LUNIPSI

 

DALLA PARTE DELL’INCONSCIO

La specificità della ricerca in psicanalisi

 

SALA DELL’ANTICO MACELLO DI PO

Via Matteo Pescatore 7, Torino

 

 

ASSOCIAZIONE “SCIENZA DELLA PAROLA”

Da dove vengono le parole

 

8 novembre 2014

 

Intervento di Beatrice Dall’Ara

 

Questi incontri sono stati promossi da Lunipsi affinché ciascuna associazione, che ne fa parte, possa mostrare di che cosa si occupa, come lavora, cosa la spinge ad affermare ciò che afferma e perché afferma le cose che afferma.

Il titolo della Scienza della parola questa sera è “Da dove vengono le parole?” la risposta è che le parole vengono inesorabilmente da altre parole non c’è la prima parola né l’ultima parola, gli umani parlano e parlando fanno esistere le cose, se non parlassero le cose non esisterebbero né potrebbero esistere, gli umani parlano e dal momento in cui hanno imparato a parlare non possono più smettere di parlare e ogni cosa che fanno, faranno, penseranno, decideranno, avrà come condizione quella struttura che produce le loro parole e quindi il loro pensiero.

Una struttura grammaticale e sintattica, logica che è ciò che chiamiamo “linguaggio”, una struttura che funziona ininterrottamente a produrre, a modificare, a inventare con le parole altre parole.

Molti anni fa quando decisi il percorso analitico, dopo aver intrapreso diverse vie quali la fede, la medicina, il volontariato eccetera non sapevo granché ovviamente della parola, come ciascuna persona ragionevole, normale sapevo, mi era stato insegnato che le parole sono importanti, certo, per descrivere ciò che si sente, più si è capaci nella descrizione delle proprie emozioni, delle proprie sensazioni e più si entra nel campo della poesia per esempio, sapevo che le parole, il linguaggio è uno strumento, uno strumento fra gli altri, per esempio per comunicare, ma l’importanza del linguaggio la intesi man mano praticando il linguaggio nell’analisi, interessandomi alle cose che il mio discorso andava intessendo, accorgendomi del racconto che via via il mio discorso costruiva e continuava a costruire in diverse guise e fogge, quasi che questo fosse l’unico obiettivo del discorso. Perché il mio discorso continuava a costruire, a ripetere e a riproporre sempre la stessa storia? con tutti gli annessi e connessi ovviamente: paure, angosce, attese di felicità, quasi che da questa ripetizione traesse l’unico piacere consentito?

E questa fu una delle prime questioni teoriche con le quali il mio discorso cominciò a confrontarsi e cioè la questione che riguarda “anche” il piacere, “ciò che mi piace” che riguarda “ciò che attrae” e che si può formulare nella domanda “agisco o patisco?”. Questione strettamente connessa con ciò che riguarda la volontà degli umani, “determinismo o libero arbitrio?”, questa era una questione ma correlata e dipendente da moltissime altre questioni, che occorreva approcciare e svolgere man mano, non ultima la questione centrale quella del linguaggio e con la questione del linguaggio la questione “verità”, perché da questo dipendeva il procedere e la direzione del percorso. La questione del linguaggio che si mostrava centrale anche nei testi di Freud, dove erano le parole ad avere il ruolo determinante nella risoluzione del problema, in quel gioco del “sintomo” nei discorsi delle persone, così detto “sintomo” che compariva e scompariva quasi per magia ma che lui, Freud, mostrava non essere magia ma il modo in cui le parole si connettevano, si annodavano fra loro a sortire certi effetti, questione centrale nei testi di Lacan, centrale nei testi di Verdiglione. “Da dove vengono le parole?” diceva il titolo, e la risposta è “vengono da altre parole”, anche se non sempre il significato che si coglie è lo stesso, non sempre c’è lo stesso rinvio, non sempre lo stesso interesse, infatti quante correnti sono nate dalle parole, a mio avviso, ricchissime e perciò interessanti di questi “esseri parlanti”? Quante correnti psicanalitiche, quante scuole di psicanalisi, quante teorie, e purtroppo quante psicoterapie?

Questioni teoriche con le quali cominciai a confrontarmi, insieme con altri, negli incontri che ogni mercoledì Luciano Faioni teneva, questo da venticinque forse trent’anni, e che proseguono ogni mercoledì festività e ferie comprese, incontri, a porre, a discutere e a svolgere le questioni che intervenivano e che intervengono e che nascono proprio dal lavoro analitico. Il lavoro dell’analisi è proprio quello di volgere un problema, di qualsiasi problema si tratti, “la cosa in questione” in questione, cioè esporla alla parola, farla entrare nella parola, rendere la “cosa” argomentabile, solo con l’argomentazione si può interrogare, aggiungere elementi, contro argomentare, negare, confutare quindi concludere, quindi affermare, quindi “fermare” come dice la parola, fermare per poter di lì proseguire e continuare a dire e proprio qui sta ciò che distingue la Scienza della parola, “per proseguire e continuare a dire” quindi continuare a pensare, e continuare a scommettere sull’intelligenza degli umani che sono esseri parlanti, intelligenza che non è un dono di un dio maligno o benigno ma è data dall’infinita possibilità che il linguaggio offre, la possibilità di, come dice la parola, di “legare” il maggior numero di informazioni per trarne di volta il volta il maggior vantaggio. Gli umani sono esseri parlanti, se non parlassero non avrebbero costruito fiabe, racconti, composto le più belle poesie, non avrebbero inventato l’arte, non avrebbero costruito la nevrosi, né la teoria della relatività, non ci sarebbero le guerre, “non avrebbero costruito la loro umanità così come l’hanno costruita”, tutto questo e, non solo, senza la parola che rinvia a un’altra parola, che è segno per un’altra parola, che significa qualcosa per qualcuno, nulla potrebbe esistere. La Scienza della parola non impone una teoria, non afferma “le cose stanno così come diciamo noi” perché propriamente le cose non stanno, non stanno in qualche iperuranio, in un mondo metafisico ma stanno nelle parole di chi le fa esistere. La Scienza della parola invita alla parola, invita al gioco considerando anche l’aspetto ludico, piacevole del gioco, perché sa, non può non saperlo, che anche l’esistenza è un gioco linguistico.

 

 

Intervento di Cesare Miorin

 

