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19 giugno 2024

 

Plotino Enneadi

 

Plotino fa una cosa principalmente lungo tutte le Enneadi: tiene separati l’uno dai molti. Questione importante perché dopo di lui non si è fatto nient’altro che questo, cioè continuare a tenere separati l’uno dai molti. Le tre ipostasi: l’Uno, l’Intelletto e l’Anima. L’Anima è letteralmente ciò che anima, ciò che dà vita, per esempio, agli umani, alle cose, ecc. L’Intelletto è la ragione che connette l’Anima all’Uno. La ragione, quindi, la logica. E poi c’è l’Uno, ineffabile, che garantisce tutto. E come fa a garantirlo? Semplicemente non essendo dicibile, perché se lo fosse allora rientrerebbe all’interno di un sistema logico, argomentativo, mostrerebbe, cioè, di che cosa è fatto e, quindi, sarebbe sottoponibile, si direbbe oggi con la logica, a un criterio vero-funzionale. L’Uno, dio, o quello che vi pare, cioè l’ineffabile, sarebbe ciò che consente di parlare; senza questo ineffabile, in effetti, non c’è nessuna garanzia. Prendete la matematica. Ha ragione Einstein: dobbiamo presumere che Dio non giochi ai dadi perché, se così fosse, salterebbe tutto; e, dunque, bisogna presupporre che ci sia un ordine e che le cose siano quelle che sono. Solo presupponendo questo è possibile fare matematica, cioè, credendo in Dio. Ma a questo punto si può estendere la cosa: ne abbiamo bisogno anche per parlare? Cioè, abbiamo bisogno di una garanzia, di un qualche cosa, di questa cosa che il cristianesimo ha chiamato Dio, che garantisce che le cose che dico siano quelle che sono e, soprattutto, che permangano, e cioè che ciò che dico non si dissolva in un attimo in un’infinità di altre parole, ma rimanga quella che è. E chi lo garantisce? Ecco che allora ci troviamo in questa bizzarra situazione in cui ciò che garantisce il dire, quindi non solo la matematica ma il dire in generale, è qualcosa che non può essere detto, perché se lo dicessi allora mi ci potrei confrontare, potrei interrogarlo, potrei vedere di che cosa è fatto. Se, invece, è ineffabile, immobile, ecc., allora posso dormire sonni tranquilli, perché non sarà mai messo in discussione, perché non si può, perché è un’ipostasi e, come tale, non può essere giudicata, valutata, perché non c’è, perché è nulla. Però, è un nulla che c’è e garantisce tutto. Come lo garantisce? Questo Uno è il Bene, e cioè il meglio possibile e immaginabile, che è autosufficiente, quindi non ha bisogno di qualcuno che lo garantisca; se, invece, fosse un atto di parola, anche in questo caso avrebbe bisogno di qualcuno o qualcosa che lo garantisse per essere quello che è. Quindi, la questione che a noi interessa è che il neoplatonismo, da Plotino in poi, ha istituito un sistema basato sull’ineffabile come condizione del dire. Questa garanzia che, dicevo prima, garantisce che quello che dico sia quello che è, che permanga, questa garanzia non può essere qualcosa di ascrivibile all’umano, alla ragione. Per essere una garanzia assoluta, totale, una garanzia che non deve essere messa in discussione, con la quale non ci si può confrontare, ma si può solo sentire interiormente. Altra cosa importante: la teologia Trinitaria, il tre. Cosa fa il tre, perché c’è bisogno del tre, che ce ne facciamo? Il tre ha questa virtù: se c’è il tre, ci sono anche l’uno e due, individuati, e ciascuno è quello che. È per questo che serve il tre: il tre è esattamente funzionale all’individuazione dell’uno e del due come ipostasi; individuati, separati, identificati come uno e come due. Cosa significa mantenere l’uno e il due individuati? Significa cancellare l’entelechia: l’uno non è il due e il due non è l’uno; sono simultanei, compresenti, ma ciascuno è individuato separatamente, non sono lo stesso, non sono in entelechia, direbbe Aristotele. Così tutta la semiotica, a partire da Peirce, lui aveva posto per primo, nella semiotica chiaramente, questa terna – Primità, Secondità e Terzietà – dove riproduce la tripartizione cristiana. C’è un primo elemento, che trae il suo significato dal secondo; quindi, è il secondo che