non sono approdati ad un granché rispetto a questo, eppure ci dicemmo che la logica o trova qualcosa del genere oppure è nulla per cui, come taluni sostengono, è soltanto una questione retorica dal momento che qualunque proposizione io faccia, anche quella apparentemente più solidamente scientifica, comunque muove da premesse che io posso non accogliere, posso negare. Anche le leggi di gravità o il calcolo numerico: tutto questo poggia su una serie di regole, di giochi che io posso non accogliere; logicamente posso non farlo, poco importa che poi mi trovi in difficoltà e succedano dei problemi, ciò che importa è che logicamente possa farlo. Vedete, la logica è uno strumento bizzarro, consente di giungere a conclusioni che potrebbero apparire contrarie al buon senso, però vengono accolte perché sono ineccepibili, vale a dire, non è possibile costruire un discorso che le neghi. Potrei farvi un esempio di un discorso logico assolutamente innegabile, ineccepibile: supponiamo che il mio amico Roberto sostenga, per esempio, che esiste qualche cosa fuori dalla parola; mi trovo allora di fronte alla sua affermazione e devo provare che la sua affermazione comporta un paradosso. Esiste un sistema retorico che si chiama reductio ad absurdum che consiste appunto nel condurre un’affermazione ad una conclusione paradossale. Di fronte ad un paradosso l’interlocutore non ha più nulla da obiettare dal momento che si è provato che il suo discorso, se portato alle estreme conseguenze, è un paradosso e cioè è un discorso la cui conclusione è vera se e soltanto se è falsa. Supponiamo che Roberto sostenga dunque che esista qualcosa fuori dalla parola; allora Roberto giunge a questa conclusione o per un ragionamento oppure per esperienza diretta. Come potremmo obiettare logicamente? In questo modo, che se questa affermazione è la conclusione di un ragionamento allora questo ragionamento è fatto di regole inferenziali, di conseguenti, antecedenti ecc., dunque di una struttura linguistica, e pertanto lui può affermare che qualcosa esiste fuori dalla parola se e soltanto se non è fuori dalla parola, altrimenti non potrebbe costruirlo. E se invece lo avesse acquisito tramite l’esperienza? Allora, se lo ha acquisito attraverso l’esperienza, ha acquisito un elemento che non è dicibile, che è fuori dalla parola; questo elemento ha un rinvio a qualche cos’altro, oppure no? Se ha un rinvio a qualcos’altro allora è l’antecedente di un conseguente e quindi è inserito all’interno di un sistema inferenziale, è inserito cioè all’interno del linguaggio. Se invece non ha nessun rinvio, allora non rinvia nemmeno all’esperienza e pertanto Roberto può affermare che per esperienza qualcosa è fuori dalla parola se e soltanto se non ne ha esperienza. Questo è un esempio di procedimento logico. Come vedete ha un potere costrittivo, impedisce che ci siano altre possibilità, e in effetti la logica dovrebbe essere questo: una struttura binaria, vero-falso, esattamente così come funzionano i computer, ma occorrerebbe che funzionasse in modo molto più potente di quanto funzionano i computer, solo che ha bisogno di una nozione, che è il vero, che procede dalla verità e quindi un’argomentazione come quella che io, per esempio, vi ho raccontata, necessita di un criterio che è quello della verità; la retorica no, non necessita di un criterio così potente. Dicevamo la volta scorsa che la retorica costruisce discorsi, ma mira al bello, alla persuasione, mira al piacere molte volte di costruire un discorso, non si cura che la sua argomentazione sia assolutamente inattaccabile. Già gli antichi sapevano bene che per persuadére qualcuno è preferibile costruire un discorso, anziché supporre di pensare di dire delle cose che siano da sé persuasive, ma costruire un discorso che sia verosimile, che sia credibile, che sia facilmente credibile. Come dicevamo tempo fa, una menzogna generalmente è credibile perché è costruita per essere tale e quindi risulta molto più persuasiva di altre cose. Ma la retorica ha a che fare con la logica e viceversa oppure no, sono due cose totalmente distinte? Altra questione fondamentale, perché se sono due elementi assolutamente distinti, allora effettivamente è possibile abbandonare la logica e domandarsi se il discorso ha una struttura retorica oppure logica. Se invece non sono distinti allora potrebbero essere due facce della stessa questione. Per utilizzare un terminologia dei computer l’una, la logica, costituisce l’hardware, l’altra il software; l’una, la logica, le condizioni del linguaggio, cioè ciò attraverso cui il linguaggio funziona e senza le quali condizioni cesserebbe di funzionare; l’altra, tutto ciò che invece queste strutture, queste procedure, possono costruire. Posta la questione in questi termini la dicotomia logica-retorica si dissolve in quanto effettivamente mostrano di essere due facce della stessa questione. Esistono degli elementi che possono indicarsi come condizioni del linguaggio? Esiste un qualche elemento per il quale possiamo dire che è una condizione perché esista il linguaggio? Forse sì, e se ne troviamo una, possiamo porla come condizione e quindi attribuirla alla logica, visto che abbiamo posto, per il momento come ipotesi, che la logica costituisca nient’altro che la struttura attraverso la quale il linguaggio funziona, senza la quale cesserebbe di funzionare perché si dissolverebbe. Posso, per esempio, affermare una cosa e il suo contrario? Chiunque mi risponderebbe sì, certo che lo posso fare: posso affermare sia “ A” che “non A”. Però, a quali condizioni posso affermare “non-A” se non perché si dà una A? E questa occorre che sia identica a sé oppure no? Supponiamo che non lo sia, allora come so che è una A e come so che quindi quell’altro elemento è il suo contrario? Aristotele lo chiamò il principio del terzo escluso: “A o non-A”, non si dà una terza possibilità. Ma non è una questione né ontologica né filosofica né religiosa, è grammaticale, molto più semplicemente. Quindi, occorre che ciascun elemento sia se stesso, ma questa è una regola del gioco o, più propriamente, una procedura attraverso cui il linguaggio funziona. Io non  posso provare che A è identico ad A né posso provare che è differente, oppure entrambe le cose, posso provarlo e confutarlo. Ma se non accolgo questo, il linguaggio cessa di funzionare. Sarebbe come se ciascun elemento o ciascuna parola significasse simultaneamente tutte le altre, capite immediatamente che diventerebbe arduo parlare. Ecco, allora, l’eventualità che si diano degli elementi che siano condizioni per il funzionamento di questo marchingegno noto come linguaggio e senza le quali condizioni non funziona e quindi non funzionando il linguaggio cessa ed esistere. Ecco dunque che incominciamo ad intendere più facilmente questa non più dicotomia logica-retorica, ma possiamo porle come due facce attraverso cui questo meccanismo, il linguaggio, funziona. La retorica, posta la questione in questi termini, allora non è altro che qualunque cosa il linguaggio costruisca, qualunque cosa. Affermare la legge del calcolo numerico, la legge di gravità o lo ius primæ noctis, sono tutte affermazioni retoriche perché non possono essere provate. Forse accorre riflettere, anche se lo faremo in seguito in quanto ci sarà un incontro apposito sulla questione della dimostrazione quindi della dimostrabilità, però posso dirvi come anticipazione che non c’è una proposizione che non possa essere confutata e cioè che è sempre possibile costruire un altro discorso che provi una tesi contraria come vera. Questo certo in ambito logico, scientifico, ha creato ad un certo punto qualche problema, ma il problema è molto più ampio di quanto molti hanno immaginato. Non si tratta di cercare una qualche proposizione o affermazione scientifica che sia certa e quindi sia assolutamente dimostrata, ma il verificare che questo non è possibile, non è possibile per definizione. Diciamo che è una questione grammaticale anche molto semplice tutto sommato, dal momento che per dimostrare un elemento, o lo dimostro attraverso elementi che fanno parte del precedente e allora provo soltanto che mi sono attenuto alle regole del gioco, oppure devo trovare un elemento che è esterno e che da fuori garantisca della sua validità, incappando inevitabilmente in una sorta di regressio ad infinitum o di paradossi irrisolvibili perché sarebbe come chiedere ad un elemento di provare da sé la sua esistenza e non lo può fare; non lo può fare perché comunque dovrà farlo attraverso un’altra struttura che è per esempio il linguaggio. Per questo dicevo che non c’è proposizione che non possa essere confutata, nel senso che la dimostrazione ha valore soltanto all’interno di un gioco ristretto di cui si accolgano le regole. Già Wittgenstein osservava, domandandosi “chi dimostrerà la dimostrazione?”, ma la questione che più ci interessa qui e che riguarda l’affermare che una qualunque proposizione è necessariamente retorica, anche tutte quelle che vi ho fatto questa sera ovviamente, sono tutte necessariamente retoriche, e che quindi non può darsi una proposizione che affermi qualche cosa e che lo possa dimostrare in modo definitivo, certo, sicuro. Se questo non può avvenire quali ne sono le conseguenze? Innanzitutto, molte delle argomentazioni perdono del loro carattere di costrittività, e quindi dell’aspetto magari terroristico che possono avere, perché se apparentemente costrittive, di fatto non lo sono per nulla. Un discorso costrittivo può avere degli effetti. Come spesso accade di pensare, una cosa è vera finché non si trova una prova contraria, fino a quel momento si ritiene vera, anche Kant tutto sommato pensava qualcosa del genere. Ma cosa vuol dire che è vera? Vuol dire qualcosa o non significa assolutamente niente? È una questione da porsi, perché se non significa nulla, allora perché affermarlo? Ma se significa qualcosa, che cosa esattamente significa? Abbiamo detto che non può essere la verità perché questa occorre che sia assoluta. E allora che cos’è? è una ideologia, quella ideologia che sostiene che la verità sia da qualche parte, in qualche modo ci deve pur essere. Questo è il fondamento di qualunque teoria: insinuare che in qualche modo sia possibile trovarla e, una volta trovata, questa avrà un tale carattere costrittivo da non lasciare più fiato a nessuno. Certo, la religione, per esempio, la fornisce questa verità come già acquisita e incappa chiaramente in qualche piccolo problema quando gli si chiede di provarla, però funziona. Se voi considerate la religione non tanto come quelle istituzioni che ciascuno di voi conosce, ma come una struttura di pensiero, esattamene quello che è strutturato in modo tale da credere fermamente che la verità esista o debba esistere, allora vi accorgete che questa struttura, che si chiama il discorso religioso, è molto più ampia di quanto si immagini generalmente. Come vi dicevo, questa questione è molto complessa, tutti gli éscamotage fatti recentemente dalle varie scuole di pensiero tolgono la verità però ne fanno i conti comunque continuando a parlare di aggiustamento, di avvicinamento, di aggiramento. Vi faccio un esempio: il versante francese dell’ermeneutica noto come il decostruttivismo, un tal Derida, francese, vivente. Dunque, prendete un testo e provate ad interpretarlo, cosa avverrà? La vostra interpretazione decodificherà quel testo, dirà la verità su quel testo oppure no? Oppure l’interpretazione che date sarà un altro testo a fianco a quell’altro e inesorabilmente sarà sempre un altro testo. Allora un testo in quanto tale non è mai raggiungibile; qualunque lettura, qualunque interpretazione non è altro che la costruzione di un altro testo il quale rimane assolutamente inaccessibile. Buona parte della filosofia francese, e non soltanto, ha utilizzato questi schemi, però, come vedete in questo caso, la questione della verità è aggirata: il testo sarebbe la verità, ciascuna interpretazione, qualunque tentativo di avvicinarcisi è sempre vano perché costruisce un’altra verità, non quella. Ma supponiamo che sia così: se questo testo non lo posso leggere, portando la cosa alle estreme conseguenze, come so che quello che io interpreto non sia lo stesso? Potrebbe accadere e poi, come so che quel testo non è decodificabile ma posso soltanto scrivere un’altra cosa? Se so che è un’altra cosa è perché questo testo c’è, altrimenti sarebbe “altro” rispetto a che cosa? E se ho individuato quel testo, quindi l’ho letto e l’ho decodificato, a questo punto posso dire che questa cosa è un altro testo? Non lo posso fare, è un arbitrio. Questo per dirvi come la questione della verità, come si usa dire talvolta, “cacciata dalla porta rientra dalla finestra”, rimane comunque nell’ambito di qualunque struttura del discorso religioso come uno sfondo ineliminabile, come dire che c’è sempre la necessità di qualche cosa che faccia da garante. Parlo del discorso religioso perché generalmente, per antonomasia, chi fa da garante è Dio, è lui preposto a fare questa operazione. Quando Cantor dimostrò che i numeri mentono perché, per esempio, la somma di tutti i numeri primi non è né maggiore né minore della somma di tutti i numeri primi elevati al quadrato, o comunque non lo posso sapere, un tale Kronecker se la prese a morte con lui perché non poteva essere vera una cosa del genere perché i numeri li ha inventati Dio e quindi non mentono. Come è noto, Dio, essendo la verità, non mente. Lo stesso Einstein in una lettera a Born giunse a considerare, rispetto alla sua teoria della relatività che stava congetturando in quegli anni, che tutto questo è vero a meno che non si debba ammettere che Dio giochi ai dadi, e Dio sicuramente non gioca ai dadi. Allora in questo modo il problema della dicotomia tra logica e retorica, ragione e sentimento, fede e scienza, cessa di avere qualunque senso. Ragione e sentimento, anche questa è una dicotomia nota da sempre, il sentimento non si bada della ragione, non procede per inferenze, non procede per deduzione, almeno così si suppone.

 

- Intervento: Rispetto all’affermazione che ha fatto poco fa a proposito di Einstein, diceva che la sua teoria della relatività era corretta a meno che Dio non giocasse a dadi. Qualcuno ha obiettato: Dio non gioca a dadi. In questo caso la logica crea il problema del fatto che noi non possiamo affermare che Dio non giochi a dadi, giusto?

 

Se poniamo la cosa in termini molto rigorosi, in effetti, è un problema che poco ci riguarda. È un po’ come chiedersi quale sia il sesso degli angeli, come sa, molti anni fa era un problema molto sentito, oggi un po’ meno. Ma che Dio giochi ai dadi oppure no, richiede innanzitutto che ne esista uno e che quindi possa farlo.

 

- Intervento: Quella è un’affermazione che per logica non ha ragione di essere.

 

No, direbbe Wittgenstein che è un non senso, non significa niente, come affermare che questo orologio è la Madonna che sta piangendo, non ha nessuna portata, non è utilizzabile se non all’interno di un discorso religioso, dove invece è utilizzabilissimo.

 

- Intervento: Perché la religione esclude la logica e si appoggia quasi solamente sulla retorica.

 

Sì, diciamo che fa uso della logica particolare che è quello per altro più diffuso, cioè di una struttura che se riesce a raggiungere una conclusione in modo tale da essere creduta diventa vera. In fondo tutte le prove della dimostrazione dell’esistenza di Dio hanno cercato di fare questo, di provare logicamente qualche cosa che invece è arduo a provarsi. Lo si può fare, provare in modo inconfutabile l’esistenza di Dio, però anche se inconfutabile rimane negabile.

 

- Intervento: Stavo pensando alla grammatica…mi stavo chiedendo se atri linguaggi, stavo pensando ad altri tipi di lingue, potessero influire sul tipo di problema metafisico che uno si può porre e quindi se si potesse suddividere linguaggi rispetto alla potenza o comunque alla capacità di produzione di …..; però stavo riflettendo che è sempre attraverso questo linguaggio che mi pongo questo problema; mi stavo chiedendo se avesse senso chiedersi se esistono dei linguaggi più o meno…..

 

Diciamo che è un gioco che si può fare, non porta da nessuna parte ma si può fare.

 

- Intervento: Ma se nel corso di questi 2500 anni in cui l’uomo ha cercato di trovare una verità assoluta, avessimo trovato la verità, cosa sarebbe successo? Perché secondo me, ad un certo punto è come se non avessimo uno scopo, noi possiamo avere uno stimolo fino a che possiamo arrivare ad un punto superiore di quello in cui siamo; ma nel momento in cui si trovasse la verità assoluta, che potrebbe essere il poter affermare in modo inconfutabile che Dio esiste, non si perderebbe interesse nella cosa?

 

In questa sicuramente. Si potrebbe perdere la religiosità, se si verificasse per esempio, la verità che non riguarda l’esistenza di Dio necessariamente, ecco, allora si perderebbe la religiosità e miliardi di persone si sentirebbero orfane, potrebbe essere un problema…

 

- Intervento: Si potrebbe cercare un obiettivo diverso.

 

Si può anche mentire, mentire un po’ come voleva Platone, costruire una nobile menzogna; mentire sul fatto che sia possibile reperirla e che quindi un giorno gli umani la troveranno, perché no?, può funzionare, anzi, funziona benissimo.

 

 - Intervento: è uno stimolo in questo caso.

 

 Certo, si stimolano a continuare a credere, perché che credano è fondamentale per ciascuna istituzione, fondamentale per lo Stato per il Governo. Se cessassero di credere sarebbe un problema di proporzioni bibliche: provate a pensare 6 miliardi di persone che cessano di credere.

 

- Intervento: Quando per cessano di credere si intende cessano di credere in qualsiasi cosa.

 

 Sì, o se vuole dirla più propriamente, non hanno più bisogno di credere, sarebbe bizzarro quanto meno; come dire che tutto ciò che è pensato oggi cessa di essere pensabile, di essere credibile, cessa di avere un utilizzo. E se invece la trovassimo questa verità, definitiva, assoluta, innegabile, indubitabile, che ne direbbe? La accoglierebbe?

 

- Intervento: Secondo me il discorso è che comunque non può esistere una verità oggettiva, perché probabilmente per la questione della libera interpretazione cioè dubito che si possa trovare quella che sia la verità oggettiva per 6 miliardi di persone.

 

Sì, certo, occorrerebbe trovare un qualcosa di  fronte alla quale nessuno potrebbe obiettare alcunché, qualcosa di molto potente, una verità assoluta per tutti intesa come quello che necessariamente è e non può non essere.

 

- Intervento: Più che altro mi domandavo che per trovare una verità assoluta per tutti bisognerebbe che questa verità assoluta per tutti sia trovata solamente seguendo la logica, però io mi stavo domandando, ma se noi avessimo sempre e solo seguito la logica da 2500 anni a questa parte, intendendo che la logica deve prevedere solo le deduzioni e dovrebbe partire da delle premesse certe, allora mi domando, se si fosse seguita solo la logica senza la retorica, a che punto potremmo essere arrivati?

 

Al punto in cui siamo, come lei ha giustamente sottolineato, il problema sta nel reperire delle premesse perché è da lì che muove; e se le premesse vacillano, da lì sorgono tutti i problemi. Quindi, occorrono delle premesse che non siano negabili in nessun modo, da nessuno. A questa condizione è possibile costruire il discorso di cui si diceva, altrimenti le premesse rimangono opinabili, quindi si può sempre buttare giù tutto già dalle fondamenta. Questo è stato il problema fondamentale da sempre, la metafisica non è altro che una ricerca di queste premesse che risultino assolutamente fondate oltre che fondabili. Poi, negli ultimi anni ci si è accorti che era uno sforzo immane ma che non portava a nulla e si sono abbandonate, si è abbandonato quindi lo sforzo immenso di trovare queste premesse certe, accontentandosi di premesse qualunque. Però, la questione che vi pongo è questa: è possibile trovare premesse assolutamente indubitabili, innegabili, tali che chiunque al mondo, qualunque lingua parli, qualunque fede professi non possa negarla? Se la trovassimo che ne direbbe, sarebbe un male o un bene?

 

- Intervento: Secondo me sarebbe un bene, perché aiuterebbe a metterci in discussione, perché nel momento in cui si riuscisse a raggiungere una premessa che per tutti è impossibile negare, probabilmente questa stessa premessa sarebbe comunque in conflitto con altre linee di pensiero personali, che qualcuno se non tutti potrebbe rivedere.

 

Pensi, potremmo costruire la religione più potente che sia mai esistita, perché costruita su una premessa che risulta assolutamente innegabile, e quindi nessuno potrebbe confutarci.

 

- Intervento: Ma nessuno sarebbe costretto comunque a crederci

 

Sarebbe costretto dalla logica, che ha un potente potere costrittivo. Occorre trovare una struttura che sia necessaria in qualunque linguaggio, perché qualunque esso sia, hanno una struttura che si ripete e che è quella per cui diciamo che ciascuno di questi è un linguaggio anziché un’altra cosa.

