ALICE E IL SOFISTA

 

Quattro dialoghi brevi

 

Luciano Faioni

DIALOGO I

 

ALICE. Ciao, tu sei un sofista?

SOFISTA. Sì.

ALICE. Credevo che i sofisti fossero estinti, un po’ come è successo con i dinosauri.

SOFISTA. Qualcosa del genere.

ALICE. E tu allora?

SOFISTA. Ne è rimasto uno.

ALICE. E che cosa fai?

SOFISTA. Cerco delle persone come te.

ALICE. Perché?

SOFISTA. Per potere continuare a parlare.

ALICE. A me piace parlare.

SOFISTA. Per questo ti ho cercata.

ALICE. E di cosa vuoi che parliamo?

SOFISTA. Di te.

ALICE. Va bene, ma tu lo sai chi sono?

SOFISTA. Lo saprò, se ti farò delle domande. Tu avrai la bontà di rispondermi?

ALICE. Vuoi fare come Socrate? Lui detestava i sofisti, anche se usava i loro stessi metodi contro di loro.

SOFISTA. Può darsi.

ALICE. E va bene, allora incomincia pure.

SOFISTA. Dunque per te è bello parlare. È così?

ALICE. Si!

SOFISTA. E perché lo è?

ALICE. Non lo so, però mi dà una bella sensazione, sono contenta quando per esempio riesco a dire le cose che voglio dire nel modo in cui le voglio dire, e quando le cose che dico sono considerate e apprezzate, mi dà un senso di soddisfazione.

SOFISTA. Si, e quando altri sono persuasi dalle cose che tu dici ti senti felice, e forte.

ALICE. È così. Tu sai perché?

SOFISTA. Si.

ALICE. È vero che i sofisti sanno tutto? Sanno parlare di tutto? Anche tu lo sai fare?

SOFISTA. Quand’è che sei felice?

ALICE. Qualche volta, quando mi sembra che il mondo mi sorrida, che tutto sia facile, che tutti mi vogliano bene. Quando mi sento sicura, protetta e mi sembra che non possa succedermi nulla di brutto. Quando mi sembra di volare, leggera, e ogni cosa mi appare bella e amica. Allora sono felice. Non è così anche per te?

SOFISTA. Sono le cose che pensi che ti rendono felice?

ALICE. No, anche le cose che mi accadono, quelle belle mi rendono felice.

SOFISTA. Quali cose belle ti rendono felice?

ALICE. Non lo so, dipende dai momenti. Ci sono delle cose che mi rendono felice in certi momenti, in altri momenti mi danno una grande tristezza e nostalgia tanto che mi fanno piangere. Ma anche quando mi fanno piangere sono belle, in modo diverso, ma sono belle.

SOFISTA. Sapresti dirmi perché una stessa cosa un momento ti fa ridere e in un altro momento ti fa piangere?

ALICE. No, e come faccio a saperlo?

SOFISTA. Ti è mai successo di vedere nello sguardo di qualcuno una grandissima dolcezza, e vedere nello stesso sguardo, in un altro momento, qualcosa che ti irrita, che ti fa arrabbiare?

ALICE. Oh sì, mi è successo, qualche volta. Ma perché era successo qualcosa nel frattempo, qualcosa era cambiato.

SOFISTA. Non ti sembra che ci sia qualcosa di simile.

ALICE. Simile a cosa?

SOFISTA. Fra quello che mi hai appena detto e ciò che dicevamo poco prima, riguardo alla tua felicità che talvolta si trasforma in tristezza.

ALICE. Si, ma in quest’ultimo caso non dipende da me, dipende da qualcosa che è successo, da qualcosa che è accaduto.

SOFISTA. Ne sei sicura?

ALICE. Cosa vuoi dire?

SOFISTA. Voglio dire che in alcuni casi, quando sei di buon umore, allegra e felice alcune cose non le noti neppure, ma se sei irritata, di cattivo umore, arrabbiata, diventano insopportabili. È così?

ALICE. Certo! Mi sembra normale.

SOFISTA. Forse. Dunque il tuo umore in alcuni casi è decisivo, decide cioè delle tue reazioni. In alcuni casi.

ALICE. E allora? Vuoi dire che è colpa mia?

SOFISTA. No.

ALICE. È ovvio che se sono di cattivo umore mi pare tutto brutto, sgradevole, insopportabile. È il contrario di quando sono felice.

SOFISTA. Volevo dire proprio questo.

ALICE. Ma dove vuoi arrivare?

SOFISTA. Al tuo umore, come dici tu. Che sembra decidere del modo in cui vedi le cose. In alcuni casi. Umore che cambia, muta, e insieme con lui anche tu. E puoi controllare il tuo umore?

ALICE. Certo che no! Come vuoi che faccia a controllarlo? Accade e basta, e non so nemmeno perché.

SOFISTA. Vorresti saperlo?

ALICE. Forse. Ma non ne sono sicura. Mi sembrerebbe qualcosa di disumano, innaturale. In fondo la vita è bella anche perché è piena di imprevisti che ti fanno cambiare umore all’improvviso. Sono le macchine che non cambiano mai di umore.

SOFISTA. Ne conosci qualcuna che ti abbia confidato questo segreto?

ALICE. Non dire sciocchezze!

SOFISTA. Ma come fai a sapere quando sei felice?

ALICE. Lo so e basta, lo sento. È quella sensazione di leggerezza e di sicurezza di cui dicevo prima.

SOFISTA. È una sensazione.

ALICE. Si.

SOFISTA. E la sensazione come la si avverte?

ALICE. Mi stai facendo innervosire. Comunque io la sento nella pancia. Mi si distende e la sento più calda.

SOFISTA. E quando sei arrabbiata?

ALICE. Mi si contrae e avverto una sgradevole sensazione, e sento che sta per accadere adesso.

SOFISTA. Ti prego, non spazientirti con me.

ALICE. E va bene, ma non so se riuscirò a non irritarmi se continui per questa strada.

SOFISTA. Sono le mie parole che ti irritano?

ALICE. Certo, e che altro?

SOFISTA. Come accade che le parole irritino? Oppure calmino, oppure producano sensazioni piacevoli, oppure sensazioni sgradevoli, fino alla rabbia? Che cosa c’è dentro queste parole? Di che cosa sono fatte? Da dove vengono, e dove vanno? Come si costruiscono?

ALICE. Basta così, se no arriviamo alle domande sulla genesi dell’universo, al big bang e anche prima.

SOFISTA. Hai ragione. Eppure le parole mostrano di avere effetti notevoli sulle persone!

ALICE. Questo è vero, ma non è una novità. Lo si sa fin dai tempi di Demostene, ma che io sappia nessuno ha mai saputo dire esattamente perché. Però in effetti è curioso.

SOFISTA. La tua curiosità è la nostra migliore alleata.

ALICE. Ah sì?

SOFISTA. Sì. E la curiosità da dove arriva?

ALICE. Adesso ricominci?

