EQUIPE CASO CLINICO 10 luglio 1992

 

 

 

L’atto è mancato in quanto sessuale. È in quanto sessuale che si produce rimozione e resistenza.

 

Proibizione: intersezione tra l’inibizione e l’esibizione.

Inibizione: funzione di rimozione nella sembianza.

Esibizione: funzione di resistenza nella sembianza.

La proibizione procede dalla funzione vuota. È la funzione vuota che proibisce nella sembianza. Cioè, proibisce all’immagine di essere fissa. Proibendo all’immagine di essere fissa apre a altre immagini.

In questo modo, non è possibile stabilire un’osservanza: come osservare se l’immagine non è fissa, se non è l’ultima, se c’è anamorfosi nelle immagini?

La proibizione proibisce che le immagini si fermino. La proibizione morale, invece, proibisce che si muovano e obbliga all’osservanza: questa è l’ultima immagine e quindi ciascuno deve osservarla.

 

Ciascuna volta ciò che si ascolta è inedito. Ciascuna volta ciò che si dice è preso in una scena, una scena che fa da sfondo, la scena delle immagini, dei fantasmi, scena sempre originaria. Queste immagini e questi fantasmi si producono parlando, non ci sono prima, e costituiscono lo sfondo. È chiaro che ciò che seguirà terrà conto di questo sfondo, di questa scena, per cui ciascuna volta che si dice, essendo appunto anche scena delle immagini, è presa in questa anamorfosi continua.

Già de Saussure diceva che il significante di per sé non vuole dire nulla se non è preso in una catena da cui trae il suo effetto di senso. Allora, ciò che si dice troverà effetti di senso dalla scena in cui è inserito e questa scena è ciascuna volta differente, una sorta di anamorfosi di immagini e di fantasmi. Ecco perché ciascuna volta che si dice è altro sia rispetto a ciò che si è detto prima sia rispetto a sé. È altro da sé perché non c’è qualcosa rispetto a cui fissarsi, per cui possa dirsi uguale a se stesso.

L’effetto di senso procede da questa anamorfosi continua di immagini, sfugge continuamente. Ecco perché ciascuna volta ciò che si dice è altro da sé, non c’è un’identità. Per stabilire un’identità occorrerebbe un terzo elemento.

Greimas: occorre una relazione perché possa stabilirsi una differenza. Questa differenza è il terzo elemento.

Verdiglione: la relazione è il due, la differenza è la terza istanza tra i due.

La relazione comporta l’apertura, mai la chiusura.

La relazione è una congiunzione disgiuntiva, giunge e disgiunge simultaneamente. Vel (e/o).

C’è un due della relazione ma anche un due della divisione che attiene alla sessualità.

La differenza è sessuale perché procede dalla sessualità. Non ci sarebbe senza sessualità, cioè senza divisione. La differenza procede dalla divisione, dal due della divisione.

Questo due della divisione comporta la relazione perché, mentre la divisione è tra due elementi assolutamente divisi nell’impossibilità di giungersi, la relazione dice che questi due elementi sono in relazione tra loro, si giungono in questa separazione.

La divisione è ciò che in nessun modo può colmarsi mentre la relazione dice della posizione in cui questi due elementi si trovano fra loro, che c’è una divisione ma anche una relazione. La relazione dice che c’è una giunzione che non riesce mai a compiersi. La relazione connette due elementi divisi.

La differenza è sessuale perché procede dalla sessualità, ma procede anche dalla relazione. Non c’è divisione senza relazione: questi due elementi divisi, sono in relazione tra loro.

 

La divisione non è un’operazione. Il fantasma opera. Il fantasma, l’operatore, è ciò che interviene tra la funzione e l’oggetto, tra la rimozione e l’oggetto che ne è indotto, uno specchio inspeculare. Ciò che connette la funzione e l’oggetto è il fantasma che opera fra queste serie, fra la serie dei nomi e la serie dei significanti e li dispone in un certo modo assolutamente particolare tant’è che da questa disposizione, da questa taxis, procedono gli effetti di senso.

Ciò che stabilisce questa connessione tra i significanti è appunto l’operatore linguistico, il fantasma.

La divisione non opera, non interviene tra logiche. La divisione è assoluta, incolmabile, procede dalla pulsione, dalla domanda pulsionale che apre questa divisione. Divisione che trascorre tra le due funzioni, rimozione e resistenza, rimosso e ritorno del rimosso.

 

Il resto nell’elaborazione di Verdiglione non è il resto dell’operazione, ma è il resto della semiotica, di ciò che produce il senso: qualcosa produce un senso ma rilascia un resto. Questo resto è l’oggetto.

 

L’oggetto di cui parla Verdiglione è l’oggetto venditore. È l’oggetto che vende, non il commerciante. Cosa vende? Fumo.

Ciò che si vende non è la sostanza, non c’è nulla di sostanziale nella vendita, non c’è la cosa in sé, non c’è la sostanza. Ciò che si vende è fumo. Non c’è l’arrosto. Se ci fosse sarebbe prodotto dal fumo.

Occorre trovare le condizioni perché l’oggetto possa vendersi. Quali sono le condizioni? Che partecipi della parola, che questo oggetto indotto dalla parola possa reperirsi in chi sta parlando.

Si vende qualcosa quando non c’è un oggetto da vendere, quando questo oggetto diventa insostanziale. Altrimenti, non si vende o se si vende è per un lapsus.

 

Per Oury la schizofrenia è la sostanza.

 

Dopo Aristotele c’è la nozione di materia generata e quindi corruttibile: corpo - corpo mortale - corpo sostanziale.

Per Platone il corpo non era materia. È attraverso il corpo che si raggiunge il bene assoluto, il corpo è l’immagine terrena della bellezza assoluta. Dopo, con Plotino, il corpo è diventato il segno del male, qualcosa di cui sbarazzarsi.

Il corpo parlante sarebbe il ventriloquo.

 

È Aristotele, nella Politica, a inventare la normalizzazione.

La politica come il non tutto della parola. Il politico attiene all’impossibile a definire, a conchiudere. La politica è la pratica di questa impossibilità. La politica non è degli affari umani.

La politica è del tempo, cioè, è il tempo che stabilisce il modo con cui le cose si fanno. Dunque, è il tempo (come schisi) che si occupa di politica in quanto stabilisce il modo con cui si fanno le cose.

Non più, quindi, la politica che amministra, che regolamenta.

La sessualità, come divisione, si trova a porsi come il modo in cui il tempo amministra questa divisione.

La sessualità è la politica del tempo: vale a dire, il modo in cui il tempo interviene.

Il tempo (come schisi) interviene a porre l’accento sulla divisione da cui è prodotto. Senza divisione non c’è il tempo.

Per questo Verdiglione insiste nel dire che il due è in principio, un due che in nessun modo può congiungersi in un uno. Anche lo zero procede dal due, occorre la divisione perché ci sia lo zero, vale a dire, l’incominciamento, cioè la rimozione. Occorre il due perché ci sia anche l’uno, cioè un significante che funziona.

La sessualità è ciò che divide gli umani.

 

Per Lacan il fallo è ciò che non cessa di scriversi. È come dire, però, che si scrive da qualche parte, cioè che ci sono dei casi in cui non c’è castrazione. È una questione discutibile.

Per Verdiglione il fallo è la relazione, la giunzione e la separazione, il due della relazione.

 

Per Lacan l’impossibile è ciò che non cessa di non scriversi, il contingente ciò che cessa di non scriversi, il necessario ciò che non cessa di scriversi.

Lacan impianta la sessualità sulla eventualità che la castrazione possa cessare di scriversi.

Scrive “la donna tutta”, cioè la donna provvista di fallo cui manca la mancanza. Per Lacan il fallo è il significante della mancanza. La donna, non avendo il pene, sarebbe provvista di fallo, pertanto, mancherebbe la mancanza, quindi, sarebbe la donna tutta, sarebbe dio, o la madonna. Quindi, non resta che la venerazione che lui accosta all’amor cortese.

Lacan ritiene che la dona abbia un sapere sulla sessualità. Esattamente, come ritiene l’inquisizione.

Per Lacan, l’isteria muove dall’oggetto a, dall’oggetto causa di desiderio. Per questo, per Lacan l’isteria saprebbe già perché muove da un sapere che non sa dire ma che suppone di avere a cui gli altri devono uniformarsi.

 

 

Tripartizione:

 

Analisi: attiene al romanzo storico dove si esplorano le proprie superstizioni, le proprie credenze, come non ci sia la soluzione alla parola. Si affaccia alla teorematica.

Teoria della clinica (pratica): ciò che è in gioco è la teorematica, vale a dire, come le proprie superstizioni aprano al transfinito, a altre questioni. Sarebbe il “non c’è più”, non c’è più discorso isterico, non c’è più speranza, ecc.

Il non c’è più comporta l’apertura alla cifra. Nella pratica ciascuno rileva come non ci sia più superstizione, credenza possibile, come non ci sia più possibilità.

Esperienza di cifra: si tratta del romanzo politico, cioè del romanzo che si confronta con la divisione, che si confronta con la divisione pertanto con ciò che attiene alla cifra.

Mentre nei primi due momenti si tratta del cifratore, cioè, di colui che è preso in questo itinerario, qui è in gioco il cifrante. Mentre nei primi due romanzi chi parla è il cifratore che esige la presenza del cifrante, come istanza della cifra, dell’assoluto, quindi, dell’approdo alla qualità della parola, alla constatazione dell’irriducibilità della domanda pulsionale, nel terzo momento è il cifrante che si rivolge ai cifratori e che esplora come la sua parola giunge alla cifra, come attraverso il suo itinerario giunge alla cifra, al racconto che non è più storico, non esplora più la parola presa nella sua storia, nelle sue superstizioni, nei suoi teoremi, ma nella sua divisione intellettuale.

 

 

Freud accosta il lavoro onirico al lavoro psichico primario.

Il lavoro onirico non è il sogno, ma è il sogno che si avvale del lavoro psichico primario. Il lavoro psichico primario è il lavoro che compiono le funzioni, la rimozione e la resistenza, la metafora e la metonimia. È il lavoro dell’inconscio, l’inconscio come logica. Il suo lavoro si muove con le parole, attraverso i significanti e le immagini.

Freud trova che questi significanti non capitano a caso ma si combinano tra loro secondo un criterio. Giunge a intendere che c’è una logica, che questa combinazione di significanti tiene conto di allitterazioni, di paronomasie, di assonanze, di richiami verbali, di metafore e di metonimie.

Questo muoverà Lacan a parlare di una “retorica dell’inconscio”, proprio riprendendo queste due figure della retorica che costituiscono il lavoro psichico primario.

Freud, dunque, individua questa logica con cui le parole si connettono, si piegano, e attribuisce a questa logica una prerogativa che è quella di non essere conscia.

Ciò che è conscio non è propriamente ciò che è consapevole. Ciò che è conscio ha a che fare con ciò che si connette nei vari significanti. Questi significanti si connettono tra loro in una logica particolare. Lungo questa combinazione, ad un certo punto, un significante si lega a un elemento, a un altro elemento linguistico, a un altro significante, che dice.

In ciò che dico c’è un aspetto che è inconscio, cioè la logica per cui questo elemento risulta connesso ad altri, e un aspetto conscio per cui questo elemento si dice. Il fatto che sia conscio non comporta che io possa disporne come mi pare, ma possiamo dire che ne so qualcosa.

 

Ciò che interroga è ciò verso cui si muove il desiderio. In questo senso il sogno appaga il desiderio, vale a dire, rilancia l’interrogazione: è questo che appaga il desiderio.

Il desiderio è connesso alla funzione di resistenza, cioè alla metonimia. Non c’è l’oggetto che appaga il desiderio, non c’è l’elemento che possa togliere il desiderio: c’è una distanza tra ciò che voglio e ciò che desidero.

Il sogno appaga il desiderio mostrando l’interrogazione; per questo motivo è importante il racconto di un sogno in analisi.

 

Nell’Interpretazione delle afasie Freud nota come questi disturbi siano funzionali, siano strutturali alla parola. Dice che non possono togliersi.

C’è un disturbo strutturale nella parola per cui le parole non possono dirsi come si vorrebbe. C’è un lavoro psichico primario che impedisce questo, una sorta di interferenza che comporta ciascuna volta un abuso.

Che cosa interferisce parlando? L’inconscio.

Mentre parlo le parole si legano tra loro secondo una logica che mi sfugge, di cui non so. È una logica che si struttura letteralmente mentre parlo. Gli strumenti di cui si avvale sono connessioni già utilizzati, magari in occasioni precedenti, ma che non toglie che, ciascuna volta che vengano utilizzate, si rivelino assolutamente differenti dalla volta precedente. Differenti perché questa logica, avvenendo mentre parlo, mi impedisce di controllare non solo la successione delle parole che intervengono ma anche l’effetto di senso che queste parole producono.

Avviene, dunque, che questa successione di parole si produce secondo una logica che avviene mentre parlo e che non conosco, di cui non so. Questo è l’inconscio: queste parole si combinano in un certo modo e parlando mi è impossibile sapere la parola che verrà dopo.

Freud dice che queste parole, dicendosi, producono immagini, producono fantasmi, producono una scena. Dice che parlando c’è un’altra scena, una scena delle immagini, una scena dei fantasmi che è impossibile fermare, arginare o controllare. Non si possono fermare i pensieri, impedirsi di pensare. E non si può impedire che intervengano delle immagini.

Tutto ciò che avviene rispetto alla parola, Freud lo rileva come ‘altra scena’, altra rispetto a sé. È altra perché questa scena comporta un’alterità, un alterarsi delle cose. Questi fantasmi, queste immagini, sono presi in un’alterazione, in un’anamorfosi, vale a dire, in una variazione di forma tale per cui non è possibile isolare, individuare una forma, ma questo mutamento è incessante, senza soluzione di continuità.

C’è una semovenza delle immagini per cui non si riesce a isolarne una. E così i pensieri: anch’essi non possono isolarsi.

 

Occorre distinguere tra la parola e le parole.

Le parole sono i mezzi, gli strumenti, attraverso cui la parola si dice. La parola non è il significante, tanto meno il lessema. Si tratta di un atto, di un atto di parola, che è costitutivo degli umani, ciò per cui gli umani possono accorgersi di essere tali. Se ne accorgono attraverso un’eco, attraverso qualcosa che funziona.

C’è una difficoltà nella definizione della parola perché per definirla sono necessarie delle parole. Ma d’altra parte non è indispensabile darne una definizione, nel senso di una chiusura: non c’è un referente al di fuori della parola, dal momento che, parafrasando Gorgia, se ci fosse non potremmo saperne nulla.

La parola è l’atto, l’atto di parola, è ciò che avviene, è l’evento linguistico, è ciò che avviene, in quanto evento, quando si parla.

 

Questo atto non è misurabile in quanto in questa parola c’è una scena che è costitutiva della parola stessa: non esisterebbe fuori da questa scena.

Le parola vengono da questa scena e vanno verso questa scena.

È da questa scena delle immagini e dei fantasmi che ciascuno trae, o meglio, trova le parole con cui dice le cose. Per questo ciascuno è parlato propriamente, è parlato dalle parole che vengono dalla scena per cui propriamente non sa ma di cui può sapere qualcosa interrogandole. In ogni caso, quello che sa è sempre qualcosa che sta a fianco.

 

Se togliamo la sostanza, quella aristotelica, non c’è modo di isolare alcunché come referente. Le parole non hanno un referente. Questa affermazione toglie qualunque possibilità di credenza, qualunque possibilità di assunzione di alcunché, ma comporta il trovarsi continuamente come effetto di ciò che si sta dicendo, l’avvertire che tutto ciò che c’era prima appartiene al fantasma, al ricordo, che come tale opera in ciò che si sta dicendo.

 

Rispetto alla “materia”, Verdiglione muove da due considerazioni: l’una prettamente linguistica, l’altra riguarda un uso politico del termine materia come massa. Difatti, la materia come massa è un concetto non soltanto fisico ma anche politico.

Una massa, dunque, come massa informe. La materia è sempre stata considerata come qualcosa di passivo, che riceve l’atto dalla forma (Tommaso - Ente et essentia).

Quindi, sarebbe una cosa che riceve da altro.

Questo è un concetto politico perché la massa deve ricevere la forma da altri, da coloro che sanno: l’intervento politico, cioè, dà forma alla massa informe.

Cosa fa per dare la forma? Dice quali sono le idee, i bisogni, cosa la massa, in altri termini, non riesce a dire.

Verdiglione pone un’obiezione a questa idea della materia come informe, passiva, inerte.

Trae degli elementi da Freud (Psicologia delle masse e analisi dell’Io) che indica la massa come qualcosa di attivo, che non riceve la forma da qualcun altro ma che, invece, si muove lungo una direzione molto precisa. Per quanto si cerchi di darle una forma questo non riesce perché la massa non è affatto inerte.

Verdiglione trae l’aspetto linguistico da Hjelmslev dove, per quanto Hjelmslev ritenga che questa nozione comporti una sorta di inerzia (lui paragona la materia alla sabbia che attende dall’espressione la sua forma), la nozione di materia è già più interessante in quanto questa materia è nella parola. Vale a dire, è un aspetto dell’espressione. Ora, se è nella parola, è già un po’ più problematico dire che è inerte.

Hjelmslev ha seguito le lezioni di Saussure che diceva che nella lingua non ci sono se non differenze e che, pertanto, c’è un movimento continuo, c’è un lavoro incessante dei significanti

Queste considerazioni hanno condotto Verdiglione negli anni 77/78 a parlare di materia della follia.

C’è qualcosa nella follia che la discosta dalla malattia mentale.

Dire che c’è una materia della follia comporta una distanza da un concetto di materia inerte, passiva, ma è qualcosa che interviene strutturalmente nella parola. In seguit, attribuirà la follia al sembiante, al punto vuoto. È lui il folle, il giullare, l’aedo, il provocatore, l’ostacolo.

Verdiglione giunge a indicare la materia come psicosi della parola. Parla di psicosi partendo da Freud, dal caso del Presidente Schreber. Che cos’è la psicosi nel caso del Presidente Schreber?

Freud indica due aspetti.

L’uno in quanto Schreber tenta di arginare qualche cosa. È questo l’aspetto manifesto, quello che potremmo indicare come la psicotizzazione.