Il mio incontro con la Scienza della parola risale a circa vent’anni fa, ed è stato un incontro del tutto casuale. Una sera passeggiando per Torino, passando davanti a una libreria, allora si chiamava “Araba Fenice”, una locandina affissa sulla porta attirò la mia attenzione “Credere e Sapere” era il titolo ed entrai. Io leggevo molto, di filosofia, Nietzsche per esempio, con la sua poesia e la sua potenza era uno dei miei autori preferiti, leggevo di narrativa, ma non solo, dipingevo e traevo da questo molte delle mie emozioni, emozioni che mi spingevano a interessarmi alle opere d’arte, gli “Impressionisti” per esempio erano i miei pittori preferiti, ma non solo, mi affascinava tutta la storia dell’arte, mi interessavo di politica, ovviamente seguivo una certa parte politica perché mi sembrava dicesse e facesse le cose vere e giuste che io avrei voluto fare, più tardi il mio interesse fu per le ideologie, sulle quali si fonda ogni partitocrazia, il mio interesse sulle fantasie che governano il mondo, mi interessavo di musica, mi piaceva la storia eccetera, insomma ero assolutamente felice, avevo molti e straordinari interessi che bastavano al mio pensiero per muovere e per dilettarsi, bastavano all’economia del mio pensiero, e quindi non c’era posto per il disagio anzi era una perdita di tempo. Dunque quella sera entrai e cominciai ad ascoltare quello che diceva l’oratore, era Luciano Faioni, ciò che mi attrasse in quelle parole fu la straordinaria generosità intellettuale con cui trattava delle “Verità”, verità in cui gli umani credevano, verità che gli umani professavano e imponevano e ciascuna volta come fossero verità assolute, verità assolute che si contrapponevano a creare conflitti, e quindi la conclusione cui il mio pensiero giunse era che tutte queste verità assolute erano delle certezze, delle credenze, delle superstizioni. E infatti continuai a seguire tutte le altre conferenze, indipendentemente dall’argomento trattato, che erano sempre dirompenti rispetto al discorso comune, dopo qualche tempo decisi di mettere in gioco il mio pensiero, il mio discorso perché era, ed è questa la mia ricchezza, era la mia curiosità intellettuale che mi spingeva ad intendere, a voler intendere e “sempre” qualche cosa di più, soprattutto qualche cosa di più del “mio” pensiero e dei limiti, che a questo punto, intuivo molto “confusamente” nel mio pensiero. C’era una questione fra le altre che “intuivo” in qualche modo, ma era molto complessa, la questione del linguaggio, era su questa questione che lavoravamo e con la quale si faceva i conti nei corsi del mercoledì e cioè la domanda era “se poteva darsi anche un solo mattoncino, uno solo, su cui appoggiare il piede cioè su qualcosa di solido” per confutare, per negare che qualsiasi cosa è un elemento linguistico. (Allora si affermava così, nel 1995) Negare che qualsiasi cosa è un elemento linguistico era una contraddizione perché per costruire questa negazione dovevo necessariamente utilizzare degli elementi linguistici, ma bastava una “banale” “sciocca” contraddizione per sovvertire tutto ciò che il pensiero fino ad allora aveva costruito, in millenni di ontologia e metafisica? Era molto difficile intendere questa questione, questa preludeva a ciò che molto più facilmente oggi stiamo dicendo e cioè che gli umani parlano, sono esseri parlanti e che con le loro parole hanno costruito e costruiscono qualsiasi cosa. Le prime obiezioni già vent’anni fa erano quelle che noi ci facevamo ed erano quelle che oggi ci vengono fatte “ma i bambini, gli animali non parlano eppure ci dicono con lo sguardo … gli studi che sono stati fatti … eccetera” dimenticando come è facile per ciascuno far dire, in questo caso ai bambini e ai cani, le proprie parole senza minimamente accorgersene. (Freud parlerebbe di identificazione) Ma dicevo, se bastava una “banale” contraddizione a sovvertire il pensiero? considerando che anche la contraddizione è una costruzione del linguaggio, e che ha una funzione in molti casi quella di far intendere alla persona stessa che c’è conflitto, qualcosa da interrogare nel proprio discorso. Per esempio, nel mio caso, la questione del limite di quel sapere che appagava il mio discorso, erano tante le cose che io sapevo, tante e variegate, mi consideravo fortunato e il disagio che accoglievo era importante ma era il disagio che “vedevo”, “ vedevo” in molte persone, era il disagio delle altre persone, era un malessere che altri “provavano”, “sentivano”, io ne ero al di sopra, accoglievo gioia non sofferenza, certo avevo in molti casi fortissime paure che consideravo naturali, ma il disagio io non lo lasciavo entrare, era un limite in fondo, ora non si tratta di “provare il disagio” non ce ne è bisogno, giustamente non serve a nulla, ma in analisi occorre interrogare proprio ciò che fa limite, giungere a questo per poter proseguire e quindi ho approcciato e interrogato questa questione, ho fatto entrare nel mio discorso il “disagio” e mi sono accorto che era disagio intellettuale e posso dare questa risposta alla domanda “cosa crea disagio?” (di qualsiasi forma di disagio si tratti) Crea disagio tutto ciò che di “nuovo” interviene, quelle parole nuove che di volta in volta, vanno ad intaccare, a mettere in contraddizione ogni certezza, ogni credenza, ogni superstizione. Questo crea il “disagio”. E perché “il nuovo” crea disagio? Perché togliendo ogni certezza, ogni credenza, ogni superstizione il parlante, accorgendosi di essere parlante, non ha più bisogno della verità assoluta, universale, che riguarda il mondo intero, non se ne fa più nulla, sa che la sua è una verità particolare che riguarda il suo discorso, e che è questa la sua ricchezza, il suo particolare gioco linguistico, nel mio caso riguarda “la felicità” di aver potuto elaborare ogni limite e consentito alla curiosità di accogliere nuovi elementi, un nuovo gioco per giocare con gli infiniti altri giochi che è ciò che il linguaggio ha consentito e consente.

 

   

Intervento di Sandro Degasperi

 

La mia relazione non ha un titolo perché vuole essere una testimonianza circa il lavoro svolto da questa associazione e lo farò con un racconto che riguarda il come si è avviato il suo percorso. Lo farò senza addentrarmi troppo in considerazione tecniche per non ostacolarne l’intendimento.

Io ho iniziato il mio percorso nell’82, quindi, molto tempo fa.

A quel tempo la mia formazione è iniziata con la lettura dei testi di Freud, di Lacan, di Verdiglione, lettura che facevo insieme a Faioni e ad altri amici. Insieme a questi testi, che consideravamo i nostri riferimenti teorici per quanto riguarda la psicoanalisi, affiancavamo la lettura di testi di linguistica, di semiotica, di filosofia del linguaggio, di retorica, di logica, e questo per l’importanza che attribuivamo alla parola, al linguaggio. Uno psicoanalista ha innanzitutto a che fare con le parole, è quello il suo strumento di lavoro, non ne ha altri. Ascolta discorsi, storie, racconti e pertanto la parola, il sapere come funziona, era a nostro avviso fondamentale.

Ricordo che per diverso tempo mi coglieva un senso di disagio al termine di ogni incontro perché non c’era mai una chiusura, come se non si arrivasse mai a una decisione sulla questione discussa, ma c’era sempre un rilancio. Ogni volta che sembrava di essere arrivati alla soluzione ecco che nuovi interrogativi riaprivano la questione. Questo allora mi procurava una certa irritazione forse perché ero giovane, ero abituato al metodo scolastico, a quello universitario, dove il sapere è qualcosa di già dato e ti viene dispensato, ti viene detto che le cose stanno in un certo modo, uno prende nota, cerca di memorizzare il tutto, e finisce lì.

In quell’occasione tutto era diverso, tutto veniva interrogato, non si arrivava mai al termine di qualcosa, la questione era sempre aperta, rilanciata e questo mi dava la sensazione di una sorta di ignoranza strutturale. Più venivo a sapere, più il mio sapere si arricchiva e più mi accorgevo di quanto lavoro c’era ancora da fare.

Ciascuno, in occasione dei vari seminari, dei corsi, veniva sollecitato alla lettura, alla scrittura, all’intervento, ad esporsi ognuno a suo modo, e la cosa straordinaria era quella necessità di interrogare in modo incessante tutto ciò che si andava incontrando lungo il nostro percorso.