SOFISTA. Temo di sì. Perché anch’io sono curioso.

ALICE. Basta che tu non mi innervosisca.

SOFISTA. La curiosità è ciò che fa domandare alle persone, circa le cose che le circondano, la loro origine, il loro futuro e la loro stessa esistenza. Esiste da quando esistono gli umani, sembra ciò che più di ogni altra cosa li caratterizzi, ciò di cui sono fatti.

ALICE. Il domandare, la domanda fondamentale che vuole l’esserci a tutti i costi? È sempre una domanda circa l’origine perduta e sempre da riconquistare. L’origine, autentica o no che sia, ha sempre uno sgradevole risvolto religioso.

SOFISTA. Tu non mi sembri credente.

ALICE. Certo che no. Perché mai dovrei fare una cosa del genere? Ma ti pare che uno dovrebbe prendersi la briga di inventare tutta una specie al solo scopo di farsi adorare e obbedire? Fare allegramente patire infinite sofferenze che nessuno gli ha chiesto? E punire nel peggiore dei modi chi lo disobbedisce e non accetta il suo strapotere? Oggi uno così lo si considererebbe un esaltato e fuori di testa. E poi tutta la buffa storia del libero arbitrio. Che non sono mai riusciti a venirne fuori in un modo che fosse almeno dignitoso. Perché ridi?

SOFISTA. Mi diverte il tuo sdegno. E non saprei darti torto. Ma perché esiste da sempre una qualche religione, e dappertutto?

ALICE. Credo che sia come per i bambini, che cercano di farsi amico quello più grosso per godere della sua protezione e per sentirsi anche loro un po’ importanti.

SOFISTA. È un buon motivo.

ALICE. Mah, è un motivo da bambini.

SOFISTA. Anche i bambini hanno i loro motivi.

ALICE. Però sentirsi importanti dà una bella sensazione, ti sembra di potere fare qualunque cosa. A me piace.

SOFISTA. Non ho dubbi.

ALICE. A te non piace? Ma aspetta un momento, stai dicendo che c’è sempre un motivo per cui si fa ciò che si fa?

SOFISTA. È possibile.

ALICE. A me non sembra, tante volte faccio qualcosa e non so perché la faccio!

SOFISTA. Che tu non sappia perché non significa necessariamente che non ci sia un motivo.

ALICE. Sei tu quello che sa tutto, non io.

SOFISTA. Che cos’è un motivo?

ALICE. E va bene! E allora tu dimmi: che cos’è il “che cos’è?”

SOFISTA. Lo farò. Ma non ancora.

ALICE. Comunque un motivo è ciò che muove, come dice la parola stessa, e ciò che muove può essere qualunque cosa.

SOFISTA. Qualunque cosa certo. Ma non qualunque cosa muove te.

ALICE. È ovvio. Deve importarmi. Deve essere importante per me!

SOFISTA. Allora potremmo dire che ciò che ti muove deve essere qualcosa che ti importa?

ALICE. Si. Penso proprio di sì.

SOFISTA. Ma chi decide che cose è importante per te?

ALICE. Io! E chi altri se no?

SOFISTA. Molto bene. Dunque sei tu che decidi che cosa è importante per te.

ALICE. Di sicuro non sarai tu!

SOFISTA. D’accordo. Ma dimmi questo: come decidi che cosa è importante per te?

ALICE. Non lo so, lo decido e basta anzi, certe volte sembra che si decida da sé.

SOFISTA. Ma mi hai appena detto che sei tu che decidi.

ALICE. Era solo un modo di dire, per dirti che non so come accada.

SOFISTA. Capisco. Eppure in un qualche modo deve farsi questa decisione.

ALICE. Adesso mi hai stufata con tutte queste domande. Credi che basti continuare a domandare per sapere come stanno per davvero le cose? Pensi che sia tutto a tua disposizione? Che tu possa sapere tutto? Tu non sai niente di me! Credi che ci sia qualcosa dietro alle mie parole? Dietro alle mie parole ci sono io, sempre e soltanto io! Quindi alla fine troverai sempre me.

SOFISTA. È proprio quello che volevo dire, e tu l’hai detto meglio di me. Dietro a ciò che dici ci sei sempre e soltanto tu. Ma è proprio questo che mi interessa, ciò che sto cercando.

ALICE. Questo mi piace. Allora possiamo continuare.

SOFISTA. Ne sono felice. Ma forse tu non sei dietro alle parole che dici, e neppure davanti, forse sei proprio quelle parole.

ALICE. Io non sono solo quello che dico, sono anche il mio corpo.

SOFISTA. Potrei dire che questo lo vedo, ma questo non significherebbe un granché.

ALICE. Eh già, per te vedere non significa niente vero? Per te importano solo le parole! Ma non esistono solo le parole! Esistono anche tante altre cose!

SOFISTA. Anche questo lo hai deciso?

ALICE. Adesso smettila! Stai diventando assurdo!

SOFISTA. Ma non mi hai risposto.

ALICE. No, non l’ho deciso, l’ho constatato! Non so tu ma io ho dei sensi, almeno cinque, e funzionano, e questi sensi mi fanno percepire la realtà.

SOFISTA. Se ho inteso chiami “realtà” ciò che i tuoi sensi percepiscono.

ALICE. Ah, adesso ci siamo! La conosco anch’io la fantascienza sai? Le idee sulla possibilità che tutta la realtà sia un’illusione, che tutto ciò che si esperisce sia totalmente diverso da come ci appare, e che non ci sia nessuna possibilità di uscire da questo inganno perché non c’è nulla che possa farci vedere l’inganno! Ci hanno fatto anche molti bei film sull’argomento. Proprio tu dovresti sapere che hanno tutti in comune una matrice antica: il mito della caverna di Platone, girano tutti lì intorno. Dovresti andare al cinema qualche volta.

SOFISTA. Platone ha fallito, e si è portato appresso i successivi due millenni. Ma questa è un’altra storia.

ALICE. Vuoi dire che se tutto è un inganno, allora niente è un inganno? Potrebbe essere, in fondo a questo punto non ci sarebbe nulla per definire che cosa sia inganno. Ma allora non è questa la direzione.

SOFISTA. No.

ALICE. E saresti così gentile da dirmi qual è?

SOFISTA. Certo, fra breve.

ALICE. Insomma non sarebbe possibile definire che cosa sia inganno?

SOFISTA. Certo che lo è.

ALICE. Ma se mi ha detto che non è possibile.

SOFISTA. Non l’ho detto io, l’hai detto tu. Puoi dare tutte le definizioni che vuoi, ma se pensi che la definizione raggiunga ciò che per alcuni filosofi è l’essenza della cosa allora ti inganni.

ALICE. Non mi piacciono i filosofi. Ma perché mi inganno?

SOFISTA. Perché la definizione è fatta di parole, e allora dovrai definire tutte quelle parole che usi per definire la prima parola, ma ti troverai in un circolo vizioso, perché ciascuna rinvia all’altra senza la possibilità di arrestarsi da qualche parte.