determina il primo, ma c’è il terzo che garantisce tutto, che dà un senso a tutto. Per Peirce, curiosamente, è la chiacchiera, anche se non dice proprio così, ma è il pensiero comune. Ma c’è qualche cosa che comunque garantisce che l’uno e il due siano separati, che si mantengono individuati. Con l’entelechia non è possibile più individuare l’uno e il due, perché sono lo stesso. Facevamo un esempio l’altra volta: l’uno, per poterlo determinare in quanto uno, ha bisogno del due, del significato; quindi, l’uno è il suo significato, cioè il due; ma d’altra parte in due non è altro che ciò che è l’uno, perché è ciò che lo determina; quindi, l’uno è il due. Non c’è più, quindi, quello che i medievali chiamavano principium individuationis, la possibilità di individuare. Cancellata questa coappartenenza dei due, allora si può costruire la religione, mentre con l’entelechia non è possibile. Non è possibile perché non è possibile gerarchizzare, e la religione necessita di una gerarchia: bene e male, l’uno è il bene, i molti sono il male. Questo è Platone. Quindi, tutta l’opera di Plotino, tutte le Enneadi sono un tentativo, molto bene articolato, di mantenere, di stabilire, di istituire questa distanza, e, infatti, lui pone l’essere, l’Uno – L’Uno non è proprio l’essere, l’Uno sta sopra anche l’essere –, e dalla parte opposta il non-essere, la materia come non-essere. Materia che per Aristotele, ad esempio, era inscindibile dalla forma: forma e materia sono due facce dello stesso, lui lo chiamava sinolo, non si possono separare. Invece, Plotino la isola come non-essere. E questo è importante perché consente a questo punto di porre le basi della teologia cristiana, e cioè il male non è altro che la maggiore distanza da Dio, dall’Uno. Quindi, la materia è il male assoluto: più ci avviciniamo alla materia, più ci avviciniamo al male; più ci allontaniamo dalla materia, più ci avviciniamo al bene. Mantenere dunque separati uno e molti: questo è il neoplatonismo. Cosa che non c’era prima o, meglio, non in questi termini. Ricordate Eraclito: l’uno è tutte le cose; non un uno che rimanda a tutte le cose, che produce tutte le cose, no, l’uno è tutte le cose: ἒν πάντα εἰναι. E poi Aristotele, naturalmente, per il quale non c’è una verità epistemica. Quindi non posso affermare nulla con certezza, l’unica verità è quella della δόξα. Quindi, questo Uno non è sostenibile da niente. A parte il fatto che poi per Aristotele l’uno e l’essere sono la stessa cosa, non c’è differenza, perché per Aristotele l’uno non è nulla, è un numero. Ma, posta la questione così come l’ha posta il neoplatonismo, si intende bene perché sia necessario l’uno: perché è l’unica cosa che garantisce il mio dire, altrimenti non ho nessuna garanzia, vago nel nulla e non posso affermare nulla con assoluta certezza. Posso affermare quello che mi pare, ma non posso affermare nulla con assoluta certezza; non c’è la verità, quindi, non c’è il bene, non ho più nemici. E adesso, se non ho nemici, che faccio se non c’è il male da aggredire, da attaccare, perché io possa sentirmi buono e dalla parte del giusto? Quindi, per parlare c’è bisogno di Dio. Naturalmente, c’è bisogno di Dio a condizione che io esiga che la mia parola sia vera, sennò non me ne faccio niente. Allora potremmo dire che tutto il discorso occidentale, tutto il discorso filosofico, da Plotino in poi, è sempre stato necessariamente una teologia platonica: teologia perché ha bisogno di Dio come l’unico garante che si dicano cose vere; platonica perché questa storia è stata inventata da Platone. Quindi, tutto il discorso occidentale è una teologia platonica o, se volete, neoplatonismo, cioè, ha bisogno di Dio o di una qualunque cosa che si metta al posto di Dio. Oggi è la scienza che tende a essere messa al posto di Dio: lo dice la scienza, quindi è vero. Prima era la parola di Dio: lo dice Dio. Quindi, qualcosa che garantisca che sia possibile parlare, cioè, sia possibile dire la verità. Perché parlare senza avere alle spalle una verità, una qualunque verità, significa esporsi alla disseminazione di