L’atto fondativo della nostra associazione nel ’92 ha coinciso con una svolta teorica.

L’elaborazione di quegli anni, il confronto con le altre discipline, penso in particolare alla semiotica e alla logica, ci aveva posto di fronte a delle domande che mettevano in questione molte delle affermazioni della psicoanalisi, avevamo acquisito tutta una serie di elementi teorici importanti che ci avevano fatto intendere che forse le varie teorie psicoanalitiche non avessero basi sufficientemente solide.

Abbiamo incominciato, allora, a mettere in questione le teorie psicoanalitiche, almeno a quelle più importanti, a domandare loro di fornirci la prova della sostenibilità delle loro affermazioni. È stato un lavoro enorme, delle volte anche un po’ noioso, ma che ci ha condotti verso una direzione assolutamente inedita in ambito psicoanalitico. Ci siamo accorti che queste teorie non erano assolutamente in grado di rispondere di se stesse, ci siamo accorti che molte delle loro affermazioni erano costruite in un modo retorico ineccepibile, e anche affascinante, ma erano logicamente autocontraddittorie e quindi potevano essere accolte solo per via di un atto di fede.

La psicoanalisi non si è mai curata di provare le proprie affermazioni, è sempre stato questo il suo limite, ed è anche l’obiezione principale che le è sempre stata rivolta, basti pensare a Popper, che insieme al marxismo e alla religione, non la riteneva una scienza in quanto non falsificabile. Ma questo, di fatto, non ha mai preoccupato gli psicoanalisti per i quali è sempre stata una questione irrilevante, si sono semplicemente liberati della questione.

Ora, è evidente che in assenza di un fondamento, che sia tale, qualunque affermazione non è altro che un’opinione e allora, se ogni opinione diventa legittima, come diceva Feyerabend “tutto va bene”. E, difatti, questo è stato il presupposto per il proliferare delle teorie, delle scuole, al punto che pare esistere non più una sola psicoanalisi ma molte psicoanalisi.

 

Tutte queste considerazioni ci hanno costretti a mettere in gioco, in discussione, la nostra stessa formazione, ci siamo chiesti che cosa stavamo facendo, non potevamo più accontentarci dell’esistente, era un po’ come aver superato le colonne d’Ercole e non si poteva più tornare indietro.

In che modo proseguire, quindi? L’idea non è stata quella di abbandonare la psicoanalisi, che a questo punto poteva anche essere un’opzione, ma quella, piuttosto ambiziosa, di riuscire a dare alla psicoanalisi uno statuto teorico più solido, più rigoroso.

Si trattava di eliminare dalla psicoanalisi tutta una serie di elementi inutili che le conferivano un carattere di religiosità, che sembravano funzionare magicamente, e di reperire invece qualcosa che fosse assolutamente necessario e porlo a fondamento di un nuovo modo di procedere.

Ci siamo posti un numero notevole di domande e abbiamo cercato ovviamente di dare delle risposte. Ci siamo accorti però che ogni risposta che veniva via via data rinviava, apriva sempre a un‘altra domanda, in un rinvio infinito, non c’era mai modo di dire “è così”. Se, per esempio, mi chiedo il significato di qualunque cosa, questo significato non riuscirò mai a stabilirlo una volta per tutte, perché anche quello che di volta in volta stabilisco ha un altro significato, che è una proposizione e che quindi avrà un altro significato e via di seguito. Questa ricerca del significato rinvia all’infinito.

Non si riusciva a fermare da nessuna parte questo rimando e ci siamo accorti che se avessimo anche voluto fermarlo su qualcosa lo avremmo potuto fare solo in seguito a una nostra decisione, ma a questo punto sarebbe stato un gesto assolutamente arbitrario, gratuito, e non necessario.

E, allora, cosa resta di tutto ciò? Resta ciò che mi ha consentito di fare tutto questo percorso. L’unica cosa di cui possiamo dire di essere certi è che stiamo parlando, e che solo parlando possiamo costruire discorsi, teorie, storie, fare qualunque cosa come, per esempio, attribuire un significato.

Cos’era necessario, dunque? Cos’è che non può non essere? Era il linguaggio, era il fatto stesso di essere parlanti che ci consentiva di farci quelle domande e di darci certe risposte, di fare qualunque cosa. L’unica condizione, l’unica cosa necessaria era questa.

Siamo partiti dalla semplice considerazione che gli umani sono esseri parlanti, affermazione questa che può apparire assolutamente banale, e di fatto lo è, ma si è trattato di trarre da questa banalità tutte le possibili implicazioni.

Il fatto che siano esseri parlanti comporta innanzitutto che gli umani sono presi in una struttura dalla quale non c’è uscita, dal momento in cui si è nel linguaggio non c’è più modo di uscirne, di conseguenza tutto ciò che pensano, tutto ciò che dicono e fanno, è vincolato alla sua struttura. È questa struttura che consente loro di dirsi umani, di costruire tutto quello che hanno costruito e che costruiscono, è ciò che consente persino di accorgersi di esistere, perché senza il linguaggio non c’è neanche l’esistenza che, essendo prima di tutto un concetto, è vincolata al linguaggio. Questa considerazione implica che gli umani non solo sono nel linguaggio, come già altri avevano affermato, per es. Heidegger parla del linguaggio come la dimora dell’Essere, ma sono letteralmente fatti di linguaggio e, pertanto, è solo conoscendo come funziona il linguaggio che si può intendere come funzionano gli umani, pensano quello che pensano.

“Ciascuna cosa è un elemento linguistico”, non c’è nulla fuori dal linguaggio. La considero la proposizione fondativa della scienza della parola. E’ un’affermazione impegnativa, un’affermazione che non è dimostrabile ma che tuttavia è non negabile, non si può negare perché, negandola, si incapperebbe in una autocontraddizione in quanto il negare questa affermazione comporta il negare ciò che stesso che mi consente di negare. Come dicevo, non è dimostrabile ma piuttosto è una costrizione logica.

 

Il linguaggio ha questa particolarità, che per funzionare deve concludere ciascuna volta con un’affermazione vera per poter procedere.

Questo rende conto della necessità che hanno le persone, quando parlano, quando pensano, di affermare, letteralmente di fermare, di stabilire parlando come stanno le cose.

Cercano sempre di sapere come stanno le cose. Quando devono prendere una decisione, quando valutano, quando giudicano, vogliono sapere se una certa cosa è giusta o sbagliata, se è corretta oppure no, se è utile, di qualunque cosa si tratti. Ne hanno bisogno come dell’aria che respirano, perché sapendo che cosa è vero sanno come stanno effettivamente le cose e sanno a quel punto con sicurezza quale direzione prendere. E, difatti, gli umani si muovono in una direzione solo se ritengono questa direzione vera, altrimenti la abbandonano.

Per dirla in termini ancora più semplici, hanno bisogno di certezze, di sicurezze, di verità. Ciò che si immagina essere “vero” ha un suo utilizzo, perché è ciò che serve per orientarsi nel mondo, per interpretare ciò che mano a mano si incontra, in definitiva, per una fantasia di padronanza, di potere. Sapere come stanno le cose è ciò che consente loro di immaginare di poterne avere un controllo.

Queste certezze, questi punti fermi, li cercano continuamente e generalmente li trovano.