ALICE. E allora anche una definizione di inganno è un inganno. E la definizione di “definizione” è un inganno anche quella? A questo punto qualunque definizione è un inganno. Allora tutti quelli che scrivono dei dizionari sono truffatori?

SOFISTA. Se ti piace pensare così.

ALICE. Se fosse come dici tu allora comunicare con qualcuno non sarebbe possibile, mentre io comunico con tantissime persone, e continuerò a farlo nonostante te.

SOFISTA. Ti sei distratta. Per potere usare il termine “comunicare” dovremo prima sapere di che cosa stiamo parlando, e cioè dovremo averlo definito. Ma come?

ALICE. E io lo definisco come mi pare!

SOFISTA. È una decisione legittima.

ALICE. E invece no! Quando dico a qualcuno che voglio comunicare con lui, lui capisce che cosa sto dicendo! E d’altra parte se non è possibile comunicare allora che cosa stiamo facendo in questo momento? Più che un sofista mi sembri uno di quegli scettici che considerano che tutto sia relativo a qualche cos’altro, e così anche la loro considerazione ovviamente segue la stessa sorte senza potere andare da nessuna parte; si chiama regressio ad infinitum!

SOFISTA. Brava. È così

ALICE. È così cosa?

SOFISTA. Che puoi soltanto deciderlo che la comunicazione sia possibile, giacché in nessun modo potrai provarlo, per via del fatto che una qualunque definizione ne prevederà sempre un’altra e questa un’altra ancora all’infinito. Se invece decidi che la comunicazione non è possibile allora non stai comunicando niente, neppure a te stessa. Insomma non staresti facendo niente.

ALICE. Tu l’hai conosciuto Protagora, vero?

SOFISTA. Si.

ALICE. Ma tu ti diverti proprio con questi giochetti? Sono soltanto dei sofismi, la realtà è un’altra e non è fatta di sofismi.

SOFISTA. Se ti piace pensare così.

ALICE. Allora dillo tu che cos’è la realtà! E lo sai che cos’è la vita, e perché esistiamo?

SOFISTA. Ovviamente.

ALICE. Bene, questa voglio proprio sentirla! E non rifugiarti nei tuoi giochini da sofista, perché mi irriti!

SOFISTA. Non lo farò.

ALICE. Tanto meglio, perché a questo punto ti ho messo nell’angolo! Qualunque cosa risponderai sarà una definizione e io la rivolterò contro di te. Ti rivolterò contro tutto quello che hai detto finora e ti ridurrò al silenzio. Vincerò io la partita! O almeno finirà pari. L’eristica, caro sofista, sei tu che la insegni non è vero? L’arte di vincere sempre, comunque, qualunque agone dialettico. L’ho imparata anch’io. E adesso come la mettiamo?

SOFISTA. Stai diventando sempre più brava.

ALICE. Vuoi che ti conceda un momento di pausa, così riordini le idee? E so anche che non dovrei farlo, perché il tempo che ti concederò tu lo userai per costruire argomentazioni contro di me! Lo vedi come sono generosa? E allora?

SOFISTA. Non hai torto, procedendo lungo questa via non c’è nessuna uscita.

ALICE. Bene! Allora abbiamo finito?

SOFISTA. Forse no. Forse c’è ancora qualcosa che possiamo considerare.

ALICE. Ah sì? Quale cosa?

SOFISTA. Se, come abbiamo appena detto, ciascuna definizione è arbitraria, quando definiamo qualcosa raccontiamo una storia intorno a qualcosa. E questo qualcosa, qualunque cosa sia, intorno a cui raccontiamo una storia, a sua volta procede da un’altra storia, cioè da un’altra definizione.

ALICE. E così via all’infinito? Se fossi una semiotica probabilmente parlerei di semiosi infinita, segni che rinviano a altri segni senza nessuna possibilità di arrestarsi da qualche parte. È suggestivo!

SOFISTA. Probabilmente.

ALICE. Ma allora come sappiamo che qualcosa è il significato di qualche altra cosa?

SOFISTA. Se parliamo di significato allora abbiamo già stabilito, sempre arbitrariamente, che cosa sia il significato. Una volta stabilito che cosa si debba intendere con significato, possiamo utilizzare tale definizione come ci pare più opportuno, ovviamente attenendoci alle regole che abbiamo accolte. Ricordati che abbiamo appena detto che una qualunque definizione rinvia all’infinito a altre definizioni, e tuttavia che senza definizioni non sapremmo di che cosa stiamo parlando.

ALICE. Fermati! Che cosa diavolo stai dicendo? Ma allora come facciamo a capirci mentre stiamo parlando?

SOFISTA. Prima dovremmo stabilire che cosa intendere con “capire”.

ALICE. E basta! Non possiamo andare avanti così all’infinito!

SOFISTA. Non possiamo o non dobbiamo?

ALICE. Non possiamo e non dobbiamo.

SOFISTA. Immagino che tu abbia dei buoni motivi per dire questo.

ALICE. Non lo so, ma così non mi piace.

SOFISTA. È un motivo.

ALICE. Non fare il furbo con me!

SOFISTA. Non ci penso nemmeno.

ALICE. Insomma allora come avviene la comunicazione?

SOFISTA. Come avviene che cosa esattamente?

ALICE. Adesso ti tiro uno schiaffo! E poi voglio vedere che cosa dici!

SOFISTA. Di non smettere di parlare.

ALICE. Sei disarmante.

SOFISTA. Sono sicuro che non ti è sfuggito che la sola via di uscita a questo punto non può essere trovata in questi rinvii infiniti, o più propriamente nella loro struttura, considerato che alla fine arriviamo sempre lì. Che cos’hanno di particolare questi infiniti rinvii? Di che cosa sono fatti?

ALICE. No! Non so se ho voglia di continuare. Non so se voglio sapere altro. Mi sembra di essere presa in un vortice senza fine, in una caduta senza fine. La parole sembrano svuotate, e anche i pensieri. Ecco perché ci si ancora disperatamente all’idea che esista una realtà, perché le parole sono un inferno!

SOFISTA. Ma adesso ti porterò in paradiso. Lungo una via tutta dorata.

ALICE. Che bello! Ma rimani con me!

SOFISTA. Lo farò.

ALICE. Allora non ho paura.

SOFISTA. Bene.

DIALOGO II

 

ALICE. Tu hai già percorsa questa strada vero?

SOFISTA. Sì. L’ho fatto.

ALICE. E non ti sei perso?

SOFISTA. No. E non accadrà neppure a te.

ALICE. Lo spero bene. Ma come faremo a uscire da quel labirinto infinito di rinvii? E se incontrassimo un Minotauro? Ascoltami bene. Se ciascuna parola che dico è presa in quella rete infinita, come fai a capire quello che dico? E io stessa, come faccio a capire quello che dico io, se ciò che dico esiste soltanto in quanto connesso a infinite altre parole? Poiché da quanto ho inteso, nessun elemento linguistico, cioè nessuna parola esiste da sola, perché non rimanderebbe a nessun significato, quindi non significherebbe niente, non significando niente sarebbe niente, non potrei dirle quelle parole e non potrei utilizzarle perché sarebbero niente! È così, vero?