parole, una disseminazione senza fine, dove non posso più stabilire niente. Sì, certo, c’è la verità, quella della δόξα, perché da qualche parte, diceva bene Aristotele, bisogna pure partire: si parte da ciò che diceva la nonna, e va bene, e poi ci costruiamo su tutte le nostre storie, ma si parte sempre da un qualche cosa che non ha nessun fondamento, non ce l’ha e non lo può avere. Questo, diceva Aristotele nei Secondi analitici: non c’è la possibilità di stabilire nessun fondamento: come lo stabilisco? Il fondamento deve essere universale, e l’universale come lo stabilisco? Lo costruisco con l’induzione, ma è un costrutto, l’ho costruito io, a partire da un certo numero di particolari, quelli che mi fanno comodo... È così che funziona. Plotino ha formalizzato in un certo qual modo quella teologia platonica, cioè quella religione che a tutt’oggi è dominante. È dominante perché ciascuno, parlando, vuole che quello che dice sia riconosciuto come vero. Per potere fare questo occorre che alle spalle ci sia una verità da qualche parte, un qualche cosa, che sia Dio o chi per lui, non importa, ma ci vuole una garanzia. Senza questa garanzia si è perduti. Come dicevo prima, chi mi garantisce che tutto sia quello che è, che permanga quello che è. Posso provare che si mantiene per quello che è? Come? Posso “provarlo” soltanto distruggendolo, cioè, mostrando che quello che dico è altro da quello che volevo dire, per esempio. Teologia platonica è anche il titolo di un testo di Proclo e anche di Ficino. Beierwaltes è neoplatonico, a lui piace il neoplatonismo, pensa che ci sia qualche cosa di profondo, di vero, nel neoplatonismo. Ma al di là di queste sue considerazioni, invece, è interessante che mostra che tutto il pensiero, da Plotino in poi, ha seguito quella via indicata da Plotino e che da lì non ci si è mai più mossi. È questo che Beierwaltes dice, lui per sostenere la validità dell’opera di Plotino, perché lui è il meglio e quindi chiaramente tutti quanti l’hanno seguito. Per noi il discorso è un po’ differente, non è tanto che Plotino sia il migliore in assoluto, ma quello che ha stabilito un modo di pensare religioso che a tutt’oggi è funzionante; lui ci mostra i passaggi, almeno i più importanti nel neoplatonismo, poi nel proto-cristianesimo, Origene, Tertulliano, Dionigi Areopagita, e poi altri fino a Cusano. La teologia negativa è un’invenzione di Plotino. Cosa vuole dire teologia negativa? Che si può dire soltanto ciò che Dio, l’Uno, non è; non si può dire che cosa sia, si può solo dire ciò che non è. Dice che non è questo, poi che non è questo, e alla fine si arriva al nulla, cioè a ciò che non è identificabile, a ciò che non è quantificabile, a ciò che non è misurabile, a ciò che non è neanche pensabile: si arriva all’Uno. Poi c’è il mistico che ci arriva perché lo sente dentro: Santa Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, altro Mistico. Ma noi non siamo mistici, abbiamo uno scarsissimo interesse per il misticismo. In questo percorso Beierwaltes arriva fino all’idealismo tedesco, fino a Schelling, a Hegel, arriva fino a Heidegger, rilevando, perché è questo che lo interessa, come il neoplatonismo, quindi il pensiero di Plotino, sia ancora presente in questi pensatori. Ed è vero in un certo senso, ma non perché Plotino sia il massimo del pensiero, ma perché alla fine è riuscito, attraverso questo artificio retorico, a stabilire che per accertare la verità, per potere utilizzare la verità, occorre che questa verità abbia alle spalle qualcosa di ineffabile, perché, se non è ineffabile, allora è discutibile e, pertanto, non è più la verità. Deve essere ineffabile e, infatti, l’Uno non si può dire. Beierwaltes non aveva neanche tutti i torti anche rispetto a Heidegger che diceva che l’essere non si può dire, si può dire solo l’ente, l’essere in quanto tale non posso dirlo, se lo dico, dico l’ente. E qui non ha torto Beierwaltes: questo è neoplatonismo. Con tutto il lavoro che ha fatto Heidegger, che è stato straordinario e per noi indispensabile, soprattutto per quanto riguarda gli antichi, dove, secondo il mio parere, Heidegger dà meglio di sé. Tuttavia, questa idea, che l’essere non possa dirsi e che possa dirsi solamente l’ente, è neoplatonica. L’Uno non può dirsi, ciò che io dico sono quelle cose che procedono dallo spirito, dall’anima, da ciò che letteralmente, in quanto anima, anima le cose, cioè le vivifica. Quindi, questo excursus di Beierwaltes è interessante, anche se non per i motivi che voleva lui, perché il neoplatonismo ha veramente devastato il pensiero, ha impedito di potere pensare. Ponendo alla radice l’ineffabile, l’indicibile, è come se avesse messo un blocco al pensiero: oltre non vai, oltre non puoi andare, non puoi interrogarti oltre. Cosa che aveva intuito Platone, ma anche Aristotele, anche se Aristotele la poneva in altri termini: non puoi interrogarti oltre perché si trova solo la δόξα, e interrogarsi sulla δόξα significa trovare altra δόξα. Per Platone no, per lui non si deve andare oltre perché oltre all’idea non c’è niente. Il che è già un modo per accennare a ciò che sarà dopo con Plotino: non puoi andare oltre l’idea. C’è una differenza enorme con Aristotele: c’è solo la δόξα, per Platone no, c’è l’idea e oltre l’idea non c’è niente, perché l’idea è nell’iperuranio. L’Uno assolve questa funzione di essere quel limite oltre il quale non c’è più niente. È l’indistinto, ma al tempo stesso è la distinzione: è l’indistinto perché non c’è il modo di distinguerlo, non ha parti, non ha elementi distinguibili, determinabili, ma è anche la distinzione perché si distingue da ogni altra cosa. Unum est aliud, l’Uno è altro, è sempre altro comunque. È la differenza, differenza che però non ha in sé, perché non è differente, è indifferente, non ha differenza ma è ciò che la permette, la permette perché ciò che non è l’uno è altro dall’uno, quindi è differenza. Su queste basi si è costruito, soprattutto con Agostino, il cristianesimo con la fatidica domanda sulla creazione: creatio ex nihilo, la creazione del nulla, come è possibile? Se non c’è niente chi crea? Plotino gli ha risolto il problema: la processione. Essendo l’Uno il Bene assoluto, dall’Uno questo Bene deborda, trabocca. E che cosa produce? La ragione, cioè la logica, l’intelletto. E questa ragione cosa produce? Dà vita alle cose. Questo è molto presente in Agostino, lo vedremo nel De Trinitate: è la parola, in principio era il verbo, cioè Dio parlando ha creato le cose, le ha create parlando, illuminandole, nominandole le crea: questa è la tesi di Agostino. Tesi interessante: il fatto che Dio, cioè l’ineffabile, attraverso la parola, crei le cose. Ci vuole un ineffabile per creare le cose, perché solo così le cose hanno una loro identità, sono identificabili, perché c’è qualcuno o qualcosa che le garantisce; sennò, Dio avrebbe creato così, a caso. Questo è in poche parole il modo in cui si è configurato il pensiero in cui oggi ci troviamo: la necessità, dicevamo la volta scorsa, che ci sia comunque un qualche cosa, una verità, un Dio, un qualche cosa, non importa, ma qualcosa deve esserci, perché c’è un ordine e deve esserci. Se non c’è l’ordine non posso parlare, perché ciò che dico non è più garantito da nessun ordine, e quindi dico e basta, ma ciò che dico non ha nessuna possibilità di imporsi, e la volontà di potenza, parafrasando Nietzsche, digrigna i denti di fronte a una cosa del genere. Separare l’uno dai molti, il bene dal male: questo è il lavoro che fa Plotino nelle Enneadi. Fa solo questo in realtà, ma lo fa bene, tant’è che da duemila anni funziona. Non solo grazie a lui, certo, ma il cristianesimo senza Plotino avrebbe avuto qualche difficoltà a istituirsi. A questo punto vediamo qualche cosa di Plotino, perché dobbiamo leggerlo. Ecco, qui sta dicendo che le persone non vogliono fare il male. Perché non vogliono farlo? Il motivo è semplice: è dall’Uno che tutto procede e l’Uno è il Bene assoluto; allora anche l’uomo, che procede dall’Uno, non può non volere il bene, non può non volere tornare al bene, all’Uno; quindi, se commette il male è perché si distrae, perché ci sono le cattive compagnie, ecc. E, infatti, dice a pag. 395, L’azione compiuta dall’intemperante non è né opera della provvidenza né è secondo provvidenza; anche l’azione dell’uomo saggio non è compiuta dalla provvidenza, ma da lui stesso, però, è conforme alla provvidenza, poiché si accorda con la ragione; nello stesso modo chi segue le pratiche dell’igiene, agisce egli stesso... Siamo alla terza enneade, a pag. 403. Qui ce l’ha con il demone. Il demone è una cosa che Plotino prende da Platone. Chi dunque diventa demone? Chi era tale anche quaggiù. E chi diventa Dio? Forse chi era Dio quaggiù? Infatti, ciascuno è condotto da quella facoltà agente, che lo ha diretto anche quaggiù. Questa facoltà è dunque il demone che ha avuto in sorte l’essere vivente? No, questo demone è prima di quella facoltà; esso infatti domina senza agire, mentre agisce il principio inferiore. Se in noi agisce la facoltà sensitiva, il demone è un principio razionale… Se ci dominano i sensi, il demone dice: pensaci bene prima, usa la testa. …se noi viviamo secondo la ragione, il demone è un principio superiore alla ragione; ed esso domina senza agire e le permette di essere attiva. Perciò si dice giustamente che noi sceglieremo il nostro demone. Infatti, noi scegliamo quel demone che durante la vita ci domina. E perché, dunque, egli ci conduce? Egli non può condurre chi abbia già finito la sua vita, bensì può condurlo prima, durante la sua vita; ma, quando la sua vita sia finita, egli obbedisce a un altro demone poiché è morto alla vita e all’attività. /…/ E così anche il cattivo viene sospinto verso un grado inferiore e vive una vita che assomiglia alla parte che agisce in lui, cioè una vita bestiale. Ma se il demone può seguire l’altro demone che è sopra di lui, egli eleva se stesso vivendo conforme ad esso e pone come dominatrice la parte migliore... Quindi, l’uomo tendenzialmente aspira al bene perché aspira a tornare all’Uno, da cui lui stesso procede; è stata una produzione dell’anima e l’anima, sappiamo che è un’ipostasi che procede dalla ragione. Siamo a pag. 413. Riguardo alla passione che noi attribuiamo all’amore, nessuno davvero ignora che essa sorge nelle anime desiderose di unirsi alle cose belle, e che questo desiderio o nasce in uomini temperanti che hanno familiarità con la bellezza stessa o tende a un’azione vergognosa. Donde le due forme traggono origine conviene esaminare filosoficamente partendo di qui. Se si ammette come principio una originaria tendenza dell’anima al bello… Bisogna ammetterla come principio, è un’ipostasi. …una conoscenza e un’affinità con esso e un irrazionale sentimento di questa parentela, si afferma, io credo, la vera causa dell’amore. La vera causa dell’amore è questo principio per cui ciascuno tende al bello: questa è la causa dell’amore. Il brutto è contrario alla natura e alla divinità. Infatti, la natura produce contemplando ciò che è bello. Come la ragione si mantiene vicina all’Uno? Contemplandolo, ed è contemplandolo che si produce l’anima che vivifica tutto. L’Indeterminato, invece, è brutto e appartiene all’ordine opposto. L’indeterminato, i molti, l’πείρων, l’infinito. La natura ha la sua origine lassù, cioè nel bene e nel bello. Quando si ama un essere e si ha affinità con lui, si prova anche per le sue immagini un sentimento di simpatia. A pag. 415. Dunque, gli uni amano i bei corpi anche con desiderio sessuale, ma perché sono corpi belli, gli altri, invece, posseggono l’amore cosiddetto misto, desiderano cioè la donna, anche per assicurare la perpetuità della specie; se la donna non è bella, essi deviano un po’, mentre gli altri sono migliori; onesti però sono gli uni e gli altri. Gli uni onorano la bellezza terrena e se ne acconsentano, gli altri onorano quella di lassù in quanto ne hanno un ricordo, ma non disprezzano questa, che è di quella un effetto e una rappresentazione. Costoro si accostano alla bellezza senza cadere turpitudini; gli altri, invece, a motivo della bellezza, cadono in cose turpi; così il desiderio del bene produce spesso una caduta nel male. E questo è l’amore come passione dell’anima. Il desiderio del bene c’è sempre, però può anche produrre una caduta nel male, pur essendo comunque un desiderio del bene, perché non può non essere altro che desiderio del bene, in quanto viene dall’Uno. Ora dobbiamo parlare filosoficamente dell’amore che non il popolo soltanto, ma anche i teologi chiamano dio, e che Platone in molti luoghi chiama Eros, figlio di Afrodite, al quale attribuisce il compito di guardiano dei bei fanciulli, di colui che muove le loro anime verso la superiore bellezza o rafforza l’aspirazione già esistente in loro verso quella. A pagi. 417. Guidata da Kronos o, se si vuole, da Uranos padre di Kronos, essa (Afrodite) dirige i suoi atti verso di lui e se ne innamora ed amandolo genera Eros e con lui guarda verso Kronos: questo atto di contemplazione produce un’ipostasi e un’essenza… L’atto della contemplazione, questa per Plotino è fondamentale. La contemplazione per i greci sarebbe la teoria, ma la contemplazione per Plotino è il non potere non rivolgersi verso il Bene assoluto, è il modo in cui ciascun elemento ricorda da dove viene, cioè dal Bene assoluto. …Eros è un’ipostasi eternamente diretta verso un’altra bellezza e compie la funzione di intermediario tra il desiderante e il desiderato; egli è l’occhio del desiderio che all’amante permette di vedere l’oggetto desiderato, correndo egli stesso dinanzi per primo e riempiendosi di questa visione ancor prima di avere dato all’amante la facoltà di vedere col suo organo; esso però non vede come l’amante, poiché nell’amante l’oggetto della visione penetra stabilmente, ma gode dello spettacolo del bello che passando lo sfiora. Ecco il bello, la contemplazione del bello. A pag. 425. L’amore, se naturale e innato, è bello; l’amore di un’anima inferiore è inferiore per dignità e potenza, gli altri invece sono superiori;… Questa idea di inferiore o di superiore è stata poi ripresa da Hegel rispetto alla figura dell’anima bella: l’anima bella è superiore, tutti gli altri sono inferiori. …però tutti si devono considerare essenze; invece l’amore contro natura delle anime aberranti è soltanto una passione e non un’essenza o un’ipostasi, non è generato dall’anima, ma si accompagna semplicemente al vizio dell’anima che produce qualcosa di simile a se stessa nelle sue disposizioni e abitudini. In generale sembra che i beni veri e conformi a natura, propri di un’anima che agisce entro i suoi limiti siano sostanziali, mentre gli altri che non dipendono da un atto suo proprio non sono che affezioni. Quindi, la sostanza, ciò che importa, è ciò che si dirige al bene, il resto sono affezioni, sono malanni, accidenti. Similmente, i pensieri falsi non si riferiscono affatto a sostanze, mentre i pensieri realmente veri, eterni e definiti includono un atto del pensiero, l’oggetto intelligibile e la esistenza di quest’ultimo, non soltanto quando si tratti del pensiero in generale, ma anche quando si tratta di un pensiero determinato, relativo all’intelligibile all’Intelligenza, incluso in ciascuna specie; anche in ciascuno di noi bisogna porre un’intellezione e un intellegibile puri e separati da ogni altro, e questo è ciò che è di semplice in noi. Il fatto di intelligenza è separato perché deve cogliere la cosa con me. Non può essere contaminato dal suo contrario. Di qui il nostro amore per gli oggetti, nella loro semplice essenza. Ci sono quegli oggetti individuati, identificati. Questo atto di intelligenza è separato, perché deve cogliere la cosa così com’è, non può essere contaminato dal suo contrario. Di qui il nostro amore per gli oggetti nella loro semplice essenza… Quindi, sono degli sempre degli oggetti individuati, identificati: l’uno senza il due. …poiché così è anche il nostro pensiero; se, infatti, si pensa qualcosa di particolare, è per accidente; così ad esempio si vede che in un triangolo la somma degli angoli è uguale a due retti solo in quanto è un triangolo. O viceversa. Ma se vogliamo tenere le cose separate, uno solo dei due deve avere accesso, l’altro no. Tutto ciò che si affaccia verso il bene deve essere sempre separato dal male, cioè dai molti. A pag. 429. Sua madre è Penia, poiché il desiderio è sempre in chi è bisognoso. Penia è la materia, poiché la materia è bisognosa in tutto e poiché l’indeterminatezza che è nel desiderio del bene – infatti in chi desidera il bene non c’è forma né Ragione - rende simile alla materia l’essere che desidera in quanto desidera. Il bene invece rispetto al desiderante non è che forma che permane in se stessa... Il bene è forma che permane in se stessa, è la parola che rimane quella che è; ma solo se c’è l’Uno che la garantisce, è l’Uno che garantisce che la forma permanga in se stessa, sennò si dissolve in una miriade di forme. Così come la parola, se non è garantita da un Dio, si dissolve in una infinità di altre parole. A pag. 435. Obbedire alla ragione è come un vedere, in cui non si riceve una forma, ma si vede e si è in atto ciò che si vede. Si diventa ciò che si vede. E come la visione, in potenza o in atto, è sostanzialmente la stessa e il suo atto non è un’alterazione ma è visione e conoscenza impassibile, allorché si accosta a ciò che ha una essenza; così è la parte razionale in relazione con l’Intelligenza; essa vede, ed è questo il potere di pensare, senza che vi si formi dentro l’impronta, ma possiede ciò che vede ed insieme non lo possiede; lo possiede perché conosce, non lo possiede poiché non discende in lei dalla visione qualcosa come la forma nella cera. Lo possiede perché lo conosce, lo comprende, ma non lo possiede perché comunque non dipende da lei; dipende sempre dall’Uno. Bisogna ricordare che i ricordi, come si disse, non sono nell’anima a causa di impressioni depositate in lei, ma perché l’anima risveglia in sé il suo potere, sicché essa possiede anche ciò che non possiede. Come? Prima di ricordarsi non era essa diversa da ciò che dopo, quando si ricorda? Diversa, se si vuole, ma non alterata, purché non si chiami alterazione il passaggio dalla potenza all’atto; nulla, infatti, si è introdotto in lei, ma essa agisce secondo la sua natura. Quindi, non si altera, rimane quella che è. È necessario che qualche cosa rimanga quello che è; ma come facciamo a fare in modo che qualcosa rimanga quello che? Attraverso l’Uno, attraverso il Dio che lo garantisce. Non c’è altro modo, diceva bene Occam: c’è solo un Dio che può garantire che quella cosa lì sia quella cosa lì. A pag. 441. A una forma necessariamente non appartiene alcuna agitazione o passione, ma il restare immobile; è la sua materia che prova le passioni, (non essere, cioè i molti, il male) allorché esse si producono per la presenza di quella forma che le muove. Infatti, la potenza vegetativa, quando fa vegetare le piante, non vegeta essa stessa, né, quando fa crescere, cresce essa stessa, né in generale, quando muove, si muove dello stesso movimento che produce; anzi, o non si muove del tutto oppure diverso è il modo del suo movimento e del suo atto. La natura della forma deve essere dunque un atto che produce con la sua sola presenza, così come un rapporto armonico muove da sé le corde della lira. Ogni cosa è quella che è, stabile, ferma, fissa, immobile. È un po’ come la questione del movimento, cioè il movimento nasce dall’immobile, il dire nasce dall’ineffabile, le cose nascono dal nulla, questo è Anassimandro. Sì, ma questo nulla è, non è il nulla di Anassimandro, non è l’πείρων, è l’Uno. A questo punto l’πείρων di Anassimandro ha preso forma, è diventato un qualche cosa, con una sua volontà in un certo senso, anche se Plotino non la chiama volontà, anche perché, se avesse volontà, non sarebbe quello che è.

Intervento: Il principio di ragione c’è perché c’è.

È un’ipostasi, è così.

Intervento: Quella splendida operazione retorica del sentire, quello è stato un colpo di genio.

Sì, in effetti, l’Uno non si può vedere, non si può toccare, non si può pensare, non si può niente, ma lo si può sentire. Infatti, la fede esclude, almeno per Agostino, esclude la ragione, non ne ha bisogno: se ho fede, mi basta la mia fede. È stato poi Tommaso che ha voluto inserire la logica, anche se come dono di Dio, per conoscerlo meglio.