Solo che non sanno che è il linguaggio che li costringe a fare questo ma immaginano che ciò che trovano, le conclusioni che raggiungono ogni volta che pensano o argomentano, siano non una costruzione linguistica ma qualcosa che corrisponde o deve corrispondere alla realtà delle cose. E, infatti, una volta che qualcosa viene affermato, che viene stabilito, non è più un elemento linguistico ma diventa qualcosa di reale, qualcosa che dice come stanno le cose.

Freud si era già accorto di questo, le persone parlando pensano dire qualcosa di reale, come se descrivessero dei dati di fatto, quando invece tutto ciò che dicono, che raccontano, è pilotato dalle loro fantasie. E si era accorto che i cosiddetti disturbi nervosi hanno questa prerogativa, di non essere nient’altro che discorsi che la persona si costruisce e ai quali, per qualche motivo, crede fermamente. Un disagio, per esempio, è supportato da qualcosa che si crede vero, da una credenza, da una superstizione, cioè dal credere fortemente in qualcosa, non si può̀ avere paura di qualcosa che si sa che non esiste, per esempio.

E, in effetti, è questo il modo in cui vivono le persone: parlano e parlando costruiscono discorsi, costruendo discorsi accade che credano a questi discorsi, credendo a questi discorsi si comportano di conseguenza. Il fatto è che se si chiede perché credono a una certa cosa piuttosto che a un’altra non sanno rispondere. È un po’ come la questione del tempo in Agostino: “se nessuno mi chiede che cos’è il tempo sono sicuro di sapere che cosa sia, nel momento in cui me lo chiedono non lo so più”, come dire che le cose si possono credere fino a quando non vengono interrogate.

 

L’analisi è, invece, quell’occasione straordinaria per incominciare a interrogare, a mettere in discussione quelle verità, quelle certezze, quel sapere, che costituiscono le premesse che una persona utilizza per costruire tutti i suoi discorsi, compresi quelli che la fanno stare male.

Un analista sa o dovrebbe sapere che il suo compito è quello di intervenire affinché il discorso non si arresti mai su qualcosa, rilanciando continuamente la questione in modo che prosegua invece a dire, a parlare. Facendo questo pone le condizioni a che la persona si accorga di cosa è fatto, e cioè che è fatto delle sue parole, dei suoi discorsi, dei suoi racconti, e che non c’è alcun referente al di fuori delle sue parole. Sono solo giochi linguistici, non rappresentazioni della realtà, sono parole che si connettono tra loro e connettendosi creano scene, immagini, storie, racconti. Sono solo parole, le quali non hanno un’origine né una fine. Da dove vengono le parole? Da altre parole, in un rinvio che non ha una fine da qualche parte, in qualche ultima parola che non c’è. Il “fine” della parola è costruire altre parole, al solo scopo di costruire altre parole.

 

Per concludere.

Ogni teoria è strutturata come un discorso, è un discorso. Procede come un sistema assiomatico, parte da delle premesse che sono accolte come vere e da lì costruisce le sue argomentazioni e giunge alle sue conclusioni, conclusioni che hanno un valore di verità se non contraddicono le premesse, gli assiomi da cui parte. Sino a quando non vengono interrogati gli assiomi, le premesse, da cui parte, tutto fila liscio. I problemi nascono quando si incomincia a fare delle domande perché, interrogando un qualunque elemento, questo dà giustificazione di se stesso rinviando ad altri elementi, i quali rinviano ad altri, e via di seguito. Ci si trova di fronte a una cascata di rinvii, a una semiosi infinita, come dicono i semiotici. Ora, il fermarsi da qualche parte, assumere qualcosa come vero, credere che le cose stiano in un certo modo, è solo il frutto di una decisione, non è costrittivo, perlopiù lo si fa per una questione estetica, e cioè “mi piace pensare che le cose stiano così”. Ma le cose stanno proprio così? Come lo so che è proprio così? E se fosse vero il contrario? Cosa garantisce che ciò che sto dicendo è vero e non un cumulo di sciocchezze? Sono tutte domande che generalmente non si fanno perché nessuno vuole mettere in discussione le proprie verità e anche quando dice di volerlo fare lo fa utilizzandole.

Ecco che allora occorre prima di tutto incominciare a riconoscere che cosa di religioso interviene in ciò che si dice, in ciò che si ascolta; devono essere messe in discussione le stesse cose che io credo essere vere, devono essere interrogate, non posso mettere in discussione le idee altrui e attenermi alle mie come se fossero la realtà assoluta, non è intellettualmente onesto, anche se purtroppo questa è una pratica che si verifica quasi sempre. Non è facile farlo, anzi, è straordinariamente complesso, ma occorre partire da qui, solo questo percorso può rilanciare la psicoanalisi come quella teoria che può fornire delle basi solide non solo a se stessa ma a tutto il campo del sapere.

La proposta di Scienza della Parola è quella di riconoscere al linguaggio quella posizione prioritaria che, volenti o nolenti, comunque occupa, si tratta solo di riconoscerla e di trarne tutte le implicazioni possibili. È un progetto intellettuale straordinario in grado di dare alla psicoanalisi una dignità ed è, a mio avviso, anche il modo migliore, di certo più efficace, di presentare una psicoanalisi veramente laica.

 

 

Intervento di Luciano Faioni

 

Nello statuto dell’associazione, di cui avete ascoltato alcune testimonianze, ci sono due punti. Uno di questi riguarda l’elaborazione teorica, quindi, è uno dei due compiti fondamentali dell’associazione: costruire, produrre, interrogare, elaborare teorie. Qui con “teoria” intendo l’accezione più comune, quella che trovate nei dizionari, e cioè una sequenza di argomentazioni coerenti fra loro che hanno lo scopo di giungere a rendere conto di eventi o fenomeni. L’aspetto interessante di una teoria, sia nella costruzione di una teoria sia nella considerazione di una teoria, è la incredibile complessità e la quantità di problemi che si incontrano. Ciò che accade nel momento in cui si inizia a costruire una teoria, qualunque essa sia, è che la prima considerazione che accade di fare è che questa teoria è fatta di argomentazioni, un’argomentazione è fatta di proposizioni, una proposizione è fatta di parole, e le parole come De Saussure intendeva sono segni ma segni molto particolari. Ciascuno avrà presente il segno di De Saussure, lui scrive significato e sotto la barra il significante (S/s). Già qui, e cioè nella considerazione della parola e quindi del segno, sorgono e sono già sorte per De Saussure dei problemi non solubili, irresolubili, per dirla in termini più appropriati, delle aporie. Il significante è un’immagine acustica, è una forma vuota che non sarebbe nulla, dice De Saussure, se non ci fosse il significato, tuttavia questo significato è ovviamente un’altra parola, un’altra parola che ha un significante, cioè una forma di per sé vuota, e questo significato sarà un’altra parola. È questo in una parola ciò che si intende comunemente con “semiosi” infinita. La semiosi è il processo di significazione, quindi un processo di produzione di significati senza fine. Non soltanto, un altro grosso problema che, in effetti, De Saussure non ha risolto riguarda il fatto che un significato non esiste preso da solo, non è isolabile in nessun modo, esiste in quanto, queste sono le sue parole, in relazione differenziale con tutti gli altri significati, come dire che il significato per esistere occorre che sia connesso con tutti gli altri significati altrimenti è niente. Questo, vi dicevo, costituisce un grosso problema, quello del significato appunto.