 

 

 

 

LA RELIGIONE DEL LUOGO COMUNE[3][3]

Abbiamo detto in varie circostanze del luogo comune e del suo utilizzo, nella retorica soprattutto. In quella antica il luogo comune aveva una sua dignità come topos retorico, cioè il luogo retorico da cui andare a reperire tutte quelle cose che occorre dire per sostenere qualcosa, il luogo dove andare a prendere le cose più opportune a seconda delle circostanze. Che cos’ha a che fare il luogo comune con il discorso religioso? Intanto occorre che definiamo il discorso religioso: intendiamo con discorso religioso qualunque discorso che si fondi su un assioma particolare, la cui particolarità consiste nell’essere un atto di fede. Quali sono i discorsi che si fondano su un atto di fede? E, innanzitutto, che cos’è un atto di fede? L’atto di fede è l’attribuzione del proprio assenso incondizionato ad una tesi che non può essere provata. Ciascuna religione si fonda su questo, ma in che modo questo ci interessa rispetto al discorso che stiamo facendo?

Abbiamo considerato che non soltanto le cosiddette religioni hanno la prerogativa di muovere da un atto di fede ma moltissimi altri discorsi che apparentemente dovrebbero muovere da altri assiomi. Tuttavia, occorre considerare che nel fare un discorso, qualunque discorso, ciascuno necessariamente muove da delle premesse e da queste premesse inferisce altri elementi dai quali trae una conclusione. Un qualunque discorso funziona così o non funziona proprio. Il problema che molti incontrano e hanno incontrato è nello stabilire le premesse del discorso, dal momento che c’è una sorta di spada di Damocle che incombe, perché se le premesse sono false allora anche le conclusioni seguiranno a ruota, dunque si costruirà un discorso falso, mentre invece gli umani preferiscono fare discorsi che almeno sembrino veri. Un discorso viene fatto generalmente per essere creduto e pertanto occorre che sia vero, perché non è possibile credere vera una cosa che si sa essere falsa, non riesce per una questione grammaticale. E allora ciascuno costruisce un discorso in modo tale da giungere ad una conclusione che ritiene vera, da qui l’importanza delle premesse. Anche i discorsi religiosi hanno delle premesse che risultano verosimili, credibili, infatti sono creduti. Pare che la più parte degli abitanti del pianeta creda in qualche cosa, quindi paiono credibili. Voi sapete che, adesso parlo del cattolicesimo visto che è la religione più frequentata almeno in Italia, sono state costruite delle prove, quindi dei discorsi, e questi discorsi hanno delle premesse, solo che queste premesse non sono certe, sono fondate sul luogo comune e cioè ciò che è creduto per lo più, dai più. Intendo dire questo, che se i più credono che una certa cosa sia vera, allora è vera. Questo è il massimo grado di certezza che un qualunque discorso è in condizioni di fornirvi e cioè che siccome è creduto così allora è vero, allora è così, tutti credono così, quindi è così. Come vi dicevo non c’è nessun grado di maggiore certezza che si possa offrire da parte di un qualunque discorso che ascoltate. Potremmo dire anche di più e cioè che la premessa da cui muove ciascun discorso, non soltanto religioso, è necessariamente falsa, essendo la premessa necessariamente falsa, sarà necessariamente falsa anche la conclusione. Qualcuno potrà chiedersi perché la premessa di un qualunque discorso è necessariamente falsa. Qualunque discorso religioso, poi vedremo come, ciascun discorso è strutturato in questo modo. Un qualunque discorso che miri a stabilire qualcosa, cioè ad affermare qualcosa, in definitiva una proposizione, cioè una sequenza di significanti la cui conclusione è sottoponibile ad un criterio verofunzionale, è possibile affermare che è vero oppure che è falso. Una frase no, non è sottoponibile ad un criterio verofunzionale; per esempio, può risultare arduo stabilire se una frase musicale sia vera o falsa, ma una proposizione sì, anche perché è costruita appositamente. Dunque, perché qualunque discorso che voi facciate o che vi accada di ascoltare ha in sé una premessa che è necessariamente falsa? Perché un qualunque discorso muove da una supposizione e questa supposizione consiste nell’inserire all’interno della proposizione un elemento che afferma che almeno un elemento in ciò che si dice è fuori dalla parola, o più propriamente ha un referente fuori dalla parola. Se il discorso non accogliesse questo elemento, allora necessariamente qualunque elemento, e dunque qualunque conclusione, non potrebbe in nessun modo esser fuori dalla parola, pertanto essendo una costruzione della parola anche il suo referente è al pari una costruzione della parola, come dire a questo punto che nulla sarebbe fuori dalla parola, in nessun modo e per nessun motivo, con tutto ciò che questo implica ovviamente. Potete immaginare quali possano essere le implicazione di una simile affermazione come quella che afferma che “nulla è fuori dalla parola”, facendo il verso a Gorgia, che diceva “se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile e se fosse conoscibile non sarebbe trasmissibile”. Il che comporterebbe ancora l’affermare che qualunque cosa io faccia, pensi, dica, immagini, sogni, sarà comunque sempre e soltanto un atto di parola e nient’altro che questo. Questo ovviamente se e soltanto se risultasse che l’assioma su cui si costruisce un qualunque discorso tenesse conto che nulla è fuori dalla parola, ma visto che questo generalmente non avviene, allora i più non hanno torto a credere che esista qualcosa fuori dalla parola e cioè che non tutto sia parola. Questo è esattamente ciò che presuppone un qualunque discorso religioso che, muovendo da un atto di fede, necessariamente indica tra le sue premesse un qualche cosa che non può autogarantirsi e quindi per pensarsi vero deve pensare anche che una qualche altra cosa, dal di fuori, lo garantisca. Dio è da sempre la persona più indicata per fare questa operazione. Però, io ho affermato che qualunque discorso che muova da questo presupposto, e cioè che esista qualcosa fuori dalla parola, è necessariamente falso, quindi qualunque discorso. È un ragionamento molto semplice: supponiamo dunque che affermi che qualcosa è fuori dalla parola, allora come lo so? è una domanda legittima che talvolta può accadere di porsi; uno si chiede “come lo so?” anziché affidarsi ciecamente all’atto di fede che afferma “lo so perché è così”. Supponiamo che ci sia qualcuno che invece non è contento di questa risposta. “Come lo so?” è una domanda che quando si inizia a pensare occorre porsi prima di dire cose che non significano assolutamente niente. Dunque, che qualcosa è fuori dalla parola lo so o perché è la conclusione di un ragionamento oppure lo so per esperienza diretta. Se lo so per un ragionamento allora la conclusione di questo ragionamento sarà la conclusione di una serie di inferenze, ma queste inferenze appartengono ad una struttura nota ai più come linguaggio che funziona così: se questo allora quest’altro, ma se quest’altro allora quest’altro, e così via. E dunque, affermare che so che qualcosa è fuori dalla parola per ragionamento è falso. Supponiamo invece che lo sappia per esperienza, allora ho esperienza di qualcosa che, essendo fuori dalla parola, non è dicibile, per definizione. Questo qualcosa di non dicibile rinvia a qualcosa oppure no? Se rinvia a qualcosa è l’antecedente di un conseguente e cioè inserito in quella struttura nota come linguaggio; se non rinvia a nulla allora non rinvia neppure all’esperienza e pertanto affermare che so per esperienza che qualcosa è fuori dalla parola è necessariamente falso. Dunque, non mi resta che considerare, come dicevo, parafrasando Gorgia, che “nulla è fuori dalla parola” e cominciare a riflettere eventualmente sulle implicazione di una simile cosa. Questo ovviamente è l’effetto di una serie di inferenze molto semplici ma che conclude a una considerazione che è questa: o penso in questo modo, e cioè muovo il mio discorso, qualunque discorso, da questo assioma che afferma che nulla è fuori dalla parola o tutto ciò che dirò sarà sempre e inesorabilmente falso. Se volete dirla in termini ancora più drastici, o penso così o non penso, non penso, cioè giro a vuoto, giro in tondo intorno a cose che non hanno nessun senso. Possono avere un valore estetico, indubbiamente, ma altro è affermare qualcosa per il piacere di farlo, perché è bello, altro è considerare che ciò che dico è necessariamente vero e pertanto deve essere creduto: questa è una follia, forse la più antica ma sicuramente la più radicata. Allora, a questo punto la connessione tra il discorso religioso e il luogo comune può cominciare ad essere più chiara oltre che più semplice, tenendo conto che il luogo comune oggi non è altro che ciò che è per lo più creduto dai più, e ciascun discorso religioso si fonda sull’assioma che ha questa cogenza: il fatto che è creduto da molti. Ma vi dicevo all’inizio che non soltanto le cosiddette religioni, cioè quelle organizzazioni combinate in un certo modo, hanno questa caratteristica. Possiamo considerare quello che generalmente è inteso come l’opposto del discorso religioso, fideistico, vale a dire, il discorso scientifico. Vi ricordate di Aristotele e i suoi sillogismi, aveva immaginato un sillogismo che dovesse servire agli umani per costruire un pensiero che non fosse necessariamente un non senso, che non comportasse una costruzione che potesse ammettere come vera sia una cosa che il suo contrario. E allora, riflettendo bene sulla questione, aveva inventato quello che è noto come “sillogismo scientifico”, cioè quello deduttivo, che muove da una premessa necessaria. Il problema suo e di tutti quelli che lo hanno seguito si è posto immediatamente quando si è cercato o si è voluto stabilire quale fosse una premessa necessaria, perché semmai se ne fosse trovata una allora saremmo stati salvi perché, se la premessa è necessaria, anche tutto ciò che segue è necessario; in definitiva, avremmo trovato quella cosa che gli umani inseguono da tre migliaia di anni e cioè quella cosa nota come verità: una sorta di svelamento, di non nascondimento, come direbbe Heidegger. Dunque, il problema era questo, quale premessa risultasse necessaria. Quale? Quella che afferma che tutti gli animali sono mortali? No, come faccio a sapere che lo sono tutti? Posso eventualmente avere la certezza, semmai, per quelli passati, per quelli presenti no, perché sono vivi, e per quelli futuri? Se un simile ragionamento può soddisfare i più, i meno no, non sono soddisfatti perché non si accontentano di un’induzione come premessa generale, perché non prova assolutamente niente. Ho dei fagioli bianchi, lì c’è una borsa di fagioli bianchi, e allora vi affermo risolutamente che questi fagioli vengono da quella borsa. Perché? Così funziona l’induzione, e l’affermazione che afferma che tutti gli animali sono mortali ha la stessa struttura, quella dell’induzione. Ecco perché il problema connesso con il reperimento di premesse necessarie rimane una questione. E allora se non le troviamo non ci resta che l’atto di fede, il credo quia absurdum di Tertulliano, più è assurdo e più lo credo. Ma se io invece trovassi una premessa necessaria? Avrei allora risolto il problema degli ultimi tremila anni e cioè avrei costruito un discorso assolutamente inconfutabile e innegabile ma soprattutto avrei reperito un qualche cosa di solido su cui costruire un pensiero anziché costruirlo sul nulla come è sempre avvenuto. Costruzioni anche notevoli e in alcuni casi anche ben congegnate che poggiano sul nulla, assolutamente nulla. Dunque, la posta in gioco è di trovare un qualche cosa che ci consenta di non essere religiosi, e se lo trovassimo? Considerate allora una premessa di un discorso, abbiamo detto che occorre che sia necessaria e non negabile in nessun modo, quale premessa soddisfa questo criterio? Nessuna di quelle che sono state trovate negli ultimi tremila anni, assolutamente nessuna. Però è possibile considerare che forse ciò che risulta innegabile, cioè assolutamente necessario, è che ci sia un qualche cosa che costituisce la condizione perché io, per esempio, possa pormi queste questioni, possa domandarmi se esiste qualcosa di necessario oppure no. Che cosa è assolutamente necessario? Ciò che non può non essere, e cosa non può non essere se non ciò che vi consente di chiedervi se qualcosa può esserlo oppure no? Senza questa voi non potete domandarvi né questa né nessun altra cosa, né pensare nulla. Ora, questo elemento che risulta necessario e cioè che non può non essere, non è altro che quella struttura nota ai più come linguaggio; senza la quale gli umani non sarebbe tali perché non potrebbero dire di esserlo e pertanto non lo sarebbero. Non aveva torto Gorgia dicendo “nulla è”, noi aggiungiamo “fuori dalla parola”, facciamo questa modifica; se qualcosa fosse fuori dalla parola non sarebbe conoscibile: con che cosa lo sarebbe? E se anche fosse conoscibile, con che cosa la comunico? Questa cosa è necessario che sia? E se non fosse? Se non fosse non sarebbe nulla, assolutamente nulla, e gli umani, non che non esisterebbero più, ma non sarebbero mai esistiti. Ha la virtù di non essere negabile in nessun modo; in qualunque modo voi cerchiate di negare che il linguaggio è la condizione necessaria per qualunque cosa, lo farete attraverso il linguaggio, verbale o no è poco importante, sarà comunque una struttura organizzata, quella nota come linguaggio, quella inferenziale. Un’affermazione del genere non può essere negata in nessun modo, contrariamente a tutte quelle altre fatte negli ultimi tremila anni. Volete una definizione di verità che in nessun modo potrete mai confutare? “Nulla è fuori dalla parola”: provatevi a confutarla! Ora, siccome la verità per tradizione, definizione e necessità d’uso è definita come “ciò che necessariamente è”, questo che ho detto necessariamente è, e dunque è la verità, né più né meno. Non soltanto, ma abbiamo pensato che gli strumenti che possediamo potrebbero consentire di costruire la religione più potente che sia mai stata pensata perché sarebbe non confutabile. Tuttavia, rimarrebbe un piccolo dettaglio: sarebbe comunque negabile ma non confutabile, mentre quelle esistenti non ce la fanno ad essere inconfutabili, non sono sufficientemente potenti, nonostante ottimi pensatori ci abbiano lavorato su parecchio. Si tratta allora, date queste premesse, di porre delle condizioni, visto che abbiamo rilevato che è possibile pensare in termini non religiosi, possiamo cioè costruire delle proposizioni che non richiedano un atto di fede, non dovendo più fare omaggio a nessuna fede allora è possibile muoversi e le condizioni che abbiamo stabilite sono quelle, le uniche praticabili, le uniche possibili; non ce ne sono altre, le uniche possibili per pensare, essendo qualunque discorso che muova da qualunque altra premessa necessariamente falso. Ovviamente, può farsi un discorso falso, ne vengono fatti molti miliardi ogni secondo, però se vengo a sapere che il discorso è falso io cesso di crederci, perché non posso credere vera una cosa che so essere falsa, se non altro per una questione grammaticale. Questo ovviamente è la condizione per potere pensare in termini teoretici. È ovvio che tutto ciò che attiene alla retorica non è sottoponibile ad un criterio verofunzionale. Dicevo prima della frase musicale, ma anche una poesia non potete sottoporla ad un criterio verofunzionale e stabilire quali siano le possibilità che sia vera attribuendo alle sue variabili differenti criteri di verità. Non lo potete fare perché non ha questa esigenza, non ha l’esigenza di essere creduta vera ma ha un’esigenza estetica. Se ha esigenze educative allora cambia tutto, altrimenti no. è come un bel tramonto o qualunque altra cosa che vi appare bella, non vi chiedete se è vera o falsa. Vero o falso ha un’importanza fondamentale nella buona parte della vostra giornata ma non tutta; importa quando interviene, per esempio, una decisione da prendere o quando pensate. Quando pensate raggiungete una conclusione e quando la raggiungete cercate di raggiungerla in modo tale che sia vera e non che sia falsa. Perché? Una persona potrebbe accontentarsi di una conclusione falsissima ma non lo fa; provate a chiedervi per quale motivo, troverete immediatamente che ciascun pensiero ha sempre come sfondo questa antica questione della verità. Abbiamo detto in varie circostanze come anche tutte le più moderne dottrine che hanno cercato di eliminarla poi, di fatto, la mantengono necessariamente come sfondo. Fa sempre da sfondo questa nozione così bizzarra nota come verità: vero o falso. Aristotele non aveva tutti i torti nell’affermare il suo principio di non contraddizione: una cosa o è vera o è falsa, perché se così non fosse il linguaggio si dissolverebbe. Infatti, se io contraddico ciò che affermo, per poterlo fare occorre che qualcosa che affermo sia fermo e cioè sia identico a sé, una sorta di procedura necessaria per il funzionamento di tutta la struttura; se un elemento non fosse identico a sé non potrei costruirne un altro differente: da che se no sarebbe differente? Ci sono alcuni principi che non sono né morali né ontologici, sono semplicemente grammaticali, sono quelli attraverso cui il linguaggio funziona e senza i quali cessa di funzionare. Per questo motivo sono fondamentali, anche uno che costruisce una poesia si trova in questa struttura dalla quale non può uscire. Vi dicevo della retorica. La retorica costruisce qualunque discorso utilizzando delle procedure, utilizzando una struttura che è quella del linguaggio. Affermare la legge di gravità è una proposizione retorica, qualunque legge scientifica è una proposizione retorica, cioè non necessaria se ci atteniamo al criterio di necessarietà che ho indicato e cioè come “ciò che non può non essere”. Tutto ciò che il discorso scientifico afferma può non essere benissimo, cioè potrebbe essere altrimenti, ciò che io ho affermato no, in nessun modo. Abbiamo risolto il problema che da tremila anni affligge gli umani.

 

 - Intervento: Vorrei confessare una mia profonda perplessità che riguarda una sua tesi che mi pare essere centrale. Lei sostiene che non vi possa essere alcuna certezza, alcuna affermazione che non possa essere negata, mi chiedo se questo non ci porti a delle conseguenza estremamente pericolose. Mi chiedo quale sia il rapporto di tale approccio con la storia. Portando a titolo esemplificativo ed alle estreme conseguenze questo approccio, questa affermazione ci porta a negare ad esempio il fatto che ci sia stato l’olocausto, che ci siano stati i campi di concentramento, cioè questo approccio ci riporta a negare qualsiasi evidenza storica?

 

Non esattamente, però è vero che io ho affermato inizialmente che nei vari discorsi non c’è nessuna possibilità di stabilire nessuna certezza, però poi ho affermato invece, con assoluta certezza, l’esistenza di un’assoluta certezza e cioè, per esempio, mi riferivo alla proposizione che afferma che “nulla è fuori dalla parola”, questa l’ho affermata con assoluta certezza. Perché con assoluta certezza? Perché non può non essere, in nessun modo. Vede, rispetto a qualunque altra proposizione, comprese quelle storiche, scientifiche, è possibile fare un esercizio, tra l’altro anche interessante e che anche lei può fare e cioè prima prova in modo assolutamente indubitabile che la sua tesi è vera, dopodiché prova in modo assolutamente indubitabile che la sua tesi è falsa. È un esercizio che si può fare e non è neanche difficile. Ma l’effetto che questo comporta è che di fronte a moltissime proposizioni ci si pone in un modo differente, ci si trova non più presi nella necessità di compiere degli atti di fede. Questo non significa che non si accolgano dei giochi, dei giochi linguistici. Affermare che l’Olocausto è esistito e che sono morti sei milioni di ebrei e che Stalin ne ha ammazzati altri venti e che tutt’oggi si continui l’opera, è vero all’interno di un gioco linguistico che mi permette di affermare che …, sono due giochi esattamente veri allo stesso modo. Se accetto queste regole allora è vero, se non le accetto allora no, e nessuno al mondo potrà persuadermi, perché non ha argomentazioni, perché non c’è nulla di necessario, nell’accezione che indicavo prima, che possa dirmi. Necessario, quindi di costrittivo. Ciò che ho affermato è costrittivo perché è la condizione per potere affermare o negare qualunque cosa e fuori da questo modo di pensare potrei affermare che non si pensa, si gira in tondo ad un luogo comune, a qualcosa che è fondato sul nulla e che è negabile da chiunque e in qualunque momento e per qualunque motivo, altrettanto legittimamente di quanto sia affermabile. Ho risposto alla sua domanda?

 

 - Intervento: Sì, ma continuano comunque a permanere queste perplessità.

 

 Come fanno a permanere? Mi spieghi.

 

 - Intervento: Il problema è che mi chiedo in quale sfera si possa mettere in discussione il fatto storico, se rinunciamo all’univocità di un qualsiasi fatto storico, ad esempio l'Olocausto. Io penso di aver colto quello che vuole dire; lei dice che se noi definissimo l’Olocausto secondo un’altra regola può essere una marmellata, potremmo negarla, allora così non neghiamo la realtà del linguaggio?