C’è un altro aspetto che è strutturale, la psicosi. Vale a dire, il constatare come in ciascun atto di parola c’è qualcosa di assolutamente non riducibile al luogo comune, che in nessun modo può economizzarsi, ma che interviene in modo attivo. Questo aspetto è quello per cui le cose sono parole. Le cose che Schreber incontra le indica in quanto parole ma, una volta che le ha avvertite come parole, deve trasformarle in cose. Soltanto a questa condizione può pensare di poterle isolare, di poterle fermare. Le trasforma in cose, in un quid, in sostanze. Qualcosa insiste nella parola che non è semiotizzabile, non è significabile, non è riducibile a segno di qualcosa. Schreber prende le parole e le trasforma in cose e, quindi, queste parole gli parlano. È una sorta di animismo che nel testo di Schreber è di estremo interesso.

Schreber isola come cosa, come un quid, proprio ciò che non riesce a significare, ciò che resta non semiotizzabile nel suo discorso.

La psicotizzazione è qualcosa che ciascuno può incontrare nella propria vicenda perché è il rimedio alla materia della parola, cioé la psicosi, al non semiotizzabile.

L’esempio che fa Hjelmslev della sabbia è per dire che, per quanto l’espressione possa dare forma, comunque resta questa materia che non è semiotizzabile. Se anche la materia prende forma questo non toglie che della materia resti non semiotizzabile, vale a dire, non traducibile in qualche cosa per cui “questa sabbia” possa formalizzarsi in una forma e quindi sbarazzarsi della materia.

Se, come dice Verdiglione, qualcosa resta insemiotizzabile in ciascun atto di parola è come indicare che la parola non è tutta, cioè che la parola non è gestibile, non è localizzabile.

Questa materia insiste nella parola, in ciò che si dice, è la non semiotizzabilità di ciò che si dice.

 

 

EQUIPE CASO CLINICO

 

9 ottobre 1992

 

L’immedesimazione è un’economia dell’identificazione.

Identificarsi con qualcuno comporta il cercare di mettersi al posto, fare la stessa cosa. Tuttavia, in questo percorso il tentativo è quello di immobilizzare un’immagine per costruire una storia che è propria. Questa immagine, però, non riesce a immobilizzarsi, resta un’immagine semovente, un’immagine che cambia continuamente.

Di questa immagine resta un ostacolo, ciò che impedisce a questa immagine di fermarsi: questa immagine è presa in una sorta di anamorfosi. Qualcosa fa ostacolo a questa immagine e non riesce a isolarsi. Ciò che fa ostacolo interviene come punto vuoto, come dire che in questa immagine resta un punto vuoto perché non è mai tutta, non è mai isolata, definita, delimitata.

Ciò che si identifica è il punto vuoto, vale a dire, un oggetto inassumibile, straniante, aberrante, il sembiante.

A questo punto, non può più dirsi che l’identificazione avviene con qualcuno. L’immagine che ho di questo qualcuno non posso isolarla in alcun modo. E, allora, resta quest’ostacolo che impedisce di isolare questa immagine ed è esattamente questo elemento che potremmo dire che si inidentifica da sé, cioè non si rende identico.

L’immedesimazione, cioè l’identificarsi con qualcuno, tenta di sbarazzarsi dell’identificazione attraverso un fare identico. Tenta di togliere l’ostacolo che impedisce che l’immagine sia piena, totale, immaginando che questa sorta di immaginazione possa avvenire. Come dire “Io non posso togliere l’ostacolo e allora io divento questa persona”, processo che Freud descrive il Lutto e melanconia. Ciò che è perduto, l’oggetto, viene assunto e si rappresenta l’oggetto in perdita. Il melanconico, assumendo l’oggetto in perdita, ne fa un’economia, una sorta di extrema ratio per poter controllare questo oggetto. Abraham riprenderà l’oggetto in perdita come ‘oggetto parziale’.

Ma l’oggetto non è parziale salvo supporlo debitore di un tutto. Si può parlare di oggetto in perdita, non perduto, e quindi o perduto per sempre o da ritrovare, ma di oggetto in perdita nell’atto.

L’oggetto, qui, non è l’oggetto della metafisica, cioè l’oggetto individuato e isolato in quanto tale. Si tratta di un oggetto più prossimo a quello che ha reperito la linguistica nel suo tentativo di individuare l’ultimo elemento su cui costruire tutta la linguistica.

L’oggetto è ciò che è gettato innanzi, ma sempre fuori portata. In tedesco c’è questa doppia accezione, Gegenstand e Object, come ciò che sta dinanzi, che si para innanzi, e ciò che è gettato innanzi. Potremmo accogliere questa doppia accezione: ciò che si para innanzi, quindi come ostacolo, ostacolo alla comprensione, alla chiusura, alla delimitazione, e come gettato innanzi dalle due funzioni, la rimozione e la resistenza.

 

Freud parla di Io ideale e di Ideale dell’Io.

Parla di Io ideale come l’ostacolo, come il sembiante, come l’oggetto inafferrabile, cioè è questo Io che è irreale e che non si può mai raggiungere.

Parla dell’Ideale dell’Io come di qualcosa che attiene alla funzione di resistenza, vale a dire, qualcosa che costringe a muovere in una direzione. Attiene, pertanto, alla metonimia, allo spostamento.

Entrambi non possono togliersi, e l’idealizzazione ha a che fare con una localizzazione della metonimia. La metonimia è uno spostamento, quello della resistenza, e nell’idealizzazione questa funzione di resistenza può localizzarsi in qualche cosa. E, allora, qualcuno idealizza e ciò comporta che è costretto a muoversi sempre verso questo qualcosa che idealizza. Però, dice Freud, c’è un Io ideale che impedisce all’Ideale dell’Io di realizzarsi. L’ Io ideale, come oggetto, costituisce l’ostacolo all’Ideale dell’Io. Come dire, che l’Io ha un ideale, ma l’Io stesso si pone come ideale. Questo comporta una difficoltà perché l’io non ha nessuna possibilità di autoindividuarsi salvo passare attraverso l’Ideale dell’Io, in uno spostamento e, quindi, si trova sempre spostato rispetto al suo obiettivo. Per questo motivo l’Io resta sempre ideale, non reale, resta un oggetto non afferrabile.

Invece, l’idealizzazione è supporre che l’Ideale dell’Io possa raggiungere la sua meta, anzi, la vede quasi possibile se soltanto potesse raggiungere quell’oggetto. Detto in altri termini, l’idealizzazione si sbarazza dell’Io ideale, cioè del sembiante, isolandolo perche, una volta isolato, non è più il sembiante, non è più l’oggetto. Diventa una ‘chimera’, un animale fantastico.

L’identificazione impedisce l’idealizzazione perché l’identificazione è dell’oggetto, è l’oggetto che identifica in quanto vuoto. L’identificazione mantiene l’oggetto in quanto sembiante, in quanto vuoto, l’idealizzazione vorrebbe isolarlo, riempirlo magari con qualcuno.

Questo è il caso dell’innamoramento che, come è inteso correntemente, ha questo aspetto: per esistere deve necessariamente eliminare l’oggetto. C’è un altro innamoramento che, invece, mantiene l’amore, mantiene l’oggetto in quanto inafferrabile. È un amore non senza oggetto, come avviene nell’amore cristiano. L’amore verso qualcuno ha una tradizione cristiana che muove soprattutto da Agostino, dalla necessità di attribuire all’amore qualcosa di divino. Partendo dalla Trinità dice che c’è il Padre, il Figlio, che è il verbo, e lo Spirito Santo che è amore. Però, Agostino dice che questo amore non sarebbe tale se non fosse amore per qualcuno: questo amore di dio deve essere per forza amore per qualcuno. E da allora l’amore deve essere necessariamente amore per qualcuno. Nel pensiero greco non era necessariamente così. Nel Simposio la questione dell’amore si pone differentemente da come si pone per Agostino: non è per qualcuno in quanto tale. Nella tradizione cristiana l’amore è transitivo, va verso qualcuno e lì si arresta.

Può parlarsi di amore in un’altra accezione, un amore che non si fondi sulla necessità di bloccare l’oggetto, che deve, pertanto, costituire la battuta d’arresto di questo percorso, ma che anzi consenta a quest’oggetto di restare, come poi resta comunque, non afferrabile. La supposizione che possa essere prendibile comporta, invece, il dramma fino alla tragedia, cioè l’assassinio, nel tentativo estremo di fermare l’oggetto.

Come fermare l’oggetto? Impedendogli di muoversi, di parlare, quindi, di desiderare. Una volta morto, cessa di desiderare, quindi, non fa più nulla di sua iniziativa.

La nozione di amore di cui parla il cristianesimo è la nozione di cui ciascuno si avvale.

Curiosamente, è necessario avere prima una nozione per provare un sentimento, se non si ha una nozione non si prova alcun sentimento. Ciò che si avverte, qualunque cosa sia, non è assolutamente niente se non si ha il modo di inserire ciò che si avverte in una struttura linguistica, perché è solo quella che ci consente di dire di che cosa si tratta. Non è niente nel senso che ci si trova presi in un linguaggio in cui questa nozione di amore è inserita in un certo modo e che tiene di figure, di luoghi comuni, con cui si ha a che fare quotidianamente, però poi ciascuno ci mette del suo a partire da questi strumenti, da questi mezzi. In questo modo, se non si avesse una certa nozione d’amore non si proverebbe ciò che si prova: sarebbe altro, nel senso che questa sensazione sarebbe inserita in un’altra scena e, quindi, avrebbe un altro effetto, un’altra portata, sarebbe letteralmente altro. Di questo altro non si sa propriamente, salvo elaborare la questione e intendere come questa nozione si inserisce in una scena che è quella prodotta dalla parola.

Dire che ciò che si prova non è niente fuori della parola risulta sorprendente soltanto partendo da una posizione metafisica, per cui questa cosa è comunque qualche cosa.

 

La sessualità non è individuabile nell’erotismo che, anzi, il più delle volte, è una negazione della sessualità.

Già Freud distingueva tra la procreazione e la sessualità dicendo che la sessualità non è procreativa, non è solo ciò che consente la riproduzione della specie. Ma è qualcosa di molto più ampio per Freud. Nei Tre saggi avverte che la sessualità non è normalizzabile, vale a dire, non può stabilirsi una norma rispetto alla sessualità.

Oltre a dire che non è procreativa dice che la sessualità coinvolge ciascun atto, ciascun atto linguistico, ciascun gesto, ciascun fare.

La sessualità è ciò che rende impossibile il ‘buon vivere sociale’.

Anziché costituire un elemento di aggregazione ha una funzione disgregante rispetto alla “civiltà”, tant’è che la sessualità è uno di quegli elementi che la società ha avuto necessità di gestire fino alla religione, alla chiesa, che ha avuto il monopolio della sessualità dicendo da dove viene, dove va e a che cosa serve. Ne ha fatta un’economia. Soltanto a queste condizione perde un certo carattere che alcuni, anche se in un modo un pò rozzo, avevano intravisto e immaginavano di utilizzare la sessualità come istanza rivoluzionaria. Mi riferisco a Wilhelm Reich e a Marcuse.

La questione è che la sessualità non è manipolabile, non è utilizzabile. Muovendo dall’etimo sec, cioè taglio, nell’elaborazione di Verdiglione la sessualità giunge alla divisione.

Freud trova la sessualità nell’atto in quanto divisione, in quanto inconciliabilità e non ricucibilità di questa divisione. L’atto è sessuale in quanto mancato. C’è sessualità in quanto c’è lavoro del nome, c’è il lavoro del significante, c’è il lavoro psichico primario, direbbe Freud. La sessualità sta nel lavoro delle funzioni, cioè in questa divisione che questo due instaura in modo irriducibile.

In questa accezione la sessualità non è umana, vale a dire, non praticabile dagli umani. Cioè, non è una pratica.

Nei vari manuali sulla sessualità si trova questa distinzione tra una buona sessualità e una cattiva sessualità; si trova, in altri termini, un criterio normativo, come la buona pratica e la cattiva pratica, il farmaco e la droga. Se fatta bene è un farmaco, se fatta male porta alla dannazione.

La sessualità non è praticabile ma interviene nell’atto.

 

 

EQUIPE CASO CLINICO

16 ottobre 1992

 

Il fatto che qualcosa si rappresenti della pulsione non significa che la pulsione sia rappresentabile. La pulsione non è rappresentabile in quanto è già rappresentata in ciò che si dice.

La pulsione non è isolabile e non può osservarsi, non si può togliere dalla catena significante per farne un oggetto di studio: la pulsione é già lì in ciò che si dice.

L’idea di poter togliere la pulsione comporta che ciò che si suppone di poter togliere non è affatto la pulsione ma, eventualmente, un significante.

L’elaborazione di Verdiglione, e prima ancora quella di Freud, si distinguono dallo psicologismo per questo: che ciascun elemento non è isolabile in quanto esiste inserito in una scena. Questa scena, essendo costituente di questo elemento, avviene nell’istante in cui parlo, ma non è ferma, subisce una continua anamorfosi.

Ciò che avviene, avviene parlando.

Che non esista fuori della scena e non sia, pertanto, isolabile, pone una distanza dalla metafisica, nel senso che non è possibile isolare un quid. In nessun modo può togliersi un quid da ciò che si dice, nel senso che ciò che toglie è già altro.

Saussure ha indicato che un significante ha una sua portata inserito in una catena, fuori non significa niente.

C’è rappresentazione (Vorstellung) della pulsione in atto, ma non è rappresentabile. Non c’è chi possa rappresentarla, come facoltà, come possibilità.

 

C’è rappresentazione in quanto la cosa non si dà.

 

Il tempo procede dalla divisione, si staglia nella funzione vuota.

Il fonema, lo stigma, è ciò che la funzione vuota incontra come ostacolo, il punto vuoto.

 

La differenza viene dall’essere le due funzioni, di rimozione e di resistenza, in relazione tra loro.

In una relazione tra due la differenza è la terza.

 

C’è un amore non transitivo, come condensazione (Empedocle parlava di aggregazione), quindi la metafora.

L’amore è del padre, padre come funzione di rimozione, cioè l’impossibile localizzazione dell’origine, in altri termini ancora, l’impossibilità di significare le cose.

L’amore è del padre perché, impedendo la significazione delle cose, come funzione di rimozione, impone, per così dire, che ci sia godimento ma non possesso. Godimento nell’accezione giuridica per cui c’è godimento ma non possesso. Di che cosa, in effetti, si gode?

A questo riguardo Freud introduce la questione della legge. La legge muove dal padre, dalla funzione di rimozione. È la rimozione che instaura la legge, il debito assoluto.

È la legge che deve il godimento che viene rilasciato in un’eccedenza, in un “in più”.

La supposizione può essere: “Io godo di questo oggetto”. Ma il godimento è già altrove, va al di là, c’è un’eccedenza, non era solo questo. È di questo che mi accorgo: che non era solo questo, c’è qualcosa in più che si aggiunge.

Lacan parlava di plus-godimento, parafrasando Marx che parlava di plus-valore, rispetto a questo “in più” che il godimento rilascia.

 

La relazione è l’apertura, è l’apertura che il due comporta nella parola. La relazione dice che il due non può togliersi dalla parola.

La relazione è fra due.

Che cosa avverte ciascuno in una relazione? La differenza.

Ciò che consente a questi due di restare due è la differenza.

La relazione cosiddetta umana tenta di scavalcare la differenza perché il riporto possa compiersi, cioè riportare una cosa all’altra. E così ogni cosa significa in relazione all’altra, in base all’altra. Come se potesse eliminarsi la differenza a vantaggio dell’unità.

Che cos’è l’unità? È la comunione di intenti, di desideri, di progetti, di direzione.

 

 

 

EQUIPE CASO CLINICO

 

2O ottobre 1992

 

L’accorgersi viene dall’incominciamento.

Ci si accorge di qualche cosa che incomincia. Quindi, in prima istanza, dalla rimozione, vale a dire, da ciò che ritorna.

Freud distingue il rimosso da ritorno del rimosso. Ciò di cui si avverte qualcosa, dice Freud, è il ritorno del rimosso, non è il rimosso in quanto tale.

Abbia già usato la figura retorica della metafora per dire qualcosa intorno al funzionamento della rimozione, questione ripresa da Lacan. Si accorge che c’é una metafora perché c’è un elemento che non è presente lì nella parola, ma è presente in quanto non detto. La metafora funziona così: indico che quel tale ha un cuor di leone, ma se non avessi nessuna nozione del cuore e del leone quella metafora non mi direbbe nulla. Quindi, occorre questo altro elemento che apparentemente non è presente nella catena, però, in quanto caduto, consente l’esistenza della metafora.

Ho usato questo esempio, ma è la stessa cosa che dice Freud nel saggio sulla rimozione: il rimosso non è presente, ma in quanto è assente funziona, funziona come una sorta di origine non localizzabile. Adiacente a questo significante rimosso c’è un altro significante, quello che io avverto, ma lo avverto in quanto tale proprio perché c’è un significante rimosso, altrimenti non lo avvertirei. Per questo l’incidenza è data dal nome che funziona.

Ci si accorge della rimozione perché c’è il ritorno del rimosso.

Ciò che Freud descrive intorno al rimosso ha a che fare anche con la sorpresa.

Il rimosso non precede affatto il ritorno del rimosso. Semmai, potremmo dire che lo segue. È il ritorno del rimosso a strutturare il rimosso. Il ritorno del rimosso inventa ciò che lo struttura, cioè, il ritorno del rimosso inventa il rimosso che sarebbe ciò che struttura il ritorno del rimosso.

 

C’è divisione e, pertanto, c’è taglio, c’è tempo. Le parole si dicono e, dicendosi, si dividono. Si dividono in quanto, dice Freud, c’è simultaneità delle funzioni di rimozione e di resistenza, il due.

Quindi, la pulsione è duale, comporta un due. Un due che non i ricompone in unità. Il taglio procede da questa divisione, non c’è prima.

C’è una divisione nella parola che Freud ha avvertito come la dualità della pulsione.

Le parole si dividono, poi si piegano, poi si intendono, ecc.

 

L’evento è ciò che si getta innanzi, come ciò che si staglia.

Verdiglione: evento come effetto pragmatico, un fatto.

Ciò che agisce è la parola.

Il fatto come tale è il fantasma. Pragmatico è l’operatore, l’operatore linguistico. L’operatore è il fantasma, l’idea. Sarebbe l’idea che connette la funzione vuota al punto vuoto: nell’elaborazione di Verdiglione è questo l’operatore prgamatico. Connette il pragma alla funziona vuota, a ciò che interviene come silenzio nella parola, un silenzio che insiste. Freud parlava della pulsione di morte come di “ciò che lavora in silenzio”.

L’operatore pragmatico è ciò che opera e consente questa connessione tra il silenzio, cioè la funzione vuota, e il punto vuoto, cioè il sembiante, l’ostacolo.