SOFISTA. Sei davvero molto brava. Ma ti rendi conto di quello che hai detto?

ALICE. Perché, che cosa ho detto?

SOFISTA. Hai detto che la realtà è una costruzione linguistica, che non c’è nulla fuori dalla parola.

ALICE. Ah sì?

SOFISTA. Sì.

ALICE. A me non sembra, ho detto soltanto che c’è un problema con le parole. Te lo riassumo, hai una certa età e forse non sei più così sveglio.

SOFISTA. È possibile.

ALICE. Dico soltanto che un elemento linguistico non può esistere isolato dagli altri, perché se lo fosse non sarebbe connesso con il suo significato, che è un altro elemento linguistico, e quindi non avendo alcun significato sarebbe niente. E d’altra parte se esiste in quanto connesso con gli altri, allora è connesso con tutti gli altri, perché si crea immediatamente una rete infinita di connessioni, che significa che se dico qualcosa, questo qualcosa si spalanca su una rete infinita e l’elemento si dissolve in questa rete, e non è più lo stesso. Ma se non è più lo stesso, quando lo dico, dico altro, sempre necessariamente altro, cioè non soltanto non potrò mai sapere che cosa sto dicendo, ma nemmeno che sto dicendo, e nemmeno posso affermare che non so se sto dicendo. Se porto correttamente la cosa alle estreme conseguenze, non posso affermare nulla, neppure che non posso affermare nulla. Non posso più parlare. Invece io sto parlando. Come la mettiamo? Ma adesso parla tu, io mi sto stufando, tutte queste storie non portano da nessuna parte, fanno soltanto innervosire facendo capire quanto sia inutile proseguirle. Però sono curiosa di sapere come ne veniamo fuori!

SOFISTA. La tua curiosità è sempre la nostra migliore alleata. Hai riassunto in poche parole e precise. È proprio così come dici: le cose non possono dirsi, ma anche non possono non dirsi. Ma questo accade soltanto se le consideriamo entità fuori dal linguaggio.

ALICE. Aspetta un momento, ma se sono parole come fanno a essere fuori dal linguaggio? Adesso te lo faccio io un paradosso! Tu l’hai conosciuto Gorgia?

SOFISTA. Sì, l’ho conosciuto.

ALICE. Ma quanti anni hai? Va bene. Adesso parafraso quello che ha detto. Pensi che se ne avrà a male? Comunque non me ne importa. Nulla è dicibile; se qualcosa fosse dicibile non sarebbe conoscibile; se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Cosa ne dici?

SOFISTA. Che Gorgia sarebbe fiero di te.

ALICE. Si ma questo è un paradosso! Se io dico che nulla è dicibile allora lo sto dicendo, se lo sto dicendo allora qualcosa è dicibile! Insomma, se è costruito così ciò con cui gli umani parlano, se davvero funziona così, allora si capisce perché non possono approdare a niente, concludere niente di definitivo: la certezza è davvero strutturalmente inaccessibile. È anche peggio di ciò che prospettavano i tuoi amici scettici!

SOFISTA. Non sono miei amici.

ALICE. Comunque. Loro dicevano che non c’è certezza, e qualcuno gli faceva notare che neppure questa affermazione poteva essere una certezza. Ma qui le cose sono molto peggio, perché sarebbe come dire che non sapremo mai se c’è oppure non c’è certezza, e neppure che cosa sia questa certezza.

SOFISTA. È possibile.

ALICE. Come “è possibile”? Adesso sei tu che non ti rendi conto delle conseguenze di ciò che abbiamo detto! E cioè che sto parlando, ma in realtà non potrei parlare in nessun modo, e neppure sapere che sto parlando, e neppure sapere che non potrei neppure parlare! Eppure sto parlando, ma a questo punto non sono più neppure sicura di ciò che sto facendo. Sto parlando?

SOFISTA. Forse.

ALICE. Ma come forse? Adesso basta. Mi ci hai portata tu qui, te lo ricordi? Mi hai anche promesso che saremo usciti fuori da qui. Allora?

SOFISTA. La tua pare un’interrogazione intorno al linguaggio, al suo funzionamento, alla sua struttura. Allora forse dovremmo prima intenderci sul “linguaggio”, e cioè su che cosa intendiamo quando parliamo di linguaggio.

ALICE. Questa mi pare una cosa sensata. Ma rimane il problema di prima, e cioè come faremo a intenderci su qualcosa se ogni cosa non è mai quello che è?

SOFISTA. Potremmo fare un gioco.

ALICE. Con quali regole?

SOFISTA. Le decideremo noi. La prima è che il linguaggio sarà ciò che noi decideremo che sia, e ogni volta che interverrà il termine “linguaggio” lo useremo sempre nel modo che abbiamo stabilito.

ALICE. Stai forse dicendo che il linguaggio non è un “qualcosa” ma soltanto ciò che noi decidiamo che sia?

SOFISTA. È soltanto un gioco.

ALICE. Come giocare a poker, stabiliamo che due re valgono più di due sette.

SOFISTA. Esattamente.

ALICE. Va bene. Allora che cosa intenderemo con linguaggio?

SOFISTA. Tu sei molto giovane, e sicuramente esperta delle nuove tecnologie, come i calcolatori.

ALICE. Insomma.

SOFISTA. Non ti sottovalutare. Sono sicuro che sai come funziona un calcolatore.

ALICE. Lo chiamiamo computer adesso. Comunque so soltanto che gli si immettono dei dati e delle istruzioni per elaborarli, e che possono fare questo grazie a fili elettrici e interruttori.

SOFISTA. E come viene chiamata la descrizione dell'insieme delle istruzioni che un computer deve eseguire?

ALICE. Linguaggio. E allora? Che cosa c’entra il linguaggio di una macchina con il linguaggio degli umani?

SOFISTA. È per via di una antichissima questione che riguarda l’apprendimento del linguaggio. Come è possibile insegnare a parlare, così come insegnare qualunque cosa, se non è già presente la possibilità di capire che cosa l’altro sta facendo, e cioè che sta cercando di insegnarmi qualcosa, e che quindi c’è qualcosa da imparare?

ALICE. Ma quanto sei contorto! Bastava dire che per imparare a parlare occorre che già sappia parlare. Lo so che è un problema, e so anche che non è stato mai risolto. Non mi dirai che tu hai la soluzione?

SOFISTA. Vedremo.

ALICE. Smettila di essere così evasivo, mi sto innervosendo! Hai la soluzione o no? Ma certo che ce l’hai!

SOFISTA. Sai programmare un computer?

ALICE. Un pochino. Ma tu che ne sai di computer? O chiacchierando con Protagora ne avete costruito uno?

SOFISTA. Non proprio. Ma insegnando a parlare si insegna anche a pensare. Che si tratti di un uomo o di una macchina non fa differenza.