 

Supponiamo che io neghi che sia esistito l’Olocausto, lei mi dice che c’è stato, io dico di no. Però, badi bene che il gioco che iniziamo a fare è un gioco assolutamente rigoroso, di un rigore estremo, altrimenti va bene qualunque cosa. Dunque, io dico che non c’è stato, lei come può persuadermi di una cosa del genere? Mi porta testimoni? E se io non ci credo? Come può costringermi logicamente a credere, a pensare una cosa del genere se io continuo a negarlo, magari dicendo che i testimoni sono stati pagati da lei?

 

- Intervento: Forse una visita ai campi di concentramento le farebbe cambiare idea.

 

Posso visitare anche i campi di concentramento costruiti a Hollywood, si può costruire qualunque cosa in dieci minuti e smantellarla in molto meno, e allora? Intendiamoci, il discorso che stavo facendo è prettamente logico e cioè intendevo porre questioni che costringono logicamente, poi riguardo alle credenze di ciascuno io posso fare molto poco. Ma ciò che a me interessa è porre le condizioni perché sia possibile pensare in un modo rigoroso. Mi è stato detto che l’olocausto c’è stato, non lo so, posso crederci oppure no e il fatto che ci creda magari è più probabile, ma questo non significa affatto che sia certo. Vede, quando si pensa in termini logici, tutto ciò che non è necessario non serve a niente, è opinabile, è inutile per costruire un pensiero, è utile per costruire le religioni, un sacco di religioni e di sette nascono anche su questo. Qual è l’argomentazione più comune: “Ma come, di fronte tutta la bellezza dell’universo tutto questo può essere nato per caso? No, ci deve essere stato qualcuno che lo ha inventato”. Perché? è un’idea come un’altra, posso dire che l’ho costruito io e posso anche provarlo; qualcuno può provare il contrario, perché no. Laddove non si muova da premesse che risultino necessarie, è possibile indifferentemente affermare e negare qualunque cosa con altrettanta legittimità. Questo, seguendo il suo discorso, è altamente pericoloso; perché io posso provare non solo che l’olocausto c’è stato ma che la razza ariana è la razza superiore, e posso provarlo in modo inconfutabile e le persone che ci hanno creduto non sono sicuramente di meno, o che i comunisti sono un pericolo, o che gli africani sono inferiori: lei crede che non lo possa provare, questo come il suo contrario? Posso farlo benissimo, perché muovendo da premesse assolutamente gratuite, posso concludere qualunque cosa e il suo contrario, è sufficiente essere abbastanza abili e si può fare, come molti fanno e stanno facendo. Questa è un’operazione retorica: insinuare che qualcuno dubita dell’esistenza dell’olocausto; no, l’olocausto è esistito e noi affermiamo che è esistito perché noi siamo i portatori della verità e a fianco affermiamo anche quest’altra cosa, e se affermiamo che è vera l’una allora è vera anche l’altra. Spesso funziona così, i retori lo sanno molto bene come si fa a persuadére chiunque di qualunque cosa. E questo è altamente pericoloso.

 

 - Intervento: Ma, mi scusi, forse parlare di credere, è questo che è fuorviante, perché non è che noi ci crediamo, lo sappiamo: sono due concetti diversi.

 

Infatti è quello che stavo affermando io; io non credo che gli africani siano una razza inferiore, io lo so? Va meglio così?

 

 - Intervento: No, in un caso va bene ma nell’altro no, perché quello degli africani è un suo pensiero, è soggettivo, mentre l’altro è un dato di fatto. Anche prima si è affidato alla religione, dove c’è una credenza.

 

E se dicessi: io non credo che sia esistito l’olocausto, io so che non è mai esistito, come la mettiamo? Vede, ci sono questioni che possono essere affermate e che sono necessarie e altre che non lo sono; affermare che l’olocausto è esistito, affermare che io esisto non sono affermazioni necessarie.

 

 - Intervento: Ma lei parte da certe premesse e le fa diventare come degli assiomi delle cose assolute; prima ha detto che non c’è nessuna cosa al di fuori della parola: chi lo dice questo, lo dice solo lei, non mi convince proprio.

 

 Bene, allora supponiamo che qualcosa sia fuori dalla parola.

 

 - Intervento: Il pensiero è fuori dalla parola.

 

E con che cosa pensa, come, attraverso che cosa, con quali strumenti, il suo pensiero come avviene? Cioè lei considera un elemento, da questo elemento passa ad un altro e poi ad un altro.

 

 - Intervento: Ci sono dei bonzi che non parlano per decenni, non hanno bisogno della parola; non è vero che fuori dalla parola non c’è nulla, lei continua solamente a fare degli assiomi e basta.

 

No, io non faccio solo assiomi, io posso provare che è così. Supponiamo che qualcosa sia fuori dalla parola. Se qualcosa è fuori dalla parola come dice lei, come lo sa? Lo sa attraverso un ragionamento, cioè qualcosa a cui lei è giunto, una sua riflessione oppure per esperienza diretta.

 

 - Intervento: Ci sono anche i simboli, i segni.

 

Ma i segni sono qualche cosa per via di che? Per via naturale o perché lei li traduce in qualche modo e quindi afferma che sono segni, perché li vede in un certo modo, sa che una certa cosa è un segno e quindi afferma che è un segno; è così o in altro modo? è così, bene, quindi anche il segno insieme con la proposizione che afferma che qualcosa è fuori dalla parola la possiamo affermare o perché è un ragionamento a cui lei è giunto oppure per esperienza diretta, in qualche modo lo ha saputo. Quale delle due preferisce, ne preferisce uno o nessuno? Con parola intendo non soltanto la verbalizzazione di qualche cosa ma l’atto di parola cioè qualunque cosa che io mi trovi a pensare, in quanto è strutturato in un certo modo cioè è strutturato qualunque pensiero in un modo per cui c’è un antecedente, ci sono dei passaggi e c’è un conseguente. Quando io giungo ad una conclusione, qualunque essa sia come ad esempio quella per stabilire che una certa cosa è un segno, occorre che compia tutta una serie di operazioni e cioè: vedo una certa cosa, so che quella cosa è fatta in un certo modo, so che le cose fatte in un certo modo sono segni e allora affermo che è un segno, cioè dico: “questa cosa è così allora è un segno”. Ecco, tutto questo pensiero è all’interno della parola, del linguaggio. Ma allora come so che qualcosa è fuori dalla parola, per ragionamento o per esperienza? Ciò che è possibile provare in modo assolutamente certo è ciò che in nessun modo può essere negato; logicamente lo posso fare benissimo e non c’è nessuna cosa che logicamente possa costringermi all’assenso, a dire “sì è così”, perché io posso sempre negarla, ma non soltanto perché posso costruire delle proposizioni che dimostrano esattamente il contrario e che sono fortemente credibili, perché costruite per essere tali. Mentre io ho affermato qualcosa che in nessun modo può essere negato, né da voi né da nessun altro, perché se lo fate utilizzate per farlo esattamente ciò stesso che dite di negare: per questo non lo potete fare. è chiaro che occorre un certo esercizio logico e retorico per potere divertirsi con questi aspetti, e cioè portare il pensiero alle estreme conseguenze, là fin dove può arrivare e oltre il quale punto non può andare. Possiamo dirla così: la proposizione che afferma che “nulla è fuori dalla parola” è una proposizione che non può essere negata perché in qualunque modo io cerchi di farlo dovrò utilizzare comunque esattamente ciò stesso che sto affermando che non esiste, e questo logicamente non si fa.

 

- Intervento: La mia domanda è questa: nulla esiste fuori dalla parola, e mi riallaccio a un discorso accennato la volta scorsa, dipende sempre dai linguaggi che si usano?

 

Se le proponessi questa definizione: che il linguaggio è quella struttura che mi consente di chiedermi che cos’è, per esempio? È una definizione la più ampia possibile, è la struttura che mi consente di domandarmi questo come qualunque altra cosa: quindi accogliamo questa provvisoriamente come definizione.

 

- Intervento: Ma se io provo dolore, anche se dentro di me posso esprimere diverse proposizioni, di per sé nessuna di quelle proposizioni è necessaria; io il dolore lo percepisco, come posso percepire qualunque altro stato d’animo senza doverci riflettere sopra , è qualcosa che può essere spontanea, però non essendo linguaggio, allora a quel

punto non dovrebbe esistere.

 

Vediamo l’emozione o la paura, il dolore, qualunque cosa. Supponiamo che lei sia fuori dalla parola, non ha accesso, non esiste; già a questo punto lei ha risolto il problema; ma andiamo più a fondo della questione. Lei parla del dolore, della gioia o di qualunque altra cosa; quando parla di queste cose lei attribuisce a queste sensazioni qualche cosa cioè il dolore per lei è un qualche cosa, non è nulla. Ma come lei ha attribuito a questo significante gioia, emozione, una serie di cose; tutta questa serie di cose che le danno l’idea immediata del suo dolore che le fanno capire che è dolore e non gioia, perché lei non si sbaglia a riconoscere le due cose, cioè lei sa quello che sta provando, e lo sta provando perché questi significanti sono inseriti in una combinatoria, in una catena linguistica: se non lo fossero la parla dolore non significherebbe assolutamente nulla, però lei continuerebbe a dire che prova dolore; e no, prova che cosa? Dà un altro nome, cambia nome e tutte le volte che prova quella “parola” prova quella sensazione. Voglio dire questo, ed è l’obiezione che generalmente viene fatta: ma gli animali cosa fanno? C’è un problema rispetto agli animali ed è che qualunque cosa noi diciamo degli animali, gliela attribuiamo noi: viene il sospetto che una cosa del genere non sia del tutto marginale, visto che qualunque cosa è sempre una nostra attribuzione, non ce l’hanno detto; io posso dire degli animali qualunque cosa, ma lo dico io, non loro. Per quanto riguarda i vari linguaggi, più che linguaggi io a questo punto intenderei la struttura non un linguaggio; cioè posta la definizione così come l’abbiamo data come la condizione perché io possa chiedermi che cos’è il linguaggio. A quali condizioni posso chiedermi che cos’è il linguaggio? Che ci sia una struttura che me lo consente senza la quale non posso fare niente; né chiedermi questo, né qualunque altra cosa, né se provo dolore, né se non lo provo e pertanto: fuori dalla parola il dolore non esiste. Non soltanto il dolore ma neanche l’esistenza esiste fuori dalla parola, perché lei può divertirsi a riflettere anche su questo: l’esistenza esiste di per sé o per altro? Se esiste di per sé, come? Se esiste per altro, chi è che la fa esistere? Il linguaggio perché la dice, allora può parlare di esistenza e dire che una cosa esiste, ma vi dirò ancora di più. Un giorno, supponiamo di fare un gioco di fantascienza, dicono i nostri amici astronomi, fisici, che un giorno tutto il sistema solare si schianterà contro la stella Vega, anzi siamo in rotta di collisione ad una velocità iperbolica entro qualche milione di anni; a quel punto ci sarà la collisione, l’impatto: da quel momento tutto si risolverà in un botto. Da quel momento, tutto ciò che è dell’umanità, della Terra con le loro storie, vicende, etc., non è che non esisterà più ma non sarà mai esistito che è molto diverso: perché qualcosa esista occorre che ci sia qualcuno che lo dica che esiste altrimenti non avrete nulla che vi consenta di affermare che esiste in nessun modo e soprattutto per nessun motivo.

 

 - Intervento: Volevo tornare alla supposizione che qualcosa fosse fuori dalla parola, ma questa supposizione è comunque un atto linguistico, questo qualche cosa è comunque un soggetto di una proposizione, per cui questo qualche cosa per poter essere supposto deve essere già all’interno di una combinatoria linguistica, quindi una proposizione che suppone che un qualcosa sia fuori dalla parola è contraddittoria?

 

Necessariamente, non c’è via d’uscita, in nessun modo, da qualunque parte la si consideri, per quanto vi sforziate. L’errore che fate di continuo consiste nel supporre che i discorsi che fate siano necessariamente veri, che affermino qualcosa che è così, mentre potreste con gli strumenti che avete provare esattamente il contrario. Tutto è una costruzione, anche tutto ciò che vi ho detto è una costruzione, cioè sono affermazioni retoriche, confutabili alcune, negabili alcune altre, alcune non negabili né confutabili, quelle che vi ho indicate come tali. Tutto ciò che ho fatto questa sera è soltanto indicare che i discorsi che vengono fatti, tutti i discorsi, tranne alcune proposizioni che vi ho affermato che non sono negabili, tutti gli altri sono negabili. Questo non vuol dire che non siano piacevoli, interessanti, ho soltanto detto che sono negabili, confutabili, non sono necessariamente veri, sono veri all’interno di un gioco linguistico.

 

 - Intervento: Lei prima affermava che gli animali esistono in quanto noi ne parliamo, e così?

 

Sì, è esattamente così. Supponiamo che nessuno potesse mai dire che esistono gli animali, allora che cosa esisterebbe, chi esisterebbe se nessuno lo può fare, se nessuno lo può dire? E quindi, affermare che esistono è assolutamente improprio; possiamo dire che esistono, possiamo dire che esiste qualunque cosa e il suo contrario. Questa è una questione antica, per esempio ad un certo punto gli umani hanno cominciato a considerare che l’esperienza fosse più importante, più attendibile delle deduzione logica. Come sapete, per i Greci l’esperienza era considerata spregevolmente, soltanto il ragionamento logico aveva dignità di giungere alla conclusione di qualche interesse, l’esperienza nessuna; poi, con Bacone e altri si è cominciato a pensare che l’esperienza avesse un fondamento. Il problema è che in nessuno dei due casi è possibile giungere ad affermazioni necessarie: posso affermare che gli animali esistono, posso affermare che non esistono, ma tutto questo non significa assolutamente niente, nel senso che non è necessario, è negabile, è confutabile, è un’operazione retorica, è una poesia. Dire che gli animali esistono, dire che la forza di gravità esiste, che il sistema solare viaggia a velocità folle verso una catastrofe, è comunque una poesia, un’affermazione retorica, come dire che è un bellissimo tramonto: ha la stessa struttura e soprattutto la stessa validità.

 

 - Intervento: Come spiega il fatto che siamo andati sulla Luna?

 

 Ci sono taluni che affermano che questo viaggio non è mai avvenuto e che è stato costruito negli studi cinematografici, però non c’è la certezza, così non c’è la certezza che Kennedy sia stato ucciso da …..

 

- Intervento : Però c’è la certezza che è stato ucciso.

 

Certo, c’è la certezza che è stato ucciso, all’interno di un gioco linguistico fatto in un certo modo seguito dai più, allo stesso modo in cui c’è la certezza che sia esistito l’olocausto.

 

 - Intervento: In quale modo si può uscire da questi giochi linguistici?

 

No, non è possibile uscire dai giochi linguistici, è possibile accorgersi che lo sono, e questo cambia molto. Non è possibile non fare dei giochi linguistici perché il linguaggio per funzionare necessita di una struttura che potremmo indicare come una specie hardware che lo fa girare e poi un software che è tutto ciò che questa struttura costruisce: emozioni, affermazioni, negazioni, affermazioni, rabbie, palpitazioni. Sono tutti giochi linguistici che hanno delle regole come tutti i giochi in quanto un gioco senza regole cessa di essere tale e allora la più parte di giochi linguistici utilizzati dai più prevedono tutta una serie di cose. Fuori da un certo gioco con certe regole, tutto quello che dico non significa assolutamente nulla. Occorrono delle regole per fare funzionare il tutto, senza quelle regole non funziona nulla.

 

 - Intervento: Prima ha detto che tutte le religioni muovono da premesse che sono confutabili a meno che ce ne sia una fortissima che non possa essere confutata. Come si pone un ateo davanti a questa situazione? Un ateo ci pensa a confutare o non confuta e decisamente dice che non crede a nulla. C’è ateo e ateo o c’è solo un tipo di ateo?

 

Certo, io ho generalizzato la questione del discorso religioso come un qualunque discorso che muova da un atto di fede quindi non soltanto i discorsi che vengono svolti all’interno di istituzioni di un certo tipo note come religioni. La più parte delle istituzioni, in qualunque stato, funziona in modo religioso e ciascun cittadino viene addestrato a credere, a credere in qualunque cosa, più crede e più lo stato funziona. Se dovessero cessare di credere, sarebbe un problema perché molte delle cose che vengono dette, non essendo più credibili, creerebbero molti problemi.

Quindi due cose vi ho dette stasera: una che non c’è uscita dal linguaggio e l’altra che qualunque cosa si dica, questa qualunque cosa è retta da regole di quel gioco che si sta facendo: giochi diversi, regole diverse.

 

 

LA PERSUASIONE E LA RETORICA[4][4]

