EQUIPE DI LETTURA

AGOSTINO - Le Confessioni

20 agosto 1993

 

 

La volta scorsa abbiamo detto alcune cose intorno a un aspetto che ha sottolineato Agostino. Ricordate che rispondeva in un certo modo alle obiezioni intorno al tempo: se dio esisteva prima del tempo e cosa facesse prima di creare il mondo.

Ora, quello che ci interessa non è tanto la questione teologica o filosofica o teorica, ma una questione logica e connessa alle sue argomentazioni. Le notazioni che fa lui intorno al tempo: così giunge a indicare o spiegare il tempo come una sorta di estensione dell’anima che consente di cogliere il prima, il dopo e l’adesso. Senza questa estensione, in effetti, non c’è possibilità di cogliere tre aspetti. Notazioni di un certo interesse, come abbiamo detto.

Tuttavia, possiamo muovere alcune obiezioni, non alla filosofia o alla teologia di Agostino, ma alle sue argomentazioni.

La prima questione che può porsi è questa: dio, creando il tempo, ne ha creato la sua pensabilità e così, come ha creato il tempo, evidentemente, ha creato anche l’esistenza.

O dio ha creato l’esistenza oppure questa esisteva senza di lui. Ma nel secondo caso, dio non esiste. Non esiste per sé, ma per altro. Nel primo caso, invece, utilizzando le stesse argomentazioni di Agostino intorno al tempo, non possiamo non concludere che l’esistenza, prima di dio, non esisteva. Dunque, non esisteva neppure dio, non esisteva prima della creazione.

Questa obiezione che può farsi a Agostino tiene conto unicamente della sua argomentazione, né pone dubbi sull’esistenza di dio né se ne occupa. Ma lo pone come argomento. Perché è il suo stesso argomento intorno al tempo, soltanto che qui, anziché intorno al tempo, è riferito all’esistenza.

Ma possono dirsi altre cose, per esempio intorno al tempo.

La misura del tempo avviene, secondo Agostino, mediante l’anima. Cioè, il prima, l’adesso e il dopo sono presenti nell’anima e non nel tempo, dice lui.

Già qui possiamo dire che Agostino non indica affatto che cosa è il tempo, ma soltanto che cosa lo possa misurare. Non è vero, quindi, cosa dice lui, di avere risolto il problema del tempo, perché del tempo non dice assolutamente niente.

Terza obiezione. Dice che il tempo è misurabile, misurabile se c’è l’anima che lo misura. Ma c’è misura proprio in quanto c’è un prima, cioè, quando ha inizio la misurazione. Ma il prima e il dopo, in quanto tali, non esistono se non nell’anima che li misura. Tuttavia, perché possa darsi occorrono un prima e un dopo. Da qui la regressio ad infinitum.

Quarta obiezione. La condizione della misurabilità, dice lui, è l’estensibilità nello spazio. Ma l’estensione nello spazio comporta l’esistenza simultanea dei punti di cui questo spazio consiste, in cui consiste la misurazione, che è fatta di punti. Se i punti sono simultaneamente presenti nella misurazione, allora non esistono, sempre per le sue argomentazioni, né il passato né il futuro. Ma se non ci sono né passato né futuro, non c’è la condizione della misurabilità. Da qui la considerazione per cui l’estensibilità esclude la misurabilità. Come dire, in altri termini, che il tempo è misurabile, come dicono i logici, se e soltanto se è misurabile.

Vi ho raccontato tutto questo per un motivo ben preciso. La questione che pone un’argomentazione è naturalmente la sua validità, nel senso che ciascuno costruisce delle argomentazioni, sia da esporre a altri sia da esporre a sé, che siano valide, sostenibili. Non è credibile che qualcuno costruisca un’argomentazione per sé che ritiene del tutto infondata, insostenibile, scombinata.

Non stiamo adesso a discutere quali siano i criteri di validità di un’argomentazione, ma soltanto ci occupiamo della ricerca della validità di un’argomentazione.

Il fatto che Agostino riesca a confutare l’argomentazione dei manichei o di altri, attraverso un’argomentazione, attribuisce immediatamente alla tesi sostenuta da Agostino la validità contro, invece, la falsità della tesi avversaria, che si è dimostrata falsa attraverso argomentazioni.

Ora, abbiamo letto Agostino e leggeremo altre cose intorno a alcuni di questi teologi, filosofi, che si sono scontrati con la necessità di dimostrare, attraverso argomentazioni, l’esistenza di dio, perché è una questione tutt’altro che semplice da dimostrare.

Questo li ha costretti a affrontare un sistema argomentativo, logico e teorico, molto sofisticato. Basta che leggiate i logici medievali e vi accorgete alla finezza delle loro argomentazioni. Come dire, in altri termini, che occorre almeno sapere dimostrare l’esistenza di dio. Se non sapete dimostrare l’esistenza di dio, non sapete dimostrare niente. Questo ha delle implicazioni. Non sapendo dimostrare nulla, vi trovate costretti a credere nella dimostrazione dell’esistenza di dio. Ciascuna dimostrazione, per definizione, dimostra l’esistenza della verità, l’esistenza della verità di qualche cosa, per diritto o per rovescio, cioè, dimostrando la falsità delle teorie contrarie. Questo non ci interessa.

Dimostrando l’esistenza delle cose, dimostro qualcosa di particolare, qualcosa che è così perché non potrebbe essere altrimenti che così: la sostanza delle cose, dio. Ciascuna dimostrazione dimostra l’esistenza di dio.

Ora, come dicevo prima, o si è in condizione di dimostrare l’esistenza di dio senza crederci, o si è costretti a credere che la dimostrazione dimostri l’esistenza di dio, e ci si trova, cioè, a credere in ciò che si suppone dimostrato. Con tutto ciò che questo comporta, cioè l’arresto della ricerca e, quindi, dell’elaborazione teorica.

L’arresto sta proprio in questo, che un elemento si ritiene dimostrato. È dimostrato e, dunque, non ha necessità di essere esposto alla parola, alle sue pieghe. Come dire, in altri termini, che c’è almeno un elemento che è così, perché non può essere altrimenti che così. Ci sono molti modi in cui ciascuno giunge a una dimostrazione, questione che ciascuna volta lo porta poco lontano. Aristotele illustra alcuni tipi, “topici”.

L’entimema, letteralmente sarebbe “in pectore”, è un sillogismo, la forma di inferenza più usata nel discorso di ciascuno. È un sillogismo in cui manca uno dei tre aspetti da cui il sillogismo è composto: le due premesse - una maggiore e una minore - e la conclusione.

Ciascuna argomentazione si avvale di un sillogismo, il più delle volte un entimema, che è una forma abbreviata di sillogismo. Ne hanno qualche rudimento anche i logici antichi. Prendiamo il più classico sillogismo di Aristotele: “Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, dunque, Socrate è mortale”.

Si distinguono tre tipi di entimema, secondo che manchi la premessa principale, la secondaria o la conclusione. Nel primo caso l’entimema suona così: “Socrate è uomo, dunque è mortale”. Il secondo caso dice questo: “Se tutti gli uomini sono mortali, Socrate è mortale”. La terza forma, la più efficace, dice: “ Tutti gli uomini sono mortale e Socrate è un uomo” e si ferma. Ciascuno è invitato a concludere che Socrate è mortale. Dicevo che è la forma di inferenza più efficace, non tanto perché, come dicono i retori o coloro che si occupano di retorica e di linguistica, il discorso risulti più efficace perché più abbreviato, perché fa fare meno fatica consentendo di giungere alla conclusione più rapidamente evitando delle pesantezze e delle lungaggini che potrebbero rendere farraginosa l’operazione. Non è questo. È che la sospensione della conclusione produce la complicità. Questa che in retorica si chiama aposiopesi, cioè reticenza o sospensione di ciò che sto per dire ma che non dico, ha questa funzione, che assolve in modo straordinario. Perché produce complicità. Perché non pone di fronte un’asserzione che può essere negata, confutata, discussa. Quindi, non c’è niente da confutare, né da discutere, né da obiettare. Solo da accogliere.

Dicendo che tutti gli uomini sono mortali e Socrate è un uomo, non dò nessuna conclusione che possa mettersi in discussione.

Per quel fenomeno che Hjelmslev chiamava encatalisi: ciascuno si trova, in una certa accezione, costretto a concludere il sillogismo, a renderlo completo.

C’è in musica qualcosa di simile, che è noto come effetto zaghermich, che consiste nell’omettere la battuta conclusiva di una frase musicale che, quindi, resta sospesa, e ciascuno pertanto è portato a inserire la battuta che chiude la frase musicale, avvertendo un certo disagio proprio là dove resta sospesa.

C’è stato un film recentemente, “Roger Rabbit”, dove a un certo punto il coniglietto si nasconde perché inseguito. E l’inseguitore lo stana con questo effetto zaghermich. Cioè, gli canticchia un motivetto lasciando in sospeso l’ultima battuta. Roger Rabbit in nessun modo riesce a resistere alla tentazione di concludere il motivetto, cosicché a un certo punto esplode e canta la frase finale. Così, lo trovano subito.

Per dire come possa mettere a disagio una frase musicale, o una frase tout-court, che lasci in sospeso l’ultima battuta. Quindi, viene immediatamente, direbbe Hjelmslev, “encatalizzata”, e quindi completata, aggiungendo ciò che si “suppone” mancante.

Da qui, dicevo prima, la straordinaria efficacia dell’entimema, efficacia che, chiedendo e ottenendo la complicità, instaura un’adesione e una persuasione molto più efficace di quanto si potrebbe ottenere con un sillogismo completo. In quanto non sono io che concludo, ma è l’altro stesso che conclude di per sé. Perciò, se la conclusione è la sua e quindi ne è immediatamente persuaso, come avviene che ciascuno sia persuaso delle cose che dice? Perché se può non esserlo di ciò che dicono gli altri, non può non essere persuaso di ciò che dice lui.

Tutto questo ha una portata notevole, per ciò di cui ci stiamo occupando. Questa è una premessa al discorso che sto per fare. Dove ciascuno evidentemente si trova di fronte a un discorso che lo riguarda e nei cui confronti utilizza gli stessi strumenti che utilizza nei confronti di altri. L’inferenza, la persuasione: se può risultare difficile persuadere altri, risulta facilissimo persuadere sé.

Dunque, persuadersi di qualcosa è un processo che avviene tramite inferenze, deduzioni, entimemi. Queste argomentazioni che ciascuno mette in atto sono discutibili, sono confutabili. Le stesse confutazioni che ho posto in essere nei confronti del discorso di Agostino possono essere confutate. Non solo, possiamo confutare la confutazione della confutazione.

Chiaramente, risulterà sempre più difficile, sempre più arduo, ma per nulla impossibile.

 

Domanda.

Quale necessità di confutare o essere complici in un racconto.

 

Risposta.

Non è necessario nulla. Ciascun racconto si svolge secondo un certo andamento. Ciascun racconto riesce tanto più gradevole quanto più riesce a essere persuasivo nei confronti di chi lo legge. Occorre, dunque, che il racconto utilizzi un sistema di argomentazioni che risulti credibili, verosimili, a seconda chiaramente del tipo di racconto.

C’è un tipo di racconto, come “Alice nel paese delle meraviglie”, che gioca su questo, cioè sullo scardinamento apparente di alcuni presupposti logici, che poi invece sono i presupposti del luogo comune, immaginando una sorta di sovversione di ciò che il luogo comune immagina essere i capisaldi logici.

Freud nel “Motto di spirito” e anche Wittgenstein esprimono questo pensiero: “Verrà un giorno in cui potremo liberarci dalla necessità della non contraddizione”. Quindi, poter giocare, liberi, con le parole. Ora, questo può essere inteso in un certo modo. Ma occorre precisare ciò che si intende.

Perché, di fatto, c’è una struttura logica che non può togliersi in quanto stabilisce delle norme che consentono il gioco linguistico. Tolte queste regole, queste norme, il gioco linguistico cessa di esistere.

Ora, queste regole e queste norme, evidentemente, sono dettate dalla parola stessa; che le pone in atto dicendosi. Tuttavia, c’è un avvio, perché il discorso possa darsi, un avvio che presuppone delle regole, che sono quelle linguistiche, in cui ciascuno si trova. Queste regole mi consentono di avviare il gioco che, una volta avviato, mano a mano impone delle regole. Sono quelle a cui ci si attiene, per lo più in un itinerario analitico. Nel senso che nell’itinerario analitico non ci si attiene propriamente a delle regole grammaticali o sintattiche. Se una persona sbaglia una connessione sintattica, questo può essere occasione di riflessione, ma non c’è propriamente una riconduzione alla formulazione corretta. Vale a dire, non è questo l’obiettivo della psicanalisi.

Dicevo, dunque, le inferenze, le argomentazioni. Ciascun racconto, quello di Agostino, quello di Wittgenstein, quello di Peano, ciascuna formalizzazione matematica, è è un racconto che procede per inferenze. Sono le stesse inferenze che procedono nel racconto di qualunque romanzo. Che procedano in Proust, in D’Annunzio o in Pirandello, sono esattamente le stesse. Soltanto che nel discorso formalizzato della matematica si è ristretto il numero delle inferenze e alcune, che sono calcolabili o che si ritengono calcolabili. Eliminando tutto ciò che non è calcolabile, come una preghiera, come un’esclamazione, come un’interiezione. Esulano dal calcolo delle proposizioni. Non sono confutabili.

Ma, ecco, per quanto riguarda la struttura argomentativa è invece esattamente lo stesso. E anche il fine è esattamente lo stesso: quello di persuadere o di convincere, a seconda dei casi, della verità di ciò che si sta dicendo. Ma la verità di ciò che si sta dicendo risulta differente rispetto al modo in cui si espone. Ma non alla sostanza, in cui entrambi i discorsi credono, con la stessa fermezza. Nulla togliendo né all’interesse straordinario nella lettura del romanzo né all’interesse straordinario nel seguire un ragionamento logico-matematico.

Ora, la questione verte attorno a questo: come ciascuno di trova a argomentare. Si trova preso in argomentazioni di cui assolutamente non si accorge. Non accorgendosene si trova portato a credere che ciò a cui è giunto sia una conclusione, che cioè le cose stiano così. Ma può pensare questo unicamente perché non si accorge della sua argomentazione. Non se ne accorge, dunque, la prende per buona. Da qui l’abilità del prosatore nel celare tutto ciò che potrebbe mettere in gioco, scardinare, rendere poco credibile o addirittura banale, il racconto.

E è per questo che il romanzo risulta gradevole. Come sapete, ogni racconto, ogni romanzo, anche il più straordinario, può ridursi a una fesseria. Basta che uno lo riassuma, non sapendo riassumere. È come che non è capace di raccontare le barzellette.

L’abilità nel logico-matematico o nel romanziere sta dunque, utilizzando schemi argomentativi, nel nascondere tutto ciò che lungo il racconto può risultare inverosimile, incredibile, fastidioso, e chiaramente ponendo, invece, in massimo risalto ciò che risulta gradevole. Compiendo esattamente l’operazione che compie l’avvocato davanti ai giudici. In questo caso il giudice è il lettore.

Ma in un itinerario analitico come quello che stiamo avviando, ciò con cui si ha a che fare, è in prima istanza non tanto il discorso di altri, ma il discorso in cui ciascuno è preso, il discorso che lo riguarda, il proprio discorso. Proprio in accezione particolare, proprio come l’idioma, la logica particolare. Cioè, la combinatoria in cui si trova e di cui per lo più non si accorge. “Dunque, sono giunto a questo”.

Ora ciò che ho inteso può darsi in due accezioni: o come qualcosa che si è imposto nel discorso, per via di combinazioni di significanti, per cui giungo a avvertire qual è la questione che insiste; oppure immagino che ciò che ho inteso corrisponda a qualche cosa. Se immagino che corrisponda a qualcosa già parto malissimo, perché non corrisponde assolutamente a niente.

Parto malissimo nel senso che immaginerò a quel punto di avero trovato un quid, il che di per sé non porterebbe a nulla di male, se non per il fatto che in quel momento mi ci attengo, e perdo un sacco di tempo a ricondurre ciascuna cosa a questo.

Ciò che dicevo prima rispetto all’argomentazione, per cui non esiste né in natura né altrove un’argomentazione che non sia confutabile, comporta questo: che non c’è nulla a cui occorre attenersi, se non a ciò che si dice. Ma non perché vero, e perché validi, o corrisponda a qualcosa, ma unicamente perché l’ho detto. E è questa l’unica chance che ho per potere incominciare, cosa difficilissima, non dico a ascoltare, che è improbabile, ma a sentire quello che sto dicendo. Probabilità che si verifica in pochissimi casi. Soltanto stare a sentire ciò che si dice. Ascoltare è tutt’altro. Allora definiamo l’esercizio di confutazione, rispetto ai propri prodotti mentali. Esercizio straordinario, che consente per un verso, non soltanto questo ma certamente dà un contributo, di cessare di credere a delle cose a cui si immagina di essere giunti. L’unica difficoltà su questo, e la portata dell’analisi sta in questo, è che senza l’analisi del proprio discorso non c’è nessuna possibilità di accorgersi, proprio nessuna. E allora si gira in tondo, si gira a vuoto. Senza accorgersi di niente. Il cerchio parte e torna allo stesso punto, senza che nulla si aggiunga. Se il punto non è lo stesso, si parla di spirale, dove il punto di partenza non corrisponde più al punto di arrivo. Occorre distinguere. Talvolta, diceva lo stesso Agostino, si parla in modo improprio, usando dei termini che vogliono dire molte cose; così si finisce per non intendere più niente. Laddove ogni cosa può voler dire un’altra cosa, si toglie la differenza e non c’è modo di proseguire. Allora, come dicevo prima, si gira in tondo. Ma non si incontra nulla, salvo le proprie superstizioni che insistono e che, uniche, fanno da riferimento. Perché lungo l’analisi c’è un’attenzione particolare al significante, e non si lascia correre. C’è un rigore assoluto, è come se ci fosse la richiesta di un’assoluta proprietà di linguaggio e, in effetti, è così, la proprietà deve essere assoluta, ma proprietà nell’accezione che indicavo, del proprio, cioè, quell’idioma particolare, che comporta che ciascuna dico questo e non altro.

Se dico questo, allora occorre che mi confronti, ma se questo può voler dire anche quest’altro, allora può voler dire tutto. È questo il modo in cui, peraltro, generalmente si evita l’analisi. Nell’indifferenziato.

L’analisi consente di verificare, in atto, ciascuna volta che mi confronto con un’argomentazione, che questa argomentazione è fatta di un certo numero di elementi, che giungono a una conclusione. Ecco, lì dove c’è una conclusione, l’analisi non termina.

L’aggiunta non termina mai, laddove c’è la supposizione di aver detto l’ultima parola. È l’accordo che termina il discorso sull’ultima parola. Non la seduta. La seduta si avvale dello stesso procedimento di cui si avvale l’elemento retorico di cui parlavo prima, circa l’entimema e l’encatalisi, come dire che sospende proprio laddove qualcosa chiede di esser proseguito, di essere concluso ma proprio lì dove c’è una difficoltà a concludere.

Allora termina la seduta. Invitando, suggerendo, “costringendo”. Costringendo nel senso che sottolinea una costrizione logica a concludere, proprio laddove non può trovare una conclusione. E, quindi, anziché una conclusione, trova un altro discorso, trova un’altra combinatoria. Possiamo dire, parafrasando Hjelmslev, che la seduta termina “encatalizzando” il discorso.

La seduta non si interrompe mai quando c’è un accordo su qualcosa, cioè quando la persona suppone di essere in accordo con sé su un certo elemento o quando suppone di avere trovato una conclusione. Certamente, può interrompersi sulla “trovata” di un elemento nuovo, può consentire, interrompendo a quel punto, di confrontarsi con questo nuovo elemento che si è prodotto.

Ho iniziato con questa serie di obiezioni a Agostino, suggerendo una sorta di ginnastica a reperire argomenti che mettano in discussione il proprio discorso, poiché si incontra una grandissima facilità a credere a qualunque fesseria passi per la mente. Che non è sempre di grande interesse. Perché così (il parlante) insiste ciascuna volta e cerca di convincersi, riconducendo ogni volta ciascun elemento che incontra all’altro elemento che suppone identico a sé. Questo impedisce alla persona, e quindi al discorso, di fare un passo. la inchioda, per così dire, alla propria superstizione, in alcuni casi per tutta la vita.

Si può cercare, invece, di aprire un’altra via e, anziché, ricondurre un elemento al posto dove immagino che debba essere, provare a condurlo da un’altra parte e lì trovare un elemento in più. Si può suggerire di fare questo qualche volta, non sempre. In alcuni casi no.

Comunque, nei confronti del proprio discorso, si può tentare l’operazione che ho fatto io sul testo di Agostino. Almeno questo.

Questo renderebbe molto difficile credere o persuadersi di qualche cosa, perché, come dicevo all’inizio, non si costruisce un’argomentazione che si riconosca immediatamente come falsa, come insostenibile. I motivi sono quelli per cui ciascuno si trova a credere. Facciamo un esempio.

Io mi trovo a dire delle cose e credo, a un certo punto, che ciò che dico comporti necessariamente questo. Deve essere così. A questo punto, potrei almeno fare questa operazione, che è molto semplice, anche se può essere non semplicissima: confutare quello ho appena sostenuto trovando elementi a sfavore, oppure non farlo e ritenere buona questa deduzione. Che sia così anche solo fino a prova contraria, direbbe Popper.

Il problema che sfugge a Popper è che la prova contraria è simultanea alla prova pro. Sempre, ciascuna volta. Gli è sfuggito questo dettaglio. Allora, cosa mi impedisce di mettere in discussione e poi fare questa confutazione. Un modo per mettere in gioco un’affermazione.

Questo mi impedisce di farlo: la necessità, non avvertita come tale, di trovare un significato. Ciascuna volta, questa deduzione su cui mi arresto, ha questa funzione. Mi rasserena. Finalmente, ho trovato qualcosa su cui posso stare tranquillo, che cessa di domandare, cessa di inquietare, cessa di rompermi le uova nel paniere.

Qui possiamo trarne anche da Freud. Una, fra tante: da un aggancio che può intervenire tra ciò che io sto provando, del tutto inconsapevolmente, nel significare e qualche cosa che fortemente mi questiona. Se c’è questo aggancio, per me questo significato si basa immediatamente, e evidentemente io non posso più riconoscerlo come deduzione, ma sarà esattamente la realtà dei fatti. Possono volerci moltissimi anni di analisi per accorgersi di questo. Perché la stessa struttura linguistica opera una sorta di isolamento, non che isoli un elemento, ma una struttura assume un andamento tale per cui l’elemento risulta inaccessibile a chi lo enuncia, mentre può essere immediatamente accessibile agli altri. Se ne accorgono tutti, meno l’interessato, come spesso avviene.

Freud fa molti di questi esempi, laddove c’è un aggancio con una questione, cioè con qualcosa che inquieta perché rilancia continuamente la domanda. È come se continuasse a dire che la domanda pulsionale non ha risposta. Allora, si adopera, si affanna per trovare che cosa possa acquietare questa domanda. La cosa, dice Freud, può avvenire lungo una serie di argomentazioni, nessi, tali per cui un elemento diventa rappresentativo di moltissimi elementi e lui, da solo, ha la responsabilità di rispondere alla domanda pulsionale. Di qui l’importanza straordinaria che esso assume.

Soltanto se un elemento resta fermo posso immaginare di stare tranquillo.

 

L’analogia (analoghé) sarebbe il discorso simile. È un rapporto. È un particolare modo dell’inferenza. Può ridursi alla tesi di un sillogismo. L’analogia ha una notevole forza persuasiva, come l’esempio, tant’è che Perelman indica, tra i modi per arrestare l’analogia, quello di scomporre ciò che l’analogia compone.

L’analogia dice: A : B = C : D. Però, dà come assunto che ci sia un rapporto tra A e B e tra C e D, che tra il tema e il foro, dicono i retori, ci sia un rapporto necessario. Basta insinuare che questo rapporto non è necessario ma, anzi, è assolutamente arbitrario e, quindi, insostenibile, e l’analogia si dissipa. Così l’esempio.

Non è casuale che una persona si trovi a utilizzare prevalentemente delle figure, dei tropi. Può essere interessante trovare in un autore, in un romanzo, quali sono i modi di dire più frequenti. Questo può rendere conto di cosa insiste in quel discorso.

 

 

 

EQUIPE DI LETTURA

AGOSTINO - Le Confessioni

13 agosto 1993

 

“Quante nozioni di questo genere contiene la mia memoria, nozioni ormai ritrovate e, secondo l’espressione usata sopra, quasi a portata di mano! In tal caso si dice che le abbiano imparate e le conosciamo. Se però tralascio di evocarle anche per brevi periodi di tempo, esse vengono sommerse di nuovo e dileguano, si direbbe, in più remoti recessi, tanto che poi il pensiero le deve estrarre da capo, quasi nuove e appunto di là, perché non hanno altra sede, e di nuovo raccoglierle, per poterle sapere, come adunandole dopo una sorta di dispersione. Da questa operazione deriva il verbo cogitare, essendo cogo per cogito ciò che ago è per agito, facio per factito. Senonché lo spirito si appropriò di questo verbo, in modo che ormai si dice propriamente cogitare l’azione di raccogliere, ossia di cogere, nell’animo e non altrove.” (Libro X, cap. XI)

 

Si pone, poi, una questione molto interessante: Agostino si chiede cos’è un numero. Questione che è a tutt’oggi aperta.

 

“Percepii, anche, con tutti i sensi del corpo, i numeri che calcoliamo; ma quelli usati per calcolare sono tutt’altra cosa. Non sono nemmeno le immagini dei primi, e proprio per questo essi sono veramente.” (Libro X, cap. XII)

 

“E ancora: quando nomino la dimenticanza, so quello che intendo: ma donde lo saprei se non ne avessi il ricordo? Non dico il suono della parola, ma la natura della cosa significata; se avessi dimenticato il valore di quel suono, certo non potrei riconoscerlo. Quando dunque ricordo la memoria, è la memoria stessa che risponde all’appello; quando ricordo la dimenticanza, sono presenti insieme memoria e dimenticanza: la prima per farmi ricordare, la seconda è l’oggetto del ricordo. ma la dimenticanza non è forse privazione della memoria? Come può essere presente perché me ne ricordi, se la sua presenza impedisce di ricordare? Ma, se quello che ricordiamo lo ritenessimo per mezzo della memoria la dimenticanza, non potremmo mai, udendone pronunziare il nome, riconoscere la cosa significata: dunque la dimenticanza è conservata nella memoria; ed è lì presente per non lasciarci dimenticare ciò che quando è presente dimentichiamo.

Se ne deve dedurre che essa si trova nella memoria, quando ne affiora il ricordo, non per se stessa, ma per la sua immagine, dal momento che se la dimenticanza si presentasse da sé condurrebbe non a ricordare ma a dimenticare? Chi si arrischia a sciogliere questo problema? Chi potrà trovarne la soluzione?” (Libro X, cap. XVI)

 

“Più ancora: quando anche la memoria si è lasciata sfuggire qualche cosa, il che succede dimenticandola, se cerchiamo di ricordarcela, dove la cerchiamo se non proprio nella memoria? Che se se ne presenta una per l’altra, la rifiutiamo, fino a che si riaffacci quella che cercavamo. E quando riappare, diciamo: «Eccola, è questa», il che non potremmo dire se non l’avessimo riconosciuta; né la riconosceremmo, se non ce la ricordassimo. Però è certo che l’avevamo dimenticata.

Forse non era caduta interamente dalla memoria, e da quel tanto che vi rimaneva si cercava quello che mancava, perché la memoria s’accorgeva di non sviluppare insieme le due parti, e, come zoppicante nella sua abitudine monca, andava richiedendo che le si restituisse quello che mancava?

Così anche: una persona conosciuta si presenta ai nostro occhi o alla nostra mente, e andiamo cercandone il nome che abbiamo dimenticato: qualunque altro nome ci soccorra alla memoria non vi si adatta, perché non siamo usi ad associarvelo nel nostro pensiero, e perciò lo rifiutiamo, finché non si ripresenti quello che corrisponde all’idea acquisita. E da dove spunta fuori quel nome se non dalla memoria? Anche se è un altro che ce lo richiama, vien sempre fuori di là: perché non ci appare come un nome nuovo, ma ricordiamo e conveniamo che è quello di cui si parlava. Se si fosse cancellato del tutto dalla mente, non ce ne ricorderemmo nemmeno dopo il richiamo di un terzo. Non è dunque dimenticato completamente quello che almeno ricordiamo di avere dimenticato: e non potremmo andar cercando come perduto quello che è cancellato in tutto e per tutto dalla memoria.” (Libro X, cap. XIX)

 

Dunque, come risolve la questione Agostino? Che cosa consente di riconoscere che lui non ha torto? Come faccio a accorgermi che questa è la cosa che avevo dimenticata, questa e non altra? La riconosco: come la riconosco? perché non la conoscevo. Ma il fatto che la conoscessi dipende dalla mia memoria. Quindi, sembra che giri in tondo. Necessita a questo punto di qualche cosa che gli consenta di stabilire qual è la prima impressione per non incappare in ciò che aveva incontrato Peirce. E, cioè, la semiosi infinita, per cui non c’è il primo elemento - e non c’è nemmeno in Agostino, se non fosse che questo primo elemento è dato da dio. È dio che questa prima impressione. Molto interessante, per vari motivi, perché questa ricerca lui l’arresta immaginando che sia dio.

Quando qualcuno arresta la propria ricerca? Quando si domanda il perché di alcune cose e ritiene il risultato raggiunto evidente. Ma non soltanto evidente: si arresta là dove incontra un luogo comune. Solo a quel punto ha la certezza che ciò che ha trovato è la risposta, in quanto è ciò che ritiene condiviso. Allora, non è più necessario proseguire: è così e per tutti le cose stanno così. Agostino aveva sicuramente il merito di non curarsi molto dei luoghi comuni, cosa che gli consente di proseguire la ricerca. Tuttavia, risolve il problema nel modo che ho indicato prima, che peraltro è il modo scientifico, cioè immaginando un dio oppure un ordine universale o una logica universale.

Nelle notazioni che fa intorno alla memoria, molto precise in effetti, coglie che il passato e il futuro in quanto tali non esistono. Tant’è che bisognerebbe parlare di un presente passato, di un presente presente, presente futuro, che ciascuna volta che ne parlo sono qui, adesso. Ché il passato in quanto passato non c’è più, non posso misurarlo perché è passato molto tempo, dò una misura ma non posso misurare qualche cosa che non c’è, che non esiste. Prova a misurare il presente ma poi si accorge che anche il presente è assolutamente instabile. Non c’è misura del tempo: questo dice Agostino.

Il tempo apre una sorta di squarcio, è un vuoto. Il presente è l’unico tempo di cui si può dire apparentemente qualcosa, risulta un’apertura, risulta dalla divisione, letteralmente in quanto dovrebbe stare lì fra ciò che non è più e quanto dovrà accadere, ma ciò che è in questo momento è inafferrabile, non c’è nessun quid che possa saturarlo. Coglie in modo preciso l’immisurazione del tempo: cioè il tempo non è misurabile. Ma, rispetto al punto, o a ciò che arresta la ricerca: il luogo comune, cioè qualcosa che è localizzato e pensato partecipato o partecipabile.

La ricerca è andare intorno a qualcosa come l’etimo indica, un andare intorno che è inarrestabile. Un andare intorno che disegna una sorta di spirale.

La soluzione: ciascuno può immaginare di averla trovata rispetto a qualcosa che interroga e arresta il percorso della spirale in un cerchio che gira in tondo. Questo accade laddove ci si attiene al luogo comune, si gira in tondo.

Si gira in tondo ciascuna volta immaginando che la soluzione che si è trovata sia l’unica possibile perché le cose sono proprio così. Ma generalmente le soluzioni si trovano riferite a altri, significando o interpretando il prossimo. Questa operazione sembra che possa fornire un vantaggio: se so come è fatto lui posso sapere come sono fatto io. Cosa che non avviene. Per quanto posso immaginare di aver interpretato, di sapere come sono fatti gli altri, questo lascia aperte tutte le questioni.

Ciò che ciascuno ha l’occasione di reperire lungo un itinerario analitico, è questo: che cosa lungo la propria ricerca costituisce l’arresto, cioè, su quale punto, rispetto a che cosa, non vuole più saperne.

Questo può provarsi in molti modi, immaginando di aver trovato la chiave di lettura, immaginando di aver saputo quanto basta o semplicemente supponendo di aver trovato il mostrarsi stesso delle cose; ormai, ho capito come stanno le cose, quindi la ricerca può arrestarsi. C’è psicotizzazione immediata, nel senso che qualunque cosa verrà interpretata attraverso questa fantasia. Allora, non c’è più ricerca; questa ricerca si trasforma in un delirio di interpretazione. Non c’è più ricerca nel senso che non c’è più un’eco rispetto al proprio discorso, a ciò che si sta facendo. Come dire, il proprio discorso è come cancellato, c’è solo un reale, immaginato come tale, che deve essere ciascuna volta interpretato, sistemato, ricondotto, riportato. Ma la propria parola è cancellata: non c’è più modo di accorgersi di come la propria parola intervenga lungo ciò che si suppone essere una ricerca, ma di fatto non lo è. Si gira in tondo, a vuoto.

Ecco, è interessante Agostino a questo riguardo. Lui non si avvale di luoghi comuni, ma prende la questione in termini logici, che è molto interessante; comunque ciascuna volta, in ciascun caso, affrontare la questione che si incontra in termini logici può portare molto lontano. Perché, considerandola sotto questo aspetto, se ne considera la struttura, la disposizione, le inferenze, i modi delle inferenze. C’è già una distanza rispetto a ciò che si dice. Cioè, c’è questo in prima istanza: che già il discorso è posto come una combinatoria significante, non più come la manifestazione del reale, l’enunciazione del reale; ma una combinatoria, di cui si possono reperire e individuare dei criteri, delle regole.

Se io compio un’analisi logica di un discorso, già lo affronto in modo differente, posso accorgermi di molte cose. Ciò che fa Agostino rispetto al discorso, quando per esempio affronta un’obiezione connessa a dio per quanto riguarda il tempo: cioè, che cosa facesse dio prima di avere creato il mondo. Lui affronta la questione in termini logici, perché a un certo punto qualcuno pone una questione:

 

“Ma ecco che alcuni, pieni della loro vecchiezza, ci dicono: «Che cosa faceva Iddio prima di creare il cielo e la terra? Se era inoperoso, se non creava, perché non si astenuto dall’azione anche in seguito, come si era astenuto prima? Se si ebbe in Dio quel nuovo moto e quella volontà nuova di dare l’esistenza a qualche cosa a cui non l’aveva mai data, come si può chiamare vera eternità quella in cui sorge una volontà che non c’era? La volontà di Dio infatti non è una creatura, ma precede la creazione, e nulla si creerebbe se non precedesse la volontà del creatore. Dunque la volontà di Dio è la stessa sua sostanza. Ma se nella sostanza divina ebbe principio qualche cosa che prima non esisteva, non si può affermare con verità che quella sostanza è eterna. Se poi era nella sempiterna volontà di Dio che le creature esistessero, perché le creature non sono anch’esse eterne?»“ (Libro XI, cap. X)

 

Agostino la affronta in termini logici molto precisi, assolutamente straordinari, rovesciando completamente la questione.

Così dice dunque Agostino:

 

“Se poi qualcuno, leggiero di mente, vuol risalire a ritroso le immagini dei tempi, e si maraviglia che Tu, Dio onnipotente, onnicreante, onnireggente, artefice del cielo e della terra, ti sii astenuto per secoli innumerevoli dal por mano a un’opera così grandiosa, apra bene gli occhi e si convinca che la sua maraviglia manca di base.

Donde avrebbero potuto incominciare a scorrere quegli innumerevoli secoli, che Tu no avresti fatto, Tu, autore e principio di tutti i secoli? Potevan forse esistere tempi non creati da Te? Come avrebbero potuto passare se non erano mai esistiti?

Se dunque sei Tu l’artefice di tutti i tempi, se esistessero tempi prima della creazione del cielo e della terra, come si può dire che eri inoperoso? Proprio quei tempi Tu li avevi creati, né potevano passare tempi prima che Tu li avessi fatti. Se poi prima del cielo e della terra il tempo non esisteva a qual titolo si domanda cosa facevi allora? Non esistendo il tempo, non esisteva nemmeno un «allora».” (Libro XI, cap. XIII)

 

Un modo straordinario questo di Agostino di intendere la questione del tempo: il prima, il dopo, il presente, in quanto tali non esistono, non esistono senza che qualcuno li faccia esistere. Sta dicendo che il tempo non esiste in natura di per sé, ma è tale per qualcuno, già abbozzando qui un primo avvio di semiotica. Se non c’è qualcuno per il tempo è tale, il tempo non c’è: è questo che sta dicendo Agostino.

Ma:

 

“Risulta dunque chiaro che futuro e passato non esistono, e che impropriamente si dice:«Tre sono i tempi: il passato, il presente e il futuro». Più esatto, sarebbe dire: «Tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro». Queste ultime tre forme esistono nell’anima, né vedo possibilità altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa. Se mi si consente questa terminologia, vedo anch’io e ammetto tre tempi: sono tre.

Del resto si dica pure, come vuole abusivamente la consuetudine, che i tempi sono tre: il passato, il presente e il futuro; si dica pure. Non me ne importa, non faccio opposizione, non biasimo; purché ci si intenda su quello che si dice e non si sostenga che hanno un’esistenza il futuro e il passato.

Raramente parliamo con proprietà di linguaggio; per lo più usiamo termini impropri, pur intendendo quello che si vuol dire.” (Libro X, cap. XX)

 

Il tempo, dunque, come un taglio. C’è questa divisione che Agostino avverte perfettamente, divisione da cui il tempo procede, il tempo che, dunque, è tale per qualcuno. Come la semiotica di Peirce. Come non pensare a Sini, in Kinesis, che dice in modo umoristico: “Un giorno forse la terra non ci sarà più, da quel momento non sarà mai esistita”. Non è che prima sarebbe esistita e dopo no, non sarà mai esistita. È la stessa cosa che dice Agostino: se non c’è qualcuno per cui il tempo sia tale, il tempo non esiste, semplicemente. Cioè, non c’è modo di stabilire un criterio di esistenza, in questo senso non esiste. Per questo diciamo che l’esistenza di cui parliamo è esistenza nella parola. Le cose esistono in quanto si vanno dicendo. Non c’è altro criterio. Per stabilire l’esistenza possiamo immaginarla metafisicamente.

Ma quello che a noi importa qui è cogliere come Agostino svolge la questione. Lui pone una questione logica molto precisa: a quali condizioni noi possiamo parlare di tempo? Cosa ci consente di parlarne?

Come può avvenire in molti casi, si parla di qualcosa immaginando di dire “la cosa”, senza minimamente riflettere su questo e, cioè, a quali condizioni può dire quella cosa che sta dicendo, cosa glielo sta consentendo.

È esattamente la domanda che si pone Agostino, cioè, pone la questione logica. Questo gli consente di capovolgere la domanda, sovvertirla, come dire che “cosa facesse dio prima della creazione” è una questione mal formulata ma può formularsi altrimenti. Infatti, l’obiezione di cui dicevamo non tiene conto che se lui crea tutto crea anche il tempo.

Cosa che era sfuggita, evidentemente, all’obiettore. Il perché gli fosse sfuggita non ci interessa. Ci interessa questo: come qualcosa possa sfuggire. Può accadere di non accorgersi e, allora, formulare una questione in modo tale per cui la risposta non potrà che essere una certa risposta. Ecco perché in molti casi non ci si accorge che è possibile uno spostamento rispetto a una superstizione, a una credenza, perché si continua a formulare la questione nello stesso modo e, formulata allo stesso modo, avrà sempre la stessa risposta. Penso, ci ripenso, faccio tutte le possibili selezioni, però, arrivo sempre lì. È inevitabile perché la questione è formulata sempre allo stesso modo.

L’analisi consente di poter formulare altrimenti la questione e, dunque, di trovare altro. Finché si formula la questione così non si troverà nulla di differente da ciò che si era sempre trovato e, cioè, la stessa superstizione, lo stesso luogo comune.

Dicevamo che la ricerca si arresta sul luogo comune. “Luogo comune” è posto in questa occorrenza, come il modo di formulare la questione, per esempio. Agostino è andato oltre, ha fatto un passo rispetto a questo: che qui il tempo ha una sua esistenza di per sé, quindi, non è stato creato da dio e, pertanto, c’è un elemento che non è stato creato da dio. Eresia. Bruciato immediatamente.

Ma, ecco dunque, non si avvertono altri risvolti, come dire che non è possibile accorgersi che parlando c’è dell’altro se non ci sono le condizioni per formulare altrimenti la questione.

Parlando, dell’altro non va da sé. Occorre porre le condizioni perché dell’altro possa darsi. Parafrasando Agostino, se nessuno se ne accorge, chi ci autorizza a dire che non c’è. Possiamo presupporlo ma risulta una presunzione: si presume che sia così. È un’idea come un’altra, cioè, una superstizione.

L’unica autorizzazione che trovo è quella che incontro nella parola. Solo questo mi autorizza. Dicendo, qualcosa si autorizza.

Risulta, peraltro, umoristica la soluzione di Agostino, cioè quella di un dio: evidentemente, in quanto creatore onnipotente, è lui responsabile di ogni cosa. In questo caso, dio è luogo comune? È una domanda di un certo interesse.

Agostino sposta un pò la questione rispetto alla credenza più diffusa, tant’è che ebbe qualche problema anche con l’ordinamento ecclesiastico, perché il dio, di cui parla Agostino, non si presta alla credenza.

Volevo qui sottolineare il modo in cui Agostino affronta la questione a partire da ciò che dice intorno alla dimenticanza.

Si chiede come avviene che siano compresenti la memoria e la dimenticanza. Poi, è vero che lui risolve la questione dicendo che la memoria è una sorta di estensione dll’anima, che quasi copre le cose. A quel punto, risalendo a dio, dà una garanzia della memoria, però dice che c’è qualcosa che interviene, come una sorta di funzione vuota nella memoria. Non giunge certamente a avvertire che è la dimenticanza a strutturare la memoria, anche se c’è qua e là qualche brano che pone la questione, se non altro.

 

 

 

EQUIPE DI LETTURA

LEWIS CARROLL - Alice nel paese delle meraviglie

27 agosto 1993

 

 

 

“Alice nel paese delle meraviglie”, abbiamo detto che è un libro di logica. È tante altre cose, ma intanto questo

 

Lettura cap. XI

 

Un sogno, questo di Alice. Sogno straordinario, come ciascun sogno.

C’è una logica del tutto particolare. Cosa rende questo scritto di Carroll così straordinario, per un verso? Come sapete Dodgson si occupava di matematica, conosceva molto bene i paradossi, le aporie del ragionamento logico-matematico. Di questo si avvale per indicare qualcosa di molto preciso, e cioè una logica che funziona all’interno di una logica comune, corrente. Una logica, all’interno di questa logica comune, tutt’altro che comune, tutt’altro che tranquillizzante. Nel senso che mette in evidenza ciascuna volta un dettaglio, estraendolo dal contesto in cui si trova; lasciando che questo dettaglio, fuori dal contesto, produca altri elementi per cui, a questo punto, non ha più nulla a che fare con il contesto in cui era situato prima. Una modalità che si accosta in modo sorprendente a ciò che avviene lungo un’analisi.

Un significante viene sottolineato per la sua portata significante, anziché costituire un elemento di un tutto in cui sarebbe inserito. Un significante è tale non perché inserito in un tutto, ma perché produce effetti di senso, di verità.

E è inserito propriamente in una combinatoria significante che attiene a quella che Freud chiamava altra scena. L’operazione che mette in atto Carroll in questo racconto sottolinea che, posto l’accento su un significante fuori dal racconto in cui è situato, questo significante produce un altro racconto. Che non ha nulla a che fare, propriamente, con il racconto in cui si situa. Questo ha degli effetti tutt’altro che marginali e la sorpresa che mostra Alice di fronte a queste apparenti assurdità che incontra, dette di volta in volta dal Cappellaio, dalla Lepre, dalla Regina, ecc., non è lontana dalla sorpresa che ciascuno può incontrare lungo una seduta, in una conversazione, nell’accorgersi di una logica, in ciò che sta dicendo, che non ha nulla a che fare con ciò che immaginava attenesse al suo discorso. Trova un’altra logica, che può non attagliarsi per nulla con ciò di cui si stava parlando in precedenza. Molte considerazioni potrebbero farsi su questo processo, in Lewis Carroll, ponendolo a fianco del processo di cui racconta Kafka. C’è una differenza, ma è come se in entrambi i casi fossero avvertite delle leggi logiche credute universali, credute indistruttibili, salvo distruggere la possibilità stessa del pensiero.

Questo, in effetti, è ciò che in buona parte viene fatto credere.

Insegnando, una delle cose fondamentali che si insegnano è questa, cioè che fuori da una certa logica, fuori da un certo ambito referenziale, non c’è possibilità di pensiero.

In effetti, fu Freud, forse per primo, a avvertire che tutto ciò che non rientra all’interno di questo modo referenziale di pensare non è un’idiozia, ma è l’inconscio, cioè una logica particolare. Merito senza dubbio di Freud, questo, di avere fatto un passo: dall’idiozia all’idioma. Da privo di senso a un senso proprio, particolare.

Alice, in effetti, sottolinea più volte di essere una ragazzina brava, diligente, e quindi si attiene con scrupolo a uno schema logico che ritiene quello indispensabile per essere ben accetti in un consesso civile. Per cui è sorpresa, ciascuna volta, quando questa logica viene alterata. Quando e come viene alterata?

Quando, per esempio, la Regina chiede che venga emessa la sentenza prima del verdetto. Cosa che non si era mai sentita. In retorica sarebbe l’hysteron proteron. Ne facevamo l’esempio qualche tempo fa, traendolo dal Pulci: Il poverin, che non se n’era accorto, andava combattendo e era morto. E quando ravvisa ancora queste alterazioni della logica, quella del senso comune. Quando i giurati scrivono qualunque cosa gli passi nella mente sulla lavagna, anziché attenersi scrupolosamente a ciò che emerge dal processo. E in particolar modo rispetto a come vengono letti questi versi, come prova di colpevolezza, e le stesse prove che vengono addotte.

Questa, che accennavo prima, è straordinaria. Straordinarie non per la sua stravaganza, ma per la sua applicazione nei processi attuali.

“Del resto - disse il Re - se non c’è senso tanto meglio, non avremo bisogno di cercarlo, è tutta fatica risparmiata”.

Ma, soprattutto, rispetto a questo reperto, questo foglio che viene presentato. Qual è il procedimento logico per cui il re attribuisce questo foglio all’accusato? Per il fatto che non è firmato. E perché?

Dice: “Questo non fa che peggiorare la vostra posizione. Se non aveste avuto intenzioni losche, l’avreste firmato senz’altro, come ogni galantuomo”. Non fa una grinza. È una successione logica perfettamente coerente. Come avviene sempre, in ciascun ragionamento, che ciascuno fa. Ognuno segue, o tenta di seguire, una coerenza referenziale, logica, assoluta.

Ora, come in questo caso, ci possono essere delle perplessità rispetto alle premesse. “Io ho vergato questo foglio, e nessuno può provare che io l’abbia scritto; esso non è firmato”. Egli dice: siccome non l’ho firmato, non l’ho scritto. Muovendo da questa premessa il re ha buon gioco a dire: no, non l’ha firmato perché non è un galantuomo.

Qual è dunque la premessa maggiore? Tutti i galantuomini firmano ciò che scrivono.

Con queste premesse, cosa può dedursi, a conclusione, passando per la premessa minore, che è una constatazione? È evidente a tutti che lui non ha firmato la lettera, lui stesso lo ha ammesso. Di fronte a tanta evidenza come non giungere a concludere che quindi non l’ha firmata perché non è un galantuomo? L’unica cosa che conta è la sua colpevolezza.

È sottinteso un entimema. Qui è presente la conclusione e, in qualche modo abbreviata, la premessa maggiore: tutti i galantuomini firmano ciò che scrivono. Il fante non ha firmato la lettera, il fante non è un galantuomo. Questo è un modello di prova giudiziaria, che si avvale di una premessa maggiore, di un entimema, che è dato come comunemente accettato: chi non firma qualcosa è perché ha qualcosa da nascondere. Chi si nasconde è perché ha un buon motivo per farlo. Sono tutte formulazioni che possono essere poste come premessa maggiore di un entimema, a cui segue una premessa minore che è evidente. In questo caso procede dalla stessa ammissione dell’imputato.

C’è dunque la premessa maggiore che è universalmente accettata, la minore che è evidente. La conclusione come può essere falsa? Eppure, c’è qualcosa che non funziona.

Possono costruirsi dei sillogismi che sono falsi ma sembrano veri. In alcuni casi la falsità è assolutamente evidente, ma non in tutti i casi lo è altrettanto. Quando la falsità del sillogismo è assolutamente evidente?

In questo caso, per esempio: Pietro e Paolo sono apostoli, gli apostoli so dodici, quindi, Pietro e Paolo sono dodici. È un sillogismo manifestamente falso. In moltissimi altri casi la falsità del sillogismo non è altrettanto evidente. Su cosa gioca questo sillogismo?

Il fatto che Pietro e Paolo siano apostoli non è assolutamente necessario ma è contingente. Se la premessa maggiore è contingente, diceva già Aristotele, ma ce ne incoglie. Questo ha portato poi a considerare che, per una serie di altre considerazioni, dal falso può dedursi qualunque cosa. Ma il falso fuori da un’accezione definitiva.

Anche in questo caso: chi non firma un suo scritto è un marrano. Ma uno può non firmare per mille motivi senza necessariamente essere un marrano. Dunque, la premessa non è necessariamente vera. È verosimile o contingente. Però, la minore è vera, così come è vero che gli apostoli erano dodici. Mentre che Pietro e Paolo fossero apostoli è assolutamente contingente.

Vedete, quindi, come la struttura di una deduzione, che apparentemente è logica, conduca a deduzioni che possono lasciare perplessi, come in questo caso. Dalle premesse, maggiore e minore, la conclusione è che lui è un marrano.

Ora, Carroll conosceva molto bene queste forme di argomentazione, tant’è che le usa per divertire il lettore, non soltanto, ma anche per porre delle questioni, evidentemente. Come, per esempio, sia facile affrettarsi per concludere, muovendo da un ragionamento apparentemente del tutto ineccepibile, e che è, invece, logicamente, assolutamente non sostenibile. Non sostenibile perché muove da una premessa data come assioma, cioè necessariamente vera, mentre non lo è affatto. L’operazione che ha svolto Freud in parte può connettersi con ciò che fa qui Carroll, in un altro modo.

Dicevamo altrove come moltissimi saggi di Freud siano anche testi di retorica, di persuasione. Mi riferisco propriamente a “L’avvenire di un’illusione”, a “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, a “Il disagio della civiltà”. Saggi in cui indica ciò che gli umani per lo più si aspettano, ciò in cui credono, ciò che sperano. Tutto ciò su cui occorre lavorare per persuadere. Esattamente quello che fanno oggi i cosiddetti tecnici della comunicazione.

Freud ha lavorato in parte anche su questo, giungendo a cogliere in molti casi ciò che interviene qui rispetto alla premessa maggiore, ciò che lui chiamava la scena originaria. Originaria ciascuna volta, evidentemente, come a dire ciò da cui vengono le cose che ciascuno dice, pensa, congettura, elabora. Le cose vengono dalla scena e vanno alla scena.

Ora, la scena può essere costituita, nel caso del brano letto da Carroll, da questo: tutti coloro che non firmano i propri scritti sono dei marrani.

Freud, naturalmente, elabora ulteriormente come può avvenire questa scena - che si fonda, potremmo dire, sulla premessa maggiore di un entimema - costituisca un elemento cui può accadere di attenersi per tutta la vita. Sono entimemi, per lo più, quelli che tratta Freud, del secondo tipo, quelli in cui è taciuta la premessa maggiore, quelli in cui compaiono soltanto la premessa minore e la conclusione. La premessa maggiore è cancellata, c’è soltanto la premessa minore che, come in questo caso, è nota a tutti, anzi, è l’evidenza dei fatti. E c’è la conclusione, che è inevitabile e ineccepibile. E tutte le persone sono sempre assolutamente, necessariamente convinte di quello che dicono. Inesorabilmente.

Come ciascuna considerazione, ciascuna certezza sia incrollabile, Freud se ne è accorto molto bene, quando constata che ciascuno è molto infastidito dal trovarsi a mettere in gioco, in discussione, qualcosa in cui crede, su cui ha costruito gran parte della propria vita. Infatti, dice lui, non si tratta affatto di compiere una confutazione logica, che non avrebbe nessuna portata. Tutto ciò è noto da tempo ai logici, ai filosofi, ai retori, soprattutto ai retori: una persona può benissimo convincersi ma difficilmente persuadersi. Può essere assolutamente convinta ma per nulla persuasa. Convinta della dimostrazione logica, che è ineccepibile, ma non persuasa. Qualunque confutazione che si attenga alla logica non raggiunge nessun risultato di assoluta persuasione. Dunque, è assolutamente vano perseguire questa deduzione.

Tant’è che Freud ne inventa un’altra, che chiama psicanalisi.

Ma non per confutare le opinioni altrui - ognuno è libero di avere le opinioni che gli pare - ma perché può accadere che una persona si trovi presa in un’opinione da cui discendono poi, molto logicamente, delle conclusioni, come vedevamo nel caso di Carroll, che creano dei problemi. In alcuni casi anche un certo imbarazzo, una certa ilarità. Ecco, allora, il domandarsi: ma perché mi accade questo, o quest’altro? perché mi trovo ogni volta nella stessa difficoltà? Una serie infinita di perché.

Freud incomincia a elaborare, giungendo propriamente, come avrebbe fatto per altro verso un logico, a quella che indicavo come premessa maggiore. Ciò che è creduto universale assoluto. Creduto, quindi, in modo incontrovertibile. Tant’è che da questa scena segue poi tutta una serie di implicazioni, in cui ciascuno si imbatte continuamente e da cui trae le proprie conclusioni, incessantemente, le proprie argomentazioni.

La scena di cui si tratta è la scena dei fantasmi, dei pensieri, delle immagini, in cui ciascuno è preso costantemente. Possono sembrare scherzose le conclusioni, le inferenze, che Carroll mette in bocca al teste, al re, alla regina, ecc., ma è tutt’altro che banale ciò che scrive. È semplicemente ciò che ciascuno fa continuamente.

È raro che ciascuno parlando si chieda delle cose e cerchi delle prove di ciò che dice. Non ne ha affatto bisogno. Non ne ha bisogno all’interno della struttura di cui parlavo prima, in quanto è sufficiente che incontri una premessa minore evidente e la conclusione è inevitabile. Basta che dica, come in questo caso: “se non aveste avuto intenzioni losche, avreste firmato senz’altro”. Generalmente, non si incontra niente altro che questo: se tu avessi, se non avessi ...

Frasi del genere hanno, nove volte su dieci, questa struttura, cioè, in ciò che si enuncia c’è già quella che nella logica è la premessa minore e in cui sono assenti sia la premessa maggiore, che non c’è, che è la scena, e la conclusione, che è implicita.

Questo ha reso certamente arduo il compito a Freud, almeno all’inizio. Che, magari, poteva anche intravedere da quale scena, da quale premessa muovesse una persona per giungere a una certa conclusione, per esempio quella in cui non poteva portare a conclusione qualche cosa, perché c’era sempre qualcosa che lo impediva. Tipico è il caso dell’Uomo dei topi, ma volendo in ogni caso clinico possiamo trovare questo.

Come dicevo, ciò che ha reso arduo il lavoro di Freud, il quale non si capacitava di come le persone non si accorgessero delle questioni che ponevano, in molti casi lampanti.

Da qui elabora la nozione di rimozione, che è quella funzione per cui di un elemento non tutto può dirsi. Quindi, qualcosa non è mai detto. È rimosso, dice Freud.

Questo ha delle implicazioni, naturalmente, oltre che dei corollari.

Ché, se tutto non può dirsi, allora ciascuna volta ciascuno, parlando, incontra un impossibile. Questo impossibile può venire rappresentato, immaginandosi di non potere qualche cosa.

“Non posso ottenere questo obiettivo perché c’è quest’altra cosa che me lo impedisce”: un modo come un altro per rappresentare e, quindi, rappresentando, immaginare di poter gestire, attraverso vari passaggi, questo non tutto.

Non tutto si dice, non tutto può dirsi. Perché un significante rimosso funziona come nome adiacente a un altro significante. Funziona come nome, vale a dire, come ciò che strutturalmente non può dirsi.

Il nome non si può dire. Il nome delle cose. Non possono nominarsi, le cose. Qual è il nome delle cose? Qual è, cioè, l’elemento a cui la cosa corrisponde? Qual è l’elemento linguistico che dice la cosa?

In questo senso il nome non può dirsi.

Il significante che funziona come nome è il significante che non può dirsi in quanto tale, non può dirsi tutto. Funziona, quindi, in questo modo, adiacente a un altro significante, di cui posso sapere.

Ma che non tutto possa dirsi, è ciò che comporta delle rappresentazioni.

Prendiamo questo caso, la premessa maggiore di questo entimema: “Ogni galantuomo firma ciò che scrive”. Questa è la premessa maggiore. Come possiamo dire tutto ciò? Se questo è posto in termini categorici, oppure apodittici, come in questo caso, porta una sorta di verità, nel senso di un adeguamento a come stanno le cose. In questo caso, cioè “ogni galantuomo firma quello che scrive”, ci sarebbe una sorta di adæquatio rei ad intellectu, cioè una proposizione che nomina la cosa, dice come è la cosa realmente. Si tratta di un enunciato apodittico.

Tutto non può dirsi, afferma Freud, e lo spiega in vario modo nell’Interpretazione dei sogni, nella Psicopatologia della vita quotidiana, ovunque. Tutto non può dirsi, la cosa non sarà mai detta tutta. Non dicendosi tutta è come un insieme che, invece di chiudersi, resta aperto e, quindi, lascia infinite possibilità. Ecco che la cosa in sé, la sostanza, man a mano diventa incoglibile. Fino a porsi come effetto della parola.

Ma per giungere a questo occorrerà moltissimo lavoro. Per cui la necessità di porre delle premesse come assiomi, quindi delle tautologie, sempre vere, perché ci sia almeno un elemento che dice la cosa, che sia esente da rimozione, cioè, che sia fuori della parola, che sia così come le cose sono, senza tema di smentita.

Questa è la rappresentazione della scena, la scena tutta, quella che anziché originaria ciascuna volta, perché in atto lì, in ciascun momento, è scena primigenia, quella che è stata la causa di tutto, quella identica a sé, quella che occorrerebbe reperire, secondo una certa mitologia psicologistica che immagina che le cose possano essere identiche e, quindi, isolabili e pertanto reperibili. Ciò che non è isolabile dalla combinatoria linguistica non è reperibile. È già reperito ma, in quanto reperito, è perduto.

Allora, ecco, la considerazione che compie Freud è inserire questa scena, immaginata immobile, identica a sé, nella parola. Farla partecipare, dunque, del gioco linguistico e, partecipando del gioco linguistico, la scena da insieme chiuso si riscopre immediatamente come insieme aperto, in continua anamorfosi, mai identica a sé.

Ciascuna immagine è cinematica, è semovente, non è isolabile, non è fermabile. In nessun modo. Già Eraclito l’aveva perfettamente inteso: “nessuno può bagnarsi due volte nello stesso fiume”.

È una questione nota, che già i presocratici avevano posto in evidenza, cioè alcune prerogative della parola: l’inganno, dicevamo, che è nella parola.

Le parole ingannano, non c’è chi sappia o possa ingannare, salvo trovarsi ingannato dalle parole. Se uno suppone di poter dire la verità, di poter dire come stanno le cose, in quell’istante è già ingannato, dal momento che le cose, cioè le parole, sono già andate altrove, mentre lui è rimasto fermo a prima, a qualcosa che già non esiste più. Quindi, si trova costretto a tutto una serie di operazioni complicatissime per poter continuare a pensare che esiste ancora e che esiste in quel modo.

“Del resto - dice il Re - se non c’è il senso tanto meglio, non avremo bisogno di andarlo a cercare, è tutta fatica risparmiata”.

Non ha torto, in quanto il senso ciascuno lo incontra, lo incontra parlando, facendo, sognando. Se non c’è il senso delle cose, un senso predeterminato, prestabilito, quindi, isolato dalla combinatoria e reso identico a sé, immutabile, se questo senso non c’è, perché perdere tutta la vita per stare lì a cercarlo o a mantenerlo, una volta immaginato di averlo isolato?

Il senso che si immagina isolato è ciò che indicavo prima come la scena primitiva, tant’è che lo psicologismo si affanna spesso alla ricerca di una sorta di regressio senza accorgersi, come si erano già accorti millecinquecento anni fa, che questa regressio è all’infinito.

Non c’è nessun punto su cui è possibile arrestarla, se non quando ci si stufa.

Il senso non c’è in quanto dato, in quanto già dato, però l’idea è che riuscendo a stabilire, a trovare il motivo ultimo, questo giustifichi, cioè, dia un senso a tutta la catena, a tutta la propria vita, intesa come catena di fatti, di eventi, di parole, ecc. Come diceva Heisenberg, una volta individuato il punto di origine, rispetto alla fisica, so perfettamente qual è la direzione. Se so da dove sono partito, so qual è la direzione, l’orientamento: guardo a oriente e mi oriento.

Ma è ciò di cui Freud si sbarazza, e già prima di lui questi signori a nome Gorgia, Protagora e altri: l’origine non è reperibile, né isolabile, né situabile. Potremmo dire che non esiste in un’accezione metafisica ma esiste nella parola, esiste in quanto ciascuno può trovarsi a dirne. Ma non esiste fuori della parola.

Cioè, non esiste un luogo, topos originario, a cui tutto posa essere ricondotto. A questo punto, chiaramente, può pensarsi un tutto, un tutto a cui ciascuna cosa può ricondurmi perché, conosciuto il punto di origine, conosciuta la direzione, quindi anche l’arrivo, se conosco il punto di partenza, so la traiettoria, quindi so qual è l’arrivo. Ho un tutto compiuto, il significato.

Questo è un pò il mito, la mitologia che il pensiero umano, dai presocratici in poi, ha inseguito con varie e alterne vicende, trovando qua e là cose interessanti. Questa supposizione non è mai stata abbandonata del tutto perché ha dei risvolti e delle implicazioni che vanno molto al di là della filosofia, della fisica, della linguistica e di qualunque altra dottrina o scienza. Ma ciò di cui si tratta, da un certo punto in poi, è la governabilità degli umani. Perché è da alcune premesse che può organizzarsi, strutturarsi, un sistema che renda possibile pensare la governabilità.

Intendere qual è la struttura linguistica, retorica, che costituisce l’impianto su cui può reggersi la credibilità della governabilità delle cose, delle parole, quindi, la misurabilità in definitiva.

Che tutte le cose siano misurabili, come pensavano i mistici ebraici: la misurabilità di dio.

 

 

EQUIPE DI LETTURA

DANTE - Divina Commedia - XXVI canto

16 luglio 1993

 

 

Ciò che intendo rispetto a questa serie di incontri è questo: porre le persone che la seguono nella condizione di poter leggere ciascun testo traendo elementi per un’articolazione, per un’elaborazione teorica. Leggere un testo, dunque, traendo da questa lettura qualcosa che può consentire di fare un passo rispetto a un discorso che riguarda la persona.

Dunque, un qualche cosa che non è per nulla disgiunto dall’itinerario analitico, cioè dalle sedute propriamente dette, anzi, attribuisco a questi incontri la stessa portata, la stessa importanza di una seduta.

Questi incontri non sono per tutti, sono unicamente e esclusivamente per coloro che desiderano esercitarsi nel pensiero e nella scrittura.

Ciascuna volta ci sarà la lettura di un testo da cui muovere.

Stasera prendiamo le mosse dal XXVI canto dell’Inferno di Dante, quello intorno a Ulisse.

 

E ‘l duca, che mi vide tanto atteso

disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;

ciascun si fascia di quel ch’elli è inceso.”

“Maestro mio,” rispuos’io, “per udirti

son io più certo; ma già m’era avviso

che così fosse, e già voleva dirti:

chi è in quel fuoco che vien sì diviso

di sopra, che par surger della pira

dov’Eteòcle col fratel fu miso?”

Rispuose a me: “Là dentro si martira

Ulisse e Diomede, e così insieme

alla vendetta vanno come all’ira;

e dentro dalla lor fiamma si geme

l’agguato del caval che fé la porta

onde uscì dÈ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,

Deïdamìa ancor si duol d’Achille,

e del Palladio pena vi si porta”.

“S’ei posson dentro da quelle faville

parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego

e ripriego, che il priego vaglia mille,

che non mi facci dell’attender niego

fin che la fiamma cornuta qua vegna:

vedi che del disio ver lei mi piego!”.

Ed elli a me: “La tua preghiera è degna

di molta loda, e io però l’accetto;

ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlarea me, ch’i’ ho concetto

ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,

perché fuor greci, forse del tuo detto”.

Poi che la fiamma fu venuta quivi

dove parve al mio duca tempo e loco,

in questa forma lui parlare audivi:

“O voi che siete due dentro ad un foco,

s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,

s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,

non vi movete; ma l’un di voi dica

dove per lui perduto a morir gissi”.

Lo maggior corno della fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando

pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,

come fosse la lingua che parlasse,

gittò voce di fuori, e disse: “Quando

mi dipartì da Circe, che sottrasse

me più d’un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enea la nomasse,

Né dolcezza di figlio, né la pietà

del vecchio padre, né ‘l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer poter dentro da me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,

e delli vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola dalla qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,

fin nel Marocco, e l’isola dÈ Sardi,

e l’altro che quel mare intorno bagna.

Io È compagni eravam vecchi e tardi

quando veniam a quella foce stretta

dov’Ercole segnò li suoi riguardi,

acciocché l’uom più oltre non si metta:

dalla man destra mi lasciai Sibilia,

dall’altra già m’avea lasciata Setta.

O’ frati, ‘dissi, ‘che per cento milia

perigli siete giunti all’occidente,

a questa tanto picciola vigilia

de’ nostri sensi ch’è del rimanente,

non vogliate negar l’esperienza,

di retro al sol, del mondo senza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza.

Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena, poscia, li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

dei remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già dell’altro polo

vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,

che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto dalla luna,

poi che ‘ntrati eravam nell’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;

ché della nova terra un turbo nacque,

e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque:

alla quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso”.

 

Questo, dunque, dice Dante del folle volo di Ulisse.

Le colonne d’Ercole: c’è un limite, un limite che non è dato superare. Ciò che Ulisse compie è un gesto audace, un gesto straordinario. Forza questo limite, questo limite che era dato come impossibile a passarsi. Limite della metafisica: dio, l’oggetto. Ulisse va oltre le colonne d’Ercole, poste lì acciocché l’uom più oltre non si metta.

Ma è preso in un turbine, dunque, non riesce. Non riesce a trovare ciò che cerca. Trova altro.

Ciò che Dante esplora in questo canto muove anche dalla conoscenza che lui aveva della filosofia, un pensiero che era piuttosto noto all’epoca, cioè l’averroismo latino, che immagina che attraverso l’intelletto possa conoscersi la sostanza, dio, la cosa in sè. Solo con l’intelletto.

Dunque, è un’ascesa, un’ascesa che, tuttavia, non muove da una caduta precedente. Dante era affascinato da questo pur mantenendosi, pur attenendosi al pensiero cristiano. Fortemente attratto da questo gesto di Ulisse che è il gesto degli umani, degli umani che sfidano il limite. Dunque, Ulisse viene trattenuto, ci dice, da Circe, che trasforma i suoi compagni in porci. Una Circe seducente, Circe etrusca, l’unica che riesce a trasformare gli umani in porci. Ma Ulisse non si piega; c’è in tutto ciò un qualche cosa che può far riflettere intorno alla questione di Circe e che riprenderemo perché è connessa a Paolo e Francesca, cioè al sensibile, alla sessualità e alla sensualità.

C’è, dunque, qualche cosa che muove Ulisse e che in nessun modo può arrestarlo, dice, né l’amore per i figli, né l’amore per la moglie, né la pietà per il vecchio padre. Nulla riesce a trattenerlo. Lui deve, è mosso da qualche cosa che non può in nessun modo contrastare. Andare oltre ciò che è segnato dal limite, per raggiungere la cosa, per raggiungere l’oggetto, per raggiungere dio. È questo il messaggio dell’averroismo latino di cui parlavo, in particolare di Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia: dio è possibile, cioè, l’oggetto è possibile, gli umani possono raggiungerlo.

C’è un limite e c’è una frontiera.

C’è un passo di Aristotele nella Fisica dove indica, proprio nel tempo, la non misurabilità della frontiera che si fa di passo in passo, il limite dell’immediatezza, ciò che Platone chiamava la metessi, questa impossibile mediazione tra l’oggetto e l’idea. Due aspetti del tempo: passo e piede, frontiera e limite.

La questione che si impone, leggendo qui Dante, è che c’è qualcosa di irrinunciabile, qualcosa che per ciascuno non può farsi altrimenti, cioè, compiere questo viaggio, varcare il limite.

Però, Ulisse, nella sua audacia, non è premiato per Dante. Tant’è che lo pone all’inferno, proprio per questa sua sfida, sfida che è poi la stessa di Adamo. Il serpente dice: “Se mangerai questo sarai come dio”. La sfida è sempre questa: sfidare dio per essere come lui. In Dante c’è questo dettaglio: Ulisse manca il bersaglio, non raggiunge dio. Per Dante non sarebbe come dio. Dio resta l’oggetto, inafferrabile, imprendibile, tale e quale rimane nel Paradiso, un sembiante.

Togliendo, con questo, ogni promessa. Non c’è promessa, in questo senso. Non è possibile promettere qualcosa a qualcuno.

Acciocché l’uom più oltre non si metta, gli umani hanno sempre immaginato questo limite che li separa da dio, dall’oggetto, per cui l’oggetto rimane sempre imprendibile. Lo hanno immaginato e attribuito a questa impossibilità vari elementi, ma stabilendoli in modo tale che possa pensarsi la possibilità di varcare il limite.

C’è un limite, dicevo, che non può varcarsi, che è il limite del piede, il limite che pone il piede. Il passo compie un tragitto, il piede segna il limite ma non è un limite limitante, per cui uno debba attenersi ai propri limiti. Questo limite non è appropriabile, non è di qualcuno. Questo limite dice che le cose non sono mediabili, che non c’è mediazione nelle cose.

È curioso l’averroismo latino di Sigieri di Brabante e questa idea, ripresa da Averroè, che l’intelletto possa conoscere dio, l’oggetto, che l’intelletto in questo caso faccia da mediazione tra l’oggetto e l’idea, (l’intelletto), fra la sostanza, come dice. Cogliere, dunque, la sostanza, giungere alla sostanza delle cose.

Ulisse fa questa orazion picciola. Dice:

Considerate la vostra semenza;

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza

Indica, dunque, che c’è una più alta meta da raggiungere. C’è un obiettivo comune. Indica non soltanto la via, indica la meta. Immediatamente, dice, la sua compagna picciola ne è infiammata, dice che

a pena poscia li avrei ritenuti

È un’indicazione, quella che fornisce. Indicazione anche retorica, oratoria: promettere il raggiungimento della meta, cioè, l’oltrepassamento del limite, quindi, il raggiungimento della sostanza, è ciò che fa immediatamente reperire il consenso di chi ascolta.

Ecco che a questo punto inizia il folle volo. Folle per Dante in quanto sfida questo limite. Come ciascuno incontra il folle volo? Come ciascuno non può evitarlo? C’è della follia in questo volo, ma forse la follia non è la connotazione morale ma indica l’insistere dell’oggetto. Forse, l’oggetto non è questo dio, questa sostanza da raggiungere ma è la stessa follia che costringe al folle volo. Folle è, dunque, l’oggetto nella sua inafferrabilità, nella sua imprendibilità.

Immagina di avere raggiunto la montagna, cioè l’approdo, però, prima di raggiungerlo, viene travolto da un vortice,

Tre volte il fé girar con tutte l’acque

poi, viene inabissato

infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso

Non c’è uscita dal linguaggio, non c’è approdo fuori della parola. Ciò che ciascuno incontra è un turbo, qualcosa che lo fa girare, che continua a far girare. Anziché l’attracco, il lido sicuro, il turbo, il turbinio, qualcosa continua a girare.

C’è certamente nell’averroismo latino qualcosa di curioso, interessante. È stato poi condannato con le tesi del 1277 perché negava la necessità della grazia. Se ciascuno può raggiungere dio non ha bisogno della grazia, non ha bisogno della mediazione della chiesa. Fu condannato, quindi, ma proseguì in varie circostanze, per varie vicissitudini e comunque a fianco di altre eresie quali lo gnosticismo e altre.

Un modo, dunque, questo di Dante per avvertire una questione straordinaria. Cioè, lui dice che la questione resta aperta, non c’è l’attracco finale, il folle volo continua. Sì, lui ha dovuto, poi, per vari motivi, sistemare Ulisse nell’inferno. Però, tra l’altro, pone in paradiso Sigieri di Brabante. Poi, utilizza quella figura che lui stesso descrive nel Convivio, la dissimulazione. La descrive nel terzo libro, decimo capitolo del Convivio.

È interessante la descrizione che dà della dissimulazione:

E questa cotale figura, in rettorica, è molto laudabile, e anco necessaria; cioè, quando le parole sono a una persona e la ‘ntenzione è a un’altra; però che l’ammonire è sempre laudabile e necessario, e non sempre sta convenevolmente ne la bocca di ciascuno. Onde, lo figlio è conoscente del vizio del padre, e quando suddito è conoscente del vizio del signore, e quando l’amico conosce una vergogna crescerebbe al suo amico quello ammonendo o menomerebbe suo onore, o conosce l’amico suo non paziente ma iracundo a l’ammonizione, questa figura è bellissima e utilissima, e puotesi chiamare ‘dissimulazione’. Ed è simigliante a l’opera di quello savio guerriero che combatte lo castello da uno lato per levare la difesa da l’altro, che non vanno ad una parte la ‘ntenzione de l’aiutorio e la battaglia”.

Le parole da una parte ma l’intenzione da un’altra. Dunque, dissimula. Dissimula che cosa? Qualche cosa che, evidentemente, lo riguarda, cioè, questo volo, questo volo a cui Dante spesso ha pensato. La sua stessa vicenda sta a indicarlo.

Ma si tratta di un volo, dicevo prima, a cui Dante allude, che rigurda ciascuno. Il volo è quello avviato dall’oggetto, dall’ostacolo. Ciascuno reperisce un ostacolo lungo la propria vicenda, un inciampo. Tutto va bene, uno prosegue il suo cammino ma qualcosa lo fa inciampare. Lì qualcosa può incominciare, da questo inciampo, da questo ostacolo.

Cos’è l’ostacolo, l’inciampo? L’oggetto, il punto vuoto, ciò che Ulisse non trova, ma che gli consente di compiere questo viaggio. Se lo trovasse il viaggio terminerebbe, il viaggio potrebbe dirsi finalizzato oltre che finalizzabile. Il viaggio sarebbe a qualcosa. Così facendo non trova il fine, non trova la finalità. Il viaggio è mosso da qualcosa che resta inafferrabile, che resta incoglibile.

Il viaggio, parlando qui di Dante, possiamo usarlo come metafora dell’itinerario. Possiamo parlare di itinerario intellettuale, anziché di itinerario dell’anima a dio e che conduce alla sostanza delle cose. È chiaro che ci furono molte obiezioni a Sigieri di Brabante e all’averroismo latino. Le più note sono quelle di Tommaso. Tommaso continua a insistere che, invece, occorre l’illuminazione e la grazia, che non possibile raggiungere in vita dio ma soltanto vederlo in seguito alla morte. Non è possibile, dice lui, perché sostanze separate non sono percettibili sensibilmente. Era tutta qui la disputa tra l’averroismo e la dottrina cristiana: sostanze separate, cioè dio, potremmo dire in una parola, ciò che non è sensibile. Se le sostanze separate sono pensabili, sono coglibili dal solo intelletto, allora, dio stesso, per estensione, può essere conosciuto dall’intelletto. Questa è la tesi di Averroè, osteggiata, dicevo, dalla chiesa e, in prima istanza, da Tommaso.

Secondo la vecchia metafora del pipistrello e dell’aquila, già avanzata da Aristotele, il pipistrello non può vedere ciò che l’aquila vede. Non può guardare il sole, l’aquila sì. Se, dunque, esiste il sole, non c’è cosa, dicevano gli averroisti, che non ha utilità nel mondo. È chiaro che, così come gli umani vedono il sole, che se esiste è perché gli umani possono vederlo, allo stesso modo dio è raggiungibile per definizione, altrimenti non avrebbe nessuna utilità.

La risposta di Tommaso è che il discorso non regge, perché non è detto che se gli umani non vedono qualcosa questo qualcosa non esista e, quindi, non sia inutile per loro. Possono non vederlo perché non sono attrezzati sufficientemente. Solo dio può attrezzarli. Ecco, quindi, la necessità della grazia. Ecco, quindi, che soltanto quando si sono liberati delle spoglie terrene possono accedere a questo.

Due posizioni che evidentemente sono entrambi sostenibili e confutabili. Ciò che a noi interessa qui è un altro dettaglio. La lettura di questa parte del XXVI canto apre a questioni che sono straordinarie. Questioni su cui ciascuno può trovarsi a riflettere per quanto lo riguarda. Ciascuno può trovarsi a reperire nel proprio discorso degli aspetti straordinari che lo riguardano. Leggo Dante come posso leggere ciascun discorso, ciascun testo. Ora, non va da sè, evidentemente, che ciascun testo offra questa ricchezza. Ciascun testo, quindi, ciascun discorso.

Ciò che vi dicevo all’inizio lo riprendo ora in questi termini.

L’analisi, propriamente detta, detta le condizioni perché ci sia la lettura. L’analisi non è propriamente la lettura. Ciò che interviene lungo l’ascolto di un discorso, quindi, l’intervento, pone le condizioni ciascuna volta perché possa darsi una lettura di ciò che si scrive parlando. Ma perché possa darsi una lettura occorre che ciò che si scrive parlando non sia ricondotto, ciascuna volta, alla sostanza, all’attracco per fermarsi da qualche parte. Per questo occorre l’analisi: per constatare in atto che non c’è attracco possibile, che non c’è la sostanza. A questa condizione può avviarsi la lettura di ciò che si scrive, di ciò che si dice.

Non ciascun testo si offre alla lettura allo stesso modo. Evidentemente, il testo di Dante offre continuamente degli elementi straordinari di apertura. Altri no. E questa una questione che occorre affrontare. Mentre lungo un’analisi io posso porre delle condizioni perché il discorso, il testo di qualcuno possa giungere a accorgersi che non c’è attracco, non c’è sostanza e, quindi, avviare una lettura, se io leggo un testo questa operazione non posso compierla.

Leggendo delle pagine di Jung, per esempio, adesso cito lui ma posso citarne molti altri, questa operazione non è possibile. Non posso porre le condizioni perché Jung dica, si interroghi intorno a ciò che sta scrivendo e, quindi, instaurare delle condizioni, altre, perché possa darsi lettura, perché possa darsi divisione nelle cose.

Se un testo tenta, ciascuna volta, di inchiodarmi alla sostanza, non mi lascia molte chances. Sì, io posso anche trarre qualche elemento, per un equivoco, ma giusto per un equivoco, perché questo testo tenta di riportarmi continuamente alla sostanza, continua a dirmi che c’è la sostanza. Vuol dire, in altri termini ancora, che non qualunque cosa va bene, non qualunque cosa è interessante. Non va affatto da sè che sia così. L’analisi è propriamente l’itinerario che pone le condizioni perché questo possa avvenire.

Quando l’altro giorno, rileggendo questo canto di Dante, e io trovo che leggere Dante sia fonte di ispirazione, l’ho riletto in un modo assolutamente differente. Cioè, ciascuna volta c’è un’altra apertura, c’è una finezza. Ciascuna riga, ciascun significante è preso in una combinatoria che continuamente rilancia la questione.

Anche per un’estrema precisione dei termini; è giungendo a un’estrema precisione di termini che le cose si aprono, si dividono. Torno a dire, ancora altrimenti, che l’analisi è l’itinerario che consente di giungere a questa precisione. Laddove non c’è questa precisione c’è l’approssimazione, tutto vuol dire tutto, non si intende nulla. Continua a rigirarsi in tondo, tra le proprie superstizioni, tra i propri tic, senza avere l’occasione di accorgersi che non c’è l’attracco, non c’è sostanza.

Il tic è il modo di attenersi alla sostanza, farle il verso. Per tic intendo non soltanto il gesto manifesto ma il trovarsi a ripetere ciascuna volta lo stesso itinerario dell’anima a dio, per dirla alla maniera dei medioevali.

Straordinario il Medio Evo, più lo leggo e più traggo elementi. Vi sono degli autori medioevali che sono di una ricchezza straordinaria. Leggeremo alcuni di loro.

Leggeremo varie cose di Dante, anche tratte dal Convivio, dal De vulgari eloquentia e anche dal De monarchia, che leggeremo assieme a Machiavelli. Mentre il De Trinitate dei di Agostino lo leggeremo insieme a Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Leggeremo molte cose dei medioevali. Come dicevo prima, più li rileggo e più mi accorgo che dicono cose su cui occorre a tutt’oggi soffermarsi e raccogliere la questione che pongono, raccoglierla e rilanciarla.

Dicevo, dunque, della lettura, di come l’analisi ponga le condizioni perché ci sia lettura. La lettura giunge come punta della scrittura. Il colmo, potremo dire. In questo gli averroisti avevano colto determinati aspetti, Sigieri di Brabante e soprattutto Boezio di Dacia.

C’è una nota di Dante:

O Frati - dissi - che per cento mila perigli siete giunti all’Occidente, a questa tanto picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente”.

Che è del rimanente: avevano colto che c’è questo intelletto passivo che recepisce tutto. A un certo punto si colma; quando si colma, cioè, quando ciascuno ha avuto esperienza di ogni cosa, solo a questo punto l’intelletto incontra l’intelletto attivo, solo a questo punto incomincia a accorgersi delle cose, comincia a intendere. Quando sa tutto - è un tutto evidentemente un pò parodistico, c’è tutto in quantità - ma quando è al colmo dell’esperienza, alla sua punta, alla punta della scrittura, quando può incontrare ciascun elemento che si scrive parlando, lì incontra la lettura.

Picciola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente, cioè, di ciò che rimane; a questo punto occorre fare il passo, andare oltre. Di passo in passo, diciamo alla frontiera.

Fatti non foste a viver come bruti. Qui è curiosa la questione del bruto e, invece, dell’intelletto. Questione che è una ripresa dell’episodio di Circe, di Paolo e Francesca. Forse, può trarsi maggior giovamento leggendo la Commedia insieme con il Convivio.

La dissimulazione, dicevamo prima. Qual è il crimine di Francesca? Non è tanto di aver goduto della poesia, di aver goduto esteticamente, ecc., come occorre che ciascuno faccia, ma d’averla praticata e praticandola di essere stata travolta.

Infatti, Dante mette nel V canto i lussuriosi, che sono travolti da questa bufera, dalla poesia, che non consente di restare con i piedi per terra ben piantati. Francesca ha avuto questo “torto” di non essersi accontentata di ossequiare, di rispettare la poesia, ma l’ha praticata e ne è stata presa. Anche Francesca ha, in qualche modo, varcato questi limiti, posti lì acciocché l’uom più oltre non si metta.

Ecco Circe l’etrusca, la sensualità, la sessualità. Parla una lingua sconosciuta e soltanto lei riesce a sedurre questi suoi compagni. Che cosa dice Circe? Dice che esiste il corpo, che la sessualità non si controlla, che esiste il corpo come punto, come punto vuoto. Tuttavia, è qualcosa con cui ciascuno si confronta costantemente e continuamente, che questiona, che ciarla, che provoca. Ciascuno è continuamente provocato dal corpo di cui, propriamente, non sa nulla.

Il modo in cui si tenta di rispondere alle questioni di questo corpo è, in alcuni casi, drammatico, come indicavo a Torre Pellice, rispetto al discorso isterico, per esempio.

Chi sono qui i porci? Curiosa questione questa.

Cioè, Circe trasforma in porci questi uomini. Poi, li ritramuta in esseri umani. Curiosa vicenda. I porci, dunque, come coloro che qui perdono di vista l’itinerario, apparentemente. Come dire che questo itinerario non va senza inciampo. Ciascuno trova un inciampo nel proprio itinerario, è la condizione dell’itinerario. Nessun itinerario è senza inciampi. Ecco, la questione della difficoltà, dell’inciampo, come ciascuno si trova a volgere e accorgersi che l’inciampo, l’intoppo, è la condizione per proseguire, come la difficoltà, cioè l’afasia, costituisca la chance per ciascuno.

Ciascuno non sa parlare, questa è l’afasia, cioè, non raggiunge parlando l’attracco, non raggiunge la sostanza. Parlare non è una competenza, per cui qualcuno sa o non sa parlare. Non c’è chi sappia parlare, non c’è chi sappia compiere questo itinerario. Non è un’iniziazione.

Tuttavia, occorre questo itinerario. Il folle volo è indispensabile. Avrebbe potuto restarsene a casa tranquillo, eppure no

né dolcezza di figlio, né la pietà

del vecchio padre, né ‘l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta

vincer poter dentro da me l’ardore

ch’ i’ ebbi a divenir del mondo esperto,

e delli vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto

L’inquietudine, il disagio. Nulla riesce a arrestarlo, niente riesce a fermarlo dal mettersi in alto mare aperto.

Quando parlo di disagio intendo esattamente questo. Non soltanto io, anche il discorso occidentale intende esattamente questo.

Il disagio non è affatto una malattia, non importa a nessuno della malattia. Ma è proprio perché avverte che il disagio è questo che lo combatte. Perché se il disagio fosse un acciacco, ci sarebbe lo psicofarmaco. Che problema ci sarebbe?

né dolcezza di figlio né la pietà

del vecchio padre, né ‘l debito amore

per cui si mette in alto mare aperto. Se a qualcuno succede questo è un problema, perché questo disagio non si arresta con lo psicofarmaco. Da qui la necessità di persuadere ciascuno che, invece, il disagio è il malessere e che può curarsi e che, quindi, il curato torna tranquillo al lavoro, alla famiglia, ecc. e si toglie di mente di andare per lo mare aperto.

Perché fin che è lì in casa, con la famiglia, ecc., è in compagnia, protetto, sicuro. Se va per lo mare aperto, lì c’è la solitudine, estrema, assoluta. Solitudinbe che, peraltro, non raggiunge nessun attracco. Faccio questo viaggio, trovo la solitudine, però, poi alla fine raggiungo la quiete, la pace. No, nessun attracco ma un turbine che tre volte il fé girar con tutte l’acque.

Nessuna tranquillità.

È straordinario questo canto di Dante, insieme a tutti gli altri. Dante dice, in effetti, della sua inquietudine, quell’inquietudine che lo ha costretto a scrivere la Commedia. Infatti, Dante di intoppi, di inciampi na ha avuti un certo numero.

Mai sottrarsi alla difficoltà, mai sottrarsi all’inciampo, all’ostacolo. Lì c’è la fortuna, c’è la risorsa. La dove c’è l’ostacolo, evidentemente, qualcosa provoca. Ma ciò che provoca non è la sostanza, non è la cosa in sè. È questo, molto semplicemente: ciascuno cerca di afferrare la cosa, l’oggetto, quello che ritiene tale. Si accorge, in questo gesto, che non ha afferrato ciò che immaginava di fermare. Qualcosa è andato oltre, qualcosa resta sempre un passo al di là, oltre ciascun gesto che cerca di fermarlo.

Avevamo indicato questo gesto, questo trovarsi a questo movimento verso l’oggetto, come l’amore. Ciò che resta di questo gesto è propriamente l’oggetto. L’oggetto come punto vuoto, ciascuna volta incolmabile. È qui evidentemente l’ostacolo, che incontro ogni volta che mi trovo preso in questo movimento. Ora, questo ostacolo posso rappresentarlo, posso immaginare di localizzarlo; allora, si trasforma nel problematico o, addirittura, nella paralisi.

E, invece, era una chance. È evidente che non può prendersi, non può togliersi l’ostacolo che, come indicavo prima, è la chance, la fortuna, per ciascuno.

Dicevo prima che è interessante leggere la Commedia insieme con Convivio, perché leggendo ho verificato che fornisce moltissimi strumenti per leggere in modo più interessante, per trarre maggiori vantaggi dalla lettura.

 

 

EQUIPE DI LETTURA

KAFKA - La metamorfosi

23 luglio 1993

 

 

“Nel destarsi un mattino da sogni inquieti, Gregorio Samsa si trovò trasformato nel suo letto in un enorme insetto. Giaceva sul dorso, duro come una corazza, bastava che alzasse un pò la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.

«Che cosa mi è capitato?» pensò. Non era un sogno ...”

La cosa curiosissima di questo racconto è che dà subito da riflettere. Questo tizio, infatti, si sveglia alla mattina trasformato in un insetto ma in nessun punto del racconto appare mai la domanda del come mai questo sia avvenuto. C’è, dunque, una trasformazione di cui Gregorio Samsa prende atto. Prende atto senza ricondurla a una spiegazione, a un significato. Prende atto e da quel momento, tenendo conto di quella trasformazione, prosegue la sua vicenda. Qual è questa vicenda?

Può accadere a ciascuno di svegliarsi e, svegliandosi, si trova assolutamente trasformato. Solo se non si sveglia può continuare di essere sempre lo stesso. Accade, dunque, di trovarsi trasformato e, come è accaduto a Gregorio Samsa, di non rispondere più a ciò che gli altri si attendono che lui sia. È un altro, un altro che viene visto con sospetto, con fastidio. È noto che prima si cerca di ricondurlo allo stato originario, poi lo si allontana e, quindi, lo si elimina. È un’allegoria tutt’altro che banale.

L’analisi che Kafka fa in questo racconto, che può leggersi insieme con il Processo, è un’analisi molto acuta, molto articolata del discorso del luogo comune come del discorso giudiziario. Quasi tutti i racconti di Kafka sono articolazioni, elaborazioni del discorso del luogo comune con cui Gregorio Samsa, svegliandosi, si trova a far i conti. Soltanto continuando a dormire, cioè non svegliandosi, può non trovarsi costretto a questo confronto. In effetti, è con una certa inquietudine che Gregorio Samsa si accorge di essersi svegliato. Un modo, dicevo, per indicare molto finemente a che cosa va incontro chi si desta all’improvviso.

Accorgersi di non rispondere più a ciò che altri si aspettano da lui è, in effetti, il motivo conduttore e che dà avvio a tutto il racconto di Kafka. Perché è di questo che si tratta: che cosa succede quando qualcuno non risponde più a ciò che altri si aspettano da lui, quando si trasforma, diventa un’altra persona, diventa altro. È curioso come proprio in questa occasione Kafka individui e colga in modo molto preciso due modi con cui il discorso del luogo comune si dà da fare laddove incontra una trasformazione nei confronti di qualcuno.

C’è la sorella. Cosa fa la sorella? Quello che fanno tutte le sorelle, cioè, cerca di fare fuori il fratello. Come? Kafka lo descrive molto finemente. La sorella si occupa di questo fratello che è diventato differente. A un certo punto Kafka scrive:

“... Gregorio comprese che l’essere stato escluso, durante quei due mesi, da ogni contatto verbale, mentre continuava monotona la sua esistenza in seno alla famiglia, doveva avergli scombussolato il cervello: non era spiegabile altrimenti che egli avesse seriamente desiderato abiterei in una camera vuota. Aveva davvero voglia di lasciar trasformare quella stanza calda e gradevole, arredata con mobili di famiglia, in una sorta di spelonca, nella quale avrebbe potuto, sì, sgambettare indisturbato in tutte le direzioni, ma non senza un totale e rapido oblio del suo passato di uomo? Evidentemente quell’oblio era già pronto a accoglierlo; e se non vi era caduto, era stata solo la voce della mamma, da tanto tempo non udita, a trattenerlo. Non c’era niente da portare via; tutto doveva rimanere com’era; gli influssi favorevoli della mobilia nel suo stato attuale erano della massima importanza per lui; se essa ostacolava quello stolto suo strisciare avanti e indietro, ciò non era un danno, ma al contrario un grosso vantaggio.

Ma la sorella fu purtroppo d’altro avviso. Nelle discussioni riguardanti Gregorio, s’era attribuita (e non del tutto a torto) un ruolo di arbitro di fronte ai genitori; sicché anche stavolta bastò che la madre esprimesse quel dubbio, perché lei insistesse sulla necessità di sgombrare non solo il comò e la scrivania, ma anche tutti i mobili della stanza, eccettuato l’indispensabile divano. Non era solo orgoglio infantile, né la fiducia in se stessa cui gli ultimi tempi avevano dato tanto inatteso e doloroso alimento, a dettarle quell’intransigenza: la certezza che, mentre Gregorio abbisognava di molto spazio per strisciare su e giù, i mobili invece, per quanto era dato vedere, gli erano assolutamente inutili poggiava su una constatazione materiale. E più ancora, forse, agiva sul suo animo la tendenza all’esaltazione propria alle ragazze della sua età e che cerca ogni occasione di sfogarsi; forse era quella che spingeva Grete a render più che mai atroce la condizione di Gregorio, così da poterglisi dedicare ancor più totalmente. Chi mai infatti avrebbe osato avventurarsi in una stanza dai muri nudi, in cui Gregorio regnasse da solo?”

Ciò che nota Kafka è che, come sempre avviene, laddove qualcuno incontra una trasformazione, immediatamente trova qualcuno che si adopera per ricondurlo alla ragione, non solo, ma fa di questo il motivo della propria esistenza. Diventa indispensabile, allora, qualcuno che abbia bisogno.

La vicenda è interessante per molti versi dal momento che per primo Gregorio è sorpreso di questa trasformazione ma non fa menzione lungo il testo di ritornare alla situazione primigenia. Non c’è e occorre pure tenere conto di questo. Lui si accorge che qualche cosa è avvenuta e da quel momento incomincia un altro percorso. Però, questo percorso tiene conto in modo drammatico del fatto che deve confrontarsi con il discorso del luogo comune che non tollera alcuna trasformazione.

Il discorso del luogo comune, dicevo, come discorso giudiziario, cioè quello che coglie nella trasformazione il segno della colpa.

Dice Kafka nel Processo: il tribunale, potremo dire il discorso giudiziario, è attratto dalla colpa. Il discorso del luogo comune è attratto dalla colpa, dalla colpa come la localizzazione di ciò che eccede rispetto al luogo comune. Che cosa eccede? Eccedono l’arte, la poesia. Dicevamo l’altra volta di Paolo e Francesca in Dante. Il crimine di Francesca non è tanto quello di aver commesso adulterio quanto quello di avere praticato la poesia, cioè quello di non averla considerata un orpello ma qualcosa di strutturale cui non è possibile sottrarsi. Allora, dunque, il discorso del luogo comune si nutre di colpa, è attratto dalla colpa. Il discorso del luogo comune è il discorso dell’uguaglianza, il discorso che si adopera perché tutti siano uguali stabilendo qual è il criterio, il livello di uguaglianza.

Il discorso giudiziario, in questo racconto, è raffigurato dalle tre persone che incominciano a occuparsi di qualcuno che si è trasformato: la sorella, la mamma e il papà, che sono poi le persone con cui i figli hanno a che fare.

La sorella diventa di colpo una persona importantissima nella famiglia. Incomincia a avere questo ruolo che Kafka descrive come essenziale, irrinunciabile per la sorella, finalmente ha una sua specificità.

Accade con una certa frequenza che qualcuno cerchi una propria specificità, una propria particolarità in relazione a un altro. Può accadere ... Anziché intorno al proprio discorso, alla propria vicenda, al proprio itinerario, dove in effetti può reperire i termini della propria specificità, della propria unicità, si cerca attraverso altri, ecco, allora, la persona, così come la sorella, è costretta a disporre perché questa trasformazione sia una colpa o sia comunque qualcosa da gestire. Da gestire attraverso la messa a morte, messa a morte che poi Gregorio Samsa assume perché alla fine muore, muore in una sorta di sparizione, cioè si leva di mezzo. Assume, dunque, il desiderio dell’altro, che è rappresentato. Morendo, i familiari possono ricordarlo così come lo immaginavano, cioè per quel bravo figlio che lavora come rappresentante, rispettabile, ecc., non per quel mostro in cui si era trasformato. Perché era in un mostro che lui si era trasformato. In un’accezione particolare certo, Kafka lo descrive così, però quante volte avrete ascoltato dire di una persona: “Quello è un mostro.”, eppure evidentemente le fattezze sono quelle umane. Nel racconto di Kafka è raffigurato così in modo giocoso per cui ha dato una configurazione al mostro come un insetto orrendo, cioè quanto di più mostruoso possa pensarsi, secondo il folklore popolare.

Il mostro è colui che non è più quello che si immaginava che fosse. Così come una persona che conoscete da molto tempo, di colpo vi accorgete che era tutt’altro da quella che immaginavate che fosse. Questa persona, per una notizia che potere avere avuto intorno a lei, cambia radicalmente, assolutamente, cioè non riuscite più a vederla come la vedevate prima.

I giornali sono pieni di questi mostri, di queste persone che erano rispettabilissime, affabili, di colpo sono diventate dei mostri, da additare al pubblico ignominia, da evitare, da condannare e da eliminare. Da quel momento, la fretta è di sbarazzarsi di quella persona che è stata trasformata in un mostro.

Esattamente come il padre, la madre e la sorella di Gregorio Samsa. Anche la sorella che per quanto fino a un certo punto abbia avuto questo ruolo di gestione del fratello per cui forse per la prima volta in vita sua è diventata importante. Ma un mostro è sempre ingestibile, anzi, è mostro proprio in quanto è ingestibile. Quindi, la cosa non può tirarsi molto alle lunghe, a un certo punto non è più possibile proseguire, questo mostro deve essere eliminato. Deve essere eliminato perché se continua a esistere questo mostro continua a riproporre non solo la trasformazione ma l’eventualità della trasformazioni con tutto ciò che comporta. E cioè che una persona che io conosco o che immagino di conoscere in un certo modo può non essere affatto quella persona e quindi non posso conoscere affatto nessuno. Se poco poco proseguo questo pensiero posso trovarmi di fronte all’eventualità che chiunque, di colpo, all’improvviso, senza preavviso, possa trasformarsi in un mostro. E, pertanto, non controllo più le persone che mi circondano, anzi, da chi sono circondato?

La paranoia fa di questa eventualità un’attesa dando come principio di essere circondati da mostri che vanno tenuti a bada o addomesticati, a seconda dei casi.

Dunque, gestire la trasformazione. Di che cosa si tratta nella trasformazione? Che cosa si trasforma propriamente? Quale trasformazione possiamo indicare come strutturale?

Qualcosa si trasforma e qualcosa varia parlando. Per esempio, posso avere una certa immagine di una certa idea e provo a spiegarla a qualcuno e comincio a dire delle cose. Mentre le dico mi accorgo che qualcosa interviene parlando e si aggiunge a ciò che immaginavo di volere dire e aggiungendo un elemento questo ne richiama un altro. Mi accorgo che sono preso, man a mano mentre continuo a parlare, in una sorta di trasformazione. Questa trasformazione che non riesco a gestire, a controllare, mi effettua letteralmente. Qualcuno può anche domandarsi: “Chi sono io?”. Domanda fatidica. Laddove si pone questa domanda, non trova, salvo un certo sforzo di persuasione, una risposta adeguata. Come dire, che qualunque risposta che tenti di saturare questa domanda, questa stessa risposta si trasforma in domanda, cioè rilancia la questione. E, allora, non riesco mai a trovare un punto di arresto, a decidere chi sono. Ciascuna volta che mi sembra di avere trovato la decisione, un altro elemento interviene e sposta.

Qualcuno si è posto la questione in questi termini: chi sono io? Sono quello che si domanda tutto questo. Risposta legittima fino a un certo punto ma che sposta di poco la questione perché chi è questo chi? E torniamo al punto di prima. Altri più accorti sono giunti a dirsi che forse il chi di questo domandare non è altro che il domandare stesso. Altri hanno avvertito che qualcosa si effettua, si produce proprio in questo domandare.

Lacan propose una nozione di soggetto quasi in questi termini, anche se non proprio così, come ciò che si produce in questo domandare. E che dunque non precede questo domandare, non è il soggetto della domanda ma, al contrario, questo soggetto sorge come effetto di questo domandare. Ma, allora, può chiedersi: chi domanda?

È da molto tempo che alcuni hanno cessato di porre la domanda in questi termini verificando che non poteva incontrare nessuna risposta e, quindi, hanno incominciato a formulare la questione in altri termini chiedendosi: ma perché dobbiamo formulare necessariamente la questione proprio in questi termini? Forse può formularsi altrimenti perché formulata in questo modo immagina che debba necessariamente esserci un chi soggetto. Ebbene, se parlando incontro la trasformazione e chiaro che, in quanto effetto di ciò che dico, mi trasformo continuamente. È un mi trasformo un po’ improprio perché a questo mi non corrisponde nessuno. Diciamo che incontro ciascuna volta una trasformazione. Ora, indicata in questi termini la nozione di trasformazione, possiamo accorgerci che ciascuno può accorgersi di questa trasformazione. Accorgersi, cioè, di trovarsi effetto di ciò che dice e, quindi, di non avere nessuna identità propriamente né da conservare, né da difendere, né da mantenere, in particolare nei confronti di altri. Lacan aveva inteso questo; lui lo immagina strutturale ma è una fantasmatica: ciascuno si immagina un’identità soltanto come ritorno di qualcosa che viene dall’altro. Non è una struttura, è una fantasia, di questo Lacan non si accorge. Ciascuno immagina, ecco la fantasia, di dover essere qualcuno per qualcun altro. Vale a dire, si pone come segno, ciò che rappresenta qualcosa per qualcuno.

Cosa avviene quando ci si accorge di una trasformazione in atto? Non va da sè che qualcuno si accorga di questo. Se non ci si accorge interviene un’idea, che non ci sia alcuna trasformazione o, meglio ancora, che non debba esserci. Tutto ciò che si trasforma è avvertito come una minaccia di qualunque identità, di qualunque referente, di qualunque punto fermo, di qualunque cosa che possa immaginarsi come condivisibile, partecipabile, di tutto ciò che, in definitiva, che mi garantisce che io rispondo a ciò che gli altri si aspettano da me. Ciascuno, in qualche modo, immagina che la propria identità sia garantita da questo: rispondere a ciò che gli altri si aspettano da lui. Ciascuno immagina questo di ciascun altro e, quindi, si instaura una sorta di complicità che consente a ciascuno di non porsi mai la domanda se in effetti soddisfa la domanda dell’altro. Laddove la domanda viene posta in modo esplicito c’è sempre un ritorno un po’ straniante, cioè imprevisto.

Tutto si regge sull’omertà, sulla struttura mafiosa per cui c’è qualcosa su cui ciascuno tace e deve tacere. Tutti tacciono perché ciascuno sa quello che rischia. Avviene così nella mafia: se parla sa cosa rischia. Che cosa rischia in questo caso? Rischia di incontrare della verità che lo riguarda, della verità che incontra verificando in atto una trasformazione, verificando in atto un’assenza di identità, verificando in atto l’impossibilità di una condivisione con alcuno di alcunché. Cosa verifica in altri termini? Un’estrema solitudine. Che non è lo stare da soli, evidentemente, ma una solitudine estrema dove nulla può essere condiviso, nulla può essere partecipato in quanto ciascun elemento, proprio in quanto linguistico, è preso in questa trasformazione. Io non esisto se non preso in questa trasformazione linguistica.

Ma ecco la questione penale. Chiunque sgarra rispetto a questa omertà deve essere allontanato, deve essere eliminato. Questa è la vicenda di Gregorio Samsa. Non può più rimanere nell’ambito di questo insieme mafioso.

Chiunque sgarra rispetto a questa omertà che si stabilisce contro la trasformazione, contro l’arte, contro l’invenzione, deve essere eliminato. Questione tutt’altro che marginale dal momento che ciascuna organizzazione, diciamo statale o istituzionale, si regge unicamente su questa omertà. La denuncia da parte di organi statali o parastatali dell’esistenza dell’omertà risulta quanto meno umoristica ma vale unicamente a creare una colpa.

Se ciascuno è obbligato all’omertà, è chiaro che ovviamente ha qualche cosa che non dice, nel senso che non confessa, e, quindi, è sempre, perennemente, colpevole.

Su questo sistema si basa l’istituto mafioso. Se ciascuno èobbligato all’omertà, per rimanere all’interno di un’organizzazione dove comunque non può parlare di ciò che avviene di una trasformazione che è in atto senza essere sospetto, senza essere visto con malocchio, è costretto a tacere e quindi a adeguarsi in quanto si attende per esistere di essere riconosciuto dall’altro. Si trova, o si immagina, costretto a attenersi a questo criterio perché suppone di avere bisogno di questo riconoscimento. Quindi, si pone in una posizione in cui è comunque e sempre colpevole, di tacere qualcosa.

(CAMBIO CASSETTA)

È chiaro che la persona inquisita è sempre colpevole. Il sospetto valeva da colpa, da accusa. In questo senso: se io sospetto qualcuno di essersi trasformato, il fatto stesso che io lo sospetti è perché ravviso una trasformazione, altrimenti non sospetterei nulla. Ecco che, allora, il sospetto si trasforma in accusa. È per il fatto che c’è il sospetto che rende implicito il crimine. È il sistema giudiziario che ha sempre funzionato e che funziona a tutt’oggi e che non fa una grinza. Certo, oggi sono altri gli strumenti di cui ci si avvale e che sono quelli che vengono indicati comunemente come mass-media. La domanda che può farsi oggi rileggendo Rousseau insieme con Mc Luhan è questa: perché hanno avuto tanta diffusione i mass-media? Domanda che può sembrare del tutto oziosa la cui risposta può sembrare altrettanto ovvia. Potrebbe non essere così. Ho citato Rousseau perché è lui che indica perché mai c’è stata la necessità di distribuire la conoscenza dell’alfabeto e, quindi, di diffondere l’alfabetizzazione: perché ciascuno possa rispondere di fronte al tribunale e che quindi non possa accampare l’ignoranza della legge. Un’analisi dei mass-media in questo senso non è mai stata fatta. Intendere quando i mass-media assolvono alla loro funzione in modo precipuo, cioè quando, per esempio, molto banalmente, i giornali sono più venduti, in quali circostanze.

Ma dicevamo della questione della colpa. Il discorso giudiziario è attratto dalla colpa, come dice Kafka nel Processo. Freud, com’è noto, scrive un saggio straordinario Criminale per senso di colpa. Freud è più esplicito di Kafka che, invece, lascia intendere alcune, specialmente nel Processo. In modo molto preciso nella Metamorfosi è molto più chiaro. Gregorio Samsa assume la colpa che in qualche modo gli viene attribuita. L’assume in modo tale da diventare lui il giudice, il boia e la vittima, tant’è che muore. Una mattina lo trovano morto e con una scopata lo gettano via letteralmente. Finalmente eliminato. Certamente, lui si elimina per questa assunzione della colpa ma propriamente non c’è nessuna colpa. Lui ha colto una trasformazione. In effetti, non si accorge mai di essere un mostro, non ravvisa mai di sé nessuna mostruosità. La suppone a un certo punto ma come di sfuggita dalla condotta che hanno gli altri nei suoi confronti ma non dice mai “guarda cosa mi è successo, come mi sono trasformato malamente”. No, lui è sempre Gregorio Samsa.

Questa trasformazione diventa un fatto penale che giunge sino all’esecuzione sempre per attenersi a ciò che si suppone sia il desiderio dell’altro. Qui, in questo racconto viene raffigurato, in molti casi può non esserlo. Ma è per questo che lui muore: perché è questo che immagina che altri si aspettino da lui, che lui scompaia per liberare altri. “Tolto io saranno finalmente liberi. Evidentemente io sono un peso”. È una fantasia diffusa. Qualcuno può eliminarsi pensando di essere un peso, pensando di essere di impedimento a altri. È curiosa questa fantasia dal momento che in quanto fantasmatica può ascoltarsi. Può ascoltarsi così come si ascolta ciascuna fantasmatica, ciascun enunciato.

Evidentemente, questa enunciazione, laddove si pone in questi termini, indica quest’idea di essere un fastidio per altri. Se qualcuno pensa qualcosa del genere ha degli ottimi motivi per farlo indipendentemente dagli altri. Questo ci ha insegnato Freud: se uno pensa qualcosa sicuramente ha degli ottimi motivi per farlo, solo che non ha nulla a che fare con gli altri a cui è riferito, riguarda lui.

Ora, siccome ciascuno si trasforma continuamente né può arginare questa trasformazione, può non accorgersene, ma non può arrestare questa trasformazione, si trova sempre in una posizione a rischio rispetto al consesso in cui immagina di fare parte. Sempre a rischio in quanto di questa trasformazione può avvenire che prenda atto, può avvenire che si accorga. È sempre a rischio, quindi, è sempre potenzialmente colpevole.

Freud nel saggio Criminali per senso di colpa indica una struttura precisa. Dice che parlando ciascuno incontra qualcosa di troppo, un in più, qualcosa da cui procede il godimento. Il godimento è questo: trovarsi sempre a avere a che fare con qualcosa che eccede, qualcosa di troppo. Questo produce un senso di colpa che occorre distinguere dalla coscienza di colpa. Indica nel senso di colpa qualcosa di strutturale, cioè, il modo in cui si avverte che il godimento non è gestibile, si dà nell’istante stesso in cui si sottrae. Si dà a perdita d’occhio, indicava Verdiglione alcuni anni fa. Comporta una perdita, un dispendio, ecco la colpa. La coscienza di colpa localizza, invece, questo dispendio, questo godimento in una propria mancanza per cui io sono colpevole di qualche cosa. Sento di essere colpevole anche se non so ancora di che cosa. Accade che qualcuno commetta un crimine per rispondere a questa domanda: finalmente so di che cosa sono colpevole.

Theodor Reik manca la questione nel suo scritto L’impulso a confessare, immaginando che sia una sorta di necessità di fare parte del gruppo. Non è proprio così, è una fantasmatica. La questione è che ciascuna istituzione si fonda nella supposizione di poter gestire il senso di colpa in coscienza di colpa. Per fare questo si avvale di questo, che ciascuno è provvisto di senso di colpa; avverte un dispendio, qualcosa che manca alla presa. Ciascuna istituzione, dicevo, e pertanto la religione. Tra stato e religione la struttura non molto differente, è sempre la stessa questione. Entrambe queste istituzioni si avvalgono del criterio secondo cui ciascuno è irrimediabilmente colpevole. Non c’è salvezza, non c’è innocenza possibile. Qui innocenza è intesa rispetto alla colpevolezza, come contrapposizione, innocente-colpevole. Ciascuno non è innocente, nel senso che se parla non c’è innocenza. Ma non per questo è colpevole.

Ciascuna istituzione, invece, si fonda su questo criterio, che ciascuno, se non è innocente, è colpevole, ma non è innocente, dunque è colpevole. Questo è l’assioma.

Freud ha visto giusto che è soltanto su questo che si fonda la possibilità dell’educazione. Solo su questo. Se questo non esistesse sarebbe assolutamente impossibile.

Avvertire che l’innocenza di cui si parla non è contrapposta a una colpa, cioè a una localizzazione del godimento, è quanto può avvertirsi lungo un itinerario analitico, nel senso che ciascuno è assolutamente responsabile di ciò che dice, cioè, non può sottrarsi a ciò che dice. Ma proprio per questo la responsabilità di cui si parla non è morale. C’è una responsabilità ma non una colpa. La colpa sorge immediatamente laddove il godimento lo si immagina localizzato. Cosa avviene quando si localizza il godimento? La sofferenza. Immediatamente. La sofferenza viene avvertita come colpa, come il risultato di una colpa, di una mancanza.

In questo racconto di Kafka, Gregorio Samsa rinuncia alla responsabilità della sua parola. Rinunciando alla responsabilità della parola è costretto, per così dire, a mettere in scena il desiderio dell’altro. In questo senso: se la responsabilità di ciò che dico e faccio è morale è tale in quanto deve rendere conto a altri. Questi altri significheranno ciò che io dico, cioè, attribuiranno un senso, un significato alle mie parole. Questo è il prezzo che si paga laddove si preferisce non accogliere la responsabilità di ciò che si dice, vale a dire, gli effetti di senso della propria parola. Si è costretti a affidare a altri il significato delle proprie parole e, dunque, la responsabilità diventa penale. Si è immediatamente colpevoli, necessariamente, per definizione. Perché? Perché se lei deve attribuire a altri la facoltà di dare un significato a ciò che lei dice, a lei questo significato manca fino a quando altri non glielo attribuiscono. Quindi, lei è per definizione mancante e colpevole. Per definizione. È una condanna rispetto a cui non c’è possibilità di appello.

L’analisi di ciascuna struttura sociale porta a incontrarsi con questo, che per stare in piedi è costretta a attribuire o a demandare ciascuna volta il significato o il senso di ciò che si dice a altri o a altro, fino chiaramente a attribuirlo a un’entità che deve rispondere per tutti, perché occorre qualcuno che risponda per tutti, cioè dio.

Nella famiglia c’è la necessità che, perché possa pensarsi la famiglia nell’accezione del luogo comune, occorre immaginare che ci sia un senso comune e che ciascun membro di questa famiglia può far tutto quello che vuole purché non esca da un senso che è immaginato essere quello che accomuna i singoli membri della famiglia. Non è un caso che la mafia venga chiamata la famiglia. Ciascuno può fare quello che vuole fuorché un’unica cosa, sgarrare rispetto all’unica cosa che gli è richiesta fare o di non fare, che è questa: esporre alla parola l’elemento che deve essere taciuto e che è l’unico che consente di aggregare il gruppo. Freud fa un’analisi molto precisa su questo nella Psicanalisi delle masse e analisi dell’io.

Gregorio Samsa è colui che diventa il mostro. Chi è il mostro?

È chi non risponde più a ciò che la famiglia si attende da lui, che lui sia. Finché non lo buttano via con una scopata, sicuri che quella sia la soluzione migliore per tutti. È un’allegoria dell’amore familiare, la sua immagine più schietta.

 

Il caso di Gregorio Samsa è un caso di eutanasia, la buona morte che consente a tutti di vivere felici e contenti.

Io ho fatto questa equazione: il discorso del luogo comune = discorso giudiziario.

 

È soltanto una variante della risposta al desiderio dell’altro sia in Cagliari che in Gardini. In quest’ultimo caso c’è l’accoglimento e quindi l’esecuzione, nell’altro il rifiuto e il togliersi di mezzo ma è sempre rivolto a ciò che si immagina essere il desiderio dell’altro, un omaggio al desiderio dell’altro e, quindi, in definitiva, alla madre.

 

Una volta un giudice si era trovato a giudicare un terrorista, per nulla pentito, il quale non riconosceva l’autorità del tribunale per giudicare. A questo punto il giudice, che era molto coscienzioso, si è trovato in grosse difficoltà. Diceva che se lui non ci riconosce la nostra non è giustizia ma è un’esecuzione sommaria, è una vendetta. E noi, in quanto giudici, non possiamo vendicarci o vendicare altri. Condannavano lo stesso ma si pose comunque la questione. È chiaro poi che, per quanto non debba essere una vendetta, è comunque strutturata come una vendetta per cui, di fatto, è di questo che si tratta, di una vendetta. Crea, però, dei problemi di forma perché apparentemente non dovrebbe essere una vendetta.

 

Non c’è alcuna possibilità di una giustizia giudiziaria, in nessun modo.

La giustizia è del sembiante, del punto vuoto.

 

Il racconto di Kafka è una parodia del discorso giudiziario. Una parodia, un po’ come nel Processo, dove lui non chiede mai il perché, non chiede mai di sapere di che cosa è accusato, questo è assolutamente marginale, non ha alcuna importanza.

È il sospetto che sancisce la colpa, se c’è sospetto c’è colpa. Il sospetto conferma che è avvenuto il crimine. È per questo i mass-media organizzano lo spettacolo, il sospetto come esecuzione, il sospetto è già l’esecuzione, la condanna. Il linciaggio è questo.

 

Il suicidio è una messa a morte, una messa a morte dell’oggetto.

 

 

Leonardo da Vinci – di A. Verdiglione

 

 

 

Il libro “Leonardo da Vinci” è un libro di grande interesse, che vale leggere in quanto pone in modo esplicito la questione stessa di cui si tratta oggi e cioè la questione intellettuale.

Rileva inoltre in modo inequivocabile la distanza tra l’itinerario analitico e la psicoterapia.

Leonardo da Vinci: la parola stessa, la parola nella sua divisione, nella sua piega. La scrittura di Leonardo è una scrittura frammentaria, mai unitaria, mai finalizzata a qualcosa, mai finalizzata all’opera compiuta. È una parola infinita, letteralmente, senza fine. Parola che non trova la fine.

Leonardo da Vinci è la parola, il suo stesso itinerario intellettuale, l’itinerario della parola. Ciò che risulta assente nella scrittura di Leonardo è la struttura della religione, non c’è discorso religioso, segnatamente discorso gnostico. Non c’è un tutto da cui partire e a cui tornare.

Ciò che il discorso gnostico ha stabilito nel corso dei secoli è la mitologia del ritorno, con tutti i miti connessi alla Grande Madre, che immaginano che ciascuno si sia separato da un’unità, da una perfezione, a cui naturalmente tende.

Il discorso occidentale è fatto in buona parte di questo pensiero.

Non prestandosi Leonardo a questa operazione di riconduzione al normale, allo gnostico, al religioso, al significabile, è stato man mano volto a animale fantastico.

Animale fantastico come l’immagine del luogo dell’Altro, l’altra scena spazializzata, resa domestica, misurabile. Nella mitologia gnostica c’era la figura dell’Uroboro, animale che si morde la coda, che compie il cerchio, senza apertura, componendo un tutto, un tutto unito.

Come fare di Leonardo un Uroboro? Questa è stata l’operazione che nel mezzo millennio seguito alla sua morte ha impegnato critici, pensatori, filosofi, di cui in questo libro c’è una testimonianza notevole. Ciascuno dicendo la sua. Ciascuno riconducendo o tentando di ricondurre la scrittura di Leonardo al domestico, all’Uroboro. Scrittura che si rivela tanto nelle sue opere quanto nei suoi codici.

Dunque, Leonardo non a caso in questo momento, in questo momento storico. Momento in cui, per molti aspetti, sembra cessato il pensiero. Cessato in quanto normalizzato, ridotto allo stabilire il bene e il male, il vero e il falso attraverso una modalità giudiziaria che ha sempre costituito il criterio fondante di ogni pensare nel discorso gnostico occidentale.

Leonardo, insieme con altri, come Machiavelli, Vico, è uno degli autori che si sono sempre scostati da questo criterio, che non hanno trovato la necessità di fare omaggio allo gnosticismo, cioè a un pensiero fondato e fondante. Lo gnosticismo è l’emblema del pensiero fondato, fondato su ciò a cui si deve tornare, cioè, al tutto, all’unità. Il pensiero gnostico è fondato sull’unità.

Leonardo non ha avuto necessità di stabilire la fondatezza del suo pensiero.

Il pensiero, in quanto fondato, occupa la posizione dell’animale fantastico.

L’animale fantastico nella mitologia è il luogo del male, il luogo dell’ignoto, ciò contro cui occorre combattere. È la rappresentazione del luogo dell’Altro, dell’Altro come altra scena, cioè la scena in quanto altra. Rappresentare questa scena è ciò che consente di pensare di potere localizzare la materia.

La materia, così come è pensata dalla fisica, è un animale fantastico. Ma la materia non si offre alla gnosi, né si sottopone allo sguardo del padrone; costituisce il legame tra le parole. Gli elementi della parola sono legati tra loro.

L’avvertire questo legame tra gli elementi ha consentito di immaginare la possibilità di isolare, di controllare, di gestire, di significare, questo legame.

Legame che si dà nell’atto, nell’attuale, e non è ripetibile.

Rappresentare questa materia comporta il volgerla nell’osservabile per potere gestire qualcosa che non è assolutamente semiotizzabile, cioè, non è riconducibile a un significato, primo o ultimo che sia.

Il luogo dell’Altro, con le sue varie rappresentazioni.

Il nevrotico e lo psicotico, come rappresentazioni del luogo dell’Altro, sono animali fantastici. La stessa psicanalisi, se posta come psicoterapia, è un animale fantastico.

Il libro di cui sto parlando costituisce una esposizione molto precisa, di qualcosa che non esisteva prima. Per questo è impossibile ricondurla a alcunché.

La riconduzione è sempre domestica, familiare, acquietante. La scrittura di Leonardo non è acquietante. Non è acquietante perché non ha la struttura del pensiero religioso. La stessa struttura sintattica, frastica, grammaticale del testo di Leonardo, elude ogni possibilità di potere ricondurre a un significato, a un pieno, a un tutto. Da qui il tentativo di ricondurlo, di farlo diventare una sorta di animale fantastico, cioè ciò che serve a spiegare tutto. In qualunqe modo lo si prenda spiega sempre tutto. Come un Uroboro: in qualunque modo lo si prenda è sempre circolare, sempre perfetto, sempre chiuso.

Far circolare Leonardo: è stato questo l’imperativo di questi ultimi cinque secoli. Forse più di quanto si sia prestato a questo Machiavelli.

La sorte del testo di Leonardo, sia quello pittorico sia quello dei codici, è emblematica a questo riguardo. Pochi hanno dato tanto da fare ai critici per interpretare quanto Leonardo. Basti pensare alle tonnellate di carta che si sono scritte intorno al sorriso della Gioconda, per spiegarlo, per ridurre questo sorriso a una spiegazione. E allora ecco che c’è chi ci ha visto la mamma, chi la zia, chi la nonna, chi l’amichetto, chi se stesso. C’è infatti chi vi ha visto l’autoritratto di Leonardo. Ognuno ci ha messo del suo, evidentemente. In ciascuna spiegazione ciascuno ci mette del suo, che lo sappia o no. Può accorgersene, eventualmente.

Spiegare Leonardo, cioè toglierne le pieghe, le pieghe nel suo discorso, nella sua parola.

L’animale fantastico è quanto di più familiare possa pensarsi. Anzi, è una produzione del familiare, di ciò che deve essere identico a sé.

Il nevrotico è un’invenzione della psicoterapia. Per questo è un animale fantastico. Non esiste in quanto tale.

La psicanalisi in quanto tale non ha più nessun interesse. Non più di quanta ne abbia la favola di Biancaneve e i sette nani. Cioè allo stesso modo. Ma poche persone commisurano la propria esistenza in base alla favola di Biancaneve e utilizzano questa per spiegare le proprie vicende e i propri problemi. Questa è la differenza che c’è tra la psicanalisi e la fiaba di Biancaneve e i sette nani. Non ce ne sono altre. Nel senso che la fiaba di Biancaneve e i sette nani non si è mai posta come animale fantastico. La psicanalisi, in quanto psicoterapia, sì.

Un altro aspetto è di grande interesse in questo libro. È la lettura del testo di Leonardo. Se voi leggete questo libro non trovate traccia di spiegazioni, di riconduzioni del testo di Leonardo a qualcos’altro, di illuminazioni, ma altro ciascuna volta. Accostamenti e altro che si produce da questi accostamenti.

Procede per abduzione, anziché per deduzione o, come lo psicoterapeuta, per illazione. Spiegare la cosa, il procedere per spiegazioni, è un procedimento per illazione. Ogni spiegazione che si fornisce o che ci si dà ha la struttura dell’animale fantastico, che deve ridurre al familiare, al noto: toglie la piega, toglie l’inquietudine che è strutturalmente intellettuale, non fisica né psichica. Intellettuale perché ha a che fare con la divisione nella parola, per cui non può non tenere conto che questa divisione non può ricucirsi, nonostante tutte le operazioni.

Le cose, dicendosi, si dividono. È questo che rende impossibile, in particolare in Leonardo, spiegare ciò che dice: perché le cose che dice si dividono. Non puntando a un fine, a volere spiegare qualcosa, a volere definire qualcosa, restano aperte, aggiungono cose, procedono per supplementi.

Qualunque spiegazione può incontrare una chance, cioè di verificarsi in atto come supplemento, come aggiunta, che aggiunge senza togliere pieghe.

La psicoterapia, a cui si è voluto ricondurre Leonardo (e in questo anche da parte di Freud, immaginando una sua presunta omosessualità, immaginando quindi l’omosessualità come la spiegazione, come animale fantastico del caso) ha ciascuna volta l’impianto giudiziario, cioè una struttura di discorso che deve escludere la materia del dire.

Il discorso giudiziario è l’emblema del discorso psicoterapeutico. Il magistrato è lo psicoterapeuta per eccellenza.

Il discorso giudiziario immagina di isolare la materia nel fatto. E quindi di potere rendere osservabile ciò di cui si tratta, osservabile a tutti e quindi partecipato, dicendo “le cose stanno così!”. Solo che le cose stanno sì così, in un certo senso, ma “stanno così” in un modo che non è osservabile. Stanno così come si dicono in quanto sono legate tra loro in un modo che è assolutamente inedito e che ha fatto pensare, dai metafisici in poi, che esista un sostrato o un qualche cosa che le tenga unite. La materia, appunto. Soltanto che la materia non è il sostrato, non è al di là del dire. È nel dire.

Ciascun discorso che immagini di potere togliere la materia dal dire, di localizzarla o di isolarla, si pone come discorso giudiziario, che ha quindi la necessità di isolare la sostanza, perché sia osservabile.

Lo stesso dio, così come è pensato dalla religione, è un animale fantastico, cioè occupa questa posizione dell’Altro localizzato, rappresentato, visibile, osservabile per tutti.

L’Altro non è la materia, evidentemente.

La materia, il legame fra le parole, è ciò che consente alla scena di esistere. È questo legame che consente alle cose di esistere, forse è la condizione stessa dell’esistenza. Senza questo legame non si darebbe niente. Senza materia niente esistenza. Esistenza nella parola, non esistenza metafisica.

Materia del dire e materia nel dire.

Forse occorreva questo gesto, questo libro, per ridare a Leonardo una dignità che tutte le spiegazioni avevano tentato di sottrargli, riducendolo a Uroboro, quindi a qualcosa che serve a spiegare qualunque cosa: Leonardo come precursore della scienza moderna, Leonardo come genio sregolato, ecc.

Leonardo come sintomo, come sintomo del discorso occidentale. Sintomo da ridurre.

Compiere questo è essenziale, come dire che c’è qualcosa di essenziale in questo gesto. Un gesto per dissipare ogni credenza, ogni superstizione, ogni immagine di animale fantastico. Essenziale in quanto stabilisce la libertà. È questo gesto che stabilisce la libertà. Gesto che peraltro ciascuno può compiere per quanto lo riguarda. Fuori da questo gesto è improbabile che ci sia libertà e quindi c’è la ricerca del padrone, del colpevole, del responsabile del proprio malessere, della propria pochezza, a seconda dei casi.

Non è necessario che ciascuno ponga se stesso come animale fantastico, come Uroboro.

Leonardo risulta qui sicuramente emblematico per la necessità di ridurlo, di ricondurlo. Le cose che gli sono state attribuite sono incredibili. Non ultime quelle che gli psicoterapeuti che si sono affannati a dire, tra le fesserie, le peggiori. Per questa prossimità tra il discorso psicoterapeutico e quello giudiziario.

Il discorso giudiziario è il discorso della pena, che vede in qualunque cosa il segno del male o della sua pena. Come dire “Ecco perché soffre! Soffre per questo motivo!”, cioè la sofferenza giunge come inevitabile conseguenza di una certa condotta, di un certo comportamento. Così come esattamente la pena, inflitta dal giudice, segue immediatamente al reato, laddove questo è scoperto.

Ecco allora la ricerca della spiegazione di Leonardo. Cioè “Lui fa questo perché ha questo problema!”. Come dire, in altri termini, che ciascun gesto, ciascun atto, ciascuna parola, in quanto significato, viene posto giudiziariamente, come la causa di pena.

Pena sempre da infliggere o inflitta. In alcuni casi le persone sono talmente ligie al discorso giudiziario che la pena se la infliggono da sé, credendo fermamente nelle proprietà catartiche della pena. E, quindi, la sofferenza come liberazione, la pena come liberazione.

E qui interviene il discorso intorno a Leonardo: “se si fosse liberato dei suoi sintomi forse avrebbe ... forse non avrebbe ...” e altre sciocchezze del genere. Quale sintomi? Da cosa occorre liberarsi? Non occorre liberarsi assolutamente da nulla.

Semmai esporre al gioco linguistico una serie di fantasie, di superstizioni. Il male da cui occorre liberarsi non esiste in quanto tale, se non come animale fantastico. Dire “la mia nevrosi” è dire “il mio animale fantastico è questo”.

Non c’è più il male con Leonardo. Proprio scompare del tutto.

Il male è il pericolo. Il pericolo è sempre dell’Altro, che l’Altro irrompa, cioè che esista la scena.

L’Altro, la cui struttura sta tra la rimozione e la resistenza come varco incolmabile. Questo varco per cui non può togliersi la rimozione, cioè non può dirsi tutto e non può togliersi la resistenza, cioè non c’è l’ultimo elemento, quello decisivo. Tra queste due funzioni Altro, Altro dalla rimozione e Altro dalla resistenza. La loro simultaneità. Simultaneità e non contemporaneità.

Affrontare la questione intellettuale in questi termini necessita di una distanza assoluta da ogni pensiero legato al male, alla sofferenza, al sintomatico, in definitiva a tutto ciò che deve essere condannato.

La psicoterapia indica ciò da cui bisogna guarire, l’itinerario intellettuale no. La psicoterapia immagina il male, lo suppone isolabile e trattabile, l’itinerario intellettuale no. L’itinerario intellettuale propriamente non suppone, ma svolge ciò che mano a mano incontra. Svolge, cioè, consente a ciascun elemento di articolarsi, di esporsi.

Le cose procedono per abduzione, per aggiunta, cioè ciascuna volta reperendo un elemento che si produce per via di una connessione, di un accostamento. Procedere, invece, per spiegazione comporta l’impossibilità dell’abduzione, cioè dell’aggiunta di elementi, nel senso che ciascun elemento viene ricondotto a ciò che si suppone già noto.

Impossibile arricchirsi tentando di spiegare le cose. Anzi, è un depauperamento, si impoverisce la parola.

Divenire intellettuale, artista, divenire imprenditore della propria industria, industria della parola. Non la fabbrica che è sempre di sudditi. Questa è la scommessa.

Come divenire artista del proprio discorso. Come incontrare l’arte, cioè la variazione in ciò che si dice. L’arte è propriamente ciò che non funziona ma varia. L’artista è colui che incontra questa variante nella parola. Non va da sé che incontri questa variante nella parola. Non può incontrarla se non può ascoltarla. Non la incontrerà mai.

La questione “Leonardo” è la questione che ciascuno incontra e che non può non porsi lungo l’itinerario intellettuale, cioè la questione della parola libera, libera dal dovere spiegare, libera dal dovere giustificare, libera dal dovere definire, delimitare, ponderare. Se la parola non ha più da giustificare può proseguire a dirsi. Quando giustifica o giudica trova l’arresto. Letteralmente: una volta giudicato è arrestato.

Non esiste innocenza. Non c’è innocente, cioè non c’è chi sia esente dal crimine originario. Il crimine originario è connesso alla parola, all’uccisione nella parola. Questione che Freud esplora in Totem e tabù.

Animale fantastico è ogni parola che significa, che giudica.

Come può giudicarsi la parola? Immaginandone una finalità, un fine. Può avere un fine soltanto se ha un principio. E la materia è immaginata principio della parola attraverso l’idea della sua localizzabilità.  

È per via della credenza nella materia come sostanza, come sostrato, che è pensabile la giudicabilità delle cose. Sennò non potrebbe neanche dire niente. C’è una materia nel dire. Ma tentare di isolarla, cioè localizzarla spazializzandola, è farne una materia misurata, misurabile o da misurare. È già un inserirla in un discorso giudiziario.

La questione della misurabilità delle cose procede da questo: dalla supposizione che la materia sia spaziale. Se la materia non è spaziale, non c’è più misurabilità né osservabilità, per cui le cose non sono né maggiori né minori, né grandi né piccole, né osservabili, ma in ciascun istante si trasformano e variano, si alterano.

Cosa si è cercato in questi secoli? La materia del dire di Leonardo, la materia che doveva essere raffigurata, cioè il suo sostrato.

La spiegazione vorrebbe dire qual è la vera sostanza.

Il discorso occidentale pone l’intelligenza come malattia.

In questi cinquecento anni molti si sono occupati della sepoltura di Leonardo. Hanno fallito.

 

 

 

 EQUIPE DI LETTURA

RETORICA E LOGICA

3 settembre 1993

 

 

C’è un aspetto che ha avuto e che ha un certo rilievo nel discorso occidentale. Si tratta della dicotomia, della divisione tra la logica e la retorica. Questione antichissima che si è mantenuta, nel corso di millenni, sotto forma di differenza tra scienza e letteratura, tra apparenza e realtà, tra il vero e il verosimile. Tutte queste dicotomie sono state, fin dai tempi di Platone e, prima ancora di lui, da Gorgia, formalizzate in questa divisione. Due logiche, due modi di pensare come scrive G. Preti nel suo volumetto che si intitola proprio “Retorica e logica”. Due modi di pensare che, di volta in volta, a seconda delle mode, a seconda dei momenti, hanno visto il dominio di una sull’altra e viceversa.

La questione è questa: la realtà e l’apparenza. Questione a tutt’oggi, più che dibattuta, molto diffusa fino al punto di essere ripresa anche dalla pubblicità. È apparsa, infatti, una réclame che diceva: “Essere o apparire”, chiedendosi quale delle due cose fosse preferibile.

È, dunque, un quesito intorno a cui gli umani si interrogano, come dicevo prima, da un paio di millenni a tutt’oggi. Le ultime notizie che ho io risalgono a un convegno che si è tenuto qui a Torino, circa due anni fa, intorno alla retorica. Un paio di persone sono intervenute - una di queste era Diego Marconi - e hanno posto la questione se il pensiero degli umani avvenga in termini logici o in termini retorici. È una questione che può evocare quella non meno ardua se è nato prima l’uovo o la gallina. Che ha una soluzione.

La logica, come sapete, è una disciplina che si occupa di stabilire quali sono le condizioni e le regole per poter inferire da una premessa delle conclusioni; quali sono le regole che consentono a queste conclusioni di essere accettabili e, soprattutto, di essere vere. Difatti, in prima istanza, la logica si occupa del vero. Da Aristotele ha assunto questa prerogativa: le conclusioni logiche devono essere vere. Non c’è via di mezzo.

Dunque, gli umani pensano in questo modo: ciò che inferiscono deve essere necessariamente vero, almeno per chi parla, oppure no.

La retorica, invece, come è noto, non si occupa del vero in quanto tale, del vero assoluto, ma del verosimile. Si occupa di persuadere fino al sofisma, cioè, all’inganno: supporre di poter ingannare qualcuno con le parole.

La questione è questa. Potremo formularla così: gli umani parlando, pensando, si attengono a un reale, che in qualche modo immaginano, si rappresentano, oppure no, non fanno nessun conto del reale, della verità, ma si limitano continuamente a persuadere se stessi o il prossimo?

La logica muove da una premessa, da elementi che ritiene veri. Oggi, questo avviene di meno, non è più una necessità che l’assioma sia un principio necessariamente vero. Importa che siano vere le regole di inferenza.

Ma consideriamo il primo caso, quello di Aristotele. Per Aristotele occorre che la premessa maggiore sia vera, sia universale. Come sa che è vera, che è universale? Lo dice: c’è l’esperienza, il dato sensibile, a dirci questo. E donde viene il dato sensibile? Questione che Aristotele non affronta né può affrontare: deriva da qualcosa che persuade che le cose stiano proprio così, che ciò che vedo sia quello. Cosa mi persuade che ciò che vedo, che ciò che esperisco corrisponda la reale? Di persuasione si tratta in questo senso, che io mi convinco a un certo punto che l’oggetto della mia esperienza sia un oggetto reale. Nulla può dimostrare che sia così, allo stesso modo in cui nulla può confutarlo in modo definitivo. C’è, allora, una necessità - almeno per Aristotele ha funzionato così - di stabilire che qualcosa è universale, cioè è vera in assoluto, che le cose così come le vedo sono così come sono. Da qui la sostanza. Qual è la verità di un qualche cosa? L’essere quello che è.

Che io attribuisca o assuma questo concetto è perché qualche cosa me lo consente. Cosa mi consente di giungere a questa conclusione, che le cose sono quelle che sono, in sostanza? In sostanza è il fatto che le cose sono quelle che sono. Come giungo a tale conclusione? Ché occorrono delle argomentazioni, occorrono delle regole di inferenza che mi consentano di formulare questa proposizione. Queste regole di inferenze mi vengono fornite dalla logica.

Ci troviamo, allora, di fronte a due aspetti. Cioè, la logica necessita, per asserire delle verità, di principi che procedano da qualcosa che ha persuaso, quindi, dalla retorica, potremo dire dalla retorica della sostanza. Ma per argomentare intorno a questa sostanza occorrono delle leggi che fornisce la logica. Allora, non c’è l’una senza l’altra? Beh, adesso lo verifichiamo. Sicuramente, non sono la stessa cosa.

La necessità di reperire una qualche cosa che consenta una relazione tra l’apparenza e la realtà o, se preferite, tra la logica e la retorica, che le combini in modo da arrestare questa regressio ad infinitum, è ciò che ho indicato in varie occasioni come la struttura del pensiero religioso. Il pensiero religioso è l’unico pensiero che sia in condizione di arrestare la regressio, immaginando che qualcuno o qualcosa abbia dato avvio con un gesto assolutamente arbitrario, assolutamente, potremo dire, non necessario.

La retorica, dunque, il verosimile, ciò che appare, non è meno costruttiva della logca. Come già gli antichi avevano inteso perfettamente, ciò che mi appare, ciò che incontro, non è meno convincente di una dimostrazione matematica. Semmai, è il contrario.

Ciò che mi appare è l’evidenza. Di volta in volta, questa evidenza si attiene a alcuni criteri che sono dati dall’epoca, dai costumi, dalle mode, da varie cose. Le cose non appaiono sempre allo stesso modo: in epoche differenti sono apparse cose differenti. Ciascuna volta con lo stesso criterio, cioè, con la stessa certezza di verità, di realtà assoluta. C’è, dunque, una struttura in cui ciascuno si imbatte e che continuamente lo persuade di qualche cosa. Per sempio, della veridicità dei propri sensi. Che cosa mi costringe a dire che ciò che io vedo, ciò che io incontro, corrisponda a qualche cosa in realtà? Nulla di fatto mi costringe a questa operazione, salvo una necessità: scartare l’eventualità che le cose che dico non abbiano un fondamento, cioè, non corrispondano a nulla.

Il linguaggio ha operato qualcosa di straordinario. Cioè, ha consentito agli umani di accorgersi di esistere. Ha fatto questo, non è che abbia fatto molto di più. Ora, tutto questo comporta dei corollari: che, accorgendomi che esisto, io posso accorgermi che esiste anche quell’aggeggio, e così via.

Facendo questo è intervenuto un aspetto tutt’altro che marginale e che è quello dell’esistere per.

Il linguaggio manca, manca l’oggetto, manca l’obiettivo. Incontra l’oggetto.

Da qui una difficoltà: l’esistere per ha continuato a permanere ma questo per non ha trovato nessuna sostanza per cui cosificarsi.

La ricerca della cosa, come sostanza, come cosa in sé, come quello che vi pare, cioè, quell’elemento che unico possa consentire di parlare con cognizione di causa, è ciò che ha inaugurato il pensare logico, cioè, un pensare alla ricerca delle implicazione, quindi, delle deduzioni, delle derivazioni. “Se è questo” questo cosa mi comporta, cosa mi implica, cosa mi fornisce? ... non può fornire qualunque cosa: se ho un elemento da questo elemento devono poter trarsi soltanto alcune cose. Questo per un motivo ben preciso: cioè, se da quell’elemento posso trarre qualunque cosa, non cisarà mai nulla che arresta il mio discorso. Nulla che costituisca un punto di arresto e, quindi, qualcosa rispetto a cui posso dare un significato alle cose che dico e, pertanto, situarmi. Non più in balia delle parole, non più in balia delle cose che accadono, ma situato. Situato in quanto posso localizzare, isolare il punto di partenza.

Il pensiero sembra si sia costituito intorno a questi due aspetti, tant’è che a tutt’oggi non può dirsi nulla né pensarsi nulla fuori da queste strutture. Non può pensarsi nulla nel senso che qualunque cosa io pensi, dica o faccia tiene necessariamente conto di altri elementi, per cui ciò che dico può procedere da una relazione, può essere indotto o può attenersi. Per compiere tutte queste operazioni occorrono delle regole di inferenza.

Ma queste regole che il linguaggio ci fornisce e che ci consentono di avviare il gioco possono consentire ben altro. Possono consentire una riflessione intorno a alcuni concetti, per esempio, di scienza, di letteratura, di realtà, di apparenza, e porli in tutt’altro modo. Se, come dicevo, la retorica e logica non esistono l’uno senza l’altro, allora la divisione, la dicotomia fra realtà e apparenza ha questa funzione: di tenere la retorica e logica separate. In modo che non ci sia mai pensiero che la retorica, necessariamente, prevede la logica e viceversa. Se la logica, necessariamente, prevede la retorica non c’è nessuna possibilità di stabilire una realtà. La realtà c’è ma all’interno del discorso.

Allo stesso modo, l’apparenza non va senza la realtà ma non in senso che è debitrice in quanto corrispettivo – c’è l’apparenza e in faccia la realtà – ma c’è realtà nell’apparenza. In altri termini, sto dicendo che c’è logica nella retorica e c’è retorica nella logica.

Può riflettersi sulla necessità, occorsa da sempre, di tenere separati questi due aspetti, fino al punto che continua a tutt’oggi questa discussione, cioè, se il pensiero dell’uomo si attenga a un criterio logico o retorico, o se uno abbia la supremazia sull’altro.

Ciò che consente, ciò che fornisce alla logica gli stessi criteri, non soltanto dei suoi assiomi e delle sue premesse ma delle sue regole di inferenza, è la retorica. Cosa mi dice che “se la premessa è vera la conclusione è sempre necessariamente vera”, come mi dice una inferenza logica molto nota, nota come implicazione? Chi me lo dice? Nessuno, salvo qualcosa che interviene come persuasione, dunque, come retorica, che mi persuade senza che nulla che possa dimostrare che è così. Esattamente, come avviene nella persuasione retorica di cui ci parlava Aristotele: si dà una premessa possibile, che sembra così, cioè, un dato dell’esperienza - “a me è parso così. Dunque, è così.” La necessità di stabilire un elemento che possa garantire che è così è ciò che la filosofia, con la metafisica, ha inseguito da sempre, da Platone con l’idea. L’idea era ciò che garantiva che le cose fossero in un certo modo. Aristotele, poi, si è accorto che questa idea non garantisce niente, che di questa idea posso avere un’altra idea e così via. Occorreva qualcosa di più solido e, allora, cosa inventa? Inventa il dato sensibile.

“Tutti gli uomini sono mortali”. Perché? Se vogliamo attenerci al criterio logico non funziona; anzi, logicamente, questo enunciato è falso, è indimostrabile perché è induttivo e come tale non può porsi come certezza logica, in nessun modo. Quindi, la premessa su cui Aristotele fonda la sua metafisica in tutto l’Organon è falsa. È falsa nel senso che non è certificabile. Che cosa ci certifica che è così se non qualcosa che ci persuade che è così? E ciò che ci persuade è esattamente la retorica, come lo stesso Aristotele ci suggerisce.

Allora potremmo anche suggerire questa congettura. Non posso stabilire nulla di certo, di fermo, ma se ci fosse qualche cosa di certo da qui potrei dedurre qualunque cosa. Perché ha inventato questo criterio di deduzione ... però anche lì è sempre un problema perché queste regole di inferenza sono stabilite in base a dei criteri: questi criteri sono forniti dalla retorica, cioè, da un pensiero che si avvale del possibile, del probabile, dell’apparente, di ciò che sembra sia così, di ciò che presumibilmente sarebbe così se ...

C’è qualche cosa in questa dicotomia che ha sempre tenuto distanti ... Ricordate gli anatemi scagliati da Platone contro la retorica, una sorta di empirìa con cui lui concedeva tutto ciò che era lontano dall’Idea. La sola dialettica poteva, per Platone, fornire criteri di verità. Ma Platone ha fornito molte cose bizzarre, a partire dalla sua nobilissima menzogna. Perché nobilissima? Perché è stato il primo a fornire un’indicazione molto precisa nella Repubblica e nella Lettera VII. Ha detto questo :”Fornite una quantità di elementi teorici precisi ma badatevi dal fornire gli strumenti di pensiero che consentano di pensare a questi elementi e a queste informazioni che fornite”. Da Platone ai gesuiti l’imperativo è stato categorico: “Guardatevi dal fare questo. Se lo fate, lo stato non è più governabile, non c’è più la possibilità di costruire la civiltà, così come è pensata oggi. Freud si approssima a questa questione ne “Il disagio della civiltà” e nel “L’avvenire di un’illusione” tagliando corto, per un certo verso, come se avvertisse una sorta di colonne d’Ercole, poste lì acciocché l’uom più oltre non si metta.

Altri si sono accorti di questo, anche i padri della chiesa: non si devono fornire gli strumenti che consentono di mettere in discussione gli stessi strumenti che si forniscono. Le persone non sarebbero più governabili, non sarebbero più gestibili.

Ma, per tornare a questa dicotomia, che è stata avviata da Platone con i suoi anatemi contro la retorica, ripresi, anche se mitigati, da Aristotele. E mantenuti sempre, fino a Giulio Preti che proveniva dal ‘68, era di sinistra e, quindi, aveva una predilizione per la logica a scapito della retorica, intesa come dottrina fonte di inganni, di apparenze. Invece no, bisogna essere concreti e concreta è soltanto la logica. Soltanto la logica ci permette di raggiungere il concreto: se questa è la premessa, la conclusione deve essere questa e tutti devono adeguarsi, obbedire. Come deve essere l’obbedienza? Pronta, cieca e assoluta.

Questa dicotomia si è sempre mantenuta a vantaggio ora dell’una ora dell’altra. Così, ci sono stati momenti in cui ha prevalso la retorica su ogni criterio di realtà, come ai tempi dell’Accademia. La realtà non interessava nessuna; c’era soltanto la retorica, la persuasione. Ma perché possa perpetrarsi l’inganno occorre credere nella verità.

In definitiva, tutta l’operazione, anche di estremo interesse, svolta dall’Accademia e poi dagli scettici, Sesto Empirico in testa - in testa era Pirrone, Sesto Empirico, semmai, era in coda - passando per Enesidemo, Arcesilao, Carneade ... Carneade, chi era costui? Carneade fu mandato in delegazione a Roma insieme a Diogene. Andarono a Roma e, mentre Carneade ebbe un grande successo come oratore - ci sono tracce di lui dappertutto - così non fu per Diogene. Diogene era un cinico. Sono molto fastidiosi quesi cinici perché, in quanto modesti, sono molto arroganti. Al pari degli scettici, dicevano che era tutta apparenza, che la realtà non c’era e, quindi, è inutile star lì a darsi da fare. La cosa migliore era che tutti quanti gettassero via le ricchezze e si vestissero con il cilicio e andassero in giro, tanto nulla serve a nulla, tutto ciò che è sulla terra è vano.

Ecco, questa sorta di pars destruens della filosofia tiene sempre conto di una realtà e, quindi, di una logica di cui tuttavia si avvale per confutare ogni posizione, ogni proposizione sia degli stoici sia degli aristotelici. Quindi, negando ogni valore a ogni possibile realtà. Sesto Empirico non tiene conto che c’è un reale in ciò che sta facendo, c’è della materia, c’è una logica. Confutando, nel suo scritto “Contro i logici”, necessita ovviamente di tutto un apparato logico, anche molto sofisticato.

Questo appena per indicare come, di volta in volta, non si è tenuto conto che questi due aspetti indicano, nella loro simultaneità, che il reale, la materia, la stessa esistenza, sono nella parola, esistono nella parola. Non esistono altrove. La dicotomia tra retorica e logica tenta a tutti i costi di mantenere, invece, la possibilità di distinguere tra apparenza e realtà, dando ciascuna volta l’assenso ora all’una ora all’altra, ma sempre distinguendo. Distinguendo, o meglio, escludendo che la logica necessiti della retorica per darsi, per dirsi, e viceversa per la retorica.

Questo rinvia alla questione di cui parlavamo rispetto a Agostino e alle sue implicazioni rispetto al tempo: se dio ha inventato il tempo, prima di lui non si pone il problema. Non ha torto. Però, dicevamo, ha anche inventato l’esistenza. Dunque, prima di inventarla non esisteva perché non possiamo dire che esistesse se l’esistenza l’ha inventata dio. Oppure, l’esistenza lo trascende ma, allora, non è più un dio.

Questo ci fa riflettere su una struttura che è linguistica e che ci consente di parlare di esistenza. Qualcosa esiste fuori della parola? No, fuori della parola non c’è alcuna possibilità di porre l’esistenza. Qualunque tentativo di porre l’esistenza fuori della parola incappa in aporie irresolubili che possono avere l’occasione di far riflettere su chi sta ponendo questa questione che di fatto sta parlando e, quindi, è preso in una struttura linguistica, fuori della quale la sua esistenza cessa, tout court.

Sono state fatte cose notevoli intorno alla retorica e alla logica. A tutt’oggi sono discipline molto elaborate, molto sofisticate, anche se la retorica ha avuto con l’illuminismo un periodo di decadenza. Per lo stesso motivo per cui Giulio Preti la condanna e cioè di essere una dottrina dell’apparenza. Solo recentemente ha avuto una ripresa. Si fa risalire questo momento di ripresa al famosissimo e molto discusso trattato di Perelman sull’argomentazione. Prima di lui si era rimasti grosso modo a Quintiliano, a Cicerone e a Aristotele. Quintiliano come classificatore, Cicerone come l’espositore. Cicerone era un praticante: si intende molto più la retorica dalle sue arringhe che dai suoi scritti intorno alla retorica. Aristotele ha dato l’impianto ufficiale a cui tutti quanti si sono attenuti.

Ma, dicevamo, questa reminiscenza della dottrina retorica è comparso con lo studio intorno ai media, alla pubblicità, alla teoria della comunicazione. Per cui è avvenuto che, contrariamente alla fase antica, negli ultimi anni delle cinque parti della retorica gli ultimi due hanno avuto maggiore impulso. Gli ultimi due, cioè, il modo in cui le cose si mostrano e il modo in cui si impongono alla memoria. La pubblicità si avvale di questo: c’è una scena che deve essere memorizzata. Mentre l’oratore non aveva questi elementi, non aveva la scena e, pertanto, non è che potesse fare un granché. Pertanto, si avvaleva dei primi tre, essenzialmente.

(CAMBIO CASSETTA)

... su cui si basa, ad esempio, il calcolo matematico, la logica che utilizza la fisica, basti pensare allo scritto di Carnap sulle leggi fisiche, che tutto questo non abbia nulla a che fare con la retorica, con la dottrina della persuasione.

È stato Galilei, in parte, a contribuire a questa sorta di inganno: la natura è un libro e si tratta di trovarne il codice. Come il codice di accesso nei computers: una volta trovato il codice di accesso, tutto il programma compare nel display.

Dicevo, una nobile menzogna. Nobile, nel senso ironico con cui vi accennavo prima, che consente di credere. Quindi, la religione che ..., sulla scia di Schleiermacher, fornisce la morale che è indispensabile al governo.

C’è che anche oggi orecchia qualcosa intorno a questo ma difatto non avverte qual è la questione. Anche Marcello Pera che ha scritto qualche cosa intorno alla connessione tra la retorica e la logica ma restando molto al di qua della questione dicendo che il modo di dire, di raccontare della scienza usa argomentazioni retoriche. Non è che ci volesse un grande sforzo per dire questo. Indica che la retorica è il modo in cui le cose si dicono, semplicemente. Anche Feyerabend ha accennato a qualche cosa ma, di fronte all’eventualità che non ci sia logica senza retorica, si ritrae nascondendosi dietro a un “tutto è possibile”. Che è la stessa formulazione Nietzsche: “Dio è morto” e quindi tutto è permesso. Se la logica non può garantire nulla tutto è permesso, il che non è assolutamente.

È una fantasia questa dell’indifferenziato: “tutto è possibile”. Una sorta di economia dell’odio, cioè, un’economia della divisione. Tutto è possibile se le cose continuano a essere identiche a sé. Continua, cioè, a pensarsi che non c’è modo di garantirle ma il pensiero che sembra incrollabile è che le cose rimangano identiche a sé. Questo consente a Feyerabend di dire che “tutto è possibile”. È una formulazione un pò ossessiva. È il discorso ossessivo che ama togliere la differenza, a livellare tutto, per cui è tutto uguale: se vale questo, allora vale anche quest’altro. Sempre muovendo dal valore, da un’ontologia di cui non si avvede.

La questione che stiamo ponendo è ben altra. Cioè che questa simultaneità che incalza tra retorica e logica è una simultaneità in atto, cioè che riguarda l’atto di parola. Solo se c’è differenza, cioè, divisione, solo se le cose si dividono, si ascolta qualcosa. Altrimenti, ci si preclude ogni eventualità di ascoltare alcunché. L’ascolto attiene, in primissima istanza, alla divisione. Pertanto, al rilevare in atto come ciascuna parola differisca da sè. Per questo non significa, soltanto per questo.

 

Distinguere tra il sogno e la veglia, tra ciò che si suppone di distinguere tra apparenza e realtà. La questione è che la veglia si fa di sogno e il sogno non è soltanto ciò che avviene di notte ma è una funzione. Propriamente, è ciò che procede dalla divisione. Lì c’è il sogno, lì c’è l’impossibilità che qualcosa possa dirsi una volta per tutte, che possa arrestarsi su qualche immaginato reale per cui “è così”.

Il sogno in quanto tale non è altro che il racconto che se ne fa. Con questo racconto c’è del sogno. Con una formulazione che può sembrare paradossale, potremo dire che c’è del sogno nel racconto del sogno. Così come c’è del sogno in ciascun racconto. Togliere il sogno dalla parola è ciò che il discorso scientifico ha tentato fino all’estrema formalizzazione, dove si toglie ciò di cui è fatto il sogno, cioè l’equivoco, la verità, il riso e il sapere.

Togliere il sogno dalla parola per una realtà totale che terrifica naturalmente. Tolto il sogno c’è l’incubo. Ciascuna cosa si trasforma in incubo. Incubo in quanto incombe in tutta la sua pesantezza, in tutta la sua gravità, in tutta la sua significanza.

 

C’è questo aspetto che i logici hanno reperito quando devono dimostrare il teorema di deduzione. Lungo la dimostrazione necessitano della induzione, di un passo induttivo. Però, c’è un teorema che dimostra l’induzione. In questo teorema c’è un passo in cui necessita un passo deduttivo. E, quindi, si trovano nell’impossibilità di sostenere un elemento senza un altro.

Come dire che ciò, che la nobile menzogna ha relegato nei sofismi, la logica lo ritrova dappertutto.

“Ciò che non ha accesso al simbolico ritorna nel reale” diceva Lacan. Formulazione abbastanza discutibile ma, a modo suo, riprende la questione, nel senso che ciò, che si suppone di poter eludere nella parola, insiste, non può togliersi.