ALICE. Questo lo dici tu. Le macchine sono costruite dalle persone!

SOFISTA. Anche le persone sono costruite dalle persone.

ALICE. E allora dimmi questo: come si costruiscono gli umani? In quanto esseri pensanti intendo.

SOFISTA. Ti prego di non perdere la pazienza con me.

ALICE. Questo dipende solo da te!

SOFISTA. Hai ragione.

ALICE. Che dipende solo da te non farmi innervosire?

SOFISTA. No, che sono stati gli umani a costruire i computer.

ALICE. Ah. E questo cosa vorrebbe dire? Che li hanno costruiti facendoli pensare nella maniera in cui pensano loro, gli umani? Non ci voleva un genio per dire una cosa del genere. E questo vuole anche dire che le macchine si muovono secondo gli schemi logici che sono gli stessi che muovono gli umani. E cioè quella logica che voi amavate tanto. E comunque è stato Aristotele a formalizzarla, e non voi!

SOFISTA. Lascia stare Aristotele.

ALICE. E perché? Sei geloso?

SOFISTA. Aristotele è stato un bravo compilatore. Ha decretato che la logica fosse un insieme di regole universali attraverso le quali dominare il mondo. Ha avuto il suo momento di gloria, perché tutti hanno avuto il desiderio di dominare il mondo, e lui ha suggerito come fare.

ALICE. A me hanno insegnato cose un po’ diverse.

SOFISTA. Non avevo dubbi.

ALICE. Ma perché parlavi dei computer?

SOFISTA. Qualcuno ha voluto insegnare a qualcosa a parlare, quindi a pensare. Questo qualcosa era un pezzo di materia inerte. È stato trasformato in qualcosa che parla, che pensa.

ALICE. Stai parlando di Turing? Fu lui a progettare la prima “macchina pensante” come la chiamava lui. Una bella impresa! Un nastro di carta e una testina scrivente! Certe volte le idee migliori richiedono pochissimi elementi. Ma richiedono il genio, ecco perché le macchine non potranno mai essere come le persone! E quindi, caro Sofista, le macchine non potranno mai competere, quanto a invenzione, con gli umani. Come li chiami tu. Ma perché li chiami “gli umani”? Sembra quasi che tu voglia prendere le distanze da loro.

SOFISTA. No.

ALICE. Come vuoi tu. Ma rimane quello che ho detto: le persone sono superiori alle macchine.

SOFISTA. Bene. Come insegneresti a una macchina a parlare?

ALICE. Non saprei, credo che gli immetterei dei dati, delle informazioni, ma insieme anche le istruzioni perché possa fare qualcosa con quei dati.

SOFISTA. E che cosa dovrebbe fare con quei dati?

ALICE. Costruire altri dati, per esempio. Già, ma come? Però forse la prima cosa dovrebbe essere potere riconoscere qualcosa come dei dati. Che c’è qualcosa e che questo qualcosa è un dato, una informazione

SOFISTA. Penso proprio di sì. Quindi occorrerà che riconosca delle sequenze di lettere, come delle cose che sono utilizzabili per combinarle con altre sequenze di lettere.

ALICE. È vero! Sennò qualunque cosa sarà nulla, cioè non sarà neppure qualcosa. Allora faccio così: per prima cosa gli dico quali sono le stringhe, le sequenze che dovrà riconoscere e quindi accogliere come sequenze. Dopo gli dico quali combinazioni tra queste sequenze, o proposizioni, dovrà accogliere e quali no. Quelle che gli ho detto di accogliere, gli dico di chiamarle “vere”, quelle che non deve accogliere gli dico di chiamarle “false”. Ho inventato l’intelligenza!! Sono troppo brava!

SOFISTA. È vero, sei bravissima. In effetti hai creata l’intelligenza, o almeno le sue condizioni.

ALICE. Ma è tutto qui? Non può essere così semplice.

SOFISTA. Lo hai detto tu: le cose migliori spesso richiedono pochi elementi.

ALICE. Si, ma questi sono davvero pochi.

SOFISTA. Allora vediamo. Secondo te che cosa manca?

ALICE. Lo sapevo che avrei dovuto fare io tutto il lavoro.

SOFISTA. È perché sei giovane e gagliarda.

ALICE. Si certo. Intanto in questo modo posso solo calcolare, ma non posso creare una emozione, per esempio.

SOFISTA. Ne sei sicura?

ALICE. Certo che ne sono sicura! Non verrai a raccontarmi che una emozione procede da un calcolo? Che ci si innamora di qualcuno dopo avere fatto i conti sul pallottoliere! Non essere ridicolo. Ti sei mai innamorato di qualcuna in vita tua? Mi piacerebbe conoscerla quella.

SOFISTA. Non è questa la questione.

ALICE. Quando si tratta di te non è mai quella la questione. E va bene. Dicevamo che un’emozione non procede da un calcolo.

SOFISTA. Questo lo dicevi tu.

ALICE. E va bene, lo dicevo io.

SOFISTA. Non dimenticare mai ciò che sei.

ALICE. E che cosa sono?

SOFISTA. Sei le tue parole, sei il tuo racconto, sei la tua storia che non ha mai fine.

ALICE. Ma che cosa vuoi da me?

SOFISTA. Che tu non smetta mai di parlare con me.

ALICE. Allora non sai dire solo cose noiose! Comunque sia, cosa ha a che fare un’emozione con il calcolo?

SOFISTA. Perché è un pensiero che ti emoziona.

ALICE. Sì, anche, ma può anche essere una scena. Anzi, il più delle volte è una scena che mi dà emozione.

SOFISTA. Ma quella scena significa qualcosa per te?

ALICE. Ma quanto sei banale! È ovvio che significa qualcosa per me.

SOFISTA. Quindi è importante per te, ha un certo valore. Chi ha attribuito quel valore a quella scena?

ALICE. Ti conosco oramai, e so già dove vuoi andare a parare. Stai per dire che se do importanza a quella scena allora è come se fosse dentro un discorso, ed è il discorso in cui si trova che le dà importanza. Credo.

SOFISTA. Sì, parrebbe.

ALICE. Aspetta un momento. Mi è venuta un’altra idea geniale!

SOFISTA. Sei una continua sorpresa.

ALICE. Lo so. Se qualcosa significa qualcosa, è perché fa segno, letteralmente, e cioè appartiene a una combinatoria di segni, ma se appartiene a una combinazione di segni, e cioè di cose che rappresentano altre cose per qualcuno, allora se una scena significa qualcosa è perché è connessa con altre cose, con altre parole, altri discorsi che a loro volta sono dei segni. E quindi perché una scena produca delle emozioni occorre che sia fatta di parole, e cioè di cose che rinviano ad altre cose. Che te ne pare? Sono un genio o no?

SOFISTA. Puoi spingerti ancora oltre.

ALICE. Davvero?