La retorica ha almeno in parte questa funzione: persuadére. Che cosa persuade soprattutto? Ciascuno può, riflettendo su di sé, verificare di che cosa sia assolutamente persuaso, se c’è una cosa di cui è assolutamente persuaso allora in questo caso l’operazione retorica che ha consentito questa persuasione è perfettamente riuscita. Non è che riesca sempre, però in alcuni casi riesce perfettamente, soprattutto se ci sono degli elementi che affiancano tale persuasione, per esempio il fatto che tutti pensino in un certo modo e che si sia stati addestrati fin da piccoli a pensare in un certo modo. Sono elementi fondamentali alla persuasione, come direbbero alcuni, di massa. Come ciascuno di voi sa, persuadére le masse è fondamentale, se non sono persuase diventa difficile governarle e quindi devono essere persuase di una serie di cose. Uno degli elementi fondamentali su cui si appunta la persuasione, non da oggi sicuramente ma da moltissimo tempo, è per esempio il fatto che sia dia una realtà. La realtà è un elemento che persuade tutti, la realtà come la percezione, soprattutto quella visiva, “ho visto e quindi è così”, ma è soprattutto l’esistenza della realtà uno degli elementi cardine su cui si fonda tutto il pensiero occidentale ma non soltanto, e cioè la necessità che debba esisterne una. La volta scorsa abbiamo detto della verità, di come gli umani da sempre, almeno dagli ultimi tremila anni, si siano adoperati per stabilire con assoluta certezza che cosa sia la verità. Non ci sono riusciti perché sono partiti male mentre, come abbiamo mostrato la volta scorsa, è possibile fornire una nozione di verità assolutamente certa e innegabile. Poi, ciascuno può utilizzarla come preferisce, e cioè una nozione di verità che non può essere confutata, in altri termini ancora, necessariamente la verità è quello e nient’altro. Fatto questo, cioè risolto questo problema, passiamo alla questione della realtà visto che, come dicevo, è uno degli elementi fondamentali su cui poggia tutta la persuasione che è necessaria per esempio per il mantenimento dello stato o di qualunque altra cosa che funzioni allo stesso modo. La realtà, la realtà delle cose, la realtà dei fatti, è una sorta di artificio retorico, artificio retorico che ha come condizione un altro elemento persuasivo. Perché possa credersi alla realtà, alla sua necessità, occorre che almeno un elemento sia considerato fuori dalla parola, fuori dal linguaggio, solo a questa condizione è possibile insinuare l’idea che ne esista una o che debba esisterne una, quindi la prima cosa da farsi per persuadére è stabilire che non tutto è nel linguaggio. Se si riesce a stabilire questo tutto il resto viene da sé, compresa la religione ovviamente, dio e tutto il resto. La nozione di realtà è molto antica ed è qualcosa che serve laddove si sia abbandonato il pensiero che qualunque cosa necessariamente è nella parola per cui occorre un elemento esterno a garantire il tutto. La realtà ha questa funzione, poi si è aggiunto dio, se ne sono aggiunte altre di cose, ma la realtà in prima istanza. La realtà è considerata qualcosa di immutabile, che necessariamente deve darsi; nella vulgata sarebbe ciò che necessariamente è quindi in definitiva la verità, che è poi un altro nome per indicarla. La realtà, dunque, come l’elemento necessario per mantenere in piedi tutta una costruzione e la realtà, come dicevo, è rappresentata da ciò che è necessariamente, cioè dal come stanno le cose. Poi, che sia una cosa, come talvolta suole dirsi, relativa, soggettiva, questo non ha nessuna importanza, così come pensare che la verità sia soggettiva, relativa, ecc., non cambia di una virgola, perché l’essenziale è che ci sia, che, come la verità, se ne dia una che necessariamente sia uguale per tutti se no perde il valore della sua connotazione. Come si fa a persuadére che la realtà necessariamente esiste? Supponiamo che ci si trovi di fronte ad un uditorio che invece nega questo fatto, allora si utilizzano vari sistemi e sono quelli che vengono utilizzati in buona parte per addestrare i bambini grosso modo, e cioè mostrando un qualche cosa gli si dice che questo è quello. Sistema molto semplice il quale viene creduto soprattutto perché tutti coloro che lo circondano pensano esattamente la stessa cosa e questo è uno degli elementi più potenti nella retorica per persuadére qualcuno: il fatto che tutti siano persuasi della stessa cosa, “se tutti pensano così allora è così”. La nozione di realtà, così come è pensata generalmente, ha una struttura che, come avveniva per la nozione di verità, è piuttosto terroristica. Come dire: la realtà è questa, o si accoglie questo oppure si è nell’errore o si è in mala fede a seconda dei casi, in entrambi i casi la persona che non riconosce una cosa del genere deve essere accudita. Vi parlo della realtà a proposito della persuasione perché è l’elemento che persuade quasi tutti. Difficilmente troverete qualcuno che immagina che la realtà sia soltanto un significante e nient’altro, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, e cioè il fatto che non sia altro che un atto linguistico che come referente ha un altro atto linguistico e nient’altro, in questo modo perde il carattere costrittivo e terroristico. La più parte delle persone con cui avete a che fare immagina invece che la realtà ci sia, poi se eventualmente richiesto di spiegare che cosa esattamente sia può anche trovarsi in difficoltà e spiegare la realtà con una serie di sinonimi. Potrebbe dire che è tutto ciò che cade sotto i sensi, però anche questa definizione presta il fianco ad alcune obiezioni. In linea di massima ciò che è ritenuto realtà è ciò che i più pensano che sia, perché se la realtà non fosse più ciò che necessariamente è perderebbe buona parte della sua capacità di persuadére. Supponete che io immagini o indichi con “realtà” un significante il cui senso non è altro che una regola di un gioco particolare e cioè se io parlo di realtà delle cose, per esempio se affermo “ma in realtà non sembra così” allora questo significante realtà assume una connotazione particolare, perché non significa nulla al di fuori della catena linguistica del discorso che sto facendo, non ha una sua esistenza fuori dal discorso in cui io lo situo e fuori dal senso che gli si attribuisce di volta in volta. Questo potrebbe rendere le cose più semplici per un verso e più complesse per un altro. Più semplici perché, tutto sommato, ciascuno saprebbe che parlando di realtà sto usando un modo di dire e nulla più di questo, che non sto affermando nessuna cosa necessaria, sto affermano in ultima analisi unicamente qualcosa di estetico, cioè un “a me piace che sia così”, e quindi sostituire la proposizione che afferma che la realtà è questa con un’altra che afferma invece che a me piace che sia così, o pensare così e allora in effetti non c’è nessuna obiezione che possa farsi. Che cosa c’è di necessario in questa nozione di realtà, che cosa necessariamente è? Nulla, assolutamente nulla, qualunque cosa si attribuisca a questo significante è negabile, cioè è possibile costruire una proposizione che lo neghi o che addirittura provi il contrario, se si vuole provarne la sua esistenza. Eppure è un elemento fondamentale a cui ciascuno si aggrappa continuamente per un riferimento, per potere stabilire come stanno le cose; tuttavia, non è necessario, può essere utile come sono utili una infinità di altre cose e qui occorre forse dire qualcosa in più intorno ai giochi linguistici. Di cosa si tratta in un gioco linguistico? Di una combinatoria di elementi linguistici. Questi elementi si combinano in un modo che non è casuale in quanto si attiene a delle regole. Sapete che per giocare un qualunque gioco occorrono delle regole, senza regole non si può giocare, provate a giocare a poker, senza regole sarebbe difficilissimo. Una regola del gioco non è altro che un insieme di informazioni che vi dicono quali mosse all’interno di quel gioco sono consentite e quali no, una regola fa questo: vieta certe mosse. Mi vieta, se per esempio gioco a poker e ho due sette, di prendere tutto se l’altro ha quattro assi, me lo proibisce, anche l’altro tizio me lo proibirà, ma in ogni caso c’è questa regola che me lo vieta. Parlando di realtà io faccio un gioco, mi trovo all’interno di un gioco dove questo significante realtà si attiene a certe regole, per esempio può indicare il mondo che mi circonda, tutto ciò che mi circonda. È soltanto la regola di un gioco, per cui se io faccio questo gioco allora è necessario che faccia questo, se no no. Dicendo che la realtà non è nient’altro che un significante possiamo sbarazzare questo elemento di tutto ciò che gli è stato appiccicato, tutto ciò che di costrittivo, di terroristico, viene utilizzato insieme con questo significante. Immaginare o sostenere che la realtà è qualcosa fuori dalla parola è un discorso che è necessariamente falso; muovere da una posizione del genere comporta costruire tutti discorsi tutti necessariamente falsi, non che per questo non siano utilizzabili, sono utilizzabili come la più parte dei discorsi falsi, non sono utilizzabili se ci si aspetta che questo discorso sia vero, allora non lo sono più, ma fino a quel punto tutto funziona regolarmente. Posso costruire moltissimi discorsi che so essere assolutamente falsi e utilizzarli in vario modo. Come dicevo, l’unico intoppo sorge laddove ho la necessità, per esempio teorica, di costruirne uno vero, uno che sia necessariamente vero, con necessariamente vero intendo che non possa essere altrimenti, non possa non essere che in quel modo, allora tutta questa serie di discorsi mi è assolutamente inutile, perché risultano falsi e cioè negabili. Tutti i discorsi che vengono fatti in qualunque posto non sono altro che giochi linguistici, i quali sono veri all’interno delle regole che stanno eseguendo, esattamente così come è vero che se io ho quattro assi vinco quello che ha due sette, il criterio di verità è esattamente lo stesso, e cioè attenendomi a delle regole, seguendo queste regole, muovo in un certo modo, nient’altro che questo. Certo, a questo punto non sarebbe nemmeno possibile affermare che le regole del poker siano vere o siano false, non avrebbe nessun senso, sono così e tanto basta, la stessa questione può applicarsi anche ai giochi linguistici. C’è l’eventualità che non abbia nessun senso chiedersi se sono veri o se sono falsi a meno che non pretendano di imporsi come veri, allora sì, allora il discorso cambia. Diversamente, non c’è nessuna utilità, che cerchino di imporsi come veri oppure siano creduti veri, cioè fuori dalle regole del gioco che li rende tali. Se io gioco a poker è chiaro che implicitamente ne accolgo e ne accetto le regole, se no non potrei giocare, sapendo perfettamente che fuori da questo gioco che sto facendo l’affermare che quattro re battono due sette non significa assolutamente niente. Ciascun discorso che voi fate ha esattamente la stessa struttura, cioè fuori dalle regole del gioco in cui vi trovate non significa assolutamente niente; non potrebbe nemmeno, né può di fatto, essere sottoposto a un criterio verofunzionale, cioè non potete sapere se è vero o falso quello che dite e la domanda che vi fate non ha nessun senso. Chiedersi se un discorso è vero o falso non è questione semplice dal momento che comporta che ciò che è vero occorre che lo sia necessariamente e cioè che non possa essere provato falso; per dirla con Popper, sarebbe un enunciato non scientifico, cioè non sarebbe possibile costruire nessuna proposizione tale che lo provi essere falso. Ora, non è difficile costruire una proposizione non scientifica, che escluda cioè l’eventualità che possa costruirsene una che lo falsifichi. Chiaramente, a quel punto vi trovate di fronte ad una nozione di verità che in nessun modo potete eliminare. Questo può essere utile laddove ci si ponga come obiettivo una elaborazione teorica altrimenti non ha alcun interesse. Con elaborazione teorica intendo dire per esempio incominciare a pensare in termini precisi o cominciare a pensare tout court: uno incomincia a pensare e si chiede da dove incominciare e cioè quale assiomi accogliere prima di muovere il primo passo, perché se uno muove da una sciocchezza c’è l’eventualità che ciò che segue sia qualcosa di simile e dunque cercherà un elemento il più sicuro possibile. Possiamo fornirne uno che non soltanto è sicuro ma è necessario che sia, ma una cosa del genere, a proposito di persuasione, non persuade, può convincere e mi rifaccio qui alla distinzione che faceva Perelman tra convinzione e persuasione. La convinzione è l’accogliere una proposizione che non si riesce a negare in nessun modo, allora convince dice Perelman, la persuasione invece è qualcosa che punta al cuore, non convince ma persuade, infatti uno può essere convinto ma non persuaso come in questo caso o come nel caso di un qualsiasi discorso religioso: può essere persuaso ma non convinto. Il “credo quia absurdum” di Tertulliano è un caso limite di persuasione senza convinzione, ma tornando alla questione da cui siamo partiti e cioè quella della persuasione, occorre dire che ciò che persuade non ha nulla a che fare con qualcosa di logico, qualcuno potrebbe obiettare che la logica tutto sommato non ha una grande utilità, e in effetti appare così, che non abbia nessuna utilità salvo per quei quattro o cinque che se ne occupano, logici perlopiù, se no nella vita pratica non serve assolutamente a niente, il che è vero solo in parte. Di fatto quando ciascuno di voi compie una qualunque inferenza di qualunque tipo cioè deduce da una cosa un’altra: se questo allora quest’altro,  utilizza un procedimento che è logico e parlando con delle persone, volendo per esempio fare valere le proprie ragioni utilizzerà strumenti in parte anche logici, anzi cercherà di utilizzare soprattutto la logica, perché la logica ha questo potere costrittivo, se affermo che se A allora B e se B allora C, l’interlocutore sarà costretto ad acconsentire a questo tipo di inferenza. Cercherete, utilizzando una certa struttura, di trovare un elemento solido da cui muovere per poi dedurre, se vi riesce, una conclusione altrettanto certa che l’altro non possa non accogliere. Si tratta in questo caso di piegare l’altro a qualche cosa che voi intendete e cioè metterlo nella condizione di non potere più obiettare niente, senza tenere conto che una qualunque proposizione di quelle utilizzate generalmente è comunque confutabile, cioè sarà sempre possibile costruire un discorso che la falsifichi. Per questo vi dicevo che non ha nessun senso chiedersi se una cosa è vera o è falsa, perché non potrà mai essere né l’una cosa né l’altra, sarà soltanto una decisione, quindi di nuovo una questione estetica nella migliore delle ipotesi, cioè a me piace che sia così, quindi non è così perché le cose stanno così o perché deve essere così, no, è così perché mi piace che sia così, ed è quanto di meglio voi possiate raggiungere in ogni caso. Perché il discorso occidentale, quello che si pratica generalmente, è costruito in un modo tale da escludere che qualunque cosa che si affermi o si faccia o non si faccia o non si affermi comunque, è nel linguaggio, escludendo una cosa del genere qualunque proposizione si faccia sarà comunque sempre necessariamente nel linguaggio, sarà comunque sempre negabile. Indirettamente se ne sono accorti alcuni, soprattutto alla fine del secolo sia con Gödel e la cosiddetta crisi dei fondamenti, che con Cantor, ma già molto prima di loro un tal Gorgia aveva inteso perfettamente tutta la questione. Potremmo, parafrasando Gorgia, affermare che “nulla è fuori dalla parola, se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile, e se fosse conoscibile non sarebbe trasmissibile”. Con questa modifica che abbiamo fatta al famoso adagio di Gorgia abbiamo reso questa proposizione assolutamente non negabile e quindi necessaria. Potremmo affermare che questa proposizione è la verità e non ci sarebbe nessuno al mondo in condizioni di negare quanto abbiamo affermato. Cosa ce ne facciamo? Possiamo costruire un modo di pensare per esempio, che muova da qualche cosa che non sia, così come è accaduto sempre, assolutamente risibile, ma costruire un discorso che poggi su qualcosa di necessario. C’è l’eventualità che venga meglio, non è sicuro però ci si può provare, in ogni caso ciò che seguirà necessariamente da questa premessa risulterà assolutamente e inesorabilmente vero. Potrebbe essere un elemento marginale questo, non lo è tuttavia, e soprattutto nel discorso occidentale ma non soltanto nel discorso occidentale, il quale si picca da sempre, da Aristotele in poi, di essere un discorso logico, ma, se pure sono corrette le inferenze che vengono mosse dall’assioma o dalla maggiore o comunque dai principi da cui si parte, in ogni caso il punto di partenza rimarrà sempre assolutamente opinabile e quindi lo sarà tutto ciò che ne seguirà. Tutto ciò che il discorso in questi ultimi tremila anni ha prodotto è negabile, tutto, tranne questa proposizione che afferma che non si dà alcunché fuori dalla parola. Potrebbe essere un vantaggio, potrebbe anche non esserlo, però così è. Come vi dicevo, un discorso del genere non persuade, ciascuno di voi è molto perplesso di fronte alle cose che ha ascoltato, pur non avendo nulla da obiettare, nulla che abbia un senso ovviamente, però non persuade, perché? Perché una cosa assolutamente certa, assolutamente indubitabile, non persuade affatto mentre qualunque religione che si fonda su cose assolutamente risibili ha un potere persuasivo formidabile. Sapete che su sei miliardi di persone che abitano questo pianeta i nove decimi appartengono a qualche religione, il che non è poco. Allora, merita riflettere su che cosa persuade più che su che cosa convinca. In effetti, come diceva giustamente Perelman, la persuasione punta al cuore, mira, come dicono alcuni o come alcuni hanno sostenuto, all’irrazionale. Curiosa questione questa dell’irrazionale, taluni dividono il mondo in razionale e irrazionale in modo assolutamente curioso, immaginando che l’irrazionale sia tutto ciò che non segue a un ragionamento, tutto ciò che è escluso dalla ratio. La ratio è intesa generalmente come quel sistema logico inferenziale per cui da una premessa si giunge a delle conclusioni, come se ciò che è inteso come irrazionale non seguisse la stessa via. E come potrebbe? Quale via seguirebbe mai? Gli umani si trovano all’interno di una struttura che è quella del linguaggio e non possono uscirne, qualunque conclusione io raggiunga rimane comunque una struttura inferenziale. Se incontro per strada una persona e ne sono immediatamente attratto, questo non significa affatto che non ci sia stata una serie di inferenze che io posso eventualmente non avere colto ma è necessario che ci sia. Passaggi molto rapidi, molto veloci, così com’è la prerogativa del linguaggio, di funzionare utilizzando passaggi molto veloci, per cui se qualcuno mi chiede che ore sono non ho bisogno di chiedermi cos’è un orologio, com’è fatto e se esiste, gli rispondo immediatamente. Questo non significa affatto che sia un procedimento non razionale, che non segua una serie di passaggi, perché questi passaggi sono la struttura stessa del linguaggio, senza questa struttura il linguaggio non funziona, senza cioè la struttura inferenziale, quella che dice “se A allora B”. Il fatto che io salti un certo numero di passaggi non significa che non ci siano, potremmo dire che non possono non esserci. Ora, generalmente la persuasione utilizza una struttura simile a questa. Che cosa funzioni esattamente con la persuasione è molto difficile stabilirsi anche perché occorrerebbe valutare ciascun caso, però ne faremo uno questa sera, uno emblematico. Pensate a un proverbio, i proverbi hanno una notevole capacità persuasiva, il proverbio generalmente funziona come una sorta di sillogismo tronco, un entimema, dove manca la premessa maggiore, che è data come implicita. Ciò che ne segue viene affermato dal proverbio con molta determinazione e lascia intendere che la premessa maggiore sia assolutamente vera in modo tale che non ci sia la necessità di metterla in discussione. È chiaro che se la premessa maggiore venisse messa in gioco crollerebbe anche il proverbio. Come sapete, talvolta i proverbi si contraddicono tra loro, però questo sembra non creare nessun problema e in effetti non lo crea. Ma pensate alla struttura del proverbio, vi sbarazza della premessa maggiore, cioè quella su cui si regge il tutto, lasciandovi intendere che la premessa maggiore è già stata data per acquisita da chi vi ha preceduti e comunque tutta l’umanità la dà per buona. A questo punto siete alleggeriti di un compito non indifferente che è quello di andare a verificare se le cose stanno proprio così. Alleggerendovi di questo compito vi pone nella condizione di raggiungere immediatamente qualcosa che appare certo, appare assolutamente credibile, verosimile, fornisce una certezza senza la necessità, e quindi lo sforzo, di dovere verificarla. Provate a pensare al proverbio e pensate a una qualunque dimostrazione scientifica e provate a chiedervi se hanno esattamente la stessa struttura oppure no, perché c’è l’eventualità che abbiano esattamente la stessa struttura. La premessa maggiore, nel caso della scienza, l’assioma fondamentale da cui muove non viene fornito o viene fornito in modo talmente vago da non essere verificabile. Generalmente, sono due le cose su cui si fonda: la vox populi oppure l’esperienza. Entrambe le cose, non ce ne sono altre, sono assolutamente negabili, devono essere date per buone, perché tutto il resto possa essere sostenuto. Esattamente come nel caso del proverbio, occorre dare per buona la premessa maggiore, quella che non viene fornita. Il discorso scientifico, il discorso religioso, il discorso di ciascuno, funziona esattamente allo stesso modo: una costruzione che è costruita su niente, assolutamente nulla, ma questo nulla ha un forte potere persuasivo, come dire “le cose stanno così, non ti preoccupare”. È così che ha sempre funzionato e funziona, occorre dire in un modo straordinariamente efficace, funziona così in ambito scientifico, in ambito politico, religioso, sociale, ovunque. Il fatto curioso è che funzioni così straordinariamente bene. Ogni tanto c’è qualche intoppo però nel complesso possiamo dire che ha un ottimo funzionamento, quindi non si vede perché si dovrebbe eliminare una cosa che funziona benissimo. Come già Platone aveva detto a chiare lettere, le cose non stanno così però facciamolo credere e vedrete che andrà tutto bene, e infatti è andato benissimo per i duemilacinquecento anni che hanno fatto seguito. Così come che qua e là occorre mentire, è necessario farlo, è assolutamente e tassativamente necessario farlo, tutta la civiltà è costruita su questo, bene o male che sia. Non sto facendo valutazioni morali che non mi riguardano e non mi interessano, sono solo considerazioni, né sto tessendo l’elogio della menzogna ovviamente, non mi importa minimamente né della menzogna né della verità, sto solo considerando così come è costruito il discorso occidentale, e anche quello orientale, la menzogna è tassativa, non è possibile andare avanti senza, cioè si deve mentire sul fatto che in definitiva la realtà esiste, in qualche modo, da qualche parte c’è. D’altra parte è andata benissimo per tutti questi anni, fino a qualche anno fa, poi ci siamo stancati di questo sistema e abbiamo pensato di inventarne un altro, che non necessitasse della menzogna come assioma. Cos’è la menzogna? L’affermazione di una proposizione che si enuncia come vera sapendo perfettamente di non poterla provare, possiamo utilizzare questa  proposizione. Così abbiamo cominciato a pensare a un discorso che non dovesse necessariamente sostenersi su una menzogna e quindi occorreva che la premessa fosse necessaria e non una qualunque. Ecco perché abbiamo ripreso l’antico adagio di Gorgia, con una modifica. Senza questa modifica non funziona, ma con questa modifica funziona come una proposizione che è necessaria, necessariamente vera, una verità come direbbero i medioevali sub specie æternitate, che è stata sempre valida, lo è adesso e lo sarà sempre necessariamente. Meglio di così?

 

Intervento: questo concetto di necessarietà… io sono vissuto ventisette anni senza sapere chi fosse Gorgia…

 

Con necessario intendo “ciò che non può non essere”. Laddove lei cerchi qualcosa che occorre che sia, incomincia a sfrondare, dice: “questo è necessario che sia? No, potrebbe anche non essere” e si trova di fronte ad un certo punto a qualcosa che è necessario che sia e non può non essere in nessun modo. I filosofi, che amano perdersi dietro queste storie, lo hanno indicato di volta in volta con l’ente, con l’essere o con la verità, cioè ciò che è necessario che sia assolutamente. È certo che uno possa vivere benissimo senza saperlo, non c’è nessun problema, però in effetti è una questione che ha occupato molto il pensiero degli umani da sempre, trovare un qualche cosa che necessariamente sia. Però, come dice lei giustamente, si può vivere benissimo senza (e lo scopo, a cosa serve?) Lo scopo noi lo abbiamo avuto, perché ci siamo prefissati di costruire un discorso che a differenza di quello esistente non comportasse un atto di fede al posto dell’assioma, cioè una premessa che risulta comunque negabile. Per esempio, se dicessi che qualunque discorso lei faccia, in qualunque circostanza e per qualunque motivo, è sempre necessariamente falso, lei potrebbe magari esserne infastidito oppure negare quello che io dico. Tuttavia affermare che tutto ciò che lei dice è necessariamente falso può farsi e può anche provarsi e, una volta provato, lei si troverà ad affermare cose che sa essere necessariamente e assolutamente false e le afferma come vere mentendo. Questo non è insolito perché lo fa ciascuno, non è che debba preoccuparsene, è una cosa assolutamente normale, forse la cosa più normale, più praticata. Lei immagini per esempio una persona che ha dei timori, delle paure, che è insicuro, ecc., tutte queste paure, questi timori, queste insicurezze, questi affanni, qualunque cosa lo disturbi, immagini che questo disagio, questo malessere, non siano altro che la conclusione di una serie di passi inferenziali che ha compiuti, di cui buona parte se ne è dimenticato, i quali hanno come premessa generale un’affermazione che ritiene vera e invece è falsa. Allora, a questo punto, più facilmente è intuibile anche un vantaggio immediato di una operazione del genere e cioè il fatto che io non posso più credere vera una cosa che so essere falsa. Se mi si comunica una notizia per me gravissima, io magari mi preoccupo, ma se subito dopo mi si dice che è stato uno scherzo, a parte inquietarmi leggermente con la persona che lo ha fatto, mi tranquillizzo subito, cioè cesso di essere preoccupato. Avviene così generalmente, quando ci si accorge che il pericolo non esiste più uno cessa di essere allarmato. Supponga che lo stesso discorso possa farsi per qualunque cosa, contrariamente al discorso occidentale che invece è costretto a mantenere un pericolo, vi dice che dovete essere sempre attenti, perché se non ci fossimo noi… in genere è lo stato oppure la religione a fare questa operazione, “se non ci fossimo noi sarebbe un disastro… siete minacciati da continui pericoli e quindi ci vuole qualcuno che vi accudisca”. Proviamo a fare il discorso inverso e cioè “non c’è nessun pericolo”, ciò che poteva essere un pericolo non lo è più, cessa di esserlo, potrebbe essere un vantaggio, perché no? Se io temessi di essere assassinato ogni cinque secondi, andrei in giro con la guardia del corpo, giubbetto antiproiettile e armi da per tutto, un fardello enorme e non andrei da nessuna parte, starei chiuso blindato in casa, con i vetri a prova di proiettile e invece no, giro tranquillo perché so che non c’è nessun pericolo, che è molto più agevole, e questo perché so che non c’è nessuno in giro che mi vuole ammazzare. Ho fatto un caso limite però se sapessi che ci sono persone che hanno queste intenzioni, certo, magari prenderei delle misure, però se venissi a sapere che mi sono ingannato, che non c’è nessuna minaccia, allora è inutile che stia qui a proteggermi chissà da che. Ora, pensi a una qualunque paura, a un qualunque timore, ansia, insicurezza, c’è l’eventualità che abbiano la stessa struttura e cioè che a fondamento di un disagio di questo tipo ci sia un elemento creduto vero, costringendo a vivere malissimo, a trincerarsi per tutta la vita senza nessun motivo. Potrebbe stare meglio senza tutta questa bardatura …

 

- Intervento: La questione del vero o falso in realtà…

 

Tu devi tenere conto delle premesse che ho fatte. Al di fuori di alcune proposizioni che non sono negabili, tutte le altre non potrebbero in teoria nemmeno essere sottoponibili a un criterio verofunzionale. Era questo il punto?

 

- Intervento: In realtà se no parlare di vero e falso…

 

Esattamente, in realtà proprio lì volevo arrivare. Io ho parlato di menzogna perché retoricamente ha un senso più forte, però è vero, bisogna parlare di non senso o forse in un altro modo ancora. Sicuramente, nessun discorso che ritenga un elemento vero o falso è sottoponibile a un criterio del genere perché non ha senso questa operazione, è soltanto una questione, nella migliore delle ipotesi estetica, anzi callistica, come diceva Hegel, cioè a me piace così e bell’e fatto.

 

- Intervento:…

 

Sì, Göbbels diceva che qualunque cosa ripetuta un numero sufficiente di volte sarà creduta vera. Certo. Ha funzionato occorre dire, ha creato qualche problema in Europa mezzo secolo fa. Sì, certo, questo è un elemento, la ripetizione incessante, è un elemento che va considerato, buona parte della pubblicità gioca su questo, anche l’addestramento funziona così, anche i bambini si addestrano così, insistendo… Perché una cosa ripetuta ha questo potere?

 

- Intervento:…

 

La pigrizia dici? Sì, anche se forse non è solo questo, è come se la ripetizione in qualche modo avvalorasse l’idea che una certa cosa è vera. Però, in effetti, si sa molto poco di come funzioni nonostante tutti gli studi che si fanno, perché intorno alla pubblicità come sapete girano miliardi e quindi è una cosa che generalmente non lascia indifferenti. Però, può esserci una connessione, se una cosa è ripetuta molte volte vuol dire che molti la sostengono, c’è questa eventualità: tutti quanti devono usare il caffè Lavazza, se lo sente ripetere e alla fine pensa che tutti quanti lo usino, in questo senso forse la connessione con la vox populi. Certo, non è soltanto questo, stavo considerando un aspetto. La questione è che in effetti in ambito retorico è molto difficile potere stabilire alcunché; se fosse semplice si sarebbe già messo in atto un meccanismo persuasivo molto potente, ciascuno lo cerca. La questione è connessa con la quantità sterminata di variabili che intervengono in ciascuno; si tratterebbe di potere controllare tutte le variabili che intervengono nel pensiero di ciascuno e questo è almeno per il momento molto difficile: in teoria posso cambiare idea per un nonnulla, per cui la quantità di variabili è assolutamente fuori controllo. Questo rende la nobile e antica arte della retorica ardua a praticarsi. Certamente si ha buon gioco conoscendo le cose che la più parte delle persone credono: se so che una certa persona è fervente cattolica posso, con buona probabilità, sapere che alla domenica andrà a messa, prevedere che non bestemmierà dio e i santi, che farà una serie di altre cose, ecc. Maggiori sono le informazioni su quello che la persona crede e più c’è la possibilità di prevederne delle mosse, se uno è fervente cattolico sarà quasi escluso che bestemmierà dio e i santi… forse. La volta prossima il tema sarà La retorica della prova. In effetti, qualunque prova voi immaginiate di addurre alle vostre argomentazioni sarà sempre e comunque un’argomentazione retorica non logica, cioè non necessaria, è sempre opinabile. Che cosa comporta una cosa del genere? Comporta che ciascuna volta si fa un’affermazione si sa con assoluta certezza che l’affermazione che si è fatta è un’affermazione retorica, assolutamente arbitraria e di cui sarebbe il caso di assumersi la responsabilità.

 

 

LA RETORICA DELLA PROVA[5][5]

Questa sera ci occupiamo della retorica della prova. Questione importante dal momento che tutto il discorso occidentale scientifico e non si avvale di questo concetto per stabilire dei criteri o delle istanze. Che cos’è una prova generalmente? È un’argomentazione che muovendo da alcuni assiomi giunge a una conclusione che dovrebbe mostrare che ciò che è in gioco è necessariamente vero. Una prova occorre che giunga a questo per stabilire ciò che è necessariamente vero. I problemi connessi con la nozione di prova sono, come sapete, notevoli. Molti hanno sostenuto e sostengono che tutto ciò che una prova logica, per esempio, può giungere a mostrare è l’essersi attenuti correttamente alla struttura o alle regole inferenziali stabilite, nient’altro che questo. Tuttavia, si parla sempre di prova “è stato provato” “è stato dimostrato” ma forse non sempre si hanno le idee molto precise su che cosa sia, su che cosa comporti una prova, dovrebbe essere almeno teoricamente un procedimento logico che muove da assiomi. Dicevamo la volta scorsa quanto in qualunque discorso, soprattutto in un discorso scientifico, siano importanti gli assiomi. Occorre che un assioma sia vero per potere proseguire perché se si muove da un assioma falso ciò che seguirà subirà la stessa sorte. Fra le varie prove che sono state fatte in questi ultimi millenni pochissime hanno retto il corso dei secoli, eppure continua ad esserci l’esigenza ancora molto forte che tutto ciò che si afferma venga provato e questa prova occorre che sia necessaria, che cioè ciò che si conclude sia necessariamente vero. Perché si esige una prova a seguito di un’argomentazione che lascia magari perplessi? Perché ci si aspetta dalla prova un forte potere di convinzione, il che è vero solo in parte; è possibile provare un certo numero di cose che non persuadono affatto, eppure le si prova. Dicevo che ciascuno a modo suo cerca una prova di quello che crede, anche per esempio l’esistenza di dio. Non so se ci sono dei credenti in sala ma, se ci fossero e se io affermassi che quella bottiglietta è dio, probabilmente avrebbero qualche perplessità, cioè non ci crederebbero. Potrebbero anche farlo, ma perché non credono che quella bottiglietta sia dio? Perché non ho le prove? Perché dio ce le ha? E allora che differenza fa? Eppure, anche l’esistenza di dio ha delle prove. Ovviamente, queste prove non provano alcunché ma anche in quel caso si è avuta la necessità di fondare il discorso, in questo caso religioso, in questo caso su delle prove. Agostino, Anselmo, Tommaso, si sono molto adoperati in questo senso, per provare l’esistenza di dio, perché mai? Perché non affermare semplicemente qualcosa e bell’e fatto? Come quando affermo che questa bottiglia è dio, perché non accade a questo punto che tutti quanti ci credano? Perché no, cosa glielo impedisce, visto che generalmente ciascuno crede qualunque cosa. Perché, perché non questo? La questione è complessa ovviamente. Provare l’esistenza di dio è stato tentato in molti modi ma nessuno di questi, è stato sufficiente. Perché? Le prove addotte in quel caso sono sempre state confutabili, certo, la chiesa ha provato di tutto per trovare una prova dell’esistenza di dio che risultasse non confutabile, in questo caso avrebbe raggiunto il suo obiettivo. E allora è ricorsa alla fede ovviamente, ma ne avrebbe fatto volentieri a meno, se fosse riuscita a trovare una argomentazione così potente da piegare con la logica anziché con la fede, anziché dire io non lo posso provare ma ci deve essere lo stesso. Perché? Ma se, come dicevo, fosse riuscita a provare una cosa del genere sarebbe stato tutto molto più semplice, non avrebbe avuto la necessità di ricorrere alla fede, che è sì molto forte ma comporta che chiunque non voglia credere in dio può farlo anche logicamente, cioè può trovare delle ottime argomentazioni per non credere, mentre chi ci crede non ha alcuna argomentazione al di là del fatto che gli piace così, che comunque è un buon motivo. Roberto, avevo detto che avrei provato l’esistenza di dio in modo inconfutabile, stasera, perché no? E allora facciamo così, io vi proverò l’esistenza di dio in un modo che nessuno di voi saprà confutare e mi auguro che nonostante questo non usciate di qua questa sera “ferventi” oratori, che non è necessario. Bene, allora dimostriamolo. Innanzitutto, di che cosa è fatta una dimostrazione? Occorre per riuscire che sia fatta di elementi che non siano opinabili. Qualunque elemento opinabile inserito in una dimostrazione la mina alle fondamenta, perché uno opina una cosa e l’altro ne opina un’altra e già si parte male. Pertanto, occorre che sia fatta di elementi che assolutamente risultino non opinabili ma costrittivi e cioè che non sia possibile in nessun modo affermare il contrario. Solo a questo punto la prova diventa una costrizione logica, se no è una opinione: io penso così, lui pensa cosà…. Vi dicevo che Agostino, Anselmo e Tommaso si sono dati molto da fare in questo senso senza però raggiungere risultati soddisfacenti. Eppure, come vedrete fra poco, non è difficile provare l’esistenza di dio. Dicevo la volta scorsa che è molto più difficile provare l’esistenza delle leggi fisiche, tutto sommato. Dunque, supponiamo che io affermi che è possibile pensare l’assoluto. Che cos’è l’assoluto? Ovviamente ciò che non ha soluzione, ciò che non ha soluzione di continuità. Affermando questo, qualcuno potrebbe obiettare che invece no, che non è possibile pensare l’assoluto. Ma se sa che non è possibile, come lo sa? Lo sa perché qualcuno glielo ha detto, perché c’è arrivato da solo o per qualche altro motivo? Se afferma che non può pensarlo, questa particella pronominale “lo” a che cosa si riferisce esattamente? All’assoluto! Se sa che non lo può pensare è perché è giunto a questa considerazione attraverso una serie di inferenze, cioè ci ha pensato, e quindi se nega che sia pensabile nega ciò stesso che ha fatto e questo non lo può fare, dunque è possibile pensare l’assoluto. Ma è possibile conoscerlo? Se non ha soluzione di continuità no, perché per conoscere un elemento occorre poterlo definire e come definire qualcosa che non ha soluzione di continuità? È come se mi chiedessi qual è l’ultimo numero dei numeri primi, posso conoscere dei numeri ma non tutta la serie, non conoscerò mai tutti i numeri, ci sarà sempre qualcuno, bisbetico, che ne aggiungerà uno. Se non posso conoscere l’assoluto, non posso conoscerlo in toto, ma posso pensarlo, avviene un fenomeno bizzarro, cioè avviene che posso pensare una cosa che non posso conoscere, che non posso conoscere del tutto. Ora, l’assoluto, ciò che non ha soluzione di continuità, provate a chiamarlo dio. In questo modo voi avete tre elementi a disposizione: esiste necessariamente poiché lo pensate; se lo pensate, lo potete pensare ma non lo potete conoscere, che è esattamente ciò che si attribuisce a dio, il quale pertanto esiste necessariamente, è pensabile ma non lo potete conoscere.

 

Intervento: Tre obiezioni….

 

Allora rispondo a tutte e tre. Come era la prima? (Sul significante “assoluto”…) Potrebbe essere altrimenti? La seconda (In senso ontologico…) Io non ho parlato di ontologia, ho parlato di esistenza. Che cosa esiste? Esiste ciò a cui posso attribuire questo significante, questione che abbiamo affrontato quella dell’esistenza, che cosa esiste? Quando posso dire che qualcosa esiste necessariamente? Esiste ciò che dico ovviamente, l’unica cosa che non posso in nessun modo negare che esista altrimenti non posso in nessun modo affermare o negare che esista alcunché. Pertanto, attribuire all’assoluto un’esistenza è una tautologia, nel momento in cui ne parlo esiste, esiste necessariamente. Non ci sono altri criteri di esistenza più robusti… La terza domanda? (…) Sì, questo è interessante, pensiero e conoscenza, ho utilizzato questi significanti nell’accezione più comune del termine. Con pensare intendo questo, potere costruire una proposizione in cui un elemento sia utilizzabile; utilizzo invece il significante “comprendere” in modo letterale, come prendere il tutto, chiudere in una definizione. Per questo ho detto che non posso comprendere del tutto, posso comprenderne degli aspetti ma la questione in toto mi sfuggirà sempre. Riprendendo l’esempio di prima, io posso dire di conoscere i numeri primi ma la serie completa di numeri primi non la conoscerò mai e pertanto mi rimarrà sempre inaccessibile. È una prova in cui ci si avvale di elementi utilizzati in un certo modo, ovviamente, però il modo in cui vengono utilizzati è difficilmente confutabile. Questo comporta che è possibile provare l’esistenza di dio, dobbiamo provare che è piuttosto solida, certo c’è un inghippo e l’inghippo consiste che in questo modo affermando qualcosa che io affermato non ho costruito nulla di ontologico né potrei farlo, ho soltanto costruito un discorso … (…) Probabilmente, ma ho scelto invece la prova dell’esistenza di dio dal momento che nel discorso occidentale, ma non soltanto, è esattamente questo personaggio che garantisce l’esistenza di ogni cosa. Lo stesso Tommaso ricorre a queste prove perché si rende conto che altrimenti sarebbe molto difficile provare in modo definitivo l’esistenza di una qualunque cosa a meno che, come cerca di fare lui, ci si serva di un altro elemento che garantisce di tutti gli altri. Ora, questo elemento è provabile e provando l’esistenza di dio si prova l’esistenza di qualunque cosa. Questo è ineluttabile o più propriamente l’esistenza necessaria di qualunque cosa. È ovvio che è un sofisma, un sofisma non è altro che un’argomentazione che utilizza il linguaggio piegandolo in tutti i modi in cui è possibile piegarlo, facendo le costruzioni che non sono facilmente eliminabili proprio perché utilizza il linguaggio, la sua struttura. Chiaramente non può negarsi la struttura del linguaggio, negheresti ciò stesso che ti consente di fare queste operazioni come qualunque altra. Ma, posta in questi termini, sarebbe come dire che è necessario che dio esista, l’unico problema è che questo non significa assolutamente niente. Non è comunque un problema, è una considerazione, giusto per intendere come funziona una prova. Questa prova che io ho fornita è molto più solida. Dicevo all’inizio delle prove che per esempio fornisce la scienza. Io ho mosso unicamente elementi presenti nel linguaggio e che non possono essere negati, la scienza no, la scienza muove da giudizi, da superstizioni, da credenze, dà per acquisito cose che io non do affatto per acquisito e in questo ovviamente è molto più debole, anche se è sempre più accreditata la scienza come fonte di prove ineluttabili, il che non è dal momento che conduce una argomentazione a partire da assiomi che non sono necessari, sono opinabili o nella migliore delle ipotesi seguono a una vox populi, oppure all’empiria, alla pratica, ma non è il modo migliore di muovere perché è sempre possibile costruire una proposizione che confuti ciò che si è affermato, come Popper aveva considerato. In effetti, rispetto al discorso scientifico funziona esattamente così, qualunque affermazione scientifica è passibile di confutazione. Al contrario, un’argomentazione che muove unicamente dalla struttura del linguaggio, cioè che ha come assiomi soltanto elementi che fanno parte integrante della struttura del linguaggio, non è confutabile dal momento che se mettete in discussione questo, mettete in discussione l’esistenza stessa del linguaggio e quindi non avete più nessuno strumento per proseguire. Ho parlato di retorica della prova perché in effetti tutto ciò che si chiama prova scientifica attiene alla retorica anziché alla logica. Feyerabend ha intuita la questione, che in qualunque dimostrazione scientifica ciò che è in gioco è la retorica, cioè la maggiore o minore abilità di persuadére dello scienziato, ma parlare di retorica della prova comporta anche che qualunque prova una persona si dia, rispetto a una qualunque cosa che pensa o che immagina, sarà comunque e necessariamente un’argomentazione retorica. Questo è fondamentale perché, essendo un’argomentazione retorica, in effetti sarebbe un non senso parlare di prova, costruisce nella migliore delle ipotesi dei discorsi che persuadono, che risultano gradevoli all’orecchio, ma qualunque proposizione retorica non è sottoponibile a un criterio verofunzionale, cioè non c’è un parametro che consenta di stabilire che ciò che si afferma è vero o falso, non è sottoponibile a un criterio verofunzionale perché fa un altro gioco, un gioco diverso esattamente così come accade, per esempio giocando a carte, le regole del poker non sono sottoponibili a un criterio verofunzionale. Perché no? Perché si tratta di un gioco linguistico differente, si impongono delle regole per giocare, si possono accogliere oppure no, ma stabilire se sono vere o false non ha nessun senso rispetto a questo gioco e così allo stesso modo qualunque cosa vi troviate a concludere occorre che teniate conto che la conclusione cui giungete non è né può essere vera o falsa, l’unica cosa che potete stabilire è che a voi piace così. Potete pensare che tutto quello che affermate è vero o è tutto falso, non significa niente, non è né l’una cosa né l’altra perché non è sottoponibile a un criterio verofunzionale. Intendo dire questo, perché sia sottoponibile a un criterio verofunzionale questo criterio occorre che sia piuttosto solido, che sappia cioè indicare che cosa necessariamente è vero e di conseguenza ciò che lo nega sarà necessariamente falso, ma questo criterio non è stato mai trovato fino ad ora, eppure è semplice … La verità occorre che sia qualcosa che necessariamente è e che non possa non essere, perché se potesse non essere allora non sarebbe la verità, sarebbe un ipotesi. C’è una sola cosa che è necessario che sia, che può in nessun modo non essere? Gli umani per moltissimi secoli si sono adoperati per trovarne una eppure la avevano lì a disposizione. L’unica cosa che non può non essere è ciò stesso che gli consente di domandarsi che cosa necessariamente occorre che sia e cioè quella struttura che è nota ai più come linguaggio, questa è l’unica cosa che occorre necessariamente, tutte le altre no. Senza questa struttura non posso fare nessuna considerazione di nessun tipo e per nessun motivo, l’unico elemento assolutamente necessario è questo e quindi potremmo attribuire a questo la nozione di verità. È l’unico elemento che risulti assolutamente innegabile, gli altri sono negabili. E allora, per verificare la verità della propria argomentazione, occorre muovere da questo assioma perché in caso contrario il criterio scelto sarà comunque opinabile e pertanto non potrà mai concludere a nulla di necessario. Se, per esempio, io affermo che la verità è che “nulla è fuori dalla parola”, questa affermazione non è opinabile perché in qualunque modo voi la opiniate lo farete attraverso il linguaggio e pertanto non è opinabile. Quindi,  l’unica argomentazione che può avere qualche probabilità di essere necessaria, cioè assolutamente vera, è quella che muove da un assioma del genere, tutte le altre no, perché muovono da assiomi opinabili e quindi domandarsi se è vero oppure no non ha nessun senso, nella migliore delle ipotesi è affermare “credo questo e ci credo perché mi va bene così”. Ognuno ha i suoi buoni motivi ma non è nulla più di una credenza, di una superstizione. Generalmente con superstizione si intende un discorso che punta ad affermare che è un qualche cosa che non è provabile in nessun modo. Tutto quello che affermate, tutto quello che la scienza afferma ha la stessa struttura, potremmo affermare con buona tranquillità che sono tutte superstizioni. Con questo non è che diamo una connotazione necessariamente negativa, è una constatazione. È una superstizione esattamente come quella che afferma che se il gatto nero vi attraversa la strada allora succederà un malanno. Tutto ciò che viene affermato soprattutto dalla scienza, dalla religione, viene affermato con assoluta certezza ma è assolutamente arbitrario, è assolutamente opinabile, potremmo dire che non è neppure sottoponibile a un criterio verofunzionale, è, come dicevo prima, un’affermazione retorica. Può tradursi in questo “a me piace così”; certo, va bene, ma non è nulla di più di questo. Ci sono un numero notevole di religioni, c’è chi crede nel dio dei cattolici, in Budda, chi nella reincarnazione, chi in una quantità sterminata di cose, tutte queste persone, che credono una qualunque di queste cose, immaginano che ciò che credono in qualche modo sia sostenuto da qualche prova se no non crederebbero, tant’è che difficilmente potrebbero credere che questa bottiglietta di acqua sia dio. All’inizio mi chiedevo perché no, domanda non del tutto oziosa, perché in questo caso delle persone credenti immaginano che non ci sia nessuna prova che una cosa del genere sia dio, senza tenere conto che nemmeno ciò che vanno affermando ha una benché minima prova, esattamente allo stesso modo. In effetti, la chiesa cattolica è dovuta ricorrere ad alcuni stratagemmi per imporre il suo credo. Questi stratagemmi, soprattutto a partire dal milleduecento in poi, sono stati piuttosto violenti ma era necessario per imporre un qualche cosa che in nessun modo può imporsi. Se voi andate a vedere bene, all’inizio delle varie religioni quasi sempre c’è un atto di forza. Le persone più ingenue sono portate a credere ma quelle meno ingenue, che magari non sono di meno, possono creare dei problemi e quindi devono essere eliminate, secondo la migliore tradizione. Eliminare i dissidenti è il sistema più efficace, più rapido, ci vuole una buona organizzazione, certo, ma si può fare. Questo atto di forza è giustificato dal fatto che nessuna argomentazione è sufficiente: credi in dio perché lui è sceso sulla terra a redimerti. Primo, nessuno gli ha chiesto niente; secondo, perché mai dovrebbe essere questa persona? Terzo, cosa lo ha mosso a fare una cosa del genere? E poi uno va avanti all’infinito, non si ferma più, ponendo delle questioni anche imbarazzanti, come per esempio quella connessa con il libero arbitrio e che molto ha travagliato i padri della chiesa. Ora, la scienza generalmente non si avvale di questi metodi per persuadére, ha utilizzato un altro sistema. Sapete che la scienza ha iniziato attraverso la medicina, l’anatomia, la biologia, ecc., e quindi, mentre la chiesa ha utilizzato la salvezza della persona post mortem, la scienza si è occupata della sua salvezza ante mortem. Questo ha avuto un potere persuasivo non indifferente. In effetti, l’illusione, è che la scienza possa un giorno o l’altro in qualche modo prolungare l’esistenza, rendere immortali o comunque svelare i misteri del cosmo, per cui gli umani sapranno tutto e comunque in un certo senso saranno immortali. È un differente terrorismo messo in atto dal sistema medico, soprattutto quello più recente, non meno violento, usa sistemi diversi, certo, ma anche questa disciplina, la medicina come scienza, è fondata su nulla, è fondata sull’empirìa. Come dicevano i greci, l’esperienza è una delle cose più ingannevoli e in effetti ci si inganna continuamente. Ciò che già Aristotele cercava era la possibilità di costruire un’argomentazione che non si fondasse sull’empiria, della quale aveva pochissima fiducia, ma soltanto su un sistema logico deduttivo. Solo questo pensava, e in parte non a torto, avrebbe saputo costruire un sistema certo, sicuro, qualcosa su cui appoggiarsi, qualcosa quindi di non costruito sull’acqua ma su basi più solide, quali per esempio un assioma necessariamente vero. Ora, un’argomentazione come quella che vi sto facendo, che cioè parte da un assioma necessariamente vero, tuttavia non persuade pur essendo una costrizione logica. Valuteremo poi perché non persuade ma rimane questa considerazione da farsi: potremmo dire che non persuade perché non soddisfa. Che cosa non soddisfa? Tantissime cose alle quali gli umani ormai sono abituati, sono abituati soprattutto ad avere un tutore, che in definitiva non è altri che qualcuno che indichi che cosa è la verità, qualcuno a cui credere perché mostra la verità. Un’argomentazione come questa, che afferma cioè un assioma necessario, lascia una sorta di solitudine assoluta, suprema, dalla quale non c’è né rimedio né riparo: tutto ciò che si costruisce, tutto ciò che penso, procede da una struttura ed esiste perché esiste questa struttura, altrimenti non esisterebbe perché in nessun modo potrei affermarlo. Se non lo posso affermare, dire che esiste oppure no non ha nessun senso, è una domanda, una questione che non posso neanche pormi, cosa che lascia la persona leggermente smarrita, come se si trovasse all’improvviso senza la necessaria compagnia della propria inferiorità, inferiorità rispetto a qualunque cosa ovviamente. Da qui la necessità di pensare sempre a un essere superiore, supremo, dalla mamma, al governo, a dio, a qualunque cosa e soprattutto della necessità di questi elementi. C’è l’eventualità, ponendo le cose nei termini in cui le stiamo ponendo, che non ci sia la necessità di un tutore. In questo caso iniziare a pensare in questi termini può ovviamente comportare un certo numero di problemi soprattutto laddove tutto un sistema è costruito e organizzato in modo tale da prevedere necessariamente l’esistenza di un tutore, di qualcuno che in definitiva pensi per voi. Ma se ciascuno pensa per sé occorre che cominci a pensare in modo più solido e  quindi da dove cominciare a pensare? Sulla prima sciocchezza che vi passa per la mente o su qualche altra cosa? Se devo costruire un pensiero, un pensiero che abbia una qualche solidità, è necessario che muova da qualche cosa della quale possa dire che sia necessariamente vera perché in caso contrario una qualunque cosa vale quanto quell’altra. L’unica cosa necessariamente vera è quella vi ho affermato, per questo l’altra volta si diceva “o si pensa così o non si pensa affatto”, cioè si gira in tondo costruendo proposizioni che non significano assolutamente niente. Questo non vuol dire che non abbiano un uso, ce l’hanno ma in nessun modo chi produce queste proposizioni può pensare che siano vere, perché non lo sono e per una questione grammaticale risulta credibile una cosa soltanto se si ritiene che sia vera o che possa esserlo, se si sa con assoluta certezza che è falsa risulta impossibile crederla vera. Ecco perché è importante riflettere intorno alla nozione di prova per accorgersi che tutto ciò che viene generalmente spacciato come prova, e quindi come qualcosa di necessario, è totalmente e irrimediabilmente arbitrario, cosa che può avere qualche implicazione nel pensiero di taluni mentre per gli altri no.

 

- Intervento: Lei aveva detto “dimostrerò in modo inconfutabile che dio esiste, un discorso alla conclusione del quale voi troverete che dio esiste”. Se questa cosa fosse inconfutabile dovrebbe per forza di cose essere necessariamente vero….due minuti fa lei ha detto che l’unica cosa che è necessariamente vera è il famoso enunciato di Gorgia: nulla esiste fuori dalla parola (lui si era fermato “nulla è” noi abbiamo fatto questa modifica che la rende inattaccabile).

 

Però, in effetti, ho detto inconfutabile non innegabile e sta qui l’intoppo, cioè è confutabile, cioè non è confutabile perché risulta inattaccabile questa serie di proposizioni ma è negabile. Come dire ciò che ho fatto non è affatto il costruire l’esistenza di dio ma soltanto costruire delle proposizioni, nient’altro che questo.

 

- Intervento: Lei ha detto non è possibile conoscere l’assoluto, però posso pensare una cosa  che non posso conoscere …lei potrebbe in maniera inconfutabile dimostrare l’inesistenza di dio… se ho ben inteso il principio del terzo escluso, una cosa o è o non è e quindi se posso dimostrare in maniera inconfutabile che dio esiste e in maniera inconfutabile che dio non esiste allora sto dicendo un sacco di parole senza avere assolutamente niente in mano…tutte le parole che ha fatto lei sono soltanto parole senza comunque un filo logico, perché se avessero seguito un filo logico si sarebbe dovuto arrivare a una preclusione che non potrebbe essere… questo perché la logica parte da assiomi che sono necessariamente veri… il dubbio mio è che gli assiomi da cui lei è partito mi sembrano logici.

 

Rispetto alla prova dell’esistenza di dio? Vede, siccome io non sono un predicatore né un credente ho fornito la prova dell’esistenza di dio e simultaneamente anche una sorta di contrappunto. Di questa prova dell’esistenza di dio dicendo che è inconfutabile ho affermato qualche cosa in termini molto retorici, è confutabile ma per poterlo fare occorre un certo addestramento. Cosa vuol dire che una cosa è inconfutabile? Significa soltanto indicare all’altro che sarà molto difficile che ci riesca ma se è sufficientemente abile potrà sempre farlo: qualunque sia la proposizione riuscirà sempre a trovare il modo di confutare una affermazione. Altro è invece affermare una proposizione che risulta non negabile, non negabile perché negandola si blocca in una posizione da cui non può muoversi. Se io affermo che non si dà nessun elemento fuori dalla parola, negare una cosa del genere comporta che cosa? Comporta l’utilizzare necessariamente ciò che devo negare e questo non posso farlo. Per questo ho distinto fra confutare e negare. Vede, se io affermo che “nulla è fuori dalla parola”, questa affermazione è confutabile ma non negabile. Sa come si fa a confutarla? È confutabile in questo modo: se nulla è fuori dalla parola, nulla è necessariamente qualcosa, visto che ne sto parlando è innanzitutto un significante, un elemento linguistico e quindi è qualcosa, quindi affermare che nulla è fuori dalla parola comporta che qualcosa sia fuori dalla parola, quindi l’affermazione è falsa… (…) Non le dice nulla perché ancora non ha fatto molto esercizio. Dice che è un gioco di parole? È vero, assolutamente vero. La questione che ci ha incuriositi tanti anni fa e che poi abbiamo proseguita è che pare non si dia nient’altro all’infuori di questo. È vero, ciò che lei afferma è un gioco di parole ma tutto ciò che lei pensa, immagina, crea, distrugge, opina, assente, avverte, tutto questo ha una sua esistenza in quanto esiste una struttura che le consente di poterlo dire, di poterlo affermare. Se questa struttura non esistesse, se cioè non esistessero questi giochi di parole, tutte queste cose non solo non esisterebbero ma non sarebbero mai esistite. Ecco perché abbiamo incominciato a pensare che forse i giochi di parole non sono una cosa così marginale ma c’è l’eventualità che siano ciò su cui ciascuno costruisce la propria esistenza, anzi che siano l’esistenza di ciascuno, non “una” esistenza ma l’unica possibile, anche perché questi giochi di parole, essendo costruiti su quella struttura di cui dicevo prima, il linguaggio, possono costruire e demolire qualunque altra cosa essendo questa altra cosa costruita non sulla struttura del linguaggio ma su affermazioni che risultano assolutamente negabili. Tutto ciò che a suo parere non è un gioco di parole, ebbene, tutto ciò è assolutamente negabile, confutabile, vale a dire, è possibile provare che è falso. Per questo generalmente non ha un grosso rilievo, cioè le persone non si curano molto della logica contrariamente a quanto affermano, se si curassero la quasi totalità delle loro affermazioni non verrebbero fatte, ma verrebbero fatte in un altro modo…

 

- Intervento: Mi ritrovo in un circolo vizioso perché se lei può affermare che ciò che dico io è falso questo deve comunque poter affermare una verità per negare quello che dico io, che a sua volta può essere negata da altre argomentazioni, di conseguenza…

 

Vede, non ha fatto attenzione quando ho formulato la nozione di verità. Supponga che io enunci che la verità sia l’affermazione “nulla è fuori dalla parola”. Questa proposizione non è negabile, non è eliminabile in nessun modo… (Ma lei l’ha confutata) Allora aggiungo questo elemento. Gli assiomi da cui stiamo muovendo sono ancora al di qua della confutabilità o della negabilità di una proposizione, appartengono a qualcosa che è la condizione per poter compiere questo gioco che si chiama confutazione oppure quest’altro che si chiama dimostrazione, sono due giochi che sono al di là, noi ci siamo occupati di qualcosa che è al di qua e che ne costituisce la condizione, confutare o dimostrare sono ovviamente giochi linguistici, più o meno divertenti, più o meno utili in alcuni casi ma restano giochi linguistici che possono farsi, è chiaro che può confutarsi qualunque cosa perché qualunque cosa, qualunque affermazione, tolta quella che ho indicata come assioma, si muove in ambito retorico, muove cioè da un principio che comunque sarà negabile. Per questo può confutare qualunque cosa, perché i principi da cui muove sono sempre opinabili cioè discutibili, e questo la mette nella condizione di poterlo confutare. Basta per esempio chiedere all’interlocutore delle prove dei principi da cui muove per potere affermare quello che afferma, non lo potrà fare oltre un certo limite e cioè dirà che è così perché è così, e lei potrà ritenere questa risposta insoddisfacente. Ma dopo esserci accorti che era possibile sia provare sia confutare qualunque cosa ci siamo volti ad un altro elemento che era la condizione per potere fare sia l’una cosa che l’altra, senza questa condizione non è possibile né provare né confutare alcunché. Ecco, questo forse è l’elemento che mancava. Certo, posso confutare qualunque cosa, posso provarla in mille modi diversi, ma questo unicamente perché ciascuna proposizione è sempre mossa da un principio che risulta arbitrario. È questo l’inghippo che consente di provare e di confutare qualunque cosa ed è l’intoppo di tutto il pensiero occidentale che da una parte esige che certe affermazioni siano provate e dall’altra impedisce di farlo. Lo impedisce perché poi di fatto i principi da cui muove sono totalmente arbitrari, cioè fondati sull’esperienza e comunque totalmente arbitraria e cioè non ha una costrittività logica, l’esperienza è la vox populi, tutti pensano così, sarà così. Ma provi a pensare di non essere soddisfatto di una cosa del genere, che può comportare anche problemi non indifferenti, ché non è che tutti quanti sono razzisti e quindi sono razzista anch’io… Certo, molte cose sono entrate nell’uso comune, sono comunque molti i giochi linguistici praticati ininterrottamente, questo è ovvio. La differenza sembra minima ma è fondamentale sta nell’accorgersene che sono giochi linguistici non entità reali …

 

- Intervento:…

 

Ha mai provato a pensare in termini logici? (Sì, ogni tanto ci provo.) E cosa succede? (….) Questo discorso non potrebbe anche rivolgerlo all’empiria? (…) Questa sarebbe l’unica cosa di cui non sarebbe possibile affermare e negare qualunque cosa? (…) Può farlo, può essere divertente, si mette lì e ci riflette. Suggerisco anche un esercizio. Prima costruisce un’argomentazione che prova l’assoluta necessità dell’esperienza, dopodiché costruisce un’argomentazione che prova l’assoluta insostenibilità dell’esperienza. Quando ha fatto questo gioco magari ha le idee più chiare, anche sull’esperienza, se no accade così di darla per acquisita, cioè come se fosse una cosa necessaria mentre invece potrebbe non esserlo. Ad esempio i mistici, adesso non li ascolta più perché sono morti da molti secoli, le racconterebbero, se fossero qui, che hanno avuto esperienza di dio, che hanno parlato direttamente con lui. Che dire di quella esperienza? È riproducibile perché molti altri hanno avuto questa esperienza in altri luoghi, anzi ci sono molte cose come la madonna che piange è riproducibile, qualche anno fa si riproduceva continuamente, una proliferazione in vari luoghi. Questi mistici direbbero che la loro esperienza è assolutamente inattaccabile, che lei non ci crede soltanto perché non ha avuto questa esperienza ma se l’avesse avuta ci crederebbe necessariamente (…) A seconda anche delle epoche e delle mode del momento, alcuni dati dell’esperienza sono e si pongono come assolutamente normali, come acquisiti. Ad un certo punto cambiano le mode e diventano strampalerie di visionari mentre prima non lo erano affatto, mentre prima se uno non ci credeva veniva eliminato, che è sempre un ottimo sistema per persuadére, robusto. L’esperienza ha subito nel corso dei secoli variazioni e in ogni caso muove sempre da qualche cosa che è arbitrario e quindi inaffidabile per un’argomentazione logica. In effetti, la logica cerca di partire il meno possibile dai dati dell’esperienza perché si rende conto che è sempre molto arbitrario, opinabile e vano, si rende conto che occorre qualcosa di molto più solido. Fino a qualche tempo fa era il calcolo numerico, poi dopo Cantor anche quello ha mostrato il fianco e allora è sorto il pensiero debole. Ecco, io propongo invece il pensiero fortissimo, così forte quanto non ce ne sono mai stati prima…

 

- Intervento: Io sono disarmata… io posso credere e non credere e quindi…

 

Possiamo credere a qualunque cosa, infatti la più parte delle persone credono un’infinità di cose, alcune un po’ problematiche, nel senso che creano dei problemi. Anche solo la questione di dio ha creato per molte persone dei problemi se non intendevano credere una cosa del genere, ancora oggi se non fosse che le condizioni sono cambiate, ma altri che sono un po’ più animosi come gli islamici. Vede, certe volte credere una qualunque cosa diventa un problema non tanto perché lei ci crede ma perché la più parte delle credenze, delle superstizioni, è come se esigessero di essere condivise e questo è un problema, così come quando esattamente allo stesso modo lei vuole persuadére qualcuno di qualche cosa, vuole che le sue ragioni siano accolte dall’altra persona. Quando per esempio pensa di aver ragione vuole che questa persona gliela dia questa ragione, almeno ci prova, però ci prova, e perché ci prova? Vede, la struttura è la stessa dell’islamico che vuole persuadére l’altro magari con sistemi… oppure i cattolici di qualche secolo fa o gli ebrei un po’ di tempo prima. Gli ebrei avevano fama, molto tempo prima della nascita di Cristo, di essere uno dei popoli più feroci e sanguinari, ironia della sorte. Ecco, dicevo perché può essere importante riflettere sulla questione della prova e della credenza, ecc., perché può condurre a conclusioni che talvolta possono avere dei risvolti spiacevoli. Anche Hitler pensava che gli ebrei fossero una razza inferiore, aveva torto o ragione, secondo lei?

 

- Intervento: Dipende dal punto di vista.

 

Infatti, quindi lui ha fatto benissimo a fare quello che ha fatto, visto che dal suo punto di vista era giusto così. (…) Ma lui sentiva fortemente questa avversione contro gli ebrei… (Lui sì ma gli altri no.) Non si può pretendere che tutti… certo, perché vede la questione fondamentale in tutto ciò che andiamo dicendo è che accogliendo alcune tesi, accogliendole così perché sembrano vere, si è indotti poi ad accoglierne altre che possono diventare diciamo pericolose, in un certo senso, pericolose soprattutto per altri ed è notevole il fatto che ciascuno, che creda di aver ragione su qualche cosa, cerchi di persuadére anche il prossimo alla sua ragione in un modo o nell’altro. Spesso è quell’altro che è un po’ problematico. E perché secondo lei uno che ha ragione vuole persuadére l’altro che le cose stanno come dice lui? Potrebbe dire £va bene tu pensi che abbia torto, va bene, nessun problema”. Perché invece si fa di tutto per persuaderlo? Che ne ha quando lui gli dà ragione?

 

- Intervento:…

 

È una questione complessa certo, perché da qui seguono tutta una serie complessa di elementi importanti. Proviamo a fare questa operazione, proviamo a giustificare il fatto che una persona che ha ragione cerchi di persuadére l’altra della propria ragione, poi dobbiamo stabilire i limiti oltre i quali non puoi andare, chi stabilirà questi limiti? Secondo i casi supponiamo che la persona sia recidiva in nessun modo voglia darle ragione quando lei ce l’ha, non le viene di prenderla a schiaffi? Adesso lei è dolce e mite, però talvolta…

 

- Intervento: Nel discorso religioso si può arrivare all’estremo a distruggere.

 

Sì, con l’esplosivo. Certo, adesso le facevo un esempio, quindi accogliendo una cosa del genere, cioè che è giusto che se ho ragione io cerchi di persuadére l’altro, posso giungere a conclusioni tali che giustificano se io compio un massacro. Perché non lo faccio? Non perché sono cattivo ma per il suo bene, si uccide sempre o quasi sempre per il bene dell’altro. Per questo dicevo che forse è bene considerare questi aspetti in modo un po’ più attento, ché possono avere implicazioni sgradevoli…lei pensa che io abbia ragione o abbia torto?

 

- Intervento: Ci penserò molto…

 

Quindici giorni sono sufficienti? (Anche di più.) Di quanto ha bisogno? (Certe volte ci vogliono anni.) E se fossero sufficienti dieci minuti, non sarebbe meglio? Così uno ha più tempo per pensare ad altre cose invece che rimanere bloccato sulle stesse questioni. Che cosa la lascia perplessa in tutto ciò? (Che non si riesce mai ad arrivare ad una conclusione assoluta.) Lo abbiamo appena fatto! (Perché …) Come lo sa? (La storia, è successo sempre così.) Questo non è… la storia ci dice che gli umani si sono sempre ammazzati fra di loro e quindi è bene che continuino a farlo, hanno sempre fatto così, chi siamo noi per impedire il corso della storia? (Penso che finirà prima o poi questo sistema.) C’è l’eventualità, certo (…) Sì, è possibile certo. Secondo lei il discorso che sto facendo io è un discorso bellicoso, porta guerre, catastrofi, mali…? (No, penso che è un discorso che aiuta a riflettere, dà delle idee sulle cose che dà per scontate e quindi questo può servire per…) Non avverte una minaccia in tutto questo? (No!) Allora gliela mostro io… (Dipende che cosa si intende con minaccia.) Catastrofi di proporzioni bibliche, lei pensi a questa eventualità, le persone cessano di credere in dio, nello stato, nel governo, nella famiglia, cessano di credere, perché non è più necessario, non sanno più cosa farsene, né di una cosa né dell’altra, né dell’altra ancora, come governare a questo punto? Chi mi darà retta? Nessuno. Se io impongo una verità, una necessità, mi diranno e mi dimostreranno facilmente che dico un sacco di stupidaggini, la catastrofe si profila all’orizzonte minacciosa, la dissoluzione di tutta la civiltà, di tutto ciò che gli umani hanno costruito negli ultimi tremila anni scomparirà, e adesso come la mettiamo? Roberto è soddisfatto nell’eventualità che si dissolva il mondo civile. Ovviamente occorrerebbe una ristrutturazione, come usa dire oggi un ribaltone, cioè cessa di esistere la civiltà così come esiste oggi e se ne inventa un’altra

 

- Intervento:…

 

Comunque non è un pericolo immediato, non è una minaccia incombente, per domani possiamo stare tranquilli, anche dopo domani, non ci saranno sovversioni di tale portata. Perché questo modo di pensare possa diventare funzionante ci vogliono molti anni, poi le dirò quanti. Una volta pensavo che ne occorressero cinquantamila adesso ho accorciato i tempi, perché sto andando un po’ di fretta allora devo necessariamente abbreviare, saremo vecchierelli lei ed io, si rende conto? Io certo, lei no!

 

 

DIMOSTRARE E CONFUTARE[6][6]

Io ho inteso negli incontri precedenti fornire alcuni strumenti, alcuni elementi della retorica, mostrare come pensare sia una questione da una parte molto semplice e dall’altra complessa. E avendo forniti alcuni strumenti è possibile che taluni fra voi abbiamo delle domande…

 

- Intervento: Ho riflettuto su queste cose anche leggendo “Psicologia delle masse” di Le Bon e allora mi chiedo quale funzione può avere appunto la retorica…

 

La massa ha potere oppure non ce l’ha? È una questione controversa, taluni sostengono di sì altri di no…

 

- Intervento: Mi sono chiesta se questa sera avrei capito un po’ di più.

 

Come persuadére le masse? Nobile ambizione. Un aspetto della retorica è sicuramente quello dell’arte del persuadére, un aspetto, non l’unico. Da moltissimi anni taluni si cimentano per trovare il modo di persuadére, poiché persuadére è anche trovare il modo di provare ciò che si dice o comunque provarlo in modo sufficiente perché altri lo credano. Difficilmente una qualunque cosa viene sostenuta se non è sostenuta da qualche prova, a meno che queste prove siano già acquisite. Se per esempio io voglio far credere a qualcuno che se si dà una martellata sul dito si fa male, non ho bisogno di tante operazioni perché sa già una cosa del genere, è già acquisita. Il problema sta nell’imporre qualche cosa che non è ancora acquisito e il sistema è quello comunque sempre di disporre le cose in modo tale per cui risulti come se io cercassi di convincere qualcuno che se si dà una martellata sul dito si farà male, cioè persuaderlo di qualche cosa che sa già o che ritiene di sapere già. Buona parte dell’abilità del retore consiste nel costruire una argomentazione in modo tale che le cose che deve imporre risultino già acquisite mentre non lo sono affatto. Come si fa ad ottenere una cosa del genere? Come è noto la persuasione poggia soprattutto su una figura che è nota come captatio benevolentiæ, cioè si cerca di catturare la benevolenza dell’interlocutore, perché se capta la sua malevolenza sarà difficile persuaderlo, come dire occorre farsene un amico anziché un nemico se lo si vuole persuadére.

E questo può ottenersi riuscendo ad intendere quali sono le cose per lui importanti, quali sono i suoi valori, le cose in cui crede, quelle a cui tiene di più. Sapute queste, la cosa da farsi è quella di non opporre mai nessun discorso alle cose cui crede, perché immediatamente si insospettirà, quindi anziché la benevolenza ecco che ci sarà la malevolenza, sarà sospettoso, diffidente e quindi poco disponibile ad accogliere le cose che andrà a dire, dunque accogliere tutto ciò che per lui è importante, dopodiché mostrare che a partire da queste stesse cose che per lui sono fondamentali, è possibile logicamente concludere non soltanto le cose in cui lui crede ma anche quell’altra cosa. Faccio un esempio: supponiamo che lui muova da un certo assioma che chiamiamo A, dal suo assioma lui giunge a un altro elemento che chiamiamo B e dal quale ancora a un altro elemento che chiamiamo C, tutto ciò retoricamente deve essere accolto, ma non soltanto, gli si fa notare che sempre muovendo da A, arrivando a B e poi a C è possibile concludere anche D, cosa a cui lui forse non aveva ancora pensato e cioè dalle stesse sue premesse è possibile giungere a una conclusione che non è opposta alla sua anzi, retoricamente occorre che non sia opposta alla sua, ma a fianco, adiacente, a questo punto se crede fermamente in A, B, C sarà costretto a credere anche in D, cioè nell’elemento che lei inserisce. Buona parte delle arringhe che si tengono nei fori di tutto il mondo da sempre funzionano così, se è vero questo allora necessariamente è vero quest’altro allora segue che è vero necessariamente questo terzo elemento (e lui non potrà obiettare nulla) e verrà inserito nel suo sistema di pensiero come elemento necessario, perché segue necessariamente alle cose in cui crede, quindi se crede le prime dovrà credere anche le altre. Questa operazione dispone le cose in modo tale per cui il suo interlocutore avrà a questo punto accolto un elemento che lei ha imposto, e che prima non esisteva nel suo discorso, non ci aveva pensato per un infinità di motivi, adesso non ha importanza quali, ma l’essenziale è che incominci a funzionare nel suo sistema di pensiero anche questo ultimo elemento, a questo punto dipende ovviamente dall’obiettivo che si prefigge, può o iniziare una operazione di scardinamento di tutto ciò in cui il suo interlocutore crede, però questo se lo vuole è persuadére è pericoloso, oppure continua con la captatio benevolentiæ e allora a fianco all’elemento D che ha già inserito aggiunge “ma se D perché allora non anche E che segue naturalmente? Perché il giorno in cui lei avrà acquisiti gli elementi e gli strumenti e sarà diventata sufficientemente abile, lei sarà sempre in condizioni di potere dedurre da una elemento un qualunque altro elemento, è soltanto una questione di numero di giri che dovrà fare, possono occorrerne di più o di meno, a seconda dei casi, della difficoltà della questione e della sua abilità, ma in ogni caso avrà la certezza che da un qualunque assioma potrà dedurre una qualunque altra conclusione, per cui non le sarà difficile aggiungere a ciò che il suo interlocutore dice un elemento che risulta assolutamente compatibile con le sue credenze e che si pone a fianco, dicevo adiacente alle cose in cui crede. In questo modo (e qui dipende dalla sua abilità oratoria) lei avrà ottenuto due risultati che sono importantissimi, il primo avrà consolidato le sue superstizioni, cioè le superstizioni del suo interlocutore, e questa è sempre cosa gradita all’interlocutore, dirà: visto che avevo ragione? Secondo, gli ha fatto notare un elemento a cui non aveva pensato e che immagina che lo arricchisca: questo è assolutamente falso naturalmente, però questo lei non glielo dice, poiché questo elemento lui immagina che lo arricchisca ma non lo arricchisce affatto, è soltanto un elemento che lei gli ha imposto e glielo ha imposto perché serve a lei per ottenere il suo obiettivo. Dunque, come suole dirsi, se lo sarà fatto amico, questa persona sarà consapevole del fatto di avere trovata un’altra persona che pensa come lui, non soltanto ma che è anche molto intelligente perché ha trovato un altro elemento che al suo interlocutore era sfuggito. A questo punto può anche corroborare il suo operato, diciamo che se riesce ad arrivare a questo punto è già a metà dell’opera, resta ancora un certo lavoro da fare, perché c’è sempre l’eventualità che il suo interlocutore possa porsi delle domande rispetto a questi elementi: i vari D, E che lei ha aggiunti, e allora deve fare in modo che questo non avvenga, perché se comincia a porsi delle domande potrebbe trovare delle controargomentazioni, per esempio, perché questi due elementi che lei ha aggiunti non sono del tutto legittimi, e allora lei glielo impedirà attraverso una dimostrazione, una dimostrazione che come ciascuna dimostrazione è retorica, però in questo caso utilizzerà delle argomentazioni che appaiono logiche, cioè gli proverà l’ineluttabilità di questa conclusione e soprattutto, questa dovrà fare, quella che gli antichi chiamavano reductio ad absurdum e cioè prendere la tesi contraria e provarla falsa, a questo punto il suo interlocutore si trova il lavoro bell’e pronto, non si chiederà più se ciò che afferma è vero perché il contrario saprà essere falso, e se il contrario è falso allora quello che pensa è necessariamente vero. Così generalmente pensano le persone, dunque gli avrà sbarrato il passo a ogni possibile tentativo di ripensamento, perché il ripensamento comporterebbe soffermarsi sulla tesi contraria che lei ha preventivamente provato essere falsa, a questo punto non le resta che indicare all’interlocutore quali sono le conseguenze necessarie di ciò che lui stesso crede, che è esattamente ciò che lei gli ha imposto di credere, come dire “se credi questo allora non puoi non fare questo, se vuoi essere coerente con te stesso. Ora lei utilizza un luogo comune che è quello per cui gli umani generalmente preferiscono essere coerenti e cioè non autocontraddirsi, non si sa bene perché ma di fatto avviene così, e quindi non si chiede perché, per il momento, semplicemente lo utilizza, e allora utilizzando sistemi analoghi mostrerà che una condotta che non tenga necessariamente conto di ciò che lei ha imposto di credere è autocontraddittoria, è incoerente, e di nuovo proverà che la tesi contraria è falsa cioè che se non si comporta in questo modo allora è un uomo dappoco, personaggio inutile perché non è coerente con le sue stesse idee, ché lei gli ha mostrate che sono le sue e quindi se ha fatto molto esercizio e appresi molti strumenti costringerà questa persona a fare esattamente ciò che lei vuole che faccia, facendo in modo che la persona non solo lo faccia di buon grado ma sia assolutamente convinta che ciò che sta per fare è l’unica cosa che può fare, l’unica degna di essere fatta, e se ha fatto un buon lavoro allora il suo interlocutore si farà anche ammazzare per questa idea, quella che lei gli ha imposto. Va bene così? Adesso deve metterlo in pratica naturalmente, trovare qualcuno su cui esercitarsi, occorre fare molto esercizio. Di che cosa vorrebbe persuadére qualcuno per esempio?

 

- Intervento: ma per adesso…

 

Per adesso non vogliamo persuadére di nulla nessuno, lasciamo tutti come stanno…

 

- Intervento: no, per il momento non mi viene in mente niente…

 

Cosa vorrebbe che facessero gli umani anziché fare ciò che fanno? A suo parere cosa occorrerebbe che facessero per essere degni di essere tali e cioè umani? “uomini siate e non pecore matte” diceva il nostro amico Dante Alighieri… (fare tante cose migliori) cose migliori, ciascuno già a modo suo potrebbe dirle che le sta facendo, anche chi compie esecuzioni in massa, dal suo punto di vista sta facendo la cosa migliore che possa farsi. Lei è mai riuscita a persuadére qualcuno di qualche cosa?

 

- Intervento: sì.

 

È stato facile o difficile? (difficile) in cosa è consistita questa difficoltà, questa persona è tuttora persuasa oppure si è dissuasa nel frattempo?  - Intervento: bisogna conoscere molto bene l’interlocutore.

 

Certo, occorre avere il maggior numero di informazioni su di lui, più si hanno informazioni e più si controlla, occorre conoscere le cose in cui crede, i suoi desideri, i suoi hobby, i suoi tic, le cose che ama, quelle che detesta, che lo infastidiscono, tutto, occorre fare un listaggio completo, è un lavoro utile, se vuole fare un buon lavoro, deve essere fatto per bene, e di cosa lo ha persuaso se non sono indiscreto? Magari sono indiscreto? Dell’immortalità dell’anima?

 

- Intervento: no, ma dirlo è una cosa complessa, ma si, sono riuscita…

 

E ha usato un sistema analogo a quello che ho descritto o è andata più per le spicce? Perché si può persuadére anche con un paio di ceffoni, però, adesso io indicavo un altro sistema… sì ha usato anche la reductio ad absurdum o quella l’ha lasciata in disparte? Cioè ha provato falsa la tesi contraria? 

 

- Intervento: Cioè?

 

Lei ha una tesi che deve provare, e anziché provare vera la prima dimostra che è falsa la contraria. Se io per esempio volessi sostenere che lei è italiana allora anziché fare questo proverei che affermare che non lo è, è falso… lei sa come si fa a confutare una qualunque tesi? Magari è bravissima (…) deve fare esercizio certo, va bene. (…) Sì l’informazione è essenziale, quando Cicerone preparava le sue arringhe e doveva difendere o accusare qualcuno, assumeva una quantità enorme di informazioni circa la persona di cui si occupava, pro o contro che fosse, perché qualunque elemento poteva essergli utile, qualunque, quindi non tralasciava nulla, allo stesso modo quando vuole dimostrare o confutare qualunque cosa occorre non tralasciare nulla, cioè nessun possibilità, se lei vuole confutare una tesi occorre che la confuti in modo tale che all’avversario non rimanga nulla da aggiungere, né alcuna obiezione da fare, cioè la confutazione deve essere totale, assoluta, che poi non lo è naturalmente ma occorre che appaia così. Uno dei sistemi più efficaci è quello di dimostrare che se si continua a sostenere quella tesi si è ridicoli, si è stupidi, perché soltanto una persona stupida può sostenere una cosa del genere, se riesce a fare questo ha fatto tutto, ché generalmente gli umani non tollerano di passare per stupidi e quindi se riesce a persuaderlo che fare in un certo modo è stupido allora non lo farà. Il ridicolo è un arma retorica formidabile. Per utilizzare questa arma retorica è preferibile che ci sia un pubblico. A tu per tu funziona male, l’altro magari se la prende e si scatena la rissa, invece di fronte a un pubblico è difficile che una persona si alzi in piedi e vada dall’oratore e lo picchi, non soltanto ma il ridicolo è efficacissimo perché comporta la partecipazione del pubblico, è come se lei riuscisse, con una battuta, a coinvolgere tutto il pubblico contro l’interlocutore, allora non è più uno contro uno, ma cento contro uno o quanti siano, e il pubblico viene coinvolto perché è riuscita a trovare qualche cosa che ridicolizza il suo interlocutore e gli umani sono sempre pronti a ridicolizzare l’altro, se lei gli fornisce il destro rideranno di lui, dopodiché, una volta riso dell’interlocutore, qualunque cosa lui dirà non sarà più credibile perché ormai è come se lei avesse insinuato che tutto ciò che potrà dire sarà comunque il conseguente di ciò che ha affermato e ciò che ha affermato è ridicolo e pertanto qualunque cosa dirà sarà ridicola. Risollevarsi dal ridicolo è sempre molto difficile, c’è la possibilità chiaramente, ma non a tutti riesce e non è sempre facile. Comunque se riesce, il ridicolo è un arma molto potente, non è il modo migliore per farsi degli amici, ma in quella circostanza…

 

- Intervento:…

 

Riuscendo in una operazione del genere a questo punto è chiaro che non deve infierire, ché se no poi diventa cattiva, deve magnanimamente lasciare cadere la questione, il pubblico farà il resto. Sono strumenti poco leali, usiamo questo termine, ma molto efficaci, e un retore non è una persona leale per definizione, è una persona che cercherà di ottenere il suo scopo attraverso tutti i sistemi, soprattutto quelli sleali, e di questo, in un agone dialetti per esempio, occorre tenere conto. Ci sono delle avvertenze, se ne discuteva qualche giorno fa con gli amici, per esempio: se lei dice qualche cosa che disorienta l’interlocutore non deve in nessun modo lasciargli il tempo per riflettere, tutto il tempo che gli lascerà per riflettere il suo interlocutore lo userà contro di lei e quindi appena l’interlocutore è smarrito, deve immediatamente spostare l’attenzione su un'altra questione, ciò che rimarrà è il suo smarrimento, che di fronte a una giuria ha un peso non indifferente, la giuria penserà che di fronte a questa questione si è smarrito e quindi o ha la coscienza sporca oppure se è in un agone dialettico non sa come obiettare e quindi non ha elementi sufficienti, in ogni caso avrà perso. Un agone dialettico è un po’ come una gara di scherma, deve cogliere la minima disattenzione dell’avversario, appena si distrae lei insinuerà un elemento a cui il suo interlocutore non ha pensato e quindi lo colpirà dialetticamente. Come sa una volta, e se non lo sa glielo racconto, i gesuiti, la Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Layola, addestrava i ragazzini agli agoni dialettici, che si svolgeva, come Roberto sa bene, fra due persone più un giudice, una persona doveva sostenere una tesi e l’altra confutarla; perché facevano questo esercizio? Perché i gesuiti, allora come adesso, addestravano i futuri capi dello stato o dell’industria (i quali siccome avrebbero dovuto governare sarebbero dovuti essere abilissimi nel fare apparire con il loro discorso qualunque cosa, se occorre che appaia il pericolo si deve fare vedere il pericolo, se occorre che appaia la pace, si deve far vedere la pace, indipendentemente da tutto ciò che circonda) e quindi non affermare delle cose ma essere in condizioni di sostenerle di fronte a un contraddittorio. Il contraddittorio è una circostanza in cui una persona afferma una cosa e l’altra cerca di contraddirla, di farla cadere in. Questo esercizio ha avuto dei buoni risultati, almeno per le persone che si sono formate con i gesuiti, come il sottoscritto, almeno in parte poi fui cacciato… adesso non sto a raccontarvi aneddoti sgradevoli ma, dicevo, ha ottenuti notevoli risultati perché un esercizio del genere mostra come qualunque cosa possa essere provata e possa essere confutata. Il buon retore è sempre in assoluta malafede, questo per un buon motivo: essendo sempre in malafede, cioè non avendo nulla in cui credere, nulla da difendere né da proteggere non si distrae mai dal suo obiettivo, è sempre molto attento a ciò che il discorso va facendo, va producendo, a quale piega sta prendendo il discorso; se lei invece è mossa da un furor sanandi oppure da un furor persuadendi, cioè deve persuadére l’altra persona perché convinta di essere dalla parte della ragione, questo furore le impedirà di essere assolutamente lucida e questa lucidità le serve per potere reperire nel minor tempo possibile tutta quella quantità di elementi, di argomenti indispensabili per abbattere il suo interlocutore, se è questo l’obiettivo ovviamente, visto che lei voleva sapere come si fa, dunque sempre in assoluta malafede e mai distrarsi dall’obiettivo che è quello di giungere a provare che la tesi dell’interlocutore è falsa, è necessariamente falsa, e siccome lei sostiene il contrario andrà da sé che quello che sostiene lei sarà necessariamente vero.   Tutto questo che vi sto riassumendo in poche parole, chiaramente è stato descritto in questi ultimi duemilacinquecento anni da coloro che si sono occupati di retorica, certo lo trovate frammentato nella sterminata letteratura intorno alla retorica e all’oratoria. Un buon esercizio è anche leggere l’oratoria sacra, esistono dei testi interessanti: l’abate Bossuet è rimasto celebre per i suoi sermoni, lungo i quali riusciva ad ottenere risultati eccelsi fra i suoi parrocchiani al punto che buona parte delle sue prediche sono state utilizzate da alcuni manuali di retorica per la ricchezza, la mobilità e la persuasività del suo discorso. Buon esercizio sono anche i testi dei gesuiti, come vi dicevo, stavo per dire tutti coloro che si muovono in malafede ma adesso non voglio passare per una persona blasfema, non timorata da dio… dunque grosso modo queste sono le tecniche, almeno quelle principali, per persuadére e quindi vincere un agone dialettico. A lei non deve importare, se intraprende questa via, non deve importare minimamente che cosa sia vero o falso, ma soltanto quali sono i modi, quali sono gli argomenti e quindi le argomentazioni più utili per giungere all’obiettivo a cui lei vuole giungere e nient’altro che questo. In questo senso dicevo malafede, questo almeno in buona parte della retorica chiaramente. È chiaro che mettere in pratica tutto questo può non essere facilissimo, una delle parti meno semplici è quella di essere in malafede, parrebbe la più semplice e invece no, è una delle più difficili, perché sicuramente lei crederà alcune cose e quando vorrà provare che le cose in cui lei crede sono vere, lei sarà distratta da questo compito, cioè dal fatto che essendo le cose in cui lei crede vere dovrebbero quasi magicamente mostrarsi da sé, e quindi cercherà soltanto di convogliare l’interlocutore a riconoscere qualcosa che ritiene essere vero di per sé. Questa è una operazione da non fare mai se ci si trova in un agone dialettico, mai cercare di persuadére l’interlocutore di qualche cosa, perché occorre distinguere fra cercare di persuadére qualcuno dalla situazione differente che è quella di un agone dialettico, sono due situazioni totalmente differenti. La prima è quella che ho descritto, cioè del come persuadére altri a fare ciò che io intendo che facciano, la seconda invece è come abbattere una qualunque obiezione, che è diverso: se lei abbatte l’obiezione dell’interlocutore non lo avrà persuaso, lo avrà soltanto ridotto al silenzio, quindi dipende dall’obiettivo che lei intende raggiungere utilizzare l’una cosa oppure l’altra, cioè metterlo, nel secondo caso, nell’impossibilità di replicare alcunché, in questo caso occorre che sia in malafede, nel primo lo è già di per sé e quindi non si pone il problema. Il primo cioè il caso in cui intende persuadére qualcuno a fare ciò che lei vuole che faccia, allora in questo caso non deve creargli dei problemi ma anzi fargli credere che glieli elimina, che rende la vita più facile, rende tutto più scorrevole. Come dire: “tu credi questo, certo che credi questo, è l’unica cosa degna di essere creduta, ma non soltanto questo visto che entrambi crediamo questa cosa, non possiamo non credere anche a quest’altra”, che è quella che lei vuol fargli credere ovviamente, qualunque sia. Tutte queste operazioni sono note da duemilacinquecento anni, non soltanto i retori ma i sofisti erano molto abili, avevano raggiunto una notevole abilità in questa disciplina che non è più neanche retorica, poi è sempre difficile stabilire dei parametri, chiamare retorica una certa cosa, oratoria o eristica un’altra. I sofisti erano noti per praticare l’eristica, eristica è quell’arte che consiste nel provare una tesi vera e provare altrettanto vera la contraria. Creavano un po’ di smarrimento, però anche loro insegnavano ai giovani rampolli di nobili e ricche famiglie quest’arte che poi è passata di mano ai gesuiti. L’eristica, mai sentito parlare dell’eristica? L’eristica è l’agone dialettico più sfrontato, portato alle estreme conseguenze, come se per esempio lei sostenesse una certa cosa e io sostenessi che la cosa che sostiene è falsa e allora crede vera un’altra cosa e allora comincio a dimostrare che anche quest’altra cosa in cui crede è altrettanto falsa. Un po’ così come ho fatto ultimamente. Ma dove conduce questo? Ivana, dunque a suo parere dove conducono tutte queste cose? A una catastrofe generale? Oppure no, come si diceva negli anni 60, a un mondo migliore? Non conducono alla catastrofe? Perché no? Sì quale per esempio? (…) e ritiene che sia provvisto di tale istinto? (….) come lo ha saputo? Lo ha saputo da qualcuno che glielo ha spiegato, o è una sua conclusione di un ragionamento che ha fatto? Secondo lei perché una persona vuole distruggere qualcun altro? Lasciamo momentaneamente da parte l’istinto che è una questione un po’ ardua a sostenersi, deve avere dei buoni motivi per farlo, no? Per esempio gli americani hanno dei buoni motivi per distruggere Saddam Hussein, lui ha dei buoni motivi per distruggere gli americani e così via, come dire che c’è un buon motivo per distruggere qualcuno o qualcosa, possono essere infiniti ovviamente, e questi buoni motivi da dove vengono se non da considerazioni che sono state fatte, considerazioni che possono anche non farsi in modo articolato, però uno può essere infastidito da una certa cosa anche se non sa perché, ma il fatto che una determinata cosa lo infastidisca non è del tutto casuale, è come se il suo discorso fosse costruito in modo tale per cui un certo elemento, se interviene, deve essere immediatamente eliminato. Le faccio un esempio banalissimo, un fervente cattolico deve eliminare immediatamente qualunque dubbio circa la sua fede, se è un vero credente, qualunque dubbio gli passi per la mente, perché mina la sua fede e va contro il volere di dio. La struttura è la stessa, qualunque elemento che mini in qualche modo un certo sistema viene eliminato, se questo elemento è una persona subisce la stessa sorte, viene eliminata. Pensi alla mafia, come dice Andreotti non esiste, però secondo la tradizione antica invece… ma facciamo finta che ci sia, è una struttura organizzata come lo stato, dove qualunque elemento che intervenga a minacciare l’incolumità dei componenti di questa organizzazione e la stabilità dello stato o comunque di questa organizzazione deve essere eliminata, in che modo? Prima con l’avvertimento poi c’è la corruzione e poi come ultima ratio c’è l’eliminazione fisica che è sempre efficace d’altra parte: l’elemento che minaccia il sistema deve essere eliminato. Immagini il suo pensiero come un sistema costruito con delle regole, le cose in cui crede, i suoi valori ecc. la stessa tolleranza può essere un valore per cui non sopporta gli intolleranti ed è assolutamente intollerante nei confronti degli intolleranti, come dire “non ci sono più assassini, abbiamo ammazzato l’ultimo questa mattina” paradossi un po’ ridicoli, però funzionano, ecco quindi immagini il suo pensiero come un sistema più o meno chiuso fatto di regole e di convenzioni, i suoi valori, le cose in cui crede, questo sistema ha una sua coerenza grosso modo all’interno di sé, se tale coerenza viene minacciata è come se tutto ciò in cui crede, tutto ciò che per lei è importante rischiasse di perdere il suo valore, accade allora che lei si trovi a difendere questo sistema, la mafia fa esattamente la stessa cosa. Magari utilizza la doppietta a canne mozze mentre lei utilizza la persuasione, più nobile e pulita, però la struttura non è molto dissimile, quindi c’è l’eventualità che la persuasione possa portare anche a effetti catastrofici. Lei ha letto per esempio il Giulio Cesare di Shakespeare, ci sono due discorsi, quello di Bruto e poi quello di Antonio. Il discorso di Bruto mira a giustificare l’atto dell’assassinio di Cesare: “abbiamo ucciso Cesare non perché contro di lui ma perché Cesare era un tiranno” e dimostra per quali motivi era un tiranno, che inseguiva la sua sfrenata ambizione e non l’interesse di Roma, “perché fu ambizioso l’ho ucciso” e quindi “lo amavo, ma amo Roma di più”. Un discorso nobile quello di Bruto. Antonio, da buon oratore, che cosa deve fare a questo punto? Deve porre le condizioni per dimostrare che l’affermazione di Bruto che ha ucciso non per odio personale ma per salvare Roma e quindi tutti i cittadini è assolutamente falsa, e cioè Bruto ha ucciso per motivi personali, di rancore e invidia. Per potere fare questo ha dovuto compiere un’operazione complessa perché a quel punto era in minoranza, anzi qualcuno cominciava già a rumoreggiare tra la folla e minacciare di non volerlo nemmeno farlo parlare, però lui usa quella figura di cui parlavo prima nota come captatio benevolentiæ e dice mestamente e umilmente che non è venuto lì per difendere Cesare, ma soltanto per seppellire un amico. Chi rifiuterebbe a qualcuno di seppellire un amico? Nessuno, e quindi utilizzando questa captatio benevolentiæ ottiene l’attenzione dell’uditorio e così lo fanno parlare, dopodiché incomincia a riprendere i vari punti del discorso di Bruto, ovviamente quelli che gli servono, non tutti, solo quelli che gli servono e giunge a concludere, con vari passaggi, che Bruto ha ucciso un uomo il quale aveva fatto grande Roma, il quale prima di morire ha scritto un testamento in cui lascia una quantità enorme di beni ai cittadini, ha arricchito le casse dello stato sollevando la popolazione da infinite tasse (un discorso che funziona sempre a tutt’oggi) e che in definitiva ha reso Roma grande e se esiste l’impero di Roma è perché Cesare lo ha fatto ma, dice Antonio, che Bruto sostiene che Cesare era ambizioso, Cesare vi ha fatto grandi, fu ambizione questa? Ma Bruto è uomo d’onore… insomma giunge mano a mano al suo obiettivo e cioè a scatenare la guerra civile e conclude “malanno ormai sei scatenato, segui il corso che vuoi” ha acceso gli animi, le persone correvano per le strade ad inseguire Bruto, Cassio e tutti quegli altri autori del complotto per ucciderli, loro si rifugiarono poi fuori Roma, organizzarono un esercito e scoppiò la guerra civile. Come accade. Chiaramente è una ricostruzione di Shakespeare, molto bella, testimoni oculari non ce ne sono più ma rimane la considerazione che la parola può avere un notevole potere, anche perché tutto ciò che lei crede, immagina, pensa, opina, tutto ciò di cui lei è fatta in definitiva, tutto ciò che lei è, è costruito dalle parole, né più né meno…

 

- Intervento: Pensavo che spesso in televisione ridicolizzano l’uomo politico concedendogli però tutto l’assenso quando si suppone possa fare il proprio interesse…

 

Sì certo, la televisione, non sapevo che la usassero per fare queste cose perché io non posseggo un televisore e quindi non so cosa dire, però di fatto da tempo la televisione utilizza la quinta parte della retorica e praticamente solo quella, quella che era nota come ypocrisis o actio per i latini e cioè l’agire o l’azione, i retori la usavano per mimare il loro discorso e per rendere con l’azione più efficace il loro discorso, adesso il discorso in quanto tale è ridotto a poco, c’è soltanto l’agitarsi di telecamere che inquadrano ora questo ora quello; se si vuole per esempio ridicolizzare qualcuno lo si prende e lo si fotografa in un momento particolare, quando si gratta la testa, quando fa qualche malanno, come dire questo è il simbolo, l’emblema della persona… cosa che viene utilizzata continuamente. Ciò che viene messo in atto è che ridicolizzando qualcuno non è sempre necessariamente il volere distruggerlo, può in alcuni casi essere fatto differentemente e cioè per mettere in luce un aspetto umano più tenero, per esempio, una sorta di benevola presa in giro, la quale favorisce il personaggio perché lo rende più vicino ai telespettatori. Come dire: guarda, anche lui è uno di noi, è come noi anche lui si gratta il naso quando gli prude, anche lui fa queste cose. La retorica oggi avvale sicuramente del mezzo televisivo, prendete per esempio il telegiornale, viene montato come si monta un film, il montaggio può inquadrare degli elementi dando quindi risalto a un particolare aspetto, esattamente così come si costruisce un discorso, dando risalto a un dettaglio, mettendolo in gran luce e sorvolando su altri, anziché con la parola lo si fa con la telecamera e cioè quella che i greci chiamavano la ypocrisis, l’azione. Dopo avere per esempio montato una scena dove i bambini muoiono di fame e straziati dalle bombe a mano, mostro un personaggio che devo demolire, il quale si abbuffa al ristorante assieme con gli altri a spese del governo, e il telespettatore dice “guarda, questi muoiono di fame, straziati dalle bombe e lui se ne sta lì al ristorante, dove si paga trecentomila lire a testa a farsi le sue abbuffate, maledetto tu e tutta la tua specie, se aspetti che ti rivoti, te lo scordi”. Naturalmente montare il telegiornale comporta una intenzione, esattamente come una argomentazione retorica, se deve demolire un avversario farà in un certo modo, se vuole metterlo in buona luce allora non lo farà vedere che si abbuffa dopo lo spezzone filmato dei bambinetti straziati dalle bombe, ma lo inserirà in un altro momento, dopo una ripresa di un terremoto lo riprenderà mentre accorre e si precipita a porgere i primi aiuti ai terremotati o mentre pilota lui stesso una colonna di aiuti a questa gente, e il telespettatore dirà: “Guarda, però è uno dei pochi che si muove e fa qualcosa di concreto, tutti gli altri fanno solo un sacco di chiacchiere, almeno lui si alza dalla poltrona e fa qualcosa per qualcuno, merita di essere votato. C’è tutta una organizzazione che si occupa di fare questo, persone che studiano come organizzare, come montare un telegiornale, cioè hanno una infinità di pezzi, che poi si tratta di utilizzare; così come il reperimento del materiale, quella che nella Grecia antica era nota come la prima parte della retorica, la eúresis, o inventio in latino: trovare le cose da dire, una volta che si hanno occorre disporle in un certo modo, una volta disposte in un certo modo, vanno dette in un certo modo, e una volta occorreva mandarle a mente, adesso non serve più perché ci sono le telecamere. Dunque avere a disposizione materiale e poi disporlo in un certo modo, taxis dei greci, la dispositio, come lo disponiamo? A seconda di cosa si vuole ottenere, se invece, a proposito di un certo popolo, anziché mostrare i bambinetti affamati e straziati dalle bombe a mano faccio vedere invece maschi adulti che tagliano la testa a dei bianchi (supponiamo che loro non lo siano) allora non sono più povera gente che ha bisogno di un aiuto, anziché medicinali e viveri gli si manderanno i carri armati, nel senso che una operazione del genere, per esempio se si ha in mente una operazione militare favorisce questa operazione, la favorisce nel senso che si cerca di diminuire almeno l’eventuale opposizione, uno si oppone però dice “ti opponi però la più parte della gente è con noi, tutti vogliono andare là e distruggere questi disgraziati” oppure “tu vuoi andare là e dargli una mano” (a seconda dell’intenzione del momento”) e quindi sono operazioni retoriche, certo! Utilizzando lo strumento della telecamera viene montato… adesso facevo l’esempio del telegiornale, ma così come ogni altra cosa, così come gli antichi greci o latini, insomma gli oratori montavano e montano a tutt’oggi un discorso retorico, con la stessa attenzione, con gli stessi criteri, a seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere, se Antonio e Bruto avessero avuto a disposizione la televisione avrebbero fatto differentemente.

 

- Intervento:…

 

Nel discorso occidentale, almeno dopo la riforma, il denaro ha assunto un’importanza notevole, come se fosse caro a dio. Soprattutto da parte calvinista, però non in tutto il mondo è così, è difficile per esempio fermare degli integralisti islamici offrendo loro del denaro, se ci prova rischia moltissimo, una raffica di mitra nello stomaco potrebbe essere fastidiosa, perché lì i valori sono differenti, anche se chiaramente nel mondo islamico gira una quantità enorme di quattrini, ma una quantità di persone non sono sensibili né si fermano di fronte ai quattrini e una argomentazione costruita su questo avrebbe poco effetto. Certo, se un’argomentazione del genere è posta nella borghesia inglese allora sì, per esempio: “guardate che se fate così lo stato si impoverisce e noi vi carichiamo di tasse…”

 

- Intervento: mi domandavo se la retorica del denaro può fare a meno della parola…

 

Comunque trasmette un’informazione e se una persona dà del denaro ad altri ha sempre un buon motivo per farlo, e se uno cerca del denaro ha dei buoni motivi per cercarlo e andrà da chi glielo offre e ci sono sempre comunque a fondamento delle argomentazioni che muovono e a cercare denaro e quell’altro a darglielo eventualmente. Il denaro di per sé, se non c’è qualcuno che lo fa funzionare, che gli attribuisce un senso, può essere nulla. È sempre comunque qualche cosa che è inserito all’interno di una struttura, di un sistema linguistico, per cui assume di volta in volta varie funzioni… 

 

Intervento:… 

 

Ritiene che la retorica sia uno strumento utile o totalmente inutile? (…) se usato è generalmente per un motivo e quindi per chi lo usa, almeno per lui sarà utile, dal momento che nessuno cerca di persuadére qualcuno se non ha un motivo per farlo, qualunque esso sia, anche solo per divertirsi…

 

- Intervento: Un motivo può essere la libido docendi.

 

“Libido docendi”? Sì, può essere qualunque cosa, però è sempre qualcosa che muove così come c’è sempre qualcosa che muove a parlare, a dire qualunque cosa sia. “Libido”, è un termine che Freud ha utilizzato per indicare una spinta che non sapeva descrivere altrimenti, che a suo parere era mossa comunque dalla sessualità. Ritiene sostenibile ciò che afferma Freud? (….) Saprebbe provare che è necessariamente falso? Non ci prova proprio, cioè starebbe male se ci riuscisse, ho capito, va bene allora lasciamolo così… 

 

Mostrare questi aspetti all’interno del proprio discorso è ciò che ha in animo di fare questo nuovo personaggio che si delinea all’orizzonte, cioè l’analista della parola, mostrare come è costruito il proprio discorso, su che cosa e per quale motivo, quali proposizioni, quali assiomi, quali principi sostengono il proprio discorso e cioè che cosa muove a credere le cose in cui si crede e a fare le cose che si fanno, un’operazione che più che al retore è prossima al sofista, in modo da consentire a ciascuno che abbia voglia di farlo di non essere costretto dalle proprie argomentazioni a fare cose che magari non hanno nessun interesse, così come accade di essere costretti da quelle di altri, come dire che se io credo questo allora se credo questo è necessario che faccia questo. Ma perché credo questo? Ci credo perché fa parte del sistema che devo difendere, ma perché difenderlo, da chi se non da me? C’è l’eventualità di accorgersi che magari questo operazione complicatissima e molto dispendiosa non è necessaria. Questa operazione di difesa delle proprie credenze e delle proprie superstizioni, dei propri tic è ciò che Freud indicava prima come nevrosi.

 

 



[1][1] Incontro del 6 ottobre 1998 presso la Libreria Araba Fenice di Torino

[2][2] Incontro del 20 ottobre 1998 presso la Libreria Araba Fenice di Torino

[3][3] Incontro del 3 novembre 1998 presso la Libreria Araba Fenice di Torino

 

[4][4] Incontro del 17 novembre 1998 presso la Libreria Araba Fenice di Torino

[5][5] Incontro del 1 dicembre 1998 presso la Libreria Araba Fenice di Torino

 

[6][6]Incontro del 15 dicembre 1998 presso la Libreria Araba Fenice di Torino


 INDIETRO