La funzione è l’uccisione. Cosa funziona nella parola? Cosa, cioè attribuisce a un elemento qualcosa di strutturale? È l’uccisione, questo atto che originariamente aveva a che fare con il tagliare l’albero con l’accetta diagonalmente. Quindi, l’uccisione è ciò comporta questo taglio. C’è qualcosa che attribuisce a ciascun atto di parola questo elemento, ed è la rimozione. Rimozione che taglia, cioè, impedisce che qualcosa sia tutto. Non solo la rimozione ma anche la resistenza. Con la funzione vuota costituiscono i tre elementi strutturali, cioè, intervengono in ciascun atto di parola.

C’è funzione in ciascun atto di parola nel senso che attribuisce, ad esempio la rimozione, che un elemento cade e un altro sorge a fianco, adiacente.

La funzione vuota è silenziosa, riguarda il silenzio. Silenziosa in quanto stabilisce uno iato tra le due funziona, però, funziona anche questa.

Le funzioni sono simultanee, perciò, non possono sovrapporsi. Dunque, resta uno iato, un vuoto, quindi, la funzione vuota.

Come ciascuno si accorge della funzione vuota?

Qualcuno si accorge di qualcosa, ma in questo accorgersi qualcosa sfugge, qualcosa va comunque alla deriva e non riesce a comprendersi. Cosa è avvenuto? Qualcosa è rimosso, ma anche qualcosa resiste, dunque, non può comprendersi ciò di cui si accorge. Qualcosa si capisce, ma il capire è una supposizione: ciò che io capisco è una supposizione, non è una comprensione. È una suppositio. E, allora, avverte che qualche cosa impedisce di comprendere ciò di cui si accorge. Come dire che qualche cosa tace, qualcosa non sa rendere conto di ciò che capisce. Proprio lì sta il silenzio, cioè, la funzione vuota che induce un punto vuoto, il sembiante.

Il sembiante è duale e triale. Comporta il punto e il contrappunto e i tre oggetti, oggetto come specchio, sguardo e voce, oppure, l’immondo, l’abietto e l’aberrante, oppure, Apollo, Dioniso e Nessuno.

 

Il “come” riguarda il tempo, riguarda la moda.

C’è un modo con cui le cose si dicono, che è un modo: c’è un modo nelle cose. Questo modo è dato dal tempo. È il tempo, questo taglio di cui si diceva, che interviene in ciascun atto e dà effettivamente il taglio, il taglio che le cose prendono. Da questo taglio si staglia una sezione, il sectus, il sesso. Per questo dicevamo che l’intellettuale è il sesso.

Negli anni ‘7O si diceva: “L’interpretazione non è modale ma apofantica”. L’interpretazione non è modale, cioè, non è un modo di intervenire e non si attiene a un modo prestabilito, a una modalità, ma apofantica, cioè, senza nessun bisogno di essere sostenuta, di essere spiegata. L’interpretazione è un intervento che non può spiegarsi. Semmai, è il contrario perché l’intervento pone un’altra piega. La modalità, invece, suppone che questi modi si possa prestabilirli.

C’è un modo, ma questo viene dal taglio, dal taglio che il tempo dà alle cose. Ciascuno dice le cose in un modo, che è quello, non poteva dirlo altrimenti. Sta qui la responsabilità nella parola, le cose si dicono in un certo modo e c’è una responsabilità assoluta; nessuno può sottrarsi. Salvo facendo la caricatura del dipendente, del plagiato, del succube.

 

Un elemento è strutturale quando non può togliersi in nessun modo dalla parola. La credenza non è strutturale. Anzi, è preferibile che questa credenza possa articolarsi negli elementi che la sostengono.

La credenza è questo: la supposizione che ci sia un elemento immobile e identico a sé.

La nevrosi ha la struttura della credenza.

Il discorso normale è, come dice Freud, un discorso a metà fra la nevrosi e la psicosi. “Normale” è chi risponde in modo adeguato al luogo comune, cioè chi si adegua al luogo comune.

La nevrosi non è strutturale; è un modo per porre un rimedio alla difficoltà di parola.

 

Il dire “siamo tutti nevrotici” è una stupidaggine. Sarebbe come dire “siamo tutti uguali, almeno in questo”. Questa è la psicosi.

 

Certamente, parlando, lei va accorgendosi di qualche cosa che esiste nel suo di discorso e di qualcosa che nel suo discorso la attrae. Ciò che la attrae non è lei in quanto tale ma il suo discorso, che non le appartiene. Nel suo discorso trova un punto che la provoca, che l’attrae, e quindi avvia un itinerario dall’identificazione di questo punto che l’attrae fino alla cifra. L’itinerario è ciò che propriamente si indica come il transfert. Innamorarsi dello psicanalista è un rimedio al transfert. In questo caso, avviene che si pensa che questo oggetto, il sembiante, che esiste nel proprio discorso, sia qualcuno.

L’analista occupa la posizione di sembiante, non è il sembiante. Occupa questa posizione nel discorso dell’analizzante; occupa la posizione che costituisce l’ostacolo a ciò che si dice, l’obiezione.

La sovrapposizione fra l’oggetto e la posizione dell’analista è ciò che noto come l’innamoramento. A quel punto occorre individuare, gestire l’analista in quanto oggetto. È un innamoramento molto prossimo alla psicosi.

Mentre la nevrosi immagina un oggetto fuori della parola, la psicosi lo ritiene partecipabile, condivisibile, cioè questo oggetto deve essere condiviso, comune. L’analista, messo al posto del sembiante, diventa ciò che deve essere fermato a qualunque costo.

La confessione comporta un’assoluzione senza responsabilità, mentre l’analisi comporta un’assoluzione con responsabilità. Se l’assoluzione comporta una responsabilità diventa insopportabile, nel senso che tutto ciò che ho fatto non è più il male, non è più il peccato, e quindi non ho più alcuna possibilità di giustificare, non mi rimane che confrontarmi.

La confessione riguarda un’assoluzione senza responsabilità: sei assolto perché ciò che dici è significato in questo modo, è ricondotto, dalla cattiva parola diventa la buona parola.

La penitenza se la dà l’analizzante, non fa altro che infliggersi penitenze. Che avverte come angoscia, senso di colpa, rimorso: è connessa al godimento, è una funzione erotica, così come il fustigarsi.

 

L’errore di calcolo. Come dire che questa pietruzza, il calcolo, costituisce l’inciampo alla serie di pietre, all’ordinamento di pietre.

Il calcolo, come possibilità di misurazione, di misurabilità delle cose. Invece, se le cose si ritengono misurabili, c’è l’errore.

L’errore procede dalla supposizione di poter misurare le cose, mentre il lapsus riguarda la caduta, vale a dire, che qualcosa cade e cadendo sorge un altro elemento, esattamente come nella metafora.

 

Il godimento sta, in questo caso, nella ripetizione della scena. Sta in una scena che deve ripetersi, ciascuna volta, in un certo modo. Il godimento sta in questa ripetizione in cui qualcosa, rispetto a questa scena, eccede sempre; c’è sempre qualcosa in più, qualcosa che eccede, per cui la scena non è mai esattamente quella. Questo “in più”, ciò che deborda, costituisce il godimento. Sta in questa riproduzione economica della scena.

 

 

EQUIPE CASO CLINICO

 

23 ottobre 1992

 

Non c’è una tecnica per stabilire come e quando interrompere la seduta: non c’è nessuna regola. È senz’altro un intervento, sicuramente il più importante.

In molti casi c’è uno sbarazzarsi dell’intervento laddove la durata della seduta è già predeterminata. Ciò comporta un eliminare la portata stessa della seduta e trasformarla in una sorta di richiesta di adesione a un credo, qualunque esso sia.

Per intendere come interviene l’interruzione della seduta occorre intendere che cosa propriamente avviene in una seduta.

In una seduta avviene, in prima istanza, la parola e quindi avvengono dei significanti che si dicono. Non c’è atto di parola che sia esente da rimozione e resistenza, ma questo non significa che ciascun significante sia rimosso o che resista. Se così fosse non ci sarebbe alcuna possibilità di intervenire. Per cui si apre una questione molto importante che costituisce un passo rispetto a ciò che è stato detto fino ad oggi sulla “psicanalisi”. Mettiamo le virgolette perché è un termine che mi piace sempre meno. Potremmo dire che occorre parlare di linguistica, nonostante l’equivoco che questo può comportare perché, fondamentalmente, i linguisti sono coloro che si occupano di semantica, di fonetica, di semiotica, ecc. Noi ci occupiamo anche di questo, certamente, ma avvalendoci anche di altri strumenti. Se dovessi pensare al lavoro che svolgo, mi troverei molto più prossimo al linguista che a uno psicanalista così come è comunemente inteso questo termine. Termine che raccoglie sempre meno interesse.

D’altra parte, lo stesso testo di Freud, posto fuori dalla linguistica, non ha un grandissimo interesse. Non hanno torto, in questo senso, alcuni quando rilevano nel testo di Freud un impianto metafisico. Non hanno torto se si coglie di Freud l’aspetto filosofico, così come è stato letto Totem e tabù come un testo di antropologia. Non è un testo di antropologia, è un testo di linguistica.

Questo appena per dire che ciò che avviene in una seduta non ha una portata filosofica.

In ciascuna seduta non c’è nulla di pre-determinato, nulla di pre-stabilito, di pre-concetto o di pre-sunto, non c’è nessuna pre-sunzione. Prima che la persona, che viene da voi, parli non c’è l’inconscio.

L’inconscio come logica, come idioma particolare a ciascuno, esiste parlando, sicuramente, ma, in quanto logica particolare, che cosa ci autorizza a parlare di inconscio se nessuno se ne accorge? Nulla.

Possiamo presupporlo, congetturarlo, fare moltissime cose, ma, e in questo Freud non aveva torto, ciascuna seduta è sempre un debutto, non c’è prima un qualcosa, nemmeno l’inconscio.

Tutto questo ha delle implicazioni, perché non è che se una persona fa un lapsus questo ci induce a supporre che ci sia un’altra scena in ciò che sta dicendo. Che sia questo l’inconscio non va ancora da sé.

Perché posso dire che c’è un’interferenza, un’altra scena che interviene? Perché è ciò che rilevo in atto.

Ma, a questo punto, occorre precisare questa nozione di inconscio. Già Lacan aveva posto la questione, anche se in termini ancora sommari, come una “svista”, come la svista che interviene parlando: la svista non c’è prima che questa svista ci sia. Esiste lì nell’atto.

Che l’inconscio esista nell’atto, e non altrove, toglie ogni possibilità di pre-determinazione, di pre-visione e di pre-sunzione, cioè, non c’è nulla che è assunto prima.

L’inconscio è una produzione della parola, una sua invenzione. Ciò non toglie che ciascuno parlando possa incontrare un lapsus, un equivoco, ma che ci sia inconscio non va da sé.

L’inconscio è un idioma, non un’idiozia, un’idiozia; vale a dire, una sbadataggine, un errore.

È curioso questo termine di inconscio. Noi possiamo abbandonarlo e avvalerci di un altro termine molto più interessante: quello di “idioma”, per esempio. Idioma, non il dialetto. L’idioma è assolutamente particolare a ciascuno, mentre il dialetto è presupposto comune ad alcuni, quindi è ritenuto partecipabile, ciò che accomuna. L’idioma, come logica particolare a ciascuno, è qualcosa che si allontana immediatamente, dal conscio, dal cosciente, da tutte queste cose che sono un retaggio ottocentesco e filosofico. L’idioma si inventa nell’accezione riflessiva del termine, ché è la parola stessa che inventa dicendosi.

E, allora, se la questione è in questi termini, come intervenire in una seduta?

Che ci sia idioma non va da sé. Occorre accorgersi che parlando c’è dell’idioma. Se il parlante non se ne accorge, cosa mi autorizza a pensare che ci sia? È una suppositio. Di fatto, preferisco non presumere alcunché. Ecco, allora, l’intervento come ciò che pone le condizioni perché ciascuno possa accorgersi di ciò che la parola inventa. Ma se non se ne accorge inventa qualcosa?

È una questione tutt’altro che facile. Chiaramente, se non se ne accorge incontra una difficoltà, ma non è ancora un idioma. Come dire, che è quando mi accorgo delle cose che queste cominciano a esistere, vale a dire, a partecipare della parola. Con il termine ‘esisterÈ intendo l’esistenza nella parola.

Sia nell’intervento sia parlando non c’è alcun referente.

Una persona dice delle cose. Più o meno è travolta da ciò che sta dicendo, travolta nel senso che non c’è nessuna autorizzarsi a parlare. Quindi, sono le cose, supposte fuori della parola, ad autorizzare. È il reale, supposto come tale e extralinguistico, ad autorizzare e, quindi, a sorreggere la parola. Ma non c’è nessun autorizzarsi a parlare, non c’è nessun incontro con la parola, perché la parola è sempre appoggiata a qualche cosa, o a un reale, immaginato come tale, o a un significato, o comunque a qualcosa di extralinguistico che garantisce le cose che mi accadono, che mi travolgono, che mi danno da pensare, che mi preoccupano, che mi spaventano, ecc.

Ora, questa persona si trova a dire tutte queste cose ma c’è idioma in ciò che sta dicendo? C’è logica particolare? Cosa può farmi dire che c’è idioma? Ascoltando questo discorso posso anche supporlo ma rimane una mia presunzione, perché questa logica è particolare per chi sta parlando, non per me che ascolto.

Ma se per questa persona questa logica non è affatto particolare perché la immagina assolutamente comune, condivisa e partecipata, quale criterio ho io per poter dire che si tratta di una logica particolare? Potrei dire che è particolare rispetto alla mia; questo posso dirlo in ciascun caso. Ma occorre che sia questa persona, il parlante a dire che c’è una logica particolare in ciò che sta dicendo, altrimenti, io resto in una mia presunzione. Perché possa dirlo occorre che se ne accorga, vale a dire che, a un certo punto, in ciò che dice qualche cosa ritorna altrimenti, ma ritorna altrimenti perché se ne accorge.

“Accorgersi” è il non potere non tenere conto dell’alterità, quindi, di un supplemento che c’è parlando. L’alterità esiste nella misura in cui io mi trovo ad aggiungere altri elementi.

Ecco che ritorniamo alla questione dell’intervento nella seduta. Abbiamo distinto tra intervento analitico e intervento del sembiante ma si tratta di questo: di intervenire in modo tale che ciò che si dice resti aperto.

Succede molto spesso che l’interruzione della seduta risulti fastidiosa, insopportabile, perché non si è detto tutto, perché c’è un’altra cosa da dire, perché qualcosa rimane in sospeso. Non si tratta in questo caso di lasciare chiudere la questione in modo che la cosa sia definita, determinata, ma certamente di lasciare in sospeso. Se la questione resta aperta, ecco che in questa apertura trova un altro elemento. Questo restare in sospeso allude già lì a un altro elemento, che comporta un’aggiunta, un supplemento.

La linguistica è una ginnastica intellettuale dove ciascun incontro aggiunge un elemento o pone la condizione perché possa aggiungersi, possa intervenire nella parola. A questo punto, non posso non accorgermi di questo elemento e, pertanto, c’è l’eventualità che mi accorga dell’apertura, quindi della divisione nella parola.

L’analisi non trova niente, non ha niente da trovare. Occorre porre una distanza da qualunque dottrina della reminiscenza, cioè il ricordare, il riportare alla memoria e quindi abreagire. Ciascun ricordo non è esente da invenzione.

Come intervenire, allora, in una seduta? Nel modo che la questione resti aperta, perché qualcosa resti da pensare, perché qualcosa interroghi. Non c’è un metodo, ciascuna volta è sempre differente, le situazioni non sono mai le stesse. Là dove si interviene c’è una solitudine assoluta, nessuno viene in aiuto, nessuno dice come fare, ed è da lì che c’è l’autorizzarsi, il da sé. Si incontra il da sé, cioè la propria parola va da sola, non ha supporti, non ha puntelli. Ciò che si dice non è imbecille, letteralmente, non ha da supportarsi sul bastone, ma è in solitudine estrema.

Laddove la seduta si interrompe ci sono effetti di verità, di riso, di sapere e di godimento, in altri termini, di tutto ciò rispetto a cui il luogo comune si tiene lontano e aborre.

Il godimento è ciò che nessuno vuole incontrare perché dice dell’impossibilità di possedere alcunché. Ci siamo avvalsi, per questo aspetto, della nozione giuridica di godimento: pone di fronte al fatto che io non possiedo nulla.

 

Non c’è possibilità che presupponga il soggetto della possibilità, cioè il poter fare o il saper fare.

Il possibile già con Aristotele è una categoria molto particolare che necessita in prima istanza che di questo possibile ci sia un soggetto per cui è tale. Un soggetto che può fare, un soggetto come sostanza, come sostrato.

Impossibile dare una possibilità. C’è una supposizione di avere qualcosa e di poterlo trasmettere. Quindi, c’è prima la supposizione di avere qualcosa, poi la supposizione che sia identico a sé e quindi la supposizione di poter trasmettere a un’altra persona la stessa cosa. È chiaro che è tutto molto complicato.

Non c’è che abbia delle possibilità. Ciò non toglie che possa incontrare delle occasioni, letteralmente qualcosa che cade mentre fa, mentre parla, mentre pensa, e che cadendo consente un rilancio.

Non c’è modo di salvare nessuno, perché non c’è nulla da cui debba essere salvato, non c’è nulla da evitare.

 

Ciò che dico, non essendo supportato da qualcosa, mi impone il confronto con ciò che dico. C’è una responsabilità con ciò che dico, ed è questa responsabilità che fa esistere l’idioma, cioè questo confronto con ciò che sto dicendo. C’è una responsabilità nel senso che ciò che dico viene da una logica, da una scena dei fantasmi, viene dal nulla, se preferite. Proprio per questo motivo non posso ricondurlo ad alcunché. Quindi, mi ritrovo in assoluta solitudine con ciò che dico. E non posso affibbiare niente a nessuno.

Cosa significa confrontarsi? Lasciare che ciò che sto dicendo produca altri elementi, altri significanti.

Le cose non sono mai ‘soltanto’ così.

 

Non c’è nessun modo per insegnare l’analisi. Non c’è nessuna garanzia che qualcuno l’apprenda. Non è riconducibile a un codice, a una serie di regole a cui attenersi.

Cos’è l’autorizzarsi? È il non poter non ascoltare. Ciascuno, parlando, non può non ascoltare ciò che sta dicendo, e anche ciò che altri dicono, un equivoco, un malinteso. Non c’è nessun modo per sottrarsi all’ascolto. Di questo sottrarsi Lacan diceva “abdicare al simbolico”.

Ascoltare comporta questo effetto: che ciascuna cosa che si dice non va affatto da sé, cioè, non è esente da interrogazione.

Certamente, parlando mi trovo a fare delle affermazioni, ma di ciò che dico non ho nessuna certezza né alcun dubbio.

Non ho alcuna certezza nel senso che non ho alcun referente da qualche parte che garantisca ciò che sto dicendo; non ho alcun dubbio nel senso che ciò che ho detto è quello e non altro.

 

Non c’è l’irresponsabile, non c’è l’incapace. Per ciò che passa come psicanalisi l’analizzante è il soggetto incapace.

L’analizzante è un deficiente, un incapace, è lì in balia di questo tizio, che è mamma o strega a seconda delle circostanze, che ha un potere terribile.

Un aspetto del processo a Verdiglione diceva questo: se c’è plagio, che si suppone esserci, deve essere ben diretto. È l’unica forma di plagio che lo stato consenta, perché è l’unica forma di plagio che lo stato può controllare. Altrimenti, diventa una possessione diabolica.

L’accusa contro Verdiglione era di avere utilizzato male il plagio; se lui lo avesse utilizzato bene non ci sarebbe stato alcun problema.

Si ha un bel dire che il reato di plagio è stato cancellato perché è rimasto in vigore sotto forma di ‘circonvenzione di incapace’. Si presuppone, quindi, un soggetto incapace, altrimenti come faccio a circonvenire l’incapace?

La credenza nel soggetto incapace è fondamentale per il mantenimento dello stato. Senza la presunzione di un soggetto incapace, lo stato, così come è strutturato oggi, non potrebbe esistere.

 

 

EQUIPE CASO CLINICO

 

 6 novembre 1992

 

 

Lacan riprende la nozione di simbolo da Freud tenendo conto dell’insegnamento di de Saussure, quindi della linguistica.

Tenendo conto della distinzione che fa de Saussure fra significante e significato, che lui scrive s/S, dove il significato è il concetto della cosa, il significante la sua esecuzione linguistica, avverte una questione molto importante: che, come già de Saussure aveva indicato, il significante di per sé non significa nulla se non è inserito in una catena. Ciò gli consentiva di fare un passo rispetto alla linguistica precedente che, invece, considerava l’elemento linguistico fuori dalla struttura, come se potesse isolarsi e, una volta isolato, trattarlo in vario modo.

Lacan avverte in tutto ciò una supremazia del significante rispetto al significato, vale a dire, di ciò che si annoda in una catena, che si dice, il parlato. Allora, immaginando la supremazia del significante, capovolge l’algoritmo di de Saussure e scrive significante e sotto la barra il significato. A Lacan piace considerare la barra come la barra della rimozione e, allora, dice che il significante è separato dal significato, cioè dal concetto, dalla barra della rimozione. Non c’è passaggio, questa barra è invalicabile, tranne, dice, in alcuni momenti privilegiati, il lapsus, il sogno.

Questa catena, da cui il significante trae la sua portata, la sua stessa esistenza, Lacan la chiama “catena simbolica”.

Perché mai? Perché il simbolo è qualcosa che sta al posto di qualche altra cosa. Però, già Freud ci dice che questo stare al posto di non è propriamente una sostituzione, per cui una cosa cancella l’altra, o scompare. Proprio per nulla, entrambe permangono. Il simbolo, allora, diventa qualcosa di differente da qualcosa che sta al posto di un’altra cosa, ma diventa ciò che sta al proprio posto. Il proprio posto è quello che gli ordina la catena simbolica, che non ordinata da qualcuno, ma segue un suo andamento che è retto da una logica, quella che Freud chiamava inconscio, e che dice come le cose si organizzano, come i significanti si combinano tra loro.

Simbolico con Lacan diventa un registro, o ordine, vale a dire, il registro che rende conto di qual è la combinazione, qual è la successione, la sequenza dei significanti.

Simbolico come catena particolare di significanti. Non più simbolico come qualcosa che sta al posto, ma qualcosa che sta al posto di qualche cosa che non c’è, che è assente. È assente il significato.

La relazione tra significante e significato che per de Saussure è arbitraria, per Lacan è in un’accezione ancora più particolare, che non soltanto è arbitraria, ma è una relazione impossibile. Lui precisa che, in effetti, non c’è nessun significante che possa stare al posto di un significato, cioè rappresentarlo.

Immaginando una catena di significanti ciascuno dei quali ha sotto la barra il significato. Per oltrepassare la barra dovrei dire il significato, ma dicendo il significato non dico il significato ma un altro significante che, a sua volta, avrà un altro significato, e così via. Il significato, per Lacan, resta in un posto vuoto e il significante non sta al posto di niente.

Quest’accezione di simbolico è nettamente differente dalla simbolica junghiana, per la quale il significante è segno di qualcosa; ciascuna cosa che una persona pensa è segno di un archetipo, e cioè di un tipo, di un modello originale, che si tratta di reperire e di accettare.

Il significante è l’immagine acustica. Pertanto, non è qualcosa che vedo, non è ciò che trovo scritto in un libro. Quest’immagine acustica, in cui ciascuno è preso, che non può dire propriamente perché si dice. Non può dire perché varrebbe isolarlo e, quindi, sarebbe significato.

Accanto all’ordine simbolico, Lacan pone l’immaginario, curiosamente, perché dice che già il significante è un’immagine acustica. Però, per Lacan l’immaginario non è l’immagine.

Possiamo reperire la nozione di immaginario in Lacan in due scritti, quello sulla fase dello specchio e quello dove fa l’esempio del vaso rovesciato, dove narra come, utilizzando un certo gioco di specchi, posizionando un vaso in posizione rovesciata e, invece, un mazzo di fiori al di sopra in posizione diritta, attraverso questo gioco di specchi, l’immagine di chi osserva è quella di un vaso con dentro i fiori. Questa illusione ottica, prodotta da questo gioco di specchi, viene utilizzata da Lacan per riprendere una questione che già aveva avviato nello scritto del ‘39 sulla fase dello specchio al Congresso di Marienbad. In questo scritto aveva posto le basi di ciò che avrebbe elaborato ulteriormente più avanti sull’identificazione, come identificazione immaginaria.

Lui descrive la vicenda di questo bambino che si riconosce guardandosi alla specchio in quanto è in braccio alla mamma che già aveva avuto modo di vedere, mentre se stesso non si era mai visto. Però, vede la mamma, vede un altro nello specchio, per cui dice che se questa è la mamma per induzione l’altro sono io. Non sappiamo se dice così, ma questo è quello che dice Lacan.

Questa identificazione è immaginaria perché passa attraverso un terzo elemento. Non è immediata, ma è mediata. L’identificazione avviene con un’immagine riflessa, capovolta (se lei si guarda allo specchio vede un’immagine capovolta rispetto a come, per esempio, la vedo io). Lacan gioca su questo per indicare come ciascuna volta l’Io, questa istanza, si costituisca a partire da un’identificazione che non è reale, immediata, ma è mediata da qualcosa che lui indica come immaginario.

L’immaginario è propriamente questo: la combinazione delle immagini che si formano parlando a partire da un ritorno della propria domanda. La propria domanda viene inviata a un destinatario; questo destinatario la rinvia attraverso un’immagine.

Per Lacan le immagini si formano così, vengono dal destinatario. Nel saggio sul tempo logico è molto esplicito: ciascuno trae l’immagine di sé, la propria identificazione da ciò che gli ritorna dall’altro, o meglio, da altri. Ciascuno, diceva, riceve il proprio messaggio dall’altro in forma invertita. È sempre questo gioco di specchi che compare il Lacan, dove ciascuna volta ciò che invio mi ritorna in forma capovolta, esattamente, come nello specchio.

In Lacan, anche il significante segue la stessa vicenda.

L’immaginario è un registro in cui io mi riconosco attraverso un capovolgimento, attraverso un ritorno capovolto di ciò che invio.

Certamente, per Lacan l’immaginario è una successione di immagini, ma non soltanto. È una successione di immagini capovolta attraverso cui io mi riconosco, vale a dire, il mio riconoscimento passa attraverso queste immagini rovesciate.

Questi due registri, il simbolico e l’immaginario, agiscono tra loro in modo curioso, in un modo che lui chiama nodo borromeo.

Il nodo borromeo è fatto di tre anelli, di cui due sono liberi, il terzo li annoda. La famiglia Borromeo aveva inventato questa figura per indicare come i Borromeo costituivano il collegamento con altre due famiglie. Questo nodo viene utilizzata negli ultimi scritti da Lacan dopo aver elaborato una teoria dei nodi. Lacan si era occupato molto di topologia, cioè del nastro di Möbius, del cross-cap.

Il nastro di Möbius è una stringa aperta. Si uniscono i due estremi, però, uno lo si capovolge. A questo punto, si ha un nastro che ha delle particolarità: percorrendo una superficie ci si ritrova al punto di partenza, ma dalla parte opposta del nastro. Un’altra prerogativa è che non può distinguersi un verso da un recto, perché entrambe le due facce percorrono la stessa via. E poi, se si segna questo nastro con una linea che lo taglia a metà per la sua lunghezza, si trova disegnato una sorta di otto, noto come otto interno del nastro di Möbius. Lacan faceva queste operazioni perché vi è giunto attraverso dei suoi schemi primi, rudimentali, lo schema L che è una specie di zeta, dove situa da una parte il soggetto, poi l’oggetto a piccolo. La nozione di oggetto a piccolo è una nozione interessante che Lacan riprende dalla Klein, che è stata allieva di Abraham, il quale aveva elaborato una teoria chiamata dell’oggetto parziale. Abraham diceva che l’oggetto è sempre parziale, cioè, non riesce mai a compiersi in un’unità. La Klein ha tradotto questa parzialità dell’oggetto con una scomponibilità dell’oggetto in due parti, debitrici di un tutto. Questo la porterà a distinguere nei suoi scritti tra seno buono e seno cattivo.

Lacan riprende tutto ciò ma in un altro modo. Lacan coglie della Klein non tanto una struttura teorica precisa della psiche, quanto l’enunciazione di una fantasmatica, da cui è tratto a pensare dell’oggetto come causa di desiderio. Non è più l’oggetto del desiderio, come per la Klein, ma oggetto causa di desiderio. Come dire che questo oggetto è causa, non la meta, del desiderio.

Lacan legge la Klein cogliendo questo aspetto fantasmatico, vale a dire, il tentativo da parte della Klein di isolare un operatore. Per la Klein questo operatore diventa un asserto teorico. Lacan lo riconduce a enunciato dove è posto, in prima istanza, il fantasma. Questo lo porta a considerare che il seno di cui parla la Klein non è l’oggetto del desiderio, non è questo che il bambino va cercando, ma semmai, allude a qualcosa che interviene come causa di desiderio. Vale a dire, che il desiderio non è transitivo, non va da una cosa a un’altra, non ha un oggetto propriamente che lo soddisfi, ma, semmai, l’oggetto è causa di desiderio, cioè, lo provoca, l’oggetto è provocatore.

Sempre nello schema L, dall’altra parte pone l’Io e poi l’Altro. Questo per indicare come intervengano questi quattro elementi, il soggetto, l’oggetto causa di desiderio, l’Io e l’Altro. L’Altro sta a indicare per Lacan, riprendendo da Freud l’Altro come l’altra scena, il tesoro dei significanti, ciò da cui vengono i significanti. I significanti vengono da questo Altro, come altra scena, e vanno, secondo Lacan, sempre verso questo Altro. L’Altro è l’interlocutore. Ciascuno parla all’Altro. L’Altro non è molto lontano dall’inconscio nell’accezione di Lacan. L’Altro come radicalmente altro, non l’altrui, ma qualcosa che attiene alla mia parola, come l’altra scena che c’è nella mia parola.

Questi schemi conducono Lacan a uno schema molto più elaborato che tratteggia nello scritto Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, dove tutti questi elementi si combinano tra loro e curiosamente formano una sorta di bottiglia molto complicata.

Lacan si accorge che questa bottiglia allude all’altra famosa bottiglia di Klein e, allora, incomincia a occuparsi di topologia, cioè, di superfici, avvertendo come ciò che avviene nel discorso che lui, in quanto analista, andava ascoltando ciascun giorno si trattasse unicamente di superfici. Dunque, nessuna profondità, dietro non c’è niente, dietro la maschera non c’è niente.

Dunque, dicevamo della topologia, questa scienza delle superfici, delle loro, pieghe, delle loro torsioni, del loro volgersi. Queste hanno ciascuna questa base che è il nastro di Möbius.

Lacan giunge al nodo borromeo che lui deriva dalla topologia, dal nastro di Möbius, torcendolo, contorcendolo in modi incredibili, finché, a un certo punto, gli si impone questa figura a tre elementi che è il nodo borromeo.

Lacan di che questo nodo è fatto di un anello che unisce altri due, i quali senza questo terzo sarebbero liberi. Quali sono i due registri che senza il terzo elemento che li annoda sono liberi?

Il simbolico e l’immaginario. Come giunge a questo?

Giunge dalla pratica clinica cogliendo a partire dagli scritti di Freud e poi elaborando una sua teoria intorno alla paranoia, da cui muove per elaborare intorno al discorso psicotico, giunge a pensare che nel discorso psicotico ci sia uno sganciamento del registro dell’immaginario da quello simbolico. Chiaramente è il reale che qui ha qualche problema. Cioè, il reale, a un certo punto, scompare da questi registri. Scompare in varie forme, che sono poi quelle che Freud scrive nel saggio su Schreber.

Lacan si accorge di questo: come nel discorso psicotico il reale sia, per esempio nella schizofrenia, incollato al simbolico. Ciò che Freud scriveva nella Metapsicologia che nello schizofrenico l’inconscio è “a cielo aperto”, cioè, proprio si manifesta, si dice.

Lacan riprende questa questione come un incollamento tra il simbolico e il reale. Questo reale non è più tale, non costituisce più l’anello di giunzione, e che separa anche, del simbolico e dell’immaginario. Avviene che, tolto il reale dalla posizione che occupa, ritorna sotto forma di immagini, per cui, dice Lacan, quel tizio può dire “quella macchina mi guarda”. Per Lacan questo comporta una sorta di sbilanciamento dove il reale, che comporta la separazione fra il simbolico e l’immaginario, scomparendo comporta questa sorta di confusione. Cioè, tolto il reale, non c’è più la possibilità di distinguere il simbolico dall’immaginario.

“Ciò che non ha accesso nel simbolico ritorna nel reale”. Torna il reale sotto forma immaginaria, evidentemente. Come dire, nell’esempio di prima, ciò che non ha accesso al simbolico, cioè, ciò che non giunge a dirsi, ritorna nel reale, come se tutto ciò che non può dirsi, ritorna in una sorta di rappresentazione realistica, che potrebbe essere adattabile in modo perfetto a ciascuna opera d’arte.

Il reale è una nozione curiosa in Lacan perché dice che il reale è ciò che è sempre al suo posto. La sua funzione è quella, dice Lacan, di fare buco nella catena significante.

Questa catena simbolica è fatta in un modo particolare, dice Lacan nello scritto La lettera rubata. Nella postilla dice come a suo parere si svolge la ripetizione e, allora, descrive, attraverso una particolare sequenza di lettere, come ripetendo queste lettere in un certo modo ci sia una sequenza che si ripete sempre allo stesso modo e ciascuna volta in questa sequenza qualcosa viene escluso. Lui utilizza alcuni giochi matematici rispetto a questo. Si avvale di questa teoria logica per indicare come qualcosa si ripeta e ritorni sempre al proprio posto. Ciò che ritorna sempre al proprio posto è la mancanza. Qualcosa fa sempre buco nella catena simbolica.

La nozione di reale di cui si avvale Lacan è quella che incontra, cioè la più diffusa, quella filosofica, quella metafisica, quella per cui ciascuno ritiene che le cose che vede corrispondano a un referente. Muove un’obiezione a questo dicendo che questo reale, come poi preciserà nello scritto Scienza e verità, in quanto tale non esiste.

Ciò che per il discorso filosofico, ma anche per il discorso occidentale, costituisce il reale, in effetti, è qualcosa che non è possibile da cogliere o da afferrare. E, allora, dice che l’impossibile è il reale. Quale impossibile? Quello che la catena significante incontra in questa ripetizione, in queste sequenze logiche, dove incessantemente e necessariamente si impone un’assenza, una mancanza, un buco. Qui Lacan situa il reale.

L’impossibile è il reale, vale a dire, laddove io posso supporre che qualche cosa sia reale nell’accezione filosofica, cioè, che abbia un referente e che quindi sia definibile in un insieme chiuso, lì, dice Lacan, qualcosa continua a fare buco. Ciò che fa buco è ciò che sfugge alla mia presa. Lì dove qualcosa fa buco, lì, è il reale.

Lacan situa questo reale come l’anello che tiene agganciati gli altri due. Perché, dice Lacan, è proprio questo buco che tiene insieme il simbolico e l’immaginario, vale a dire, la catena significante e le identificazioni che da questa catena significante si producono, che costituiscono lo scenario di ciò che io incontro. È questo buco che insiste, che è sempre al suo posto, a tenere annodati gli altri due elementi, dando una nozione di supremazia a questa nozione di reale. Se il reale non facesse buco non potrebbe tenere disgiunti il simbolico e l’immaginario, ci sarebbe un incollamento per cui, senza questa distinzione, in definitiva, non ci sarebbe parola.

 

L’arca in Verdiglione dice questo: che l’originario non può ricondursi a un modello. L’archetipo in Jung è un originario tradotto in un modello. L’arca della parola è l’originario. Ciascuna parola è originaria, vale a dire, non ha un fondamento, non ha una giustificazione, ma, essendo ciascuna volta originaria, chiede di essere ascoltata per quello che è in quel momento senza doversi ricondursi o rifarsi a altro, se non a ciò che avviene in quel momento.

 

L’ideologia: la supposizione di poter isolare l’idea e, quindi, di poterla descrivere.

 

In seduta ciò che si coglie è il fantasma e si interviene rispetto al fantasma. Si interviene rispetto a ciò che opera. Ciò che si coglie in una seduta è la connessione sintattica e frastica rispetto a ciò che si dice. Altro è in una conversazione dove si discute di questioni teoriche, dove l’accento non è posto sulla connessione sintattica e frastica, cioè sul fantasma, ma su degli enunciati teorici, su cui si può discutere.

 

 

 

EQUIPE CASO CLINICO

 

4 dicembre 1992

 

La madre è colei che il figlio genera. È la medichessa, è colei che dà la vita ma che, al tempo stesso, è prodotto di colui che ha generato.

Nella fase dello specchio di Lacan la questione dell’identificazione passa attraverso un riconoscimento dell’immagine della madre. Questo riconoscimento avviene quando entrambi, il figlio e la madre, sono insieme, quando il figlio vede queste due figure insieme. A questo punto la mamma ha un’altra portata: non è più la mamma da sola, ma è la mamma con lui.

Questa unione, questo rapporto tra la mamma e il bambino diventa a questo punto indissolubile, cioè la mamma diventa la mamma con il bambino. Tant’è che a questo punto c’è sì il riconoscimento da parte del bambino, dice Lacan, però non è affatto indifferente che l’immagine che lui incontra è la mamma con il bambino.È un’unione dove il cordone ombelicale ha costituito da sempre quasi l’emblema di questa unione indissolubile.

C’è una recisione del cordone ombelicale.

La madre non è la mamma. La madre come mito.

Impossibile non confrontarsi con questo mito della madre. Il mito della madre come mito del tempo, come l’originario connesso alla schisi, al tempo come schisi.

La madre come mito è la recisione. Come dire che non c’è unione. Questo cordone è reciso. Il figlio e la madre sono disgiunti.

Al contrario, nella fase dello specchio Lacan pone questa identificazione immaginaria come instaurazione di questo cordone ombelicale che consente, per l’appunto, il riconoscimento: “mi conosco in quanto figlio di…”.

Non c’è propriamente desiderio di riconoscimento. Il riconoscimento non si pone mai come oggetto del desiderio. Può esserci una richiesta di riconoscimento.

“Riconoscimi”. “No, non ti conosco!”. Vale a dire che non c’è conoscenza che possa togliere l’Altro, l’alterità: non c’è oggetto di conoscenza. La richiesta di riconoscimento interviene in modo differente nelle varie strutture di discorso. Il discorso ossessivo, di cui parla Kojève, chiede di essere riconosciuto in quanto incapace. Chiede che l’Altro sia il Padrone. Istituisce l’Altro come Padrone. Sarebbe più appropriato il termine di tiranno: colui che si occupa dei sudditi ma senza godere. Non deve godere il Padrone nel discorso ossessivo, deve mostrarsi sofferente.

Il discorso ossessivo richiede di essere riconosciuto come incapace, come impotente, quindi bisognoso di aiuto, di sostegno, bisognoso di tutto. L’Altro deve farsi carico di questa sua incapacità. Il discorso ossessivo offre la sua incapacità, la sua inettitudine come dono, fino alla parodia, alla messa in scena dell’incapacità.

Occorre intendere come questo mostrarsi assolutamente accondiscendente, molto modesto e quindi molto arrogante, falsamente modesto, apparentemente accattivante. In effetti, pone una questione, come dire “Tu sei il mio padrone”. Cosa comporta questo? “Che da questo momento tu ti occupi di me!”.

L’Altro deve farsi carico in toto della sua incapacità e quindi il Padrone è il responsabile. Mentre il discorso ossessivo è irresponsabile, e di questo fa una caricatura, chi viene eretto a padrone è il responsabile di tutto. Così come il discorso ossessivo è totalmente irresponsabile, totalmente dipendente, il Padrone deve essere totalmente responsabile e totalmente indipendente. Guai se ravvisa una sorta di dipendenza da parte del Padrone, perché ciò vorrebbe dire che c’è un Padrone più padrone di lui. Per cui è necessario correre subito ai ripari.

Nel discorso ossessivo il tiranno è la madre, con il suo desiderio: la madre desiderante. L’immagine della madre è sempre una madre il cui desiderio è avvertito in modo molto forte e a cui non si riesce a dare risposta. Qualunque cosa si faccia per esaudire questo desiderio, per farlo cessare, questo desiderio è sempre maggiore.

La madre, in questo caso, è un animale fantastico, una sorte di arconte, come dicevano gli gnostici, cioè una potenza.

Occorre giungere al mito della madre, cioè avvertire come la madre, in quanto mito, sia la recisione, questa impossibile comunione con la madre, questa impossibilità di fare un tutt’uno con qualcosa.

Il discorso ossessivo tenta, a modo suo, di fare tutt’uno con il Padrone, facendosi schiavo. Fattosi schiavo, a questo punto, vede schiavi dappertutto, vede, in altri termini, il rivale.

Riprendendo un enunciato antico, parafrasandolo “Non avrai altro schiavo all’infuori di me!”.

In questa operazione il discorso ossessivo si pone come dio. Perché? Perché ha il controllo addirittura sul Padrone: in quanto schiavo esercita un controllo sul Padrone, se non altro perché deve rimanere tale, deve rimanere Padrone. Nessuno è più attento a scoprire tutti i dettagli, tutte le sfumature, le varie intonazioni di voce, le varie sfumature dello sguardo, come lo schiavo nei confronti del Padrone.

Occorre giungere alla madre come mito anziché come luogo, luogo del desiderio o del godimento a seconda dei discorsi.

Tolto l’Altro, la madre è la morte. Tolto l’Altro come l’altra scena, la scena come altra da sé. Tolta questa scena la madre non è più un mito, ma è situata in una scena identica, immobile, mortale. Mortale perché la madre diventa il luogo di origine, ciò che dando la vita stabilisce al tempo stesso la morte. Se la madre è pensata come luogo, allora, questa madre è il luogo di origine, cioè l’origine diventa localizzata, attribuita a qualcosa. In questo caso, non è più la parola originaria ma il luogo di origine da cui sono venuto. Questo ha delle implicazioni, perché qui la madre diventa la prima parola, tant’è che si parla di lingua materna come la prima parola.

La madre uccide, è la morte, perché tolta la scena, l’originarietà, consente di significare le cose, o quanto meno il riporto a quella prima parola.

La madre è l’indice del malinteso, dell’itinerario. Mater sicura, non certa. Nessuna certezza, per questo dicevo che non è un luogo di origine. Indice del malinteso: laddove la madre, come animale fantastico, vorrebbe indicare la certezza, proprio lì il malinteso, cioè un intendere che non ha supporti, non ha punti fermi, ma si staglia dalla funzione vuota.

Nel discorso isterico la madre ha tutt’altra portata. Anche qui è un animale fantastico, però non è più soggetto desiderante.

Nel discorso ossessivo il problema è il desiderio: qualunque cosa io raggiunga c’è sempre qualche cosa che mi lascia desiderare, che mi rinvia il desiderio e, quindi, il godimento non è mai tutto.

Nel discorso isterico il problema è il godimento, cioè l’impossibilità di accogliere il godimento, di godere di qualcosa, per cui è costretto a desiderare incessantemente, guai se si ferma. Nel discorso isterico il padre è sempre marginale, un poveretto, che va protetto e difeso, mentre il vero uomo è la donna, cioè la madre. È con la madre che combatte, non con il padre.

Nel discorso isterico ciascuna dichiarazione è una dichiarazione di guerra, nel senso che qualunque cosa avvenga è sempre occasione perché il desiderio si rilanci, perché quindi le cose non vadano mai bene. Cosa non tollera l’isteria? Che le cose vadano bene e che, quindi, non ci sia altro da desiderare, le cose siano tutte lì: è il panico immediato.

Nel discorso ossessivo il desiderio è una sorta di maledizione perché ciascuna volta suppone di aver raggiunto la scena del godimento, che nove volte su dieci è quella della sofferenza, ma qualcosa interviene a spostare, come dire “Non è quella, non sono riuscito a chiuderla, a delimitarla, interviene sempre il desiderio.” Allora, deve impegnarsi moltissimo per economizzare il desiderio attribuendolo all’Altro, facendo carico all’Altro del suo desiderio, e quindi l’Altro deve autorizzare il discorso ossessivo a desiderare, quindi a fare. Senza l’autorizzazione dell’Altro non può fare nulla, perché ciò comporterebbe porsi di fronte al proprio desiderio, come dire che, a quel punto, il godimento è proprio inafferrabile, proprio altro.

Nel discorso isterico ciò che risulta inassumibile è proprio il godimento. Di questo ne fa una caricatura, come se lo scrivesse continuamente sul corpo. Non lo può assumere, ma questo godimento passando lascia dei segni sul corpo in vari modi.

L’itinerario analitico ha questa portata, di intendere qual è il mito per ciascuno. Ciascun elemento che interviene incontra una dignità. Nell’elaborazione analitica ciascun elemento linguistico incontra una sua dignità.

L’elaborazione teorica è l’incontrare ciascuna volta la dignità di ciò che si dice. Vale a dire, che trova l’apertura. Trova l’apertura quando giunge al semplice, dove qualcosa si intende, si compie. Solo a questo punto ci si accorge che qualcosa si è inteso, qualcosa si è compiuto dell’apertura. Se non si intende non c’è nessuna apertura, perché si gira in tondo. Quando si intende, quando qualcosa si compie, quando c’è la conclusione, a questo punto c’è l’apertura, cioè questo elemento giunge al termine e quindi si apre al transfinito. Altrimenti, resta chiuso in sé, gira intorno a se stesso, gira a vuoto.

Questo significante ‘madre’, che nel racconto può intervenire come animale fantastico, come potenza, occorre che giunga al mito, cioè all’originario, quindi come ciascuna volta questa recisione, questa impossibile unione, questa impossibile significazione delle cose, è in ciascun atto di parola per cui non posso non confrontarmi.

La psicanalisi è questo: offrire una dignità a ciò che si dice. Offrirla attraverso un’elaborazione teorica, non c’è altra via.

Cos’è la teoria? È ciò che si organizza alterandosi. Le cose si organizzano in un certo modo e organizzandosi si alterano. Se io rifletto intorno a un significante o a un elemento linguistico che ho incontrato parlando, in questa riflessione qualcosa si organizza. Ma si organizza alterandosi, cioè incontro l’impossibilità di sistemare. Teoria non come sistemazione o sistematizzazione delle cose, ma come un’alterità di questa organizzazione.

Ciascuno nasce nel mito, nasce da questa parola che si trova a dire senza sapere di dire. Si trova parlato. Nasce in questa parola originaria, che ha origine lì in quel momento, non c’era prima.

Nasce in questo mito e rinasce nel linguaggio, quando si accorge che è preso nel linguaggio.

La madre come mito comporta che questo significante madre incontra lungo un’elaborazione qualcosa di assolutamente originario, per cui, se è originario ciascuna volta, non può essere la mamma che si può immaginare sempre identica a sé. La madre non è qualcuno che si possa isolare, delimitare, perché essendo originaria ciascuna volta si produce in atto ciascuna volta, non c’era prima.

Questa madre, come mito è un indice, indica un malinteso per cui ciò che si intende non è mai comune, non è mai partecipabile, è preso in una divisione, in un’apertura. Questo intendere non è mai un comprendere. L’intendere comporta un’apertura, che procede dalla funzione vuota; il comprendere è un prendere insieme.

La madre come mito indica che non c’è la possibilità di comprendersi, non c’è trasmissione da inconscio a inconscio, come vorrebbe il discorso schizofrenico, ma c’è malinteso, c’è una recisione. La recisione recide la comprensione, l’intendere comune.

In assenza di Altro è la morte, cioè rappresenta la morte, l’ultima parola.

 

Versagung: disdicenza.

Freud diceva che occorre mantenere questa disdicenza in ciascuna seduta. Quando c’è disdicenza? Quando c’è il confronto con l’impossibile che è nella parola, quando le cose restano aperte. Allora, c’è questo disagio.

 

Rispondere: rilanciare mostrando un’altra sponda, un altro versante, indicando l’altro bordo. Sono sempre due i bordi su cui si svolge l’arte. L’arte è l’aspetto variazionale della parola. È un’arte non raffigurabile. Indica ciò che varia nella parola.

 

Transfert: percorso che muove dall’identificazione del punto sino alla cifra.

L’innamoramento è ciò che mantiene l’amore, testimonia dell’impossibilità di raggiungere l’oggetto, di fermare l’oggetto. L’amore è questa impossibilità, l’innamoramento la mostra. Sono entrambi strutturali. L’amore induce l’oggetto, è provocato dall’oggetto. Dice della metafora. L’amore va verso la condensazione.

 

Parola come atto, come qualcosa di intero che avviene, che si incontra.

Occorre distinguere la parola dalla verbalizzazione. Per alcuni aspetti è il logos nell’accezione di Eraclito, un intero, è l’atto, l’atto costitutivo degli umani. C’è non soltanto ciò che si dice, ma c’è anche il pensiero, c’è l’immagine e quindi c’è il movimento.

Possiamo immaginare la parola, come diceva Mathieu, come una frase musicale, come qualcosa di compiuto in sé, dove ciascun elemento ha il suo valore, la sua portata, dall’essere inserito in questa frase musicale. Dove ci sono effetti di senso, di verità, di sapere.

La parola come atto costitutivo, come il trovarsi presi in tutto ciò che accade ogni che si dice qualcosa, che si pensa o si immagina qualcosa. In definitiva, si produce una scena, qualunque sia l’immagine che si ha o il ricordo o un suono, produce una scena, che è parte di questo atto si parola.

Ciascuno parla e parla anche quando pensa. Saussure annota che il pensiero, fino a quando non lo dico, resta una nebulosa informe di cui non so. Ne so qualcosa quando ne dico. Ciascuno si trova continuamente preso nell’atto di parola, non soltanto, ma anche nelle parole, cioè in questi strumenti di cui dispone per dire delle cose. Curiosamente, non si parla per dire delle cose; il più delle volte si parla senza sapere perché, ma si è presi nelle parole. Queste parole che si dicono hanno degli effetti straordinari. Già gli antichi si accorsero di questo. La retorica poi ha cercato di sfruttare questa cosa producendo attraverso le parole delle immagini.

 

Tre aspetti della parola:

1) il linguaggio, in cui ciascuno è preso, la struttura significante;

2) la sembianza, questa semovenza, questa cinematicità delle immagini;

3) la materia, come materia del dire, come ciò che risulta assolutamente non semiotizzabile, come ciò che resiste alla significazione.

 

 

EQUIPE CASO CLINICO 15-O1-93

 

 

La questione non presuppone la risposta. Non presuppone nulla, propriamente.

La questione invita a un’articolazione, a un’elaborazione che non è la risposta ma un altro modo di formulare la questione, in modo più preciso.

 

La crisi comporta una decisione, per cui il confrontarsi con la decisione può essere vissuto in modo drammatico. In termini giornalistici, solitamente si parla di crisi in termini negativi indicando qualcosa di drammatico, un’emergenza come si usa dire oggi. Adesso tutto è un’emergenza.

La crisi, come decisione, diventa drammatica laddove la decisione non si coglie. Questa decisione, che interviene comunque, viene sconfessata.

La decisione è nella parola: non c’è il soggetto della decisione, non c’è un Io che decide. La decisione procede dal tempo, dal taglio che il tempo instaura nella parola. De-cidere comporta un taglio, così come uccidere, recidere.

Cosa comporta non confrontarsi con la decisione? Il trovarsi a dover scegliere. Tolta la decisione c’è la scelta, cioè la posizione fantasmatica è quella dove due cose valgono la stessa cosa, una cosa vale l’altra. In questo caso occorre scegliere.

La scelta in quanto tale è impossibile. Comporta la rinuncia di una delle due cose tra cui si sceglie. Ma la cosa a cui si rinuncia non scompare per questo, anzi, come è noto, dopo la rinuncia acquista maggior valore. Per questo nel discorso isterico c’è un continuo pentimento rispetto a ciò che si è fatto. Nel discorso isterico non c’è scelta ma la rinuncia viene avvertita come senso di colpa in quanto la decisione è stata presa o avventatamente o in modo errato, che è un altro modo per aggirare la decisione, cioè dicendo: “Ho sbagliato”, “Ogni volta che faccio una cosa la sbaglio”.

Qual è il punto di crisi? È il punto vuoto, cioè il punto di astrazione, il punto che è indotto dalla funzione vuota da cui si staglia il tempo. Il punto che la crisi incontra è il punto vuoto.

Risolvere la crisi è come pensare di risolvere la decisione, cioè dare un significato alla decisione o dare un motivo alla decisione. La decisione non ha motivi propriamente, semmai li incontra. Tant’è che la decisione interviene sempre in modo imprevisto e ingiustificato. Anche se ciascuno può dare delle giustificazioni, ciò che muove a decidere in un certo modo resta inconscio.

Incontrare la crisi è ciascuna volta interessante. Indica che qualcosa incontra un taglio, nonché una divisione. Non c’è decisione senza divisione. È la decisione che sorge dalla divisione. Questo taglio procede dalla divisione, dal due della pulsione: de-cidere, tagliare da qualche cosa. Qualcosa si taglia, per così dire, da ciò che si dice, questa è la decisione, qualcosa si taglia in ciò che si dice. In questo senso non può prendersi una decisione. Ci si può accorgere della decisione per cui faccio una cosa anziché altro, mi trovo a fare questo e con questo devo confrontarmi.

C’è una solitudine assoluta rispetto alla decisione, non c’è nessuno che possa venire in soccorso. La solitudine comporta che le cose che si dicono, che si fanno non sono giustificabili né sostenibili, non sono partecipabili, in quanto non possono significarsi in modo che altri possano appunto partecipare. Non c’è chi possa farsi garante o sostenere la parola o il fare.

La compagnia, la partecipazione è la psicotizzazione, la religione.

Non c’è ascolto senza solitudine.

La crisi non è mai con qualcuno, non è mai condivisibile. Se così fosse, in quel caso c’è una decisione che non viene accolta, decisione inconscia.

“Sono in crisi perché non riesco a decidermi”: c’è qualcosa che non vuole ammettersi perché c’è già una decisione che interviene e che in qualche modo si sconfessa.

La scelta sorge come rimedio alla decisione. La decisione c’è già stata, però non è stata accolta per qualche motivo e, allora, resta l’impossibilità di muoversi. La decisione indica già la direzione che si sta prendendo. ritrarsi da questa decisione comporta l’assenza di specificità di qualche cosa. Quindi, tutto diventa uguale, è tutto lo stesso, vale a dire le due cose valgono la stessa cosa, per cui non c’è modo di risolversi. Non c’è scelta quando il valore è differente, c’è decisione. Quindi, la decisione tiene conto anche della differenza. Anche se propriamente è la decisione che instaura la differenza. Si avverte una differenza quando c’è decisione. È la decisione che dice qual è la specificità e quindi la differenza.

 

Il pericolo è l’Altro, l’altra scena, l’altro tempo, vale a dire, l’impossibilità di isolare la scena, di renderla scenografica, partecipabile, osservabile e, quindi, domestica. Scena come sfondo.

Il pericolo è sempre connesso all’impossibilità di togliere la scena, di isolare qualche cosa dalla scena.

La catastrofe (nucleare, naturale, ecc.) è sempre riferita all’impossibilità di controllare l’Altro, di controllare la macchina. La situazione non è gestibile, non è controllabile, quindi, è pericolosa. La fantasmatica ruota intorno all’impossibilità di isolare qualche cosa dalla scena, qualunque cosa accada è preso in una scena e quindi non è gestibile. Dunque, è pericolosa. Allora, occorre isolare l’Altro facendo di questa scena una scena familiare. Lo stesso percorso che indica Freud nel saggio Lo straniante. Qualcosa è familiare laddove è fondata, c’è il fondo, si sa dove finisce, cioè, si conoscono i contorni della cosa. Invece, Freud ci indica come nella scena ciò che si avverte è l’assenza di fondo e dunque non è tutta lì, non è delimitabile, si avverte come non circoscrivibile. Ecco il pericolo.

Impossibili circoscrivere qualcosa, però può immaginarsi che abbia un fondo e, quindi, un significato. Fondo come fondamento. A quel punto la cosa più terribile diventa una fesseria.

C’è un altro modo che non sia quello di essere circondati dai pericoli che è quello di accogliere la scena, cioè di ascoltare la scena e di trovarsi ciascuna volta interrogati da questa scena.

 

La denuncia del male è un aspetto del puritanesimo. L’ideale è la purezza.

Cosa rende le cose impure? La sessualità, come divisione.

La corruzione è una fantasia di degenerazione. Aristotele ne parla a proposito del corpo. Dice che tutto ciò che nasce è soggetto a corruzione. Questo pensiero comporta un corollario: se qualcosa si corrompe è perché è corruttibile, quindi, non è perfetta. Parte da un ideale di perfezione, da qualcosa che non è corruttibile. È da questo presupposto che può fondarsi l’ideologia della corruzione.

Le “mani pulite” sono una fantasia. Sarebbero le mani non toccate dallo sporco, dalla corruzione. La persona incorruttibile sarebbe la persona non generata. È Dio, colui che genera ma non è generato. Quindi, la persona che ha le mani pulite è la persona che è cara a Dio, che piace a Dio. Persona solare, illuminata. L’illuminismo ha origine dai paesi nordici. È un pensare religioso che immagina che la chiarità, la solarità, piaccia a Dio, sia il modo per avvicinarsi a Dio.

Tutto deve essere chiaro perché il suddito sia sempre controllabile.

Sempre più c’è un controllo delle istituzioni nei confronti del cittadino perché tutto deve essere chiaro.

Questa ideologia si avvale del pensiero religioso.

La corruzione è un modo di pensare la differenza.

 

Il fratricidio avviene quando si suppone che tutti i fratelli siano uguali, senza differenza. La differenza è fra i fratelli e il capo. Guai a chi pensa di potersi mettere al posto del padre. Soltanto chi commette il parricidio può mettersi al posto del padre.

Chiunque si distingue per qualche motivo va immediatamente livellato.

 

Più c’è purismo e più c’è il male.

 

La sofferenza è una rappresentazione del godimento. Quando il godimento è significato si rappresenta nella sofferenza. Viene rappresentato mettendo in scena la rimozione per cui ecco che “soffro perché mi manca qualcosa”.

L’ansia è un’attesa, l’ansia attende il pericolo. Nell’ansia non è che manchi qualcosa propriamente. L’ansia riguarda un’attesa di qualcosa che è ritenuto insopportabile, eccessivo. In quanto attesa immagina che il desiderio stia per realizzarsi. “Sono stato in ansia per te tutta la sera e guarda a che ora arrivi”, come dire “...e se si realizzava il desiderio.... e tu andavi sotto una macchina? Mi sarebbe venuto un senso di colpa straordinario”. Ci sono persone che immaginano che possa capitare qualche disgrazia a qualcuno dei loro cari. Quando questo magari avviene per qualche motivo ecco che il desiderio si è realizzato e giustamente si ritiene responsabile. Non è vero, per così dire, ma rispetto a questa logica è assolutamente coerente. Il fantasma è sempre coerente. Per cui è responsabile e si punisce con sensi di colpa terribili.

Se si realizza il fantasma è il terrore, come dire “i miei pensieri si realizzano”. A questo punto è la catastrofe, diventa reale tutto ciò che immagino. Ciò che immagino non è controllabile e pertanto, in quel caso, ciò che incombe è tremendo. È l’orrore.

Se si realizza il desiderio in questo caso è come se dal reale venisse una risposta al desiderio. Ovviamente, diventa realistico, realizzato, fatto e finito. Ciò che fantasmaticamente si realizza è un desiderio supposto, immaginato esauribile, quindi realizzabile. È chiaro che non è quello il desiderio in quanto tale. Il desiderio immaginato realizzato comporta che il desiderio è terminato, concluso e, quindi, la scena del godimento è tutta. La scena del godimento è la morte: in alcuni casi si rappresenta con la malinconia, con una rappresentazione della morte, cioè con l’assenza di desideri, di interessi, ecc.

 

L’altruismo è un modo di preoccuparsi dell’Altro. L’altruismo sa qual è il bene dell’Altro e, quindi, fa in modo che l’Altro si accorga di qual è il suo bene. L’altruismo si adopera per togliere all’Altro il disagio. Altro in una doppia accezione, quindi, sia come l’altra scena sia come gli altri. In prima istanza, l’idea è quella di soddisfare la domanda dell’Altro, vale a dire, togliere la domanda che insiste nella scena. Togliere la domanda cercando di togliere i bisogni distribuendo il bene.

 

 

 

EQUIPE CASO CLINICO 22-O1-93

 

Agire per impulso.

L’impulso non è la pulsione.

C’è un modo in effetti per aggirare la pulsione, la domanda pulsionale.

È il discorso isterico che avverte la domanda pulsionale come impulso, vale a dire, come economia della pulsione.

L’impulso si pone come l’immotivato. In effetti, è disgiunto, non connesso. Non c’è connessione e, pertanto, non c’è il fantasma in questa supposizione di agire per impulso. Non c’è il fantasma, vale a dire che è come se non potesse venirsi a sapere nulla di questo impulso. Agisce sconnesso da una logica: infatti, si usa dire che agisce sconnesso anziché secondo una logica.

Differentemente dal discorso ossessivo, che isola ciascun elemento e lo rende come non avvenuto, l’impulso non è isolato, è come l’assioma, ma è sconnesso da un fantasma e da una scena.

Nel discorso isterico il tempo è quello del futuro anteriore: sarò stato. Un modo di pensare il futuro. Come dire che c’è questo assioma, questo principio, questo impulso che ha la funzione di stabilire il futuro. Un futuro anteriore dove l’essenziale è che qualcosa possa avvenire nel futuro. Il modo di pensare la relazione nel discorso isterico è questo: una relazione che esiste in quanto sarà esistita, vale a dire che pone il futuro, cioè la speranza, in un fuori-lingua, in un fuori-parola. Cioè, non c’è futuro, non c’è speranza nel discorso isterico. Infatti, una delle figure del discorso isterico è la disperazione.

Il futuro è immaginato come qualcosa di extra-linguistico, di realizzato in questo tempo che è il futuro anteriore. Il muoversi dell’impulso è ciò che consente a un futuro di porsi. Il futuro anteriore è un futuro proiettato, che dice come il futuro possa immaginarsi come già avvenuto. È un modo di pensare il futuro come localizzato, anziché porlo come un’istanza della parola, come la speranza e, quindi, come qualcosa che attiene alla relazione. Posto fuori della parola, il futuro è rappresentato nel futuro anteriore. Senza il futuro nella parola, quindi, senza la speranza, il futuro anteriore dice che non c’è speranza, dice che sarò stato così.

L’agire per impulso vorrebbe stabilire questo futuro anteriore. L’isteria sa sempre, per definizione, ciò che succederà. Sa già perché il futuro è anteriore, è già dato. Quindi, è fuori- parola, non c’è possibilità che possa darsi differentemente da come è stato stabilito. Questo per via dell’impulso. Agire per impulso significa agire, paradossalmente, aprés coup, anche se in anticipo, rispetto al futuro anteriore. Procede, quindi, non anticipa il sarò stato. Sarò stato così, quindi, agisco in questo modo. È come se il futuro fosse già accaduto, quindi, non posso fare niente. È una condanna tremenda, non c’è possibilità che possa essere altrimenti. Da qui la figura della disperazione, non c’è più speranza.

Come intervenire in questa fantasmatica? Ponendo l’accento sulla speranza, cioè, sul futuro. Il futuro comporta l’apertura, la relazione. Non a caso, nel discorso isterico la relazione è posta come già data. Nella fantasmatica isterica, spesso, non è che ci si curi di sapere se questa relazione esiste. È già acquisita perché è il modo di rappresentarsi, in questo caso, il futuro. Niente futuro senza relazione è l’enunciato isterico. Senza relazione che, però, in questo caso è posta nel reale, in un’economia della relazione, perché è posta fuori della parola, in un fuori-parola dove le cose sono gestibili, sono osservabili, sono verificabili.

Come intervenire dunque? Dicevo prima, ponendo l’accento sulla speranza, cioè sulla relazione in atto, relazione per cui l’agire per impulso non comporti una chiusura, cioè una non articolabilità. L’agire per impulso sembra escludere, per definizione, una possibilità di articolazione, di elaborazione. Invece, occorre sottolineare la relazione in atto tra questo agire e il fantasma che opera.

L’entusiasmo non procede dall’agire per impulso. Lacan chiamava ciò che lei avverte “moto giubilatorio” che si può riscontrare laddove qualche cosa trova un risparmio come, ad esempio, nel motto di spirito. Sarebbe, paradossalmente, una sorta di percorso più breve, più breve per avvertire la domanda pulsionale senza accoglierla. Tragitto più breve, vale a dire, è il modo, questo dell’agire per impulso, per tradurre immediatamente un fantasma, per supporre di realizzare un fantasma senza confrontarsi con un operatore. Agire per impulso è la supposizione che il fantasma possa agire anziché operare. Freud parla di “onnipotenza del fantasma”. Se il fantasma agisce è chiaro che l’onnipotenza è realizzata, quindi, faccio questa cosa che mi dà momentaneamente la sensazione, l’illusione di aver accolto la domanda pulsionale. C’è però qualcosa che mi mette sull’avviso. Se la “realizzazione” di questo fantasma, per qualche motivo, viene impedita o arrestata c’è un problema perché, a questo punto, il fantasma che opera, non potendo agire, diventa qualcosa che a che fare con l’orrore. Quindi, chiunque si azzardi a impedire di realizzare questo fantasma è un malcapitato. Non tanto perché impedisce qualcosa di particolarmente interessante o bello, ecc., ma perché questo rinvio, questa impossibile realizzazione, comporta l’imbattersi in ciò che l’agire per impulso deve evitare, cioè, il confronto con il fantasma. Quindi, occorre ciascuna volta reinserire la relazione, una relazione non sociale, non personale, ma una relazione nella parola che consente di intendere come opera il fantasma.

Il discorso isterico cerca sempre qualcuno che gli impedisca di fare. Non fare quello che ti chiedo e, in alcuni casi, non lasciarmi fare quello che voglio, fermami, perché sotto questo impulso poteri fare qualunque cosa. In alcuni casi, la scelta del partner nel discorso isterico tiene conto anche di questo, cerca qualcuno che faccia da argine, cioè impedisca di combinare malanni. Cerca qualcuno che sia in condizioni di fermare questo agire per impulso, come dire che si rimanda ad altri il simbolico. Come dire Io non mi attengo al simbolico, occupatene tu. È problematico. In effetti, agire per impulso sarebbe come eludere il simbolico come se per impulso qualunque cosa può farsi. Il simbolico, invece, ci dice che non tutto può farsi, che non tutto può dirsi, che c’è un impossibile, non perché qualcuno lo impedisce, ma perché non può farsi tutto, l’idea non può rappresentarsi, quello che dico non riesce a dirsi, non posso mettere in scena. Cioè, ciascuna cosa incontra uno spostamento per cui incontro altro ciascuna volta. Attenersi al simbolico comporta questo, che ciascuna volta le cose che dico non vanno da sé ma vanno insieme a una scena. Non posso dire tutta la parola, non posso significarla tutta, non posso dire la verità. Ciò che dico non ha nessun referente, non ha un garante per cui io possa dire come stanno le cose. Le cose vanno da sole ma non da sé, nel senso che non sono ovvie, non sono autoevidenti. Vanno da sole perché non necessitano di un supporto, di una garanzia ma c’è una scena che fa da sfondo, che toglie ogni possibilità di giustificazione. La giustificazione suppone che la parola, per sostenersi, abbia bisogno di un referente che dia una garanzia.

L’agire per impulso non va comunque senza la scena. Però, questa scena viene elusa. Chi blocca l’impulso mette di fronte la scena. L’impulso muove dalla scena ma ne tenta un’economia. Qualunque cosa arresti l’impulso toglie la possibilità di eludere la scena.

Qualunque parola viene dalla scena ma ciò non comporta automaticamente che con questa scena ci sia un confronto. Ci sono casi in cui, pur muovendo da una scena, è come se di questa non se ne volesse sapere nulla. Ed è il caso, appunto, dell’agire per impulso. Allora, l’impulso deve realizzarsi subito. Perché mai tanta fretta? Qual è il pericolo, la paura? Il discorso isterico è molto rapido, non sopporta come il discorso ossessivo la lentezza, il rinvio continuo, questo prendere tempo. Non ha più tempo da prendere perché vive nel futuro anteriore, quindi è già stato, non ha più nulla da aspettare. Tanta fretta, tanta paura, perché ciò che può intervenire come impedimento mette di fronte a ciò che la fretta tenta di evitare. Non che se qualcuno impedisce di agire ci sia un confronto con il fantasma, proprio per nulla. Si avverte semplicemente qualcosa di insopportabile, non c’è nessun confronto, occorre ben altro.

Però, l’idea è questa: che ci sia qualcosa per cui non è possibile non agire. Ecco, da qui la richiesta di qualcuno che fermi. Se poi ci prova è una catastrofe. Tuttavia, la richiesta è quella, che qualcuno si occupi del simbolico. La sorte, poi, di questo qualcuno è la stessa, cioè, viene eluso immediatamente.

L’intervento comporta un sottolineare, in questo caso, la relazione nell’atto, cioè, la relazione fra questo agire per impulso e il fantasma, l’apertura che questo impulso comporta.

Da dove vengono le cose? Dalla scena. Questa scena trae lo sfondo rispetto a cui si agisce, ciò da cui ciò che si fa o si dice prende effetti di senso, di sapere, di verità. Tolta questa scena si agisce per impulso o per raziocinio a seconda dei discorsi. Il discorso ossessivo agisce supponendo di ponderare le cose, il discorso isterico per impulso. Sono due varianti, il discorso ossessivo è un dialetto dell’isteria.

L’agire per impulso unidirezionale, è già significato.

 

L’amore e la morte sono due temi antichi.

Morire d’amore: l’amore senza parricidio diventa un amore mortale.

Freud pone l’amore come condensazione dove più elementi si accostano lungo un’adiacenza.

È con i Padri della Chiesa, soprattutto con Agostino, l’amore diventa transitivo per cui l’amore non è un’adiacenza ma comporta un riferimento, un riporto da una cosa a un’altra. A questo punto sorge qualche problema. Ciò perché questo oggetto d’amore comporta, per un verso, che questa condensazione riesca, possa essere definitiva, dall’altro può costituire un intoppo, in alcuni casi, drammatico, laddove si ravvisa che il partner non è affatto l’oggetto. L’amore qui è necrofilo, vale a dire, si occupa di immobilizzare l’oggetto. Una fantasia può essere: la fanciulla che si accompagna agli uomini perché muove dalla supposizione di essere più debole; poi, il motivo che la muove, la fantasmatica, è quella di riuscire ad avere tramite loro la forza che le consentirà man a mano di ucciderli e, quindi, di abbandonarli. Teme moltissimo la solitudine perché senza qualcuno da cui trarre la forza non potrebbe fare assolutamente niente.

In questa fantasmatica l’idea che domina è quella che Freud accosterebbe alla fantasia di castrazione, come dire che, secondo il luogo comune, l’uomo avrebbe qualche cosa in più. Questo qualche cosa in più è la differenza tra i sessi, quella che Saddam Hussein chiamerebbe la Madre di tutte le battaglie. Nel senso che da qui muove il razzismo, cioè, dalla differenza tra i sessi anziché la differenza sessuale. Quindi, questa differenza va eliminata eliminando chi si suppone l’emblema di questa differenza. È chiaro che non serve a nulla perché occorrerebbe ripetere l’operazione all’infinito.

Nel discorso isterico c’è l’idea di dover togliere la differenza, tutto ciò che toglie sicurezza rispetto al sarò stato. Toglie qualunque cosa che possa costringere al confronto con qualcosa. Può anche essere la differenza tra i sessi ma, generalmente, è una fantasmatica del discorso ossessivo.

Il discorso isterico è già morto, è uno zombi che lei fa rivivere, un burattino.

 

Il “vero uomo” è la donna tutta, la donna riuscita.

Una donna, per credersi uomo, deve avere le idee molto chiare sulla donna.

Accade talvolta che la donna si trovi a fare la caricatura dell’uomo e l’uomo a fare quella della donna.

Perché, ad esempio, un transessuale si comporta sempre in modo differente da come si comporta una donna pur cercando di fare di tutto per essere una donna? Perché difficilmente una donna, a differenza dei transessuali, si accontenta di essere una donna. Lei non si crede, in definitiva. Soltanto un uomo riesce a credersi effettivamente donna, cioè a accontentarsi di questo statuto. La donna difficilmente sa che cos’è una donna, cosa voglia, cosa sia e, quindi, non ha uno statuto propriamente.

Allora, che cosa succede a una donna che si crede uomo?

Immagina che lo statuto della donna non sia più sufficiente e, quindi, occorre aggiungerne un altro. L’uomo, che in questo caso la donna rappresenta, sarebbe una donna super. La donna non è sufficiente, occorre andare oltre, essere anche quest’altra cosa. E, quindi, non può essere altro che una super-donna, in una parata evidentemente. C’è sempre un credersi.

 

 

EQUIPE CASO CLINICO 29-01-93

 

La teoria, nella sua accezione più corrente, è la sequenza di proposizioni tra loro articolate in un modo specifico.

Qui, noi ricorriamo a questo termine in un’altra accezione.

La teoria dice, in prima istanza, della contemplazione, cioè dell’isolabilità di un elemento linguistico. Però, non si tratta di fare una teologia negativa, occorre fare delle proposizioni circa la teoria.

C’è un’organizzazione nella teoria, qualcosa si organizza dicendosi. Non che io organizzi ma qualcosa si organizza in ciò che vado dicendo. E, organizzandosi, si altera. Ciò che si organizza alterandosi è ciò che indico come teoria. Ciò che dico man a mano si organizza e, organizzandosi, si altera. Questo alterarsi di ciò che si organizza comporta l’impossibilità di fermare, di isolare qualcosa.

Il teorico, più che qualcuno, è un discorso. Il discorso teorico è il discorso che accoglie l’alterità dell’organizzazione di ciò che si dice.

Come accogliere questa alterità? Non è semplicissimo perché occorre avvertire questa alterità in ciò che si organizza. Ciò che si organizza si organizza per via di una logica man a mano che si delinea. Per avvertire ciò che si organizza occorre avvertire questa logica. Avvertire l’alterità in ciò che si dice è una questione tutt’altro che semplice in quanto questa alterità non ha nulla a che fare con la diversità ma con l’alterità rispetto a sé, rispetto all’alterarsi di ciascun elemento mentre si elabora, mentre si dice, mentre si articola. Lì qualcosa si altera.

Cosa si intende con “alterarsi”?

Partecipa della scena, la scena in quanto altra da sé. È la scena che è altra. La scena non è il tesoro dei significanti, come voleva Lacan, né il luogo propriamente. Lacan ha comunque avvertito che comporta un “da dove vengono le cose” e un “dove vanno”, la scena delle immagini e la scena dei fantasmi, una scena non isolabile, una scena che fa da sfondo, che dice che non c’è il fondo e che, pertanto, non c’è l’ultima parola.

Il discorso teorico procede lungo questo alterarsi di ciò che si organizza dicendosi.

Dicevo tempo fa che perché ci sia equivoco occorre che non ci sia ambiguità. Se c’è ambiguità non c’è equivoco perché l’equivoco è rappresentato, è messo in scena, è localizzato nell’ambiguo. L’ambiguità, direbbe Wittgenstein, è vero-funzionale. L’ambiguità crede alla logica ver-funzionale, al vero-falso, deve sempre sconfiggere il falso a vantaggio del vero. È una logica metafisica che suppone che esista il vero, quindi la verità, da contrapporre al falso. È per questo che ha necessità di trovare il falso per credere nel vero.

L’equivoco riguarda, invece, un’altra questione. Riguarda la simultaneità tra ciò che dico e un’eco, o un’ineliminabilità tra un’eco e ciò che dico.

Dicevo, quindi, che occorre che non ci sia ambiguità perché ci possa essere equivoco, perché io possa ascoltare ciò che dico, perché possa ascoltare un’eco. Perché altrimenti l’eco è cancellato da questa ricerca del vero.

Il discorso teorico è il discorso che muove dall’equivoco, cioè ciascun elemento che interviene non va senza un’eco, non va senza un ritorno. Non c’è alterazione senza un equivoco.

La rimozione costituisce ciascuna volta l’incominciamento, lo zero, il parricidio. Il parricidio, ciò che funziona nella parola e che comporta questa uccisione, questo taglio che instaura la legge. La legge dice che non è possibile essere, cioè l’essere non è ontologico, che non riesce il credersi di essere qualche cosa. “Come il padre devi essere, come il padre non ti è dato essere”. L’incominciamento come la rimozione, lo zero da cui le cose incominciano. Nella mitologia occidentale è Gerusalemme, lì dove le cose sono incominciate.

Ciascuna mitologia, ciascuna fantasmatica, ciascuna superstizione va seguita per poter elaborarsi. Se si tolgono di mezzo le superstizioni, le varie mitologie, non si elabora nulla. È dalle superstizioni, dalle mitologie che Freud ha potuto inventare la psicanalisi.

Il discorso teorico prende avvio dall’equivoco e si attiene all’equivoco ciascuna volta. L’equivoco dice di una simultaneità rispetto a ciò che dico e a un’eco che mi rimanda ciò che dico. Soprattutto, dice che ciò che dico procede da questa eco, paradossalmente. Dice che “non tutto può dirsi”. Ciò che si dice è ciascuna volta assolutamente specifico, irripetibile e particolare.

Il discorso teorico procede dall’equivoco e avvia un itinerario dove ciò a cui attiene è lo staordinario rigore, la straordinaria coerenza del fantasma. L’unico discorso coerente è il discorso del fantasma. È coerente in quanto il fantasma non si contraddice mai. Per questo motivo Freud parla di “onnipotenza del fantasma”, in quanto può connettere qualunque cosa, in qualunque modo, secondo una logica particolare ma non trova ostacoli; da qui la sua onnipotenza.

Il discorso teorico si avvale di questa coerenza, di queste connessioni che si instaurano fra i significanti, fra i termini, fra le questioni. L’ aspetto più specifico del discorso teorico è che ciascun elemento non trova mai nulla di che accontentarsi, cioè non trova mai l’ultima parola. Ciascun elemento che interviene lungo questa connessione fantasmatica è interrogato. Non c’è elemento che non venga interrogato, che non interroghi, che non sia degno di essere messo in gioco, in discussione. Non c’è mai il significante padrone, come voleva Lacan. Nei quattro discorsi di cui parla Lacan il significante padrone è messo come produzione, sotto la barra propriamente. Ma resta problematico. Per quanto sotto la barra, cioè inconscio, il significante padrone sarebbe il significante privilegiato. Non c’è propriamente nessun significante privilegiato. Questo dice il discorso teorico. Anzi, la supposizione stessa che possa darsi un significante privilegiato viene messa in gioco, partecipa di un’elaborazione, cioè di una scena in cui si situa questa supposizione, questa idea.

Cosa intendo per rigore rispetto al discorso teorico?

Esporre ciascun significante all’alterità che lo produce.

Facciamo un esempio. Io seguo un tizio che dice cose interessanti. Allora, accolgo le cose che dice in vario modo, ammesso che le accolga. Uno di questi modi è prendere dai vari enunciati, dalle varie proposizioni, come se si trattasse di proposizioni identiche a sé, quindi non suscettibili di alterazione. Come dire che queste proposizioni sono fuori della scena. Cosa comporta questo? Che non saranno mai interrogate, perché se un elemento è fuori della scena non ho neanche il modo di interrogarle dal momento che non mi rilascia nulla. La scena è ciò che rilascia continuamente immagini, fantasmi, alterazioni; se è fuori dalla scena non mi rilascia niente. Può lasciarmi soltanto l’assenso o il dissenso, per cui sono consenziente o dissenziente, sempre secondo questa logica vero-funzionale, vero-falso. Questo può avvenire per una sorta di rispetto per chi l’ha pronunciata. In questo caso è molto problematico. Come dire che se è questo il motivo per cui accolgo questa proposizione, allora, appena cesserà il rispetto immediatamente questa proposizione da vera si trasforma in falsa. E, quindi, il vero o falso di questa proposizione è vincolato alla simpatia che mi produce la persona che l’ha pronunciata.

Questo è ciò che avviene in quelle che si chiamano scuole con le proposizioni del maestro. Tutta la scolastica per molti secoli si è occupata di questo. È interessante la scolastica per questa operazione di consolidamento ma, in particolare, di giustificazione. La scolastica si è occupata di giustificare le affermazioni della Chiesa con un impianto dottrinale e filosofico, di trovare giustificazioni filosofiche. Ecco, queste proposizioni devono essere giustificate per cui “ha detto così, quindi, questo è il vero e allora se questa cosa non si adatta a quest’altra allora non è la fede che erra ma è la ragione che erra”. La fede è indubitabile, quindi è la ragione che erra per cui occorre cercare l’errore.

Questo è il modo di porsi nei confronti di un’elaborazione teorica molto frequente. Un modo per cominciare, in alcuni casi, è un autoapprendimento a memoria, così come a scuola, perché questo bagaglio, di cui a un certo punto si dispone, consente di ricondurre ciascuna situazione, ciascun enunciato a qualcosa di già dato, di già stabilito, e quindi di riconoscere ciò che ci circonda. Questo può condurre, a un certo punto, a una riflessione per cui si incomincia a interrogare ciascuno di questi enunciati. Magari interrogando chi li ha pronunciati e c’è anche l’eventualità che questo risponda. Si incomincia a vedersi, se c’è un enunciato, questo giunge in seguito a una elaborazione teorica, a una riflessione, e quindi c’è qualcosa che può consentire di articolare, di intendere questo enunciato, anche ripercorrendone la storia. Il rigore in tutto ciò consiste nel non accogliere alcunché come se fosse extra-linguistico ma accogliere ciascun elemento in quanto linguistico e, dunque, preso nell’equivoco. Questo è il rigore.

Attenersi al simbolico è questo: ciascun elemento non è esente da equivoco, ciascun elemento si divide da sé. Questo non impedisce certamente di fare delle proposizioni. Non ha interesse avere dubbi come non ha nessun interesse avere certezze.

Attenersi al simbolico comporta a questo: che ciascun elemento partecipa della parola, cioè, è un elemento linguistico. Ciascuna proposizione propone, “pone per proseguire”. Per proseguire, cioè, dice di un esporsi, di qualcosa che si rilancia. Dice, in definitiva, di qualcosa che giunge al termine. La proposizione teorica è un significante che giunge al termine. Giunge al termine laddove si è inteso ciò che interroga de significante. Questo apre al transfinito e consente di non girare in tondo, a vuoto. Se un significante non giunge al termine gira a vuoto, vale a dire, continua a costituire un problema. In vario modo e vario titolo, ma continua a costituire un problema, rappresentato nel problematico.

L’analista pone le condizioni perché nel discorso dell’analizzante si mantenga il rigore di cui dicevo, che si attenga al simbolico, vale a dire, si confronti ciascuna volta con questo, che ciò che dice è un elemento linguistico, è nella parola, non è fuori. Non è un aggeggio metafisico rispetto a cui si tratterebbe di verificare se è vero o falso, buono o cattivo o, in definitiva, se esiste o no.

Il simbolico per Lacan è ciò che fa di una successione di significanti una catena significante e, quindi, un ordine particolare, appunto l’ordine simbolico, dove ciascun significante acquista la sua portata in quanto preso in quella catena specifica. È un altro modo di porre la questione della struttura così come aveva posto Benveniste. Per Lacan il simbolico è l’ordine particolare di questa catena dove ciascun elemento è tale in quanto inserito in questa catena. Dice: attenersi al simbolico è attenersi a questo elemento in quanto inserito in questa catena. Fuori da questa catena non significa assolutamente niente.

L’analista ha due modi per fare questo: intervenire lungo la seduta e l’interruzione della seduta. Sono due modi dell’intervento.

Lungo la seduta può trattarsi di intervento clinico, cioè sottolineare di volta in volta l’aspetto della piega che la parola sta prendendo, o analitico che riguarda il punto che si incontra, cioè di ciò che fa ostacolo alla significazione.

Ciascun intervento lavora per il momento in cui la seduta si interrompe perché è quello il momento per cui la seduta è tale. In effetti, è l’interruzione della seduta che distingue la conversazione analitica da una chiacchierata con gli amici. L’interruzione della seduta avviene in un punto non casuale. Qual è questo punto?

L’analista interrompe la seduta laddove ciò che si incontra attiene alla scena, al da dove viene il discorso che sto facendo. Come dire che ciascun intervento che avviene lungo l’arco della seduta lavora per porre le condizioni perché ci sia un confronto con questo ‘da dove’. L’orientamento, guardare a oriente, da dove vengono le cose, qual è la scena, l’immagine, il fantasma che intervengono, cioè in che modo questo elemento, questo discorso attiene alla parola.

In qualunque modo una seduta prenda avvio muove da una scena, da un fantasma che intervengono e operano in quel momento e di cui l’analizzante non sa assolutamente nulla. Questa scena è ciò che rende possibile in quel momento che possa dirsi ciò che sta dicendo.

Qualunque cosa serva come pretesto per avviare una seduta non è casuale perché in qualche modo attiene alla scena, cioè come se stesse raccontando un sogno, né più né meno. Questo sogno non esiste in quanto se non, come diceva Freud, nel racconto che se ne fa. Quindi il fatto che viene preso a pretesto per avviare la seduta dice molto di più dell’avvenimento in quanto tale perché in quanto tale non è mai esistito. È un modo per avviare qualche cosa rispetto a una scena che questiona.

Come venire a sapere di questa scena? Dalle prime battute della seduta. Già lì si può sapere di che cosa si tratta. Se ci si attiene ai significanti si sa qual è la questione di cui si tratta. Se il fatto è il furto dell’autoradio è chiaro che questo furto non riguarda soltanto l’autoradio. C’è un furto che interviene e c’è quindi tutto ciò che è connesso, altri significanti che questo evento innesca in una successione. Questi significanti sono lì e fanno bella mostra di sé. È chiaro che l’analizzante non si avvede di questo per il semplice che suppone che non siano significanti ma la manifestazione di una realtà e, quindi, non può ascoltarsi in nessun modo. Perché non c’è niente da ascoltare. C’è soltanto la rappresentazione di un fatto, non c’è equivoco, non c’è scena, non c’è alterità, ciò che si dice non si altera. Anzi, deve attenersi a questa rappresentazione.

Potremmo rispetto a quello che si diceva prima che non è un discorso teorico. Non è un discorso teorico in quanto questa alterità non va da sé che ci sia. Se ciascuno potesse accorgersi dell’alterità che è nella parola la psicanalisi sarebbe assolutamente superflua perché ciascuno potrebbe accorgersi di quanto succede nella sua parola. Ciò di cui non mi accorgo parlando esiste? È una questione che può porsi. Posso dire che esiste un’alterazione se non me ne accorgo? In base a che cosa? Io posso parlare di un’alterazione laddove c’è un’eco, laddove qualcosa ritorna, sennò che cosa mi autorizza? Sarebbe un principio metafisico.

Occorre fare una distinzione fra una proposizione e un principio. L’enunciato “ciascun atto è mancato” non è un principio è una proposizione. Non è un principio, cioè, non parto da questo. Se partissi da questo non ascolterei più niente, in quanto ciascuna volta c’è almeno un elemento che è fuori della parola, che non posso incontrare perché è già fuori, è già dato, acquisito. Ecco perché è differente una proposizione da un principio: io posso dire che “ciascun atto di parola è un atto mancato”, posso anche articolarla come proposizione ma non posso assumerla come principio.

Il discorso è teorico laddove questa organizzazione che incontro parlando si altera ma perché si alteri occorre che io me ne accorga. In caso contrario, non c’è nessuna alterazione, anzi, c’è una rigidità, una fissità estrema che può manifestarsi in alcuni casi anche in modo drammatico. Questa fissità è certamente un rimedio a qualcosa che la persona avverte e che possiamo quindi supporre ma che cosa veramente sia non ci è dato saperlo fino a che non c’è questa teoria. Allora sì ne viene a sapere qualcosa altrimenti restano supposizioni, illazioni, fantasie che lasciano il tempo che trovano. Talvolta, il tempo che trovano è peggio di quello che lasciano perché può costruirsi anche una visione del mondo, come dire che a quel punto so di che cosa quella persona deve accorgersi. Cioè, lui fa questo ma non lo sa, io devo mostrarglielo. Io non so assolutamente di che cosa lui sta dicendo, qual è la questione che sta incontrando. Posso, in base a supposizioni, incorrere in svarioni colossali. Soltanto questa persona, lungo una elaborazione, cioè, giungendo a una teoria, può venire a sapere qualcosa di ciò che lo riguarda e, quindi, a quel punto esiste l’alterità. Noi possiamo dire che che è avvertito come disagio, come fastidio, è un rimedio alla divisione, all’impossibile della parola. Questa è una proposizione, non un principio. Si tratterebbe di un principio se si trattasse ciascuna volta di verificare se è così. Ma non lo so prima, occorre giungere a questo inventando, reinventando la storia e, quindi, porre in questa storia un’articolazione, un’elaborazione. A quel punto ciò che invento di quella storia si altera e, quindi; non ho più necessità di essere inchiodato a questo significante. Il significante è immaginato identico a sé quando deve rispondere al criterio di vero-falso, esiste o non esiste, il buono e il cattivo. È il modo in cui si pensa questo significante, è il modo con cui interviene che decide che cos’è questo significante, perché in quanto tale non è che esista. È esattamente ciò che se ne dice, il modo con cui si dice.

L’analista pone le condizioni perché la seduta possa terminare e che quindi ci siano dei significanti che ritornino. Una seduta si avvia con dei significanti, quei significanti lungo la seduta ritornano ma spostati rispetto all’evento raccontato in inizio seduta, riguardano un’altra cosa. Quest’altra cosa dice della scena da cui viene il discorso.

Nell’intervento il difficile non sta nel reperire le questioni o i significanti ma nel porre le condizioni perché questi significanti possano accorgersi di essere elementi linguistici. Ciascuna cosa venga detta in una seduta occorre venga ascoltata in questi termini.

L’analisi porta al romanzo, dal romanzo storico al romanzo politico. Il romanzo politico è un romanzo teorico, è il romanzo dove il confronto è con la qualità di ciò che si dice. La qualità, cioè la constatazione in atto che c’è una qualità per cui ciascuna cosa non è la stessa di un’altra ma c’è una specificità, la cifra.

Ciascun significante lungo un’elaborazione giunge al termine. Giungere al termine è giungere a cogliere qual è la specificità di quell’elemento in quel momento. Detto in altri termini, cogliere qual è la questione, l’interrogazione, la domanda che insiste in quel significante, che cosa continua a questionarmi rispetto a quel significante. Finché questo non si intende quel significante è preso come oggetto fobico o come un feticcio.

 

L’economia procede dal nome, da ciò che funziona. La finanza procede dalla sessualità, dall’Altro. L’economia sarebbe l’origine delle cose. Dice dell’originario, del non luogo.

 

L’eco, ciò che ritorna, l’imprevisto, il controsenso.

Il controsenso è un senso non previsto, non gestibile. È il controsenso a consentire che possa darsi un senso.

Il rimosso è ciò che non capisco in ciò che dico, mentre ciò che resiste è ciò che capisco. Il rimosso è ciò che non capisco perché c’è un equivoco.

Quando parlo di effetti di senso mi riferisco al controsenso. Noi sappiamo del ritorno del rimosso, dice Freud, ma il rimosso in quanto tale non ha accesso propriamente. Non ha accesso non perché sia nascosto chissà dove. Se lo dico è un’altra cosa. Se dico una metafora c’è un elemento che non si dice. Se io dico questo elemento, che nella metafora non c’è ma che mi ha consentito di dire quella metafora, è un’altra cosa, faccio un’altra cosa che sarà preso in un altro equivoco, in un’altra metafora. Per questo non posso dirlo.

Ciò che è avvertito come problematico in alcuni casi è l’equivoco nella parola localizzato, rappresentato nell’ambiguo. La persona doppia, la doppiezza, come raffigurazione dell’equivoco, per cui non si sa mai se pensa sì o se pensa no.

 

 

 

EQUIPE CASO CLINICO 19-2-93

 

 

Ciò che avvia un’analisi è la domanda. Domanda d’analisi: una persona si rivolge a un analista e domanda un’analisi.

Cosa comporta questa domanda? Innanzitutto, la domanda di essere ascoltato. Occorre, perché ci sia ascolto, porre le condizioni perché ci sia un’eco intorno alla propria parola.

Ciò che ciascuno lungo una conversazione analitica è la “propria” parola, una parola che lo riguarda e in cui si trova. Da questo incontro si producono effetti di senso, di verità e di sapere. Perché ci sia incontro occorrono delle condizioni, cioè l’intervento dell’analista. Questi effetti comportano che ciò che si incontra parlando acquisisce una portata differente. Se parlando ho l’occasione di accorgermi di ciò che interviene mentre sto parlando, cioè di una scena che si produce mentre parlo, ciò che dirò nel prosieguo della conversazione terrà conto di questa eco in cui mi sono imbattuto. Le cose che dirò cesseranno di essere scontate, ovvie, di essere autoevidenti. Ciascun elemento con cui mi confronto è preso nella parola e quindi in una scena, in questo sfondo, in questa assenza di fondo. Ciascun elemento che interviene non si arresta a un significato. Questa scena si mostra come altra, vale a dire come non gestibile, non manipolabile.

Quando c’è analista del proprio discorso?

C’è quando c’è analista nel discorso, quando ciò che si dice cessa di appartenere, nel senso che ciò che dico non è una mia proprietà, non è un fatto personale perché non c’è più la persona o il soggetto a sostenere questa supposizione. Se ciò che dico a questo punto non mi appartiene non ho più da proteggerlo né da conservarlo. Anzi, mi trovo effetto di queste parole che non mi appartengono. Mi trovo effettuato da questo discorso che procede da questa parola che non ho mai imparato ma in cui mi ci sono trovato a un certo punto, senza sapere come e perché.

Analista del discorso che mi effettua comporta questo, che ciò che incontro parlando non è né scontato né ovvio ma ciascuna volta annuncia qualcosa di inedito, annuncia una scena che non c’era prima.

Quand’è che si può immaginare di dire la stessa cosa? Quando questa cosa è immaginata significata, quindi fuori dalla scena, cioè quando la scena è immaginata isolata, come identica a sé anziché come altra.

Analista non tanto come qualcuno che faccia questa rappresentazione. “Fa l’analista” soltanto il discorso isterico nella sua caricatura, nella sua messa in scena.

Analista come istanza della parola che interviene laddove ciascun elemento che il discorso incontra e lì è libero di articolarsi, quindi libero di intendersi. Gli elementi linguistici sono liberi. Qui per non libero intendo quell’elemento che è significato, che è vincolato a qualcosa che lo ferma, che lo immobilizza. È chiaro che è solo un tentativo, quello che Freud chiama nevrosi, cioè di fermare qualche cosa per non volerne sapere di un’eco che può incontrarsi, quindi di un’articolazione e di un’elaborazione.

Analista è chi occupa la posizione, per quanto impossibile, di sembiante, cioè di punto vuoto rispetto al discorso che si produce in analisi. Il sembiante è il punto vuoto, l’ostacolo. Si trova nella posizione che il discorso che sta ascoltando gli impone. Una persona parla, dice delle cose e ciò che dice è tratto da qualche cosa che insegue, che lo trae a sé, che lo provoca. Qualcosa che interviene nel discorso come punto vuoto, un punto non riempibile, non significabile, non rappresentabile ma che tuttavia insiste. Ecco, l’analista occupa questa posizione, la posizione di colui che provoca e al tempo stesso rilancia ciò che si sta dicendo. Cioè, fa ostacolo alla chiusura, alla supposizione di poter dire l’ultima parola.

Divenire analista del discorso è la scommessa di ciascuna analisi.

 

Cosa dice Freud rispetto al complesso edipico?

Dice che il godimento non si può dire, non se ne può sapere, il godimento in quanto tale non è raggiungibile. L’edipismo, invece, sostiene il contrario dice che sarebbe possibile solo che da un corretto sviluppo, da un corretto progresso occorre abbandonare questa posizione. Come se fosse una sorta di maledizione.

 

 

EQUIPE CASO CLINICO 5/3/93

 

 

 

Il disc-jockey, nella storia raccontatami da Irene, occupa la posizione di punto vuoto. Il disc-jockey non interessa in quanto tale perché ciò che interessa è l’interesse delle altre ragazze. Questo interesse costituisce una forza straordinaria. Freud dice che questo è il caso più frequente di identificazione, il più importante.

Se il d.j. compie un gesto nei confronti di una di queste ragazze cosa avviene? Avviene che immediatamente questa interessata esibisce questo privilegio. Questo gesto del d. j. ha interesse soltanto in quanto può essere divulgato, altrimenti non avrebbe alcun interesse. Quindi, lo riferisce ad esempio a un’amica. Cosa accade? Accade quella che Freud chiamerebbe un’identificazione isterica, cioè, questo privilegio toccata a una attrae moltissimo quest’altra ragazza e si instaura una complicità tra le due e un legame fortissimo perché l’idea è di aver saputo qualcosa di questo d.j. di assolutamente sconosciuto alle altre. “Sapere qualcosa” comporta qui l’idea di possedere in qualche modo questa persona.

Ora, queste due ragazze parlando fra loro cosa fanno? Mettono a morte il d.j. nel senso che suppongono di avere individuato il suo desiderio e quindi di averlo localizzato e di sapere che cosa lui è, che cosa vuole, ecc.

Metterlo a morte comporta che da quel momento qualunque cosa avverrà sarà interpretata a partire dalla supposizione di conoscerlo perché qualunque cosa faccia questo d.j. è già stato interpretato. In questo senso, è messo a morte.

Non c’è nulla che leghi più saldamente due donne quanto l’idea di poter mettere a morte un uomo.

Ora, dicevo, questo privilegio deve essere esibito. Solo a questa condizione può prodursi la scena dove l’una può immaginarsi la prediletta, la preferita.

Tuttavia, questo non ha importanza rispetto al d.j. ma rispetto alle altre ragazze.

Tutto questo dice molto rispetto a come funziona l’innamoramento.

Nel discorso isterico l’innamoramento può avvenire alla condizione che l’oggetto dell’innamoramento sia l’oggetto di interesse di altre. Che poi queste altre esistano oppure no l’importante è che sia immaginato questo.

Nel discorso isterico la gelosia è indotta dalla necessità che l’oggetto di innamoramento sia contornato da altre donne. La gelosia conferma che è contornato da altre donne e, pertanto, se è contornato da altre donne “mi interessa”.

Differente la gelosia nel discorso paranoico dove si pone una questione omosessuale.

Nel discorso isterico l’omosessualità interviene in un modo differente in quanto l’interrogazione non verte sull’altra donna, sul femminile, ma sulla domanda dell’altra donna, ciò che l’altra donna vuole. È questo che il discorso isterico cerca di sapere, cioè, “che cosa vuole una donna?”. Come immagina di poter venire a saperlo? Non interrogando altre donne ma attraverso l’uomo. Se riesce a sapere che cosa ha l’uomo che è oggetto di interesse di altre donne sa che cosa vogliono le donne, perché sa che cosa vogliono dall’uomo. Da qui non soltanto che l’oggetto di interesse lo sia anche di molte altre donne ma anche questo corollario della gelosia che è ineliminabile rispetto a questa fantasmatica.

Freud dice che l’innamoramento non è naturale ma artificiale, vale a dire che risponde a un’esigenza psichica che non ha nulla a che fare con l’oggetto dell’innamoramento in quanto tale ma ha una funzione di schermo.

Nel discorso isterico l’oggetto d’amore è posto come se fosse dio, sa tutto, è capace di tutto, ecc., è al di sopra di qualsiasi altra persona. L’isteria non potrà mai innamorarsi di niente di meno di qualcuno che non sia un dio. La necessità è che questo dio venga riconosciuto, realmente o fantasmaticamente.

L’innamoramento è artificiale che ha una funzione precisa nell’economia. In questo caso, nel discorso isterico, ha la funzione di rispondere a una domanda importantissima: “che cosa vuole una donna?” o anche “che cos’è una donna?”. È un’interrogazione che non è rivolta a un’altra donna in quanto tale ma riguarda sé, è una domanda rispetto al proprio desiderio. L’altra donna, per definizione, è quella che sa, quella che sa che cos’è una donna, sa della sessualità, sa di tutto ciò che normalmente è oscuro, misterioso. L’altra donna sa tutto ciò. Come farla parlare? In questo caso attraverso un uomo. È attraverso questo che il discorso isterico suppone di poter rispondere a una domanda che lo interroga.

Perché si innamora il discorso isterico? Per rispondere a questa domanda.

Come porre la questione laddove tutto ciò si pone? Innanzitutto, riconducendo la domanda là dove essa è partita. Può non essere semplicissimo dal momento che la supposizione che debba essere l’altra donna a rispondere, che l’altra donna sappia, procede da un allontanarsi o un non volerne sapere di una risposta a questa domanda che, per così dire, è già lì e di cui non si voleva sapere. È per questo motivo che c’è questo giro ulteriore che parte da questo: “Io non so e non ne voglio sapere; l’altra lo sa”. Chi è l’altra? per definizione, è quella che ce l’ha. Sarebbe quella che altrove è indicata come la donna fallica, quella che ce l’ha e che sa come vanno le cose. Può essere la mamma fino a un certo punto. Perché? Perché lei sa che cosa vuole un uomo, che cosa vuole il papà. Lo sa perché il papà sta con lei, quindi, in qualche modo, la supposizione è che la mamma risponda al suo desiderio. C’è almeno una donna che sa. Non è un caso che nel discorso isterico la mamma sia la rivale per antonomasia. Nel discorso ossessivo no perché la mamma rappresenta il desiderio da soddisfare. Nel discorso isterico è la rivale, non la rivale nei confronti del papà che nel discorso isterico è una persona tutto sommato risibile, non ha un gran potere, fa in definitiva quello che vuole la mamma.

L’altra donna è quella che sa. Qualcuno direbbe “quella con le palle”. È questa idea che mette in moto l’innamoramento nel discorso isterico, nel senso che questa donna che ha questa prerogativa attrae un uomo, l’uomo è attratto da lei. Pertanto, se un uomo sta con una donna è sicuro che quella donna è interessante per il discorso isterico. Anzi, esercita un fascino irresistibile perché lei ha qualcosa che interessa a questo uomo e quindi se “io prendo lui prendo l’oggetto del desiderio di questa donna, prendo ciò che lei vuole e, quindi, so qual è il suo desiderio e, allora, finalmente posso rispondere alla domanda ‘che cosa vuole una donna?’”. È chiaro che poi le cose vanno diversamente perché, anche se prendesse questo tizio, non funzionerebbe nel senso che comunque non trova nessuna risposta a questa domanda. Èuna questione con cui il discorso isterico occorre che si confronti. Perché non funziona? Perché verificherebbe di lì a poco che questo tizio non risponde alla sua domanda, cioè, non è la chiave per rispondere alla domanda che la interroga. Questa relazione potrebbe proseguire fino al momento in cui questo tizio resta oggetto di interesse si altre, come dire “io posseggo ciò che tutte voi volete”. È sempre rivolta a altre, lui è un semplice aggeggio, uno strumento.

Tutto ciò ha un interesse laddove questo processo ha un’occasione di svolgersi, l’occasione di intendersi. Ciascuno ha l’occasione di avvertire che non c’è chi abbia la risposta a una domanda che lo interroga, alla domanda pulsionale, alla domanda che riguarda il suo discorso. Questa risposta in quanto tale non esiste ma la domanda pulsionale incontra delle risposte, incontra dei rilanci, dei rinvii, dei rimandi. Incontra la verifica in atto che questa domanda è irriducibile e che non può togliersi. L’irrinunciabilità e l’irriducibilità della domanda è ciò che indico come cifra, laddove non c’è la necessità di rispondere o di chiudere questa domanda. L’innamoramento, nel caso del discorso isterico, tenta di chiudere la questione incontrando una quantità enorme di problemi. Chiudere la questione è ciò che Freud indicava come nevrosi. A seconda del modo indica le nevrosi e le psicosi. Nella nevrosi la supposizione è di avere trovato l’elemento che chiude la questione, l’elemento fuori della parola, elemento di cui non si può parlare perché è così e tanto basta. Questo è l’elemento fuori della parola. Se è nella parola è continuamente prese nella variazione, nella modificazione, si altera, cambia continuamente. Se invece è fuori allora è immobile, identico a sé.

L’innamoramento è vero, non è finto. Anzi, è l’unico vero innamoramento, non ce ne sono altri. Tuttavia, cosa dice tutto ciò? Dice che questa messa in scena, questo apparato impiantato dal discorso isterico, dice che è qualcosa di strutturale, cioè non può togliersi, riguardo all’innamoramento. L’innamoramento folkloristico, quello delle canzonette, è un innamoramento ipnotico che ha l’obiettivo di rendersi incapaci a ascoltare alcunché. Questo oggetto dell’innamoramento è posto fuori della parola, identico a sé, e quindi non c’è più niente da dire.

Freud dice che c’è un altro innamoramento di cui quello delle canzonette costituisce una economia, una caricatura, una parodia. C’è un innamoramento strutturale in cui l’oggetto che provoca l’innamoramento non è qualcuno.

L’innamoramento delle canzonette si supporta sul concetto che qualcuno possa costituire l’oggetto dell’innamoramento.

L’oggetto è un termine elaborato che non è la cosa in sé dei filosofi, non è la sostanza.

In tedesco ci sono due modi per indicare l’oggetto: Gegenstand e Object, come ciò che è gettato innanzi e ciò che sta contro, quindi, tanto ciò che è gettato innanzi quanto l’ostacolo. L’oggetto, dunque, come inafferrabile, l’irrelato, l’indicibile, impossibile da localizzare e da isolare. È ciò che insiste nel discorso come ostacolo, come ciò che si getta innanzi che non può prendersi.

L’innamoramento strutturale di cui parla Freud dice che l’amore non può togliersi. Lo dice mantenendo costante l’amore nel discorso. Da dove viene l’amore? Dal parricidio. Il parricidio comporta che il padre non muore. Il mito dice che il figlio avrebbe ucciso il padre per avere accesso al godimento. Invece no, dopo morto il padre è ancor più vivo e impedisce, in quanto legge, il godimento. Il parricidio è ciò che impedisce in quanto il padre, la legge, funziona. La legge dice: “Come il padre devi essere, come il padre non ti è dato essere”. Qualcosa lo impedisce, che interviene a impedire l’accesso al godimento in quanto tale. Il godimento si dà come effetto della rimozione, si dà come un in più, che eccede, ma che non può afferrarsi, non può contenersi. Dove avvertite il godimento? Voi parlate, avviene qualcosa mentre parlate e che produce, per esempio, una sensazione che non era prevista, che non c’era, qualcosa si aggiunge rispetto a ciò che era previsto, qualcosa che va oltre, che è di troppo. Proprio lì c’è il godimento: qualcosa si dà nel momento in cui si sottrae.

L’amore come ciò che unisce, una condensazione. Il parricidio è ciò da cui procede l’amore, cioè la condensazione, in quanto con la rimozione parlando qualcosa cade ma cadendo torna altrimenti. Come nella metafora dove ci sono due elementi di cui uno però non è presente e l’altro è presente. Ma perché funzioni occorre quello che non è presente. C’è un dispendio perché anziché uno ne occorrono due. Ecco questa condensazione, questo amore che non è per qualche cosa ma è strutturale, è ciò che si aggrega parlando. Aggregazione che procede però da una divisione. L’odio è più antico dell’amore. L’odio come divisione, come indice dell’insormontabilità della divisione delle cose, le cose dicendosi si dividono in quanto non sono identiche a sé. Da questa divisione procede anche l’amore, come ciò che si aggrega parlando. Parlando, le cose trovano modo di aggregarsi. Ciò che è rimosso ritorna altrimenti, combinato altrimenti. L’amore è questo: una combinazione altra che pertanto non può rappresentarsi né localizzarsi. L’amore, quello romantico, crede che possa comporsi un’unità perduta. È un mito gnostico che passa anche attraverso il neoplatonismo. L’amore non può togliersi ma non può rappresentarsi, non può localizzarsi da qualche parte, non è transitivo, non transita da uno all’altro. Supporlo transitivo vale a farne un’economia a vantaggio dell’idea di unità, di completezza, di realizzazione. Rispetto a questa fantasmatica l’enunciato può essere questo “Quando amo sono completo”, come dire “Ho ciò che mi manca e, quindi, sono un tutto”. Come se avesse individuato ciò che manca, ciò che fa ostacolo, ciò che resiste alla significazione, cioè l’oggetto. E, allora, l’amore dice che l’oggetto resta inafferrabile. L’innamoramento mantiene l’amore, cioè l’inafferrabilità dell’oggetto.

Se l’amore fosse transitivo l’oggetto sarebbe mortale perché non lascia più a desiderare, sarebbe un tutto. Sarebbe quella scena che il discorso ossessivo immagina come l’ultima scena, quella del godimento tutto, definitivo, finale, la morte, oltre cui non c’è più nulla a desiderare.

 

L’arte della seduzione è un’arte antichissima e dà alcuni criteri precisi.

Su cosa gioca la seduzione? Gioca sull’intendere che cosa in quel momento sta interrogando l’altra persona e, quindi, far credere di possedere ciò che l’altra persona sta cercando, di avere la risposta alla sua domanda. Cioè, il porsi come l’oggetto del desiderio. Individuare quindi qual è la domanda e porsi come l’oggetto della domanda. A questo punto il richiamo è irresistibile. Ci si pone, quindi, nella posizione del seduttore, di ciò che seduce, vale a dire, il significante. Il significante è ciò che seduce, ciò che trae a sé letteralmente. Trae a sé, se-ducere, oppure secondo un altro etimo sine ductione. È un etimo inventato come d’altra parte lo è ciascun altro, non ne esiste uno autentico.

Trae a sé il significante, è l’immagine acustica che trae a sé, cioè trae il discorso continuamente. È questo elemento linguistico che trae continuamente. Mettersi nella posizione del significante comporta che è come se dovesse assumersi un significante immobile, cioè identico a sé, localizzato. In altri termini, un significante che non resiste alla significazione ma è significato. È una posizione bizzarra, quella del figlio morto. Il seduttore è colui che si pone come il significato, come dire “Io sarò il tuo significato!”.