Come sapete, esistono moltissime teorie del significato ma non è questo che ci interessa adesso. Quando si afferma qualche cosa succede qualche cosa di singolare, e cioè questa cascata di semiotiche, come direbbe Hjelmslev, si interrompe, si interrompe per poter affermare qualche cosa. È un po’ come diceva Tommaso d’Aquino quando parlava delle cinque vie della fede: una di queste diceva che il regresso all’infinito non è possibile, da qualche parte occorre fermarsi, una posizione legittima. In effetti, ci si trova in una posizione che è curiosa perché per potere affermare qualche cosa occorre che questo qualche cosa abbia un significato, non per chissà quali motivi ma semplicemente per poter utilizzare quella parola, perché una parola che non ha né può avere nessun significato, mai per nessun motivo, non è utilizzabile. In altri termini ancora, la situazione in cui ci si trova è che per potere dire, per potere parlare della inarrestabilità del significato, della sua inafferrabilità, del suo continuo cambiamento, è necessario che un significato si arresti. Per dirla in termini molto spicci, per potere affermare che le parole non hanno un significato occorre che le parole abbiano un significato, per potere affermare che le parole hanno un significato è necessario che le parole non abbiano un significato, cioè ciascuna parola, come dicevo prima, esiste in quanto connessa con il sistema linguistico.

È una situazione curiosa questa che, però, ha anche dei vantaggi. In effetti, tutto questo mostra il paradosso forse più “drammatico”, in un certo senso, del pensiero occidentale, in particolare ma non soltanto, e cioè che può affermare che qualche cosa è quello che è a condizione che questa cosa non sia quello che è. Vi faccio un esempio, sennò è un po’ complicato, prendete Lacan, ad un certo punto lui dice che per tutti gli umani c’è la castrazione. Naturalmente, questa affermazione è un’affermazione universale, come è inevitabile che siano le affermazioni della scienza o di qualunque teoria in generale, ma lui addirittura la pone all’interno di un quantificatore universale dove dice “per tutte le x, j(x), dove x è l’uomo, j è la castrazione, che significa che per tutte le x, se x è un uomo, allora a x appartiene la castrazione. Però, sarebbe stato più corretto da parte di Lacan formulare la questione in questo modo: “se la castrazione” fosse quello che io penso che sia, allora ne seguirebbe quello che ne segue”. C’è un modo per considerare che le cose sono esattamente quelle che io penso che siano, Freud ne parla da qualche parte, e cioè prendere le parole come cose. Solo a questa condizione, la “cosa” identica a sé, che è in quanto è quello che è, può essere considerata inamovibile, un significato determinato, stabilito, perché la cosa è quella che è. Il problema per Freud stava nel considerare che prendere le parole come cose fosse una prerogativa del discorso psicotico, il quale in effetti compie questa operazione, prende le parole come cose e cioè una parola diventa una cosa, cioè un quid inamovibile, fisso, stabile per sempre. Tant’è che facendo alcune considerazioni intorno al discorso schizofrenico rincara la dose dicendo che una singola parola del discorso schizofrenico si trova ad assumere una quantità sterminata di significati, bloccati, immobili. Non è che abbia una quantità sterminata di significati per via del fatto che il significante rinvia ad altri, no, il tentativo nel discorso schizofrenico è di bloccare questi significati - mi pare che Lacan parlasse di “parola valigia” in questa circostanza, cioè una parola che ha una serie di significati che sono quelli - e questo ovviamente rende abbastanza complicato comunicare con i cosiddetti schizofrenici. Dunque, prendere le parole come cose, è, dicevo, il discorso psicotico, che per lo più potremmo anche considerare il discorso normale perché è straordinariamente difficile in effetti non prendere le parole come cose quando si parla, quando si costruisce una teoria. Torniamo al segno di De Saussure. Voi sapete benissimo che scrive il significato e sotto la barra il significante (S/s), però non c’è solo questo, c’è anche, riprendo l’esempio che fa lui, l’albero come parola, l’immagine acustica, e poi c’è l’albero in quanto tale, così dice De Saussure. Anche su questo punto l’elaborazione di De Saussure diventa problematica. C’è stato Edmond Husserl, il quale scrivendo “Idee per una fenomenologia pura”, si era proposto che la filosofia, il pensiero, dovessero andare direttamente alle cose, cioè puntare alle cose togliendo in questa operazione qualunque orpello, qualunque cosa costituisse una sorta di impedimento o di sviamento dall’andare alle cose stesse. Qualche anno dopo, però, lui stesso si rese conto che in questa operazione non aveva previsto l’esistenza di un altro elemento, e cioè il linguaggio, perché ogni volta che doveva arrivare alla cosa stessa si arrivava attraverso il pensiero, attraverso parole, attraverso argomentazioni, definizioni, descrizioni, una quantità di cose che appartengono appunto al linguaggio, quindi, la situazione è diventata ancora più bizzarra, potete porla così: il percipiens, il perceptum e in mezzo il linguaggio, un muro invalicabile. Un muro invalicabile che impedisce non soltanto di cogliere il perceptum in quanto tale, come voleva Husserl, ma anche legittimamente di dubitarne dell’esistenza, visto che tutto ciò che posso dire, pensare, stabilire, è stabilito da questo elemento che sta in mezzo fra i due, quindi che cosa mi fa supporre che ci sia anche il perceptum? In ambito teorico è ovvio che queste considerazioni non possono non farsi, è chiaro che se uno va al ristorante e ordina una bistecca questo ordine di problemi non lo incontra propriamente ma in ambito teorico sì. Quindi, ciò con cui ci si scontra volendo costruire una qualsivoglia teoria è in prima istanza una situazione paradossale, perché a partire da ciò che ho appena detto apparirebbe che la costruzione di una teoria come di qualunque discorso sia impossibile e che qualunque teoria si arresti ancora prima di incominciare di fronte a questi problemi che non può risolvere. Eppure, come ciascuno sa, di teorie ce ne sono uno sterminio e le persone continuano a parlare ininterrottamente, che è una questione che, ci crediate o no, ha interrogato molti filosofi del linguaggio. Per esempio, come mai le persone parlano, se di fatto non potrebbero tecnicamente né giungere ad alcuna conclusione né potere stabilire alcunché, non potrebbero fare nulla di tutto questo, però lo fanno e, allora, sorge la domanda: che cosa fanno esattamente? Fanno quella cosa che aveva suggerito di fare San Tommaso: è vero che, come dicevo prima, un significato è preso in una rete infinita di significati, per cui tecnicamente non sarebbe identificabile, ciò non di meno io posso fermarlo a mio piacimento e stabilire non che quella cosa ha quel significato per sua natura ma che io decido che quella cosa in questo momento significa questo, il che significa ancora che la utilizzerò in quel modo tutte le volte che lo deciderò. Non c’è un’altra via. L’aspetto che offrono al punto in cui siamo tutte le teorie, nessuna esclusa, è di potere mantenersi unicamente sul non prendere in considerazione tutti questi paradossi, tutte queste insolubilia, queste aporie, come fanno gli umani ininterrottamente perché, se parlano, è ovvio che tutte queste cose non intervengono. Badate bene, non sono questioni così recenti né così nuove, sono note da sempre, da quando gli umani hanno incominciato a pensare, diciamo, dai presocratici che sapevano già tutte queste cose. Uno potrebbe domandarsi come mai gli umani non ne abbiano mai tenuto conto. Ci sono dei buoni motivi che magari vedremo dopo. Ecco la teoria, dunque, è difficile evitarla, tuttavia Stefania Guido che ha scritto un bellissimo libro che si chiama “Il primo scibbolet della psicoanalisi” che vi suggerisco, peraltro è scritto benissimo, dice cose interessanti, cita una frase di Charcot, l’ho sentita citare anche altre volte, il quale dice “La théorie, c'est bon, mais ça n’empêche pas d’exister”, il che pone già una prima questione, cioè un’affermazione che comunque è già una teoria, non solo, ma una teoria che dice che la realtà costituisce il valore assoluto rispetto alla teoria che, invece, è un valore relativo, per cui se la teoria collima con la realtà allora la teoria è valida, nel caso in cui invece la teoria non collimi con la realtà allora è la realtà il metro di paragone e in questo caso se la teoria non collima con la realtà la teoria è falsa. Ora, è una posizione abbastanza ingenua, in effetti, anche perché in questo modo verrebbero eliminate tutte quelle teorie che hanno messo in discussione il concetto di realtà: la teoria della relatività di Albert Einstein, la Teoria dei quanti di Max Planck, il principio di indeterminazione di Werner Heisenberg, tutte queste teorie in effetti, per la posizione di Charcot sostenibili, non sarebbero vere. È possibile, dicevo prima, evitare una teoria? Intanto, occorre definire che cosa intendiamo con teoria, cosa che non è difficile, più difficile è dire perché la si definisce nel modo in cui la si definisce. In effetti, lungo l’arco di questi tanti anni che hanno caratterizzato la ricerca nell’ambito della Scienza della Parola, ciò che è venuto mano a mano ad interessare sempre di più non è tanto ciò che si dice, perché ciò che una persona afferma in ambito teorico è abbastanza irrilevante, interessante è sapere perché afferma quello che afferma, quali sono le argomentazioni da cui muove per affermare ciò che afferma. Il fatto che affermi una cosa anziché un’altra può essere anche irrilevante, come dicevo, in tutto ciò che cosa è che può avere qualche interesse, dopo avere mostrato, ma lo sapevano già gli antichi, che la costruzione di una teoria, parlare non è possibile ma che al tempo stesso è la cosa che tutti fanno ininterrottamente e che non possono smettere di fare? Prendete tutto ciò che ho detto rispetto alla teoria e ponetelo per quanto riguarda invece una persona, una qualunque persona. Tutto ciò che la persona crede, immagina, spera, decide, fa, teme, ecc., tutto questo può essere considerato a buon titolo e legittimamente una teoria, una teoria dunque che non può essere sostenuta né può essere evitata, perché è questo il problema. Tuttavia, sa o può sapere quella persona che, quando afferma qualche cosa, ciò che sta affermando non è necessario, non è necessario perché la parola non ha “naturalmente” un significato: io scelgo, decido, quale significato. Non sempre ovviamente, il più delle volte anzi la persona utilizza quelli che ha già a disposizione, ma in alcuni casi la persona sceglie che una certa cosa abbia un certo significato. Da quel momento la sua teoria viene modificata, come una qualunque teoria basta modificare le premesse su cui si sostiene e tutta la teoria cambia, tutte le conclusioni si alterano, si modificano. Se allora anche la persona può fare questo, e cioè smettere di prendere le parole come cose, quindi immaginare che abbiano un significato “naturale”, ma prende le cose come parole allora si può produrre un effetto singolare più interessante e cioè la persona ha l’opportunità di considerare che le sue scelte, le sue decisioni, ecc., anche se apparentemente erano prese in base a fatti incontestabili, non è proprio esattamente così, perché anche il “fatto” non è una cosa ma è una parola, può cioè modificare il significato di parole, se lo vuole, modificando in questo modo la sua teoria, modificando in questo modo la sua stessa esistenza. Diceva prima, mi sembra Sandro, “non si ha paura di qualche cosa se questo qualche cosa non è qualcosa”, occorre che sia qualcosa come vuole l’antica e nobile metafisica, deve essere qualcosa se no sarebbe nulla, ma se è qualcosa allora questo qualcosa significa, ma che cosa significa? Posso io modificare il significato? Certo che sì, è possibile farlo continuamente a meno che, appunto, non pensi che questa cosa sia fuori dalla parola e in quel caso mi trovi a prendere appunto le parole come cose e allora sono inamovibili, ferme, stabili. Prima si diceva che potrebbe dar sicurezza, certo, ma sono macigni e anche il macigno potrebbe dare sicurezza però se casca addosso un po’ meno.