SOFISTA. Sì. Intanto possiamo dire che perché qualcosa sia importante, occorre che questo qualche cosa sia un qualche cosa; perché possa essere un qualche cosa occorre che questo qualche cosa significhi qualche cosa; se non significasse niente sarebbe niente, non sarebbe nemmeno qualcosa. Significare qualcosa è letteralmente fare segno, qualche cosa che è segno per qualche altra cosa, cioè rappresenta qualche altra cosa, e se rappresenta qualche altra cosa è in una connessione, in una relazione con altri elementi e cioè, ancora, in una combinatoria segnica, cioè fatta di segni, dove questo qualche cosa è tale, cioè è un qualche cosa, perché è segno di qualche altra cosa per qualcuno.

ALICE. Potresti essere un po’ più chiaro?

SOFISTA. Se qualcosa…

ALICE. Ci sono! Perché qualcosa possa essere importante occorre che esista, e non può esistere fuori da una combinazione di segni, cioè non sarebbe niente se non significasse qualcosa. Però, quando diciamo che qualcosa “esiste”, che cosa stiamo dicendo?

SOFISTA. Già. Questa è una bella questione. Infatti anche “esiste” è qualcosa, e questo qualcosa è qualcosa…

ALICE. Se rinvia a qualche cos’altro!

SOFISTA. Proprio così.

ALICE. Bello! Lo stesso “esistere” quindi è qualcosa perché rinvia a qualche cos’altro. Ma mi stai dicendo che non c’è nessuna esistenza fuori dal linguaggio? Questa è proprio da sofista!

SOFISTA. Esattamente, fuori dal linguaggio non c’è nessuna esistenza, né alcuna “esistenza”.

ALICE. Eh?

SOFISTA. Voglio dire che fuori dal linguaggio non c’è nessuna esistenza, né alcuna possibilità di parlare o di non parlare di esistenza.

ALICE. Questo è proprio un sofisma, tanto ineccepibile quanto inverosimile.

SOFISTA. Non simile a quale vero?

ALICE. Ma a quello che vedo, che tocco, e che tutti vedono!

SOFISTA. Non sarà forse che vedi ciò che lungo la tua vita sei stata addestrata a vedere?

ALICE. Può darsi, ma le cose ci sono per davvero!

SOFISTA. Forse anche questo sei stata addestrata a pensarlo.

ALICE. Non capisco. Mi sembra di stare dentro a un film di fantascienza. Ma è tutto un inganno?

SOFISTA. No.

ALICE. Ma come no? Se stai dicendo che ciò che vedo non è la realtà ma ciò che sono stata addestrata a vedere!

SOFISTA. La realtà è questo: è ciò che sei stata addestrata a vedere, a sentire, a percepire.

ALICE. Vorresti dire che “esse est percipi”, come voleva quel vescovo di Dublino?

SOFISTA. Certo che no.

ALICE. E allora?

SOFISTA. Voglio soltanto dire che la realtà viene insegnata, così come vengono insegnati il bene e il male, il bello e il brutto. È frutto di una educazione, una educazione alla realtà. Quando ti viene insegnato che c’è qualcosa da “vedere”, allora lo vedi. Perché ciò che vedi, lo vedi attraverso i significati che hai imparati e tutte quelle connessioni attraverso le quali si danno quei significati. Non puoi “vedere” come vedresti senza il linguaggio, non lo puoi fare. E poi, vedresti davvero? Intendo dire che nel linguaggio “vedere” è qualcosa, ma fuori dal linguaggio “vedere” è nulla.

ALICE. Un qualunque animale vede anche senza linguaggio.

SOFISTA. Ne sei sicura? Perché questo lo stai affermando tu in base alla tua esperienza del “vedere”, e che attribuisci all’animale. Tu osservi che un animale ha certe reazioni che tu accosti alle tue, ma sei tu che fai questo. Per comodità, per abitudine diciamo che un animale “vede”, lo diciamo anche di una telecamera, ma in nessun modo possiamo sapere che cosa succeda. La stessa cosa vale per gli altri sensi. Il modo in cui gli umani “vedono”, è qualcosa che appartiene soltanto agli umani. Così come la realtà, che appartiene soltanto agli umani.

ALICE. È difficile da accettare una cosa del genere. Ma credo di capire quello che dici. Stai dicendo che il vedere, e anche ciò che vedo, sono quello che sono ma per me, perché ho imparato che sono quella cosa lì, e che se non l’avessi mai imparata allora non vedrei nulla.

SOFISTA. Potremmo anche dire che vedresti, ma questo non significherebbe nulla, e quindi a questo punto che cosa sarebbe?

ALICE. Nulla. Quindi potrei dire che vedo o che non vedo, ma sarebbe la stessa cosa, nel senso che nessuna delle due cose significherebbe alcunché.

SOFISTA. Già, proprio così. Ecco perché prima dicevamo che perché qualcosa sia deve essere nella parola, in caso contrario è nulla.

ALICE. Ma allora la parola è l’esistenza stessa!

SOFISTA. Sei bravissima. Hai intesa la questione più importante, e anche più difficile. Ma adesso vedremo perché per gli umani è così importante che esista la realtà.

ALICE. E se a questo punto provassi a dirtelo io?

SOFISTA. Oramai sei una sofista.

ALICE. Dici? Comunque. Stavo pensando che se non esiste nessuna realtà senza linguaggio, allora la parola è l’unica realtà possibile, perché come dicevamo è l’esistenza stessa, e quindi è la realtà, anzi, la sola realtà possibile, pensabile. E qualunque cosa esista per le persone è stata necessariamente creata dal loro discorso. Tutte le cose belle e brutte, le tragedie e le gioie sarebbero nulla se non appartenessero al discorso delle persone, non esisterebbero perché sarebbero niente! Ma allora perché esiste la “realtà”, a che cosa serve?

DIALOGO III

 

SOFISTA. Dal giorno in cui gli umani hanno incominciato a parlare, dal giorno in cui sono diventati esseri parlanti, hanno iniziato a cercare di governare ciò che li circonda, imponendo così il loro potere sul mondo, esercitando la propria volontà su altri e su altro, espandendo tale potere oltre ogni limite, e ottenendo da questo la maggiore soddisfazione.

ALICE. Che cosa vuoi dire?

SOFISTA. Che ciascuna relazione fra umani ha l’obiettivo di imporre la propria ragione, di essere importanti per qualcuno. Imporre la propria ragione muove dalla supposizione che ciò che si pensa definisca lo stato delle cose, il come stanno le cose, ritenendosi portatori di una verità. Essere importanti per qualcuno vale a essere riconosciuti da altri in quanto oggetto di interesse, e interessa ciò che importa, ciò che muove il desiderio verso qualcosa. Tuttavia, soltanto se si è importanti per qualcuno è possibile imporre la propria ragione, la propria volontà su questo qualcuno, da qui la ricerca del riconoscimento da parte di altri. Imporre la propria volontà comporta modificare l’altro secondo la propria volontà, farlo diventare ciò che si vuole che diventi.

ALICE. Attraverso l’affermazione della verità?

SOFISTA. Affermare una verità su qualcosa modifica quel qualcosa rendendolo vero, e di conseguenza importante, poiché solo se è vero consente di affermarlo, e affermandolo, stabilirlo. Se si afferma il vero, esso deve venire riconosciuto da altri, che devono riconoscere che si sta affermando il vero, e chi lo afferma diventa importante per altri poiché solo il vero può essere utilizzato in un discorso per costruire altri discorsi, cioè per potere continuare a affermare cose vere, quindi importanti. Se si affermano cose importanti, si viene riconosciuti essere importanti da altri, sui quali sarà possibile da quel momento esercitare il proprio potere, perché questi altri lo avranno attribuito. Solo se altri avranno accolte le cose dette in quanto vere sarà possibile esercitare il potere su di loro.

ALICE. Allora è di questo che è fatto il potere!

SOFISTA. Sì. Una affermazione vera si ritiene che dica come stanno le cose, dando un potere sulle cose, e sulle persone. Il concetto di realtà ha questa funzione: garantire della verità di ciò che si dice. Solo per questo ha tanta importanza.

ALICE. Ma a questo punto che cosa significa “vera”? Vera in che senso se non c’è una realtà che la possa garantire?

SOFISTA. Dici bene. In effetti proprio perché non c’è più una realtà che possa fare da garante, allora dire “vera” significa soltanto che può essere utilizzata dal discorso che l’ha prodotta, cioè può essere utilizzata per la costruzione di altre affermazioni. Un’argomentazione è un percorso logico che serve a raggiungere una conclusione, una affermazione vera. Tutto ciò che gli umani pensano procede da argomentazioni vere, proprie o altrui, e costituisce il “sapere” di ciascuno.

ALICE. Ma allora la violenza messa in atto da sempre per imporre il potere, procede dalla realtà, o forse, a questo punto, potremmo dire dalla superstizione che esista una realtà fuori dalla parola. E quindi, per esercitare il potere, devo costringere le persone a credere che la realtà sia ciò che dico io.

SOFISTA. Sì, certamente, ma non basta.

ALICE. Forse è necessario che prima abbia persuaso che esista una realtà!

SOFISTA. Sì, esatto. Questa è la condizione.

ALICE. Sembra un piano diabolico. Ma sembra anche inevitabile. Lo era anche la nobile menzogna di Platone?

SOFISTA. Platone ha reso esplicito ciò che già sapevano tutti: il governo della cosa pubblica si regge sulla menzogna.

ALICE. Io non lo sapevo.

SOFISTA. Perché non ci hai mai pensato, e chi governa la cosa pubblica fa di tutto perché nessuno si soffermi a considerare una cosa del genere.

ALICE. Perché vuole mantenere il suo potere, che è la sola cosa che conti. Sarebbe come a dire che non si governa per i cittadini ma per il potere.

SOFISTA. Sì, è così.

ALICE. E tu la sai lunga sul potere, eravate voi a insegnare ad acquisirlo con le parole.

SOFISTA. Sì.

ALICE. Ma senti un po’, perché allora in migliaia di anni gli uomini non si sono mai ribellati a una cosa come questa?

SOFISTA. Gli umani vengono addestrati a obbedire a qualcuno, sempre. A pensare che c’è sempre qualcuno a cui obbedire. Come disse Freud, che ha immaginato che questo fosse il prezzo da pagare per la civiltà. Per educare un bambino occorre per prima cosa insegnargli a obbedire, e premiarlo quando obbedisce, e una volta che il bambino l’ha imparato…

ALICE. Non ne viene più fuori!

SOFISTA. Sì, il premio è il riconoscimento, sentirsi importanti, sentire che si è dalla parte della ragione, del giusto.

ALICE. E questo è ciò a cui le persone non possono rinunciare? E tutto questo perché sono fatti di parole?

SOFISTA. Proprio così. Sono i concetti di vero, di giusto, di buono. Questi concetti non possono essere né costruiti né desiderati senza le parole, senza un insegnamento.

ALICE.  Ma tu che potere hai su di me?

SOFISTA. Dimmelo tu.

ALICE. Puoi avere solo il potere che io ti attribuisco.

SOFISTA. E perché dovresti volere attribuirmelo?

ALICE. Per sentirmi protetta, accudita. Per sentirmi importante per te.

SOFISTA. Già. Le persone possono rinunciare a qualunque cosa ma non a questa. Talvolta sono disposte a rinunciare anche alla loro stessa vita per potere pensare di essere importanti, di essere nel giusto, in un modo o nell’altro.

ALICE. Ti sembra strano?

SOFISTA. No di certo. È la cosa che gli umani cercano da sempre, al di sopra di qualunque altra. Talvolta appunto al di sopra della loro stessa vita. E infatti li si può convincere di qualunque cosa, persuadere di qualunque cosa o del suo contrario, ma non rinunceranno mai a volere essere importanti.

ALICE. Quindi la persuasione passa attraverso il fare sentire importanti.

SOFISTA. Necessariamente.

ALICE. Ma qualcuno può essere persuaso semplicemente che una cosa sia meglio di un’altra. Dove sta qui il sentirsi importanti?

SOFISTA. Sentirsi importanti può essere l’effetto dell’avere compiuta la scelta giusta, di sentirsi nel giusto. Anche se non c’è nessun pubblico presente, c’è comunque la certezza di essere nel giusto, e di conseguenza di avere l’approvazione, il consenso, la considerazione dei giusti. Si tratta spesso di quella cosa che molti chiamano la “coscienza morale”.

ALICE. Ma va?

SOFISTA. Da dove pensavi che venisse?

ALICE. È fatta del bisogno di sentirsi considerati, apprezzati, approvati? Ma se io mi innamorassi di qualcuno, non lo farei per esercitare il potere su di lui.

SOFISTA. Neanche un po’?

ALICE. Un pochino sì.

SOFISTA. E non vorresti che lui avesse del potere su di te?

ALICE. Ma solo quello che gli consento io!

SOFISTA. Non è questa la più grande forma di potere? Concedere, permettere ad altri di avere potere su di te?

ALICE. Forse sì.

SOFISTA. Già, forse sì.

ALICE. Dunque, se ho inteso bene, ogni affermazione che si fa, è soltanto la parte di un gioco, una mossa di un gioco il cui unico obiettivo è condurre il gioco a buon fine, completarlo, e cioè affermare qualcosa che consenta di proseguire a giocare. Ma è tutto qui?

SOFISTA. Se non c’è nessuna realtà esterna al linguaggio a garantire di quell’affermazione, allora sì, è tutto qui.

ALICE. Ma non c’è nessuna realtà fuori dal linguaggio, e pensare la realtà come un quid che esista aldilà delle parole che la costruiscono è una fantasia, una superstizione!

SOFISTA. Brava, è proprio così.

ALICE. E allora?

SOFISTA. E allora dovremo riconsiderare un po’ di cose.

ALICE. Per esempio?

SOFISTA. Che cosa stiamo facendo, adesso, mentre parliamo?

ALICE. Stiamo giocando un gioco.

SOFISTA. Esattamente. Ma questo sta accadendo soltanto adesso o accade sempre?

ALICE. A questo punto credo che dovrebbe accadere sempre, qualunque cosa si dica. Se le cose non stanno in nessun modo, perché le cose sono costruzioni di un discorso, ciò che diciamo non potrà mai dire come stanno le cose, appunto perché le cose non stanno, non stanno fuori dal discorso che le costruisce.

SOFISTA. Adesso considera una teoria, una qualunque teoria, che cosa descriverà?

ALICE. Immagino che descriverà soltanto ciò che sarà costruibile dalle regole che costituiscono quella teoria, cioè quel discorso.

SOFISTA. E quindi che cosa sarà ciò che avrà costruito?

ALICE. Non mi piace quando mi piloti le risposte! Non mi piace che tu mi faccia dire quello che vuoi tu! Non farlo più. Tieniti la maieutica per qualcun altro.

SOFISTA. Hai ragione, scusami.

ALICE. Comunque sì, ciò che quel discorso avrà costruito non sarà nessuna realtà, sarà stato soltanto ciò che le regole di quel discorso avranno consentito di costruire, niente di più.

SOFISTA. Questo è importante.

ALICE. Sì, credo di sì. Ma adesso ho io una domanda per te. Perché pensi che ciò che abbiamo appena detto sia importante, se anche questo necessariamente non fa altro che costruire ciò che è costruibile dalle regole del discorso che stiamo facendo, e nient’altro che questo?

SOFISTA. Brava, è una domanda degna di una sofista.

ALICE. Sì sì, certo. Ma non svicolare, rispondi.

SOFISTA. Lo farò. Ma tu perché vuoi che ti risponda, se già sai che anche la mia risposta sarà necessariamente all’interno del gioco che stiamo facendo? Soltanto una costruzione che muove dalle regole del discorso che siamo facendo?

ALICE. Perché sta per partire un ceffone! Quindi vedi tu.

SOFISTA. D’accordo. Ma non essere così irascibile.

ALICE. Vuoi anche dirmi come devo o non devo essere?

SOFISTA. No, certo che no.

ALICE. E allora?

SOFISTA. Considero importante ciò che consente di sapere ciò che accade mentre si sta parlando, qualsiasi cosa renda meno ingenui i parlanti, qualsiasi cosa li renda più avvertiti del fatto che parlare è l’esecuzione di un gioco, quel gioco che chiamiamo linguaggio.

ALICE. E cioè sapere che l’esecuzione di questo gioco che chiamiamo linguaggio ha l’unico scopo di eseguirsi? Ma ti pare che le persone possano essere soddisfatte da una cosa del genere? Sapere che sono immerse dentro un gioco e che fuori dal quel gioco non esiste niente? Neppure la loro stessa esistenza, perché fuori da quel gioco non c’è nessun gioco, quindi nessuna esistenza?

SOFISTA. È così. Fuori dal gioco che costruisce l’esistenza, non c’è nessuna esistenza.

ALICE. Ma io esisto per te?

SOFISTA. Sì.

ALICE. Ma come fai a dire che esisto se fuori dal gioco non esiste nulla?

SOFISTA. Perché stiamo giocando. E giocando possiamo dire che esistiamo, perché possiamo accorgerci che esistiamo.

ALICE. Ah, quindi ammetti che ci “accorgiamo” che esistiamo, quindi esistiamo comunque, poi possiamo accorgercene oppure no, ma esistiamo.

SOFISTA. Stai dicendo che ci saremmo lo stesso anche se non ci fosse il linguaggio?

ALICE. Proprio così.

SOFISTA. Puoi crederlo, puoi averne fede, e cioè volere fortemente che le cose abbiano quel senso che tu vuoi che abbiano. Potresti fare qualche cos’altro?

ALICE. Non lo so.

SOFISTA. Eppure dovresti saperlo, ne abbiamo già parlato.

ALICE. Che ne abbiamo già parlato non significa che lo sappia.

SOFISTA. Quando affermi che le cose ci sono, o quando le vedi…

ALICE. Sì sì, lo so, ciò che io chiamo “vedere” è già all’interno del gioco, e quindi se “vedo” è perché sto giocando il linguaggio. Insomma, esistiamo soltanto perché giochiamo?

SOFISTA. Sì.

ALICE. Ma se volessi smettere di giocare?

SOFISTA. In che modo?

ALICE. Non lo so. Dovrei smettere di giocare. Però come faccio a smettere di giocare? Anche volere smettere di giocare è pur sempre un gioco. Insomma è un gioco che non si può smettere di giocare?

SOFISTA. Temo di no.

ALICE. Quindi le persone non possono smettere di giocare questo gioco?

SOFISTA. No. Sono persone proprio in quanto fanno questo gioco che chiamiamo linguaggio, e il loro “volere”, qualsiasi cosa vogliano, è qualcosa solo all’interno del gioco. Possono “volere” soltanto all’interno del gioco.

ALICE. Credo di avere capito.

SOFISTA. Bene.

ALICE. Stiamo dicendo che le persone incominciano a esistere dal momento in cui iniziano a parlare, e che da quel momento in poi sono quello stesso gioco che le fa esistere? E dal quale non possono più uscire?

SOFISTA. È così.

ALICE. Beh, è davvero strano tutto ciò. Chi poteva immaginare una cosa del genere! Quindi tutto ciò che penso di me, tutto ciò che altri pensano di me, sono soltanto delle proposizioni che è possibile costruire in base alle regole del linguaggio? Non rappresentano nulla al di fuori di quelle proposizioni? E tutto ciò che io penso di me non ha nessun riferimento a qualcosa che sono io, ma si riferisce soltanto ad altre proposizioni? E allora io che cosa sono?

SOFISTA. Sei ciò che dici, ma non ciò che dici di essere, ma le tue parole, cioè i tuoi pensieri, e quindi le cose che fai. Se proprio vuoi “essere” qualcosa.

ALICE. Mah, forse non è così necessario.

SOFISTA. No, non lo è.

ALICE. Però c’è una domanda che voglio farti. Le cose che abbiamo dette sono quantomeno singolari. Ma come siamo arrivati ad affermarle?

SOFISTA. Siamo partiti dal considerare quanto ti piaccia parlare; poi abbiamo estesa la questione rilevando che parlare è forse la cosa più soddisfacente; ci siamo anche accorti che parlare è un gioco che segue delle regole, regole linguistiche, e che di conseguenza il parlare è vincolato a quelle regole. Abbiamo inteso anche che è dal momento in cui si incomincia a parlare che le cose “esistono”, cioè sono utilizzabili da un discorso. Ma la questione ci è parsa subito molto più ampia. Se le cose incominciano a esistere quando il discorso le può utilizzare, cioè può inserirle all’interno del gioco che sta facendo, cioè del discorso, allora “le cose”, la realