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21 agosto 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Ciò che ci sta dicendo Hegel è che la dialettica è un processo che procede per integrazione. In effetti, la parola che lui usa, Aufhebung, letteralmente superamento, il sollevarsi, potrebbe tradursi, anche se non è la traduzione corretta, integrazione forse rende bene il pensiero di Hegel. Integrazione, vale a dire, il procedere conservando ciò che mano a mano fa parte del processo e proseguire, ma sempre conservandolo. Qui in questo capitolo Hegel pone una questione che è importante. Il titolo è Libertà dell’autocoscienza; stoicismo, scetticismo e la coscienza infelice. Sottotitolo Introduzione. Il grado della coscienza fin qui raggiunto: il pensare. Quello che Hegel intende con pensiero non è ciò che, per esempio, intende Heidegger, ma il pensiero per Hegel è uno dei momenti che occorre considerare per giungere alla ragione. Per Hegel è la ragione il punto di arrivo, non il pensiero. Il percorso che abbiamo fatto muove dalla sensazione, poi la percezione, poi l’intelletto e poi la ragione. Il pensiero ha a che fare, diciamola così, con l’intelletto. All’autocoscienza indipendente, sua essenza è, da una parte, soltanto la pura astrazione dell’Io; d’altra parte, mentre questa astrazione si coltiva e si dà delle differenze, tale distinguere non diviene, a quell’autocoscienza, l’essenza oggettiva che è in sé; questa autocoscienza dunque non diviene un Io veramente capace di distinguersi nella sua semplicità, o un Io che, in quell’assoluta distinzione, resti uguale a se stesso. Dice che questa autocoscienza indipendente – indipendente è un termine importante perché vuol dire che non dipende da altro – la sua essenza, da una parte è soltanto pura astrazione dell’Io – un Io astratto –; dall’altra, mentre questa astrazione si coltiva e si dà delle differenze, cioè, l’Io si accorge di differenze, tale distinguere non diviene, a quell’autocoscienza, l’essenza oggettiva che è in sé, cioè, non fa di queste differenze la propria differenza da sé, vale a dire, questo Io non si pone come risultato di un lavoro di estroflessione e ritorno in sé, ma potremmo dire si pone come una specie di in sé. Questo in sé è indipendente e questo fatto, di essere indipendente, ci mostra che posto come non dipendente da altro e, quindi, è come se non partecipasse della dialettica, cioè non partecipasse di quella che prima chiamavo integrazione, ma ponesse la coscienza e l’autocoscienza, l’in sé e il per sé, come due distinti, e sono certamente distinti, ma come separati; non due distinti come momenti di un’unità, cioè, momenti di una sintesi, come risultato. …poiché nel concetto della coscienza indipendente l’essere-in-sé o della cosalità… L’essere-in-sé è la percezione, la sensibilità. …che nel lavoro riceveva la forma, non è per nulla una sostanza diversa dalla coscienza;… Cioè: la coscienza non si pone come un qualche cosa che ha un opposto, vale a dire, non si pone in un processo dialettico ma è come se rimanesse separata, separata dal suo opposto. A pag. 166. …non essere oggetto a sé come Io astratto, ma come Io che nello stesso tempo ha il valore dell’essere-in-sé… Questo Io ha il valore dell’essere-in-sé, non è il risultato di un processo, ma è qualcosa che viene posto come separato dal suo opposto, quindi, fuori dalla dialettica. Ora, dice che questo Io, che ha valore dell’essere-in-sé, …o il comportarsi verso l’essenza oggettiva in modo che essa abbia il valore dell’essere-per-sé di quella coscienza per la quale essa è, questo vuol dire pensare. Questo pensare per Hegel, intanto comporta un lavoro, un concetto è sempre un lavoro, ma mettiamola così: c’è l’Io, poi c’è l’oggetto, ma questi due elementi rimangono separati. Il pensare, per Hegel, è cogliere sì questa oggettività ma coglierla come fuori dell’Io, quindi, coglierla sì ma fuori da un processo dialettico. Come dicevo prima, non siamo ancora alla ragione, che invece è il risultato del processo dialettico. Al pensare l’oggetto si muove non in rappresentazioni o in figure, ma in concetti; vale a dire in un distinto essere-in-sé, il quale immediatamente per la coscienza non è da essa per nulla distinto. Per la coscienza non è distinto, non è qualcosa di opposto, qualcosa da integrare, ma rimane qualcosa di separato. …un concetto è in pari tempo un essente; e tale differenza, in quanto è nella coscienza stessa, è il suo contenuto determinato;… Questa differenza tra il rappresentato e il fatto che questo rappresentato sia un oggetto, ecco, tutto ciò rimane nell’Io, cioè, il fatto che sia un oggetto non è posto come qualcosa che si contrappone all’Io, cioè il non-Io, ma rimane nell’Io; è come se il mondo esterno in qualche modo venisse cancellato, perché l’oggetto esterno viene tutto assorbito nel pensiero. …ma essendo questo contenuto in pari tempo concettualmente concepito, essa rimane immediatamente consapevole della sua unità con questo essente determinato e distinto:… Sa che non si tratta di un oggetto che non è l’Io ma lo assume nell’Io. …e ciò non come nella rappresentazione, dove la coscienza deve ricordarsi in modo speciale che questa è una rappresentazione sua; anzi a me il concetto è immediatamente concetto mio. Ciascuno sa che un suo concetto è suo. Nel pensare Io sono libero perché non sono in un Altro, anzi rimango direttamente presso di me, e l’oggetto che mi è l’essenza è, in unità inseparata, il mio essere-per-sé; e il mio movimento in concetti è un movimento entro se stesso. Come dire che il movimento, che è della dialettica, rimane nell’Io, non esce fuori dell’Io. Chiaramente, per Hegel questo indica un problema, nel senso che, non tenendo conto dell’opposizione che c’è tra Io e non-Io, si trova chiaramente di fronte a una difficoltà, che vedremo tra poco rispetto allo stoicismo, allo scetticismo e alla coscienza infelice, che sarebbe quest’ultima il discorso religioso. Ma nella determinazione di questa figura dell’autocoscienza… Quella in cui questo movimento rimane in me stesso. …occorre soprattutto stabilire questo punto: che cioè tale figura è coscienza pensante in generale, o che il suo oggetto è unità immediata dell’essere-in-sé e dell’essere-per-sé. Unità immediata dell’essere-in-sé e dell’essere-per-sé, cioè, non mediata. Sappiamo che questi due elementi sono mediati nella dialettica: c’è un terzo elemento tra questi due elementi, che sono opposti, terzo elemento che è la relazione. Qui, invece, non c’è più la relazione, il terzo elemento. Infatti, dice, unità immediata dell’essere-in-sé e dell’essere-per-sé, cioè una specie di incollamento. La coscienza a sé omonima, respingentesi da se stessa, diviene un elemento che è in sé;… Quindi, rimane tutto nell’in sé, non è più un risultato. Sappiamo che l’in sé va al per sé, che il significante va al significato e che dal significato torna al significante e lo rende quello che è; quindi, il secondo significante è il risultato di questo processo. …ma essa coscienza è tale elemento soltanto come essenza universale in generale, non già come quest’essenza oggettiva nello sviluppo e nel movimento del suo essere molteplice e vario. Si è persa la molteplicità, la varietà, la possibilità di distinguere. È come se il pensiero diventasse il tutto, come poi ci spiegherà rispetto allo stoicismo: il mondo esterno non c’è, c’è soltanto il mio pensiero. A pag. 167, Lo stoicismo. Questa libertà dell’autocoscienza… Una finta libertà. …sorta nella storia dello spirito come apparenza consapevole di sé, si è, - com’è noto, - chiamata Stoicismo. Il suo principio è: la coscienza è essenza pensante, e qualcosa ha per essa medesimo valore di essenzialità o è per lei vero e buono, solo in quanto la coscienza ivi si comporti come essenza pensante. Qualunque cosa è valutata in base all’essere solo pensiero. In effetti, se noi escludiamo il processo dialettico, cioè questo procedere per integrazione, diventa abbastanza chiaro che l’in sé, la coscienza, diventa il principio fondante di tutto; però, avendo estromesso in un certo qual modo il per sé – estromesso nel senso che lo ha assunto in sé senza averlo inserito nel processo, cioè senza averlo considerato come tale – cosa fa lo stoicismo? Considera tutto il mondo esterno, ma potremmo dire i concetti, i significati, come inessenziali; è come se non ci fossero più, come se i significati fossero in qualche modo inglobati nel significante, il quale è come se non avesse più bisogno del significato, come se vivesse per sé, e quindi non c’è più un rinvio. Ovviamente, questa operazione non può riuscire perché il significante senza il significato non esiste. Infatti, qui Hegel sta cercando di definire una situazione particolare, quella dello stoicismo, facendoci rendere conto di come sia una modalità di pensiero, insieme con lo scetticismo e la coscienza infelice, modalità fallite del pensiero che dovrebbe giungere alla ragione. Se ci si arresta su questi punti, non si raggiunge la ragione e, quindi, non si raggiunge per Hegel il Sapere Assoluto. L’espandersi molteplice e in sé distinguentesi della vita, il suo singolarizzarsi e complicarsi, è l’oggetto verso il quale l’appetito e il lavoro esplicano la loro attività. L’appetito, cioè, la tensione verso l’oggetto. Tale molteplice operare si è ora contratto nella distinzione semplice, che è nel puro movimento del pensare. Non quella differenza che si presenta come cosa determinata, o come coscienza di un determinato esserci naturale, come un sentimento o come appetito e come fine per l’appetito stesso … non quella differenza ha più essenza;… Come dovrebbe essere la differenza tra coscienza e autocoscienza. …ma soltanto quella differenza che è pensata o immediatamente non distinta da me, quella soltanto ha più essenza. Non quindi la differenza che c’è tra un elemento e se stesso, ma soltanto quella che è pensata o immediatamente non distinta da me. Solo questa ha essenza, cioè si pone come qualcosa che ha valore. L’unico valore è il pensiero, pensiero che non tiene assolutamente conto del fatto che per essere pensiero necessita del suo contrario che deve essere tolto. Se non si compie questa operazione, questo contrario, che deve essere tolto, permane, ma come permane nello stoicismo? Permane come qualcosa di inessenziale. È il modo che lo stoicismo si inventa per eliminare l’alterità, per eliminare l’Altro; vale a dire, eliminare l’alterità per cercare in qualche modo di poter stabilire con certezza che le cose stanno in un certo modo; in definitiva, si tratta sempre di questo. Tale coscienza è quindi negativa verso la relazione signoria-servitù: il suo operare non è né quello del signore che trova la propria verità nel servo, né quello del servo che trova la propria verità nella volontà del signore e nel servizio resogli; anzi il suo operare è di esser libera sul trono e in catene… Questa libertà è una parvenza di libertà. Le catene sono quelle che lo stoicismo stesso si crea, e cioè una realtà inessenziale dalla quale deve tenersi lontano, non può confrontarcisi. …è di riservarsi l’inerzia che dal movimento dell’esistenza, così dall’agire come dal patire, si rifugia sempre nell’essenza semplice del pensiero. Qualunque cosa, tutto ciò che riguarda il non-Io, il mondo esterno, chiamiamolo così provvisoriamente, deve scomparire a vantaggio dell’essenza semplice del pensiero. In effetti, essendo il mondo esterno totalmente inessenziale, non gli darà alcun peso e, quindi, qualunque cosa gli capiti non lo interessa. La pervicacia è la libertà che si fa baluardo della singolarità e che sta nell’ambito della servitù; mentre lo stoicismo è la libertà che, - uscendo sempre da lei stessa, - ritorna nella pura universalità del pensiero, e che poté affiorare come universale forma dello spirito del mondo soltanto in tempi di generale paura e servitù, ma anche di generale cultura che aveva elevato il formare all’altezza del pensare. Per lo stoicismo la libertà esce sempre da se stessa perché di fatto non la accoglie; la libertà è in senso negativo in quanto si è estromessa dal mondo esterno; quindi, pensa, essendo solo pensiero, di essersi liberata di tutte le avversità. Sebbene ora a questa autocoscienza l’essenza non sia né un altro a essa, né la pura astrazione dell’Io… Non è altro da se stessa, cioè, è fuori dal processo dialettico. Sappiamo che ciascun elemento è se stesso ma anche altro da sé, e non può non essere entrambe le cose. …anzi Io che ha in lui l’esser-altro, ma come differenza pensata… Questa differenza c’è, anche lo stoicismo se ne accorge, ma è una differenza che è puramente pensata. Non immagina che questa differenza sia un processo che è necessario al pensare e che senza questa differenza non c’è pensiero possibile. Immagina che questa differenza sia puramente pensata. …così che nel suo esser-altro è immediatamente ritornato in sé;… Cioè, cancella l’esser-altro. La libertà dell’autocoscienza è indifferente verso l’esistenza naturale e quindi la ha, alla sua volta, liberamente dimessa;… La libertà dell’autocoscienza è indifferente verso l’esistenza naturale: l’esistenza naturale, per Hegel, sappiamo che sono le cose, quindi sono i concetti, in definitiva. È come se lo stoicismo si fosse, in un certo qual modo, liberato dal lavoro del concetto. Quindi, se ne sta tutta bella leggera, immaginando che essendosi liberata dalla fatica, come direbbe Hegel, del concetto, e abbia raggiunta questa sorta di atarassia, cioè questo benessere assoluto, di cui parlavano gli stoici. Si è liberata dalla fatica del concetto, ha eliminato il concetto facendolo suo - io sono il concetto -, pensato, solo pensato, non messo all’opera, mai fatto lavorare. L libertà nel pensiero ha soltanto il pensiero puro per sua verità,… Sappiamo, invece, che per Hegel la verità non è altro che il processo dialettico, la verità è il risultato di un lavoro del concetto. Come dicevamo la volta corsa, il significato, cioè il concetto, è ciò che lavora – sarebbe il servo – a vantaggio del padrone, cioè dell’affermante, del significante che afferma qualche cosa. Il lavoro del concetto è dare al significante una sua identità, una sua essenza; come dire “tu significante sei questo che io ti dico che sei”, perché io sono il significato che tu sei. Sarebbe il lavoro del servo che lavora per il padrone. In questa allegoria il padrone sarebbe il significante, l’affermante. …verità che è senza il riempimento della vita… Per Hegel la vita è il processo dialettico, sono le cose, sono ciò che si incontra. …ed è quindi soltanto il concetto della libertà, ma non proprio la libertà vitale, giacché a tale libertà essenza è soltanto il pensare in generale, è la forma come forma, che, distaccatasi dall’indipendenza delle cose, è ritornata in sé. È esattamente quello che vi dicevo, cioè, questa libertà è una libertà fittizia perché è fatta solo di pensiero, è distaccata dal concetto, e immagina così di essersi liberata dalla fatica del concetto. Ma, chiaramente, questa libertà è solo pensata. Infatti, diceva prima che crede di essere libero ma, in realtà, è in catene, incatenato alla necessità di cancellare in qualche modo il lavoro del concetto, di cancellare l’autocoscienza in definitiva. Solo, distaccandosi qui il concetto, come astrazione, dalla molteplice varietà delle cose, esso non ha in lui contenuto alcuno, ma ne ha uno che gli è dato. Gli è dato per la coscienza, dalla sua sensibilità, da ciò che vede, da ciò che pensa. Invero la coscienza, pensando il contenuto, lo cancella come un essere estraneo;… Il contenuto, il concetto, diventa un essere estraneo. …ma il concetto è concetto determinato, e tale sua determinatezza è l’estraneo ch’esso ha in lui. Questo concetto, in effetti, è quella cosa che ha anche una determinazione, così come per il significante il significato è ciò che lo determina; se io tolgo il significato il significante diventa indeterminato, cioè non serve più a niente. Ecco perché a un certo punto dice a pag. 169 …siccome esse tuttavia non possono effettivamente giungere ad alcuna espansione di contenuto, cominciano presto ad ingenerare tedio. Ci si annoia a morte, nel senso che le cose non significano più niente, perché propriamente non ci sono, non hanno una determinazione. Come ci arriva a questo? Perché dice Alla domanda che cosa sia vero e buono, offriva ancora una volta in risposta il pensare stesso privo di contenuto… Cioè, sono niente. Non sono niente appunto perché al significante ho tolto il significato: il significante senza significato è niente. Tale coscienza pensante, così com’essa si è determinata, cioè come libertà astratta, non è dunque che l’imperfetta negazione dell’esser-altro:… È la negazione dell’esser-altro, dell’alterità, ma è imperfetta, perché la negazione dell’esser-altro “perfetta” sarebbe la negazione che consente di negare l’altro ma accogliendolo in quanto negato. Qui lo immagina soltanto come pensato, come un prodotto del suo pensiero, che non ha nessuna essenza in sé e che, quindi, non ha nessuna determinazione. C’è il significato, certo, ma questo significato è soltanto nel mio pensiero, non c’è propriamente; ma se non c’è in quanto determinazione, questo mio pensiero lui stesso rimane indeterminato. Infatti, Hegel diceva giustamente che per lo stoicismo non c’è nessuna possibilità di stabilire né il vero, né il buono, né il bello, cioè di determinare qualcosa in quanto tale. E questo, come giustamente diceva, comincia a generare tedio perché, non essendoci nessuna determinazione, non c’è nessuna possibilità di stabilire delle differenze e, quindi, di procedere, si ferma lì. È un discorso che si chiude in se stesso, impedisce di procedere, di andare oltre. L’andare oltre è un andare oltre per integrazione e nello stoicismo non c’è niente da integrare, perché non è dunque che l’imperfetta negazione dell’esser-altro: non avendo fatto che ritrarsi entro sé dall’esserci, essa non è giunta a compiersi come assoluta negazione dell’esserci in lui. L’assoluta negazione, cioè: la negazione che consente all’esserci di essere ciò che è. Questa negazione dell’esser-altro per cui io posso affermare che la coscienza è in sé. Devo sempre negare, ma per potere negare deve esserci questa determinazione in quanto altro da me. Se non c’è, se immagino che sia soltanto nel mio pensiero, non ho niente da negare. A lei il contenuto vale bensì soltanto come pensiero; ma anche come determinato; e la determinatezza, egualmente, vale come la determinatezza ut sic. Una determinatezza che non è il risultato di un processo, ma una determinatezza ut sic, in quanto tale, fine a se stessa. Un altro modo di non cogliere il processo dialettico, dice Hegel, è lo scetticismo, che definisce come la realizzazione di ciò che per lo stoicismo è soltanto il concetto. Lo stoicismo pone l’esser-altro come qualche cosa di inessenziale e si rivolge tutto al pensiero. Lo scetticismo fa dell’esser-altro, sì, sempre qualcosa di inessenziale, ma un qualcosa che è sempre in una opposizione continua con l’Io: l’io, l’Altro, sempre in una opposizione continua. Perché può fare questo? Perché continua a pensare i termini del processo dialettico non come momenti di una unità, quindi come il risultato di un processo, ma come, sì, distinti, ma separati. E allora succede quello che anche Severino diceva, e cioè o c’è l’uno o c’è l’altro, se c’è l’uno si nega quell’altro: se ci sono io non c’è il non-Io, se c’è il non-Io non ci sono io. Si rimpalla continuamente tra questi due opposti, senza accorgersi che questi due opposti, di fatto, fanno parte di un’integrazione, di un risultato, perché questi due elementi sono in relazione tra loro. Lo scetticismo cancella la relazione, li mantiene come separati, e quindi sono continuamente in lotta tra loro perché o c’è il positivo o c’è il negativo, se c’è il negativo non c’è il positivo. A pag. 169, verso la fine. Il pensiero diventa pensare perfetto che annienta l’essere del mondo molteplicemente determinato; e la negatività dell’autocoscienza libera, in questo vario e diverso configurarsi della vita, diventa la negatività reale. Cioè: negare realmente del positivo nei confronti del negativo, e viceversa. È chiaro che come lo stoicismo corrisponde al concetto della coscienza indipendente… Indipendente nel senso che la coscienza non è per altro ma solo per sé. …già apparsa come relazione signoria-servitù, così lo scetticismo corrisponde alla realizzazione di quella coscienza, come ad atteggiamento negativo verso l’alterità; corrisponde cioè all’appetito e al lavoro. Questo è il modo dello scetticismo di rispondere alla questione dell’alterità. La pone in termini realistici; la pone, quindi, come la contrapposizione tra due elementi. E qui c’è una questione importante: il servo e il padrone, come dicevamo la volta scorsa, in realtà sono due figure che fanno parte del pensiero; il servo e il padrone non sono disgiungibili, non possono essere separati, così come non si può separare il significante dal significato. Il servo è il pensiero, vale a dire, il lavoro del concetto che dà al significante, cioè al signore, la sua verità. Qual è la verità del significante? Il suo significato, così come la verità del significato è il significante che lo afferma. Pensata in questi termini la dialettica servo-padrone diventa più intelligibile. Non so perché sia venuta in mente a Hegel questa storia del servo e del padrone, ma va bene così. La questione importante è intendere come la negazione della integrazione, cioè del processo dialettico, porti all’impossibilità della ragione, porti cioè all’impossibilità di accogliere il lavoro che il linguaggio compie mentre è in atto. Questo lavoro che fa il linguaggio – significante e significato, la relazione tra i due, il terzo elemento - è importantissimo, perché se mantengo separati il significante dal significato non capisco nulla di quello che succede. È questa relazione che fa dei due, come già diceva de Saussure, un segno, cioè qualcosa di utilizzabile, per dirla in modo spiccio, sennò non è utilizzabile. Così come, infatti, risulta non utilizzabile lo stoicismo, perché a un certo punto si ferma, si chiude il discorso, non va più da nessuna parte; allo stesso modo, anche lo scetticismo non va più da nessuna parte, perché in questa opposizione, realisticamente intesa, tra positivo e negativo, che si rimpallano continuamente, anche in questo caso il pensiero diventa inutilizzabile. Sapete che lo scetticismo è quella corrente di pensiero che negava la possibilità di stabilire qualunque verità. Perché è impossibile affermare qualunque verità? Perché qualunque affermazione della verità può essere confutata. A questo punto verrebbe da dire: ma allora la confutazione è la verità. No, perché anche la confutazione viene confutata. E, infatti, a un certo punto Hegel dice che è come quei bambini dispettosi, per cui se uno dice A l’altro dice B, ma se il primo dice A l’altro risponde B, dice sempre il contrario. Quindi, lo scetticismo è quell’altra forma di pensiero che, eliminando il processo dialettico, cioè questo procedere per integrazione, tenta in modo fallimentare di eliminare l’alterità. Come la elimina? Rappresentandola realisticamente in questa opposizione, che diventa naturalmente irriducibile, perché se non è pensata come relazione tra i due c’è un aut-aut, l’uno esclude l’altro e, quindi, se sostengo l’uno nego quell’altro, e viceversa. Nello scetticismo c’è l’impossibilità di fermare qualcosa. Ecco perché è inutilizzabile, perché dice che nulla è affermabile e, quindi, nulla è utilizzabile: se voglio utilizzare qualcosa devo fermarla, deve essere quello che è. Ora, sappiamo che è quello che è in relazione a una differenza, ma deve essere quello che è per essere utilizzabile, sennò che cosa utilizzo? Lo scetticismo dice che questa cosa è sempre differente da sé e, quindi, non è utilizzabile. Ecco perché, dice Hegel, è un pensiero che è fallimentare, perché non porta da nessuna parte, non ha nessun utilizzo per il pensiero. Il pensiero, per potere procedere, ha bisogno di reperire qualcosa per poi, da lì, andare oltre. Per potere stabilire una differenza occorre che ci sia un’identità, occorre che sia identico a sé; allora, da quel punto, posso procedere e stabilire delle differenze. Se questa identità non c’è, ma ci sono solo differenze, non c’è neanche più la differenza, perché la differenza non è più differente da niente. Questo è il problema dello scetticismo. A pag. 171. Ciò che dilegua è il determinato o la differenza che, in un modo o nell’altro, s’impone come differenza solida e immutabile. Tale differenza non ha in lei nulla di permanente, e deve dileguare al pensare, appunto perché il distinto consiste nel non essere in lui stesso, nell’avere una propria essenza solo in un altro; ma il pensare è il rendersi conto di tale natura del distinto, è l’essenza negativa come essenza semplice. Lo scettico dilegua ogni differenza, il distinto consiste nel non essere in lui stesso, nell’avere la propria essenza solo in un altro. Questa distinzione, dice, non ce l’ha la cosa. Questo è importante. Come ha sempre sostenuto, questa differenza non è nella cosa in quanto tale, ma è in un altro: questo distinguersi è un distinguersi da altro, da ciò che non è, non è nella cosa stessa. Se fosse nella cosa stessa, questa cosa stessa sarebbe strutturalmente altra da sé e, quindi, sarebbe inutilizzabile; allora, non ci sarebbe, perché una differenza che muove non da una identità ma da altre differenze non è differenza perché non c’è più nulla da cui differisce. È questa la questione principale per Hegel, e cioè che nello scettico il distinto è nella cosa, è in lui stesso e non in altro. Chiaramente, essendo in lui stesso, non c’è quel processo di integrazione, quel processo dialettico, perché la differenza non è più tra un elemento e il suo opposto, il suo esser-altro, ma è nella cosa stessa, è in lui stesso, ed essendo in lui stesso, come vi dicevo, non è utilizzabile, è un discorso che non ha nessuna possibilità di andare da nessuna parte. A pag. 173. Se le viene indicata l’eguaglianza, essa mostrerà l’ineguaglianza; se poi dinanzi a lei venga tenuta ferma l’ineguaglianza che essa ha testé profferito, allora passa oltre a indicare l’eguaglianza. In effetto il suo chiacchierare è un litigio da ragazzi testardi, dei quali l’uno dice A quando l’altro dice B, per dire B quando l’altro dice A; e così ciascuno, restando in contraddizione con se stesso, si paga la soddisfazione di restare in contraddizione con gli altri. È in contraddizione con se stesso e, quindi, è contraddizione anche con gli altri, e si appaga di questo. Nello scetticismo la coscienza fa in verità esperienza di sé come di una coscienza contraddicentesi entro se stessa; da tale esperienza scaturisce una figura nuova, la quale riconnette entrambi i pensieri tenuti separati dallo scetticismo. La mancanza di pensiero dello scetticismo verso se stesso… Notate: la mancanza di pensiero dello scetticismo verso se stesso. Lo scetticismo non pensa, per parafrasare Heidegger. Se pensasse, si renderebbe conto che, perché possa fare le cose che fa, non deve essere quello che dice di essere. È sempre questa la questione. La mancanza di pensiero dello scetticismo verso se stesso dovrà dileguare, giacché in effetto è pur sempre una sola coscienza a possedere in lei quei due modi. La nuova figura sarà quindi per sé la duplicata coscienza di sé,… Qui introduce la questione del pensiero religioso. …come coscienza che si rende libera, che non è soggetta a mutamento ed è eguale a se stessa; e sarà coscienza di sé come coscienza che si confonde e s’inverte in modo assoluto; e sarà la coscienza di questa sua propria contraddizione. Qui lo anticipa: il discorso religioso non è altro che prendere coscienza di questa situazione autocontraddittoria e viverla fino in fondo.