Tutto ciò in che modo riguarda la psicanalisi? La riguarda perché offre la possibilità di cessare di prendere le parole come cose, cioè di credere che la castrazione, per tornare a Lacan, sia esattamente ciò che lui vuole che sia, potrebbe anche esserlo, perché no?, non è impossibile che accada, ma da qui ad affermare che è così, e su questo costruire una teoria ne passa. Non solo la castrazione ma qualunque altra cosa ovviamente, posso anche intendere la castrazione come l’effetto della rimozione nell’atto di parola, perché no?, molti lo hanno fatto, certo, ma tutto questo rimane all’interno di un sistema, quel sistema di cui parla De Saussure, un sistema linguistico ma la questione forse più ardua, è che fuori da questo sistema c’è nulla. Tutto questo sicuramente rende le cose più complicate, non soltanto nella costruzione ma anche nell’accoglimento di una teoria, perché che cosa sto accogliendo a questo punto? Allora, a questo punto, la teoria, così come l’ho posta all’inizio, possiamo anche modificarla, modificarne la definizione, forse modificandola diventa più mobile, più agile, e cioè non più la teoria come un sistema di argomentazioni coerenti, ecc., ecc., ma un sistema di riferimento per la costruzione di nuove argomentazioni, nient’altro che questo. Questo sistema di riferimento consente di costruire argomentazioni che trovano il referente, il riferimento in altre argomentazioni, in altre parole, pertanto l’affermare che per tutti gli umani c’è la castrazione cambia, questa affermazione cambia completamente perché è soltanto un gioco linguistico. Le cose non stanno così, non nel senso che sia falsa perché non è né vera né falsa, è semplicemente l’esposizione di un determinato, particolare gioco linguistico che muove da certi determinati particolari premessi. Modificate le premesse e modificate tutto a meno che qualcuno non sia in condizione di stabilire che quelle premesse sono necessarie e cioè non possono essere altro da quello che sono, operazione che è straordinariamente complicata da fare. Quindi, la proposta, ecco, per quanto riguarda la psicanalisi è questa: se si considera la teoria come un sistema di riferimento per la costruzione di nuove proposizioni e ciascuno potesse prendere il suo discorso, la sua storia, la sua vicenda esattamente in questi termini si creerebbe un fatto singolare, per una serie di passaggi che salto ma che se volete si possono anche fare, l’insorgere di quella cosa che Freud chiamava “nevrosi” appare non possibile. Non sto dicendo che questo sia bene o male, la cosa non mi interessa minimamente, è soltanto una considerazione a fianco di altri miliardi di considerazioni che possono farsi, una è forse meglio di un’altra? È molto difficile affermare e soprattutto stabilire una cosa del genere. Questa posizione, dicevo, ha degli aspetti notevoli se applicata alla persona, tutto ciò che una persona dice non ha più la necessità di essere presa come una cosa, quindi non ha quel significato, certo, se a me piace così in quel momento, se mi serve… Se io voglio affermare qualche cosa è ovvio che per poterlo affermare dovrò muovere da certe considerazioni e dovrò dare queste considerazioni per buone se voglio che la conclusione cui giungo sia sostenibile, anziché abbandonarla come una sciocchezza. Porre la psicanalisi in questi termini ha qualche vantaggio? Difficile a dirsi, non lo so, sicuramente è il modo che io ho trovato per rendere un procedimento, che ho reperito negli ultimi trent’anni, abbastanza pesante, farraginoso e spesso anche auto contraddittorio… Uno potrebbe anche dire “è auto contraddittorio”, e allora, a chi importa? In effetti, anche in questo caso dipende da che cosa si intende con “contraddizione” perché se io la intendo in un certo modo e dico che non c’è principio di non contraddizione allora inesorabilmente sono costretto ad affermare “che se non c’è principio di non contraddizione allora c’è il principio di non contraddizione” e per poter usare, dare un significato a una parola, per il solo e semplice fatto di poterla usare, questa parola non può esser la sua contraria, cioè posso prenderla al contrario e utilizzarla altrove ma non nello stesso contesto sub eodem, come dicevano gli antichi, non lo posso fare, o meglio, se lo faccio mi fermo lì e non vado da nessuna parte. Ecco, è evidente che la questione della teoria a seguito di tutto ciò appare una cosa straordinariamente complicata, e lo è in effetti, lo è perché è fatta di parole e le parole hanno questa caratteristica che, torno a dirvi, possono e devono essere determinate a condizione di essere indeterminate e possono e devono essere indeterminate a condizione di essere determinate. Uscire da una cosa del genere comporterebbe la possibilità di uscire dal linguaggio, cioè trovare la “cosa” che finalmente non mente, appunto prendere le parole come cose, che è quello che tenta di fare la psicosi con tutti i contraccolpi. Ma, al di là di questo, non è tanto il fatto che riguardi la psicosi ma perché non porta da nessuna parte, si gira in tondo. È la possibilità di costruire nuove argomentazioni sempre e continuamente, è questo che fa di una teoria, o potrebbe fare di una teoria, qualcosa di un qualche interesse. Naturalmente, non soltanto la teoria che si costruisce per rendere conto di eventi, fatti o accadimenti ma la teoria in cui ciascuno si trova quotidianamente in quanto preso nel suo discorso, nel suo racconto nelle sue parole ….

 

Intervento: … la frase di Charcot è un partecipo …. Nessuno riesce a porsi la domanda che funzione ha questa domanda rispetto alle questioni che mi concernono? … Lacan e gli studenti che gli attribuivano di non essere coerente perché non stava fuori dalle istituzioni perché il seminario lui lo teneva in luoghi istituzionali …. La questione è che certo non possiamo stare fuori dalla parola, certo, ma la questione è come ci stiamo? Il che implica l’interrogarsi su quella che è la funzione della teoria? Non mi piace la posizione dogmatica né di chi non accetta la teoria ….. interrogarsi su che cosa farò questa sera in qualche modo costruisce una teoria …. Interrogarsi sulla funzione della teoria in termini clinici, perché se sono paranoico ho la pretesa, non certo, che la mia teoria sia una rappresentazione ma che la mia teoria dica il vero sul vero ….. come sto in rapporto alla parola, alla teoria, al linguaggio? Come ci so fare con questa questione?

 

Sì, chiedi giustamente “che funzione ha una teoria?” Tu stessa hai già risposto. In effetti, ciascuno non può evitare di costruirsela indipendentemente dalla funzione che ha, e qui occorrerebbe aprire un altro discorso molto complesso ma non so se è il caso adesso, tuttavia si può considerare che qualunque teoria non ha di per sé nessuna funzione se non quella di continuare a dire, a parlare, è una costruzione che serve a rendere conto di qualche cosa, l’uso che ne faccio, come direbbero alcuni “per orientarsi nel mondo”

 

Intervento: è una mappa…

 

Sì, una mappa che è stata costruita però da quella stessa metafisica dalla quale tu prendi le distanze perché è la metafisica che ha stabilito come e quali sono le cose che esistono. Vedi c’è un modo più interessante per prendere la metafisica, basta pensare a un qualunque enunciato esistenziale che dice “Stefania esiste”. Ora, ovviamente è stata presa per lo più questa affermazione esistenziale come un’affermazione che mostra un qualche cosa che esiste di per sé, indipendentemente dall’atto che la fa esistere. È questa la proprietà, se mi permettete “più propria” della metafisica, non tanto il porre come esistenti le cose, perché io posso dire “sì, esiste, certo, ma esiste nel mio discorso” e bell’è fatto e l’esistenza è bell’è risolta, e non è più una questione metafisica perché la metafisica appunto, come dice il nome stesso, trascende tutto questo in vista di un ente che debba essere necessariamente quello che è, cioè deve esistere per sé. Solo a questa condizione è pensabile un mondo fatto in un certo modo per cui, per esempio, una teoria costituisca una mappa, la mappa stessa. Quando prima dicevo di provare a costruire giochi linguistici dove queste nozioni poste dalla metafisica più o meno legittimamente, perché è impossibile non porle…. adesso riprendo io quello che dici tu “ma poi cosa ne faccio una volta che ho posto nel mio discorso, che ho detto che Stefania esiste?”, credo che esista indipendentemente da qualunque cosa, appunto, metafisicamente come un ente che è in quanto è quello che è, oppure, questa stessa nozione di “esistenza” è a sua volta un’altra parola, un altro significato? Del quale io sarò responsabile dell’attribuzione che gli farò. Certo, porre la questione in questi termini è come se ogni cosa scivolasse via, però non è proprio così perché ad un certo punto l’afferri solo che ti assumi la responsabilità di dare un significato, ma non puoi non darlo se vuoi continuare a parlare, se vuoi utilizzare delle parole devi per forza dare a queste parole un significato se no non le puoi utilizzare. Ma questa è un’operazione della quale una persona può assumersi la responsabilità dicendo con questo “non è che la parola significhi questo, no, io sto dicendo che in questo momento a me pare farla significare così, mi sta bene che significhi questo”. Certo, Lacan non aveva torto, non è che dentro o fuori l’istituzione…, era una battuta, però anche essere o non essere all’interno di una istituzione può volere o non volere dire moltissime cose, per esempio essere dentro a un carcere o essere fuori non è la stessa cosa, anche se entrambi parlano…. Non so, se ho risposto in parte?

 

Intervento: …. Dall’immaginario al simbolico …. Il reale primitivo è perso nella persona come nel collettivo, ormai è perso …

 

Certo, posso dire di sapere che cos’è una parola, l’ho imparato, mi è stato detto che un certo suono che ha certi effetti, che produce certi fenomeni, ecc., quella cosa lì si chiama “parola” e bell’è fatto. Quindi, so che cos’è una parola, questo ovviamente è sempre posto nell’accezione di cui parlavo prima, cioè io faccio un enunciazione esistenziale, faccio esistere qualcosa che da quel momento esiste. Sì, certo, è quello che dico, ma era il problema che si poneva già De Saussure e che nessuno ha mai risolto, perché ciascuno si riferisce alla realtà ma nessuno sa esattamente che cosa sia né può saperlo, per i motivi che aveva già incontrato Husserl a suo tempo. Quindi, non si tratta di dire “io so” oppure “non so” ma “sono quello che ho imparato”. Il sapere posso anche definirlo come l’insieme di tutte quelle proposizioni vere che il mio discorso ha accolte come tali, tutto questo insieme è il mio sapere, e allora? È fisso, è mobile, è semovente? Sì, posso dire che è mobile, posso dire che è fisso, a seconda delle premesse che utilizzerò per definire queste cose, e queste premesse sono arbitrarie, sono io che decido quali premesse accoglierò e quali invece rigetterò, a seconda di quello che voglio dire, del motivo per cui lo voglio dire, ecc. Ecco, ho cercato di dare un’idea di questa complicazione che riguarda il linguaggio, un’idea del funzionamento del linguaggio e cioè in altri termini ancora di ciò che accade quando si parla, tutte queste “robe” che si muovono …

 

Intervento: Mi trovo in sintonia con quello che dice ci sono però delle sfumature …. ci troviamo nell’atto di parola certo … l’originario è nel lapsus …. Il linguaggio come universale non c’è, è aristotelico …. Che cosa sostituirei al linguaggio come universale? Io proporrei il segno ma come tripartizione: nome, significante e altro …. È stato interessante ma si può discutere su queste questioni

 

Assolutamente sì, anche perché, come diceva, la questione dell’universale è importante. Non è tanto il linguaggio ad essere universale ma è l’affermazione che il linguaggio è un universale che è universale, come anche l’affermazione che nega questa proposizione è universale, e cioè la proposizione che dice che il linguaggio non è universale è un’affermazione universale, cioè esclude la possibilità che non possa essere altrimenti, che è proprio il principio di non contraddizione. Infatti, io ponevo l’accento, sì, sulla necessità del principio di non contraddizione per potere fare un’affermazione esistenziale, cioè per poter dire che questo esiste, quindi posso usarlo per parlare, ma simultaneamente anche del principio di non identità, che è utilizzato per esempio nelle logiche paraconsistenti, le logiche polivalenti, che derivano in buona parte dalla dialettica hegeliana. Il principio di non identità dice che un elemento è quello che è se e soltanto se non è quello che è. Ora, stavo però sottolineando la necessità di entrambe le cose simultaneamente, è questo che crea quel paradosso insolubile per cui non c’è nessuna possibilità di poter neanche pensare che una cosa significhi di per sé un qualche cosa, e cioè, torno a dire, la presenza simultaneamente del principio di non contraddizione e del principio di non identità. È come se fossero i due aspetti che fanno funzionare il linguaggio, da una parte, lo dicevo all’inizio, per potere dire che qualche cosa non è quello che è occorre che quella cosa sia quella che è e viceversa, questo è e costituisce….

 

Intervento: Ci troviamo d’accordo sul fatto che occorre che questi principi funzionino ma se sono presi come dogma …. Perché propongo di nuovo la tripartizione del segno? …

 

La cosa è differente dall’oggetto ma l’oggetto è inafferrabile ….

 

Intervento: Io ho sempre pensato che esistesse il mondo vegetale e il mondo animale

 

Non sei da solo, molti lo pensano.

 

 

Intervento: Ora, invece negli ultimi tempi uno dei miei maestri va affermando che l’uomo non è un animale….

 

Tranne qualche eccezione…

 

Intervento: Quindi volevo sapere il tuo pensiero intorno a questa affermazione anche perché Miorin ha accennato qualche cosa intorno alla questione degli animali che non ho capito e volevo capire un attimo se è sufficiente il linguaggio per distinguerci da essi oppure no.

 

È una questione che ci si è posti moltissime volte anche perché è una domanda, come diceva Cesare, che spesse volte viene posta (se non è un animale cos’è?) cioè si parla di linguaggio e poi qualcuno chiede “sì, ma gli animali?”. Apparentemente non hanno linguaggio, quindi non possono pensare, quindi non c’è nessuna possibilità di saperne nulla. E, in effetti, è così, voglio dire che c’è la possibilità di sapere degli animali, così come di un bambino che non parla ancora e se non parla mi trovo in difficoltà perché non so né quello che pensa e neanche se pensa, tutte le cose che io attribuisco all’animale, per esempio, sono cose che io sto attribuendo all’animale, cioè gli vedo fare certe cose e allora penso che abbia in testa delle altre cose, ma sono io che gliele attribuisco di fatto, l’unica cosa che può dirsi è che non è impossibile che gli animali possano parlare e pensare, però siamo in attesa e il giorno in cui lo faranno li ascolteremo con grandissima attenzione, ma fino ad allora non è che abbiamo molti elementi, certo, cataloghiamo, facciamo infinite cose, però, non solo non sappiamo cosa pensano ma non sappiamo neppure se pensano, anche perché quando parliamo di “pensare” utilizziamo il modo in cui noi usiamo questo verbo e cioè una certa costruzione fatta in un certo modo con certi passaggi ma nulla ci legittima ad attribuire una cosa del genere a un animale.

 

Intervento: Quindi non te la senti di inventare una nuova categoria?

 

Non credo che sia utile un’altra categoria, anche perché tieni sempre conto che qualunque categoria io possa inventare la inventerò perché sono parlante e quindi sarà costruita a partire da quella struttura che è quella che mi consente di parlare, che prima indicavo come linguaggio. Per questo non c’è uscita, infatti ne parlavo come di un muro invalicabile, non si può uscire in nessun modo, come lo fai? Per esempio, tu comincia a immaginare di uscire fuori dal linguaggio “adesso me ne traggo fuori” ma questa formulazione, questo pensiero è qualche cosa che è inserito nel linguaggio, se no non avresti mai potuto farla, qualunque operazione farai, qualunque teoria costruirai, qualunque strumento utilizzerai, prima costruirai poi utilizzerai, per uscire dal linguaggio sarai sempre all’interno del sistema linguistico. Per questo non c’è nessuna possibilità di uscirne una volta che ci si è dentro, non c’è più uscita, che è la fortuna anche degli umani perché, come si diceva prima, ha consentito agli umani di fare tutte le cose che hanno fatto, tutte quante, nel bene e nel male, non ha importanza, dalla Madonna delle rocce alla bomba atomica, tutto e, infatti, per gli animali non c’è l’arte, né la scienza, non scrivono poemi o sinfonie.

 

Intervento: Voglio tentare di dire qualche cosa sulla teoria necessaria però fuori da questo ordine chiamato “metafisico” come componente già di un discorso metafisico. Quindi, sta componendo una definizione di metafisica sua particolare?

 

Intervento: No. Per tentare di dire in un altro modo …. Una teoria tra le altre teorie forse c’è qualche cosa che ci può far giungere a dire che siamo in questa parola originaria … lei diceva che tutte queste problematiche quando uno va a comprare una bistecca sembrerebbero non esserci…

 

Non è che non ci sono non sono necessarie per l’acquisto della bistecca

 

Intervento: Come se le questioni teoriche fossero più complicate e comunque fossero di un altro ordine però può capitare che per qualcuno può essere assolutamente problematico andare ad acquistare una bistecca, può essere problematico parlare per andare a comprare una bistecca…

 

Può capitare certo…

 

Intervento: quindi ad un certo punto c’è qualche cosa che poteva bastare ma poi non basta più …. È lì che mi viene da pensare di introdurre la teoria … è qualcosa che va aggiunto forse qualcosa di particolare, è qualche cosa da introdurre non qualche cosa da disfare, da decostruire.

 

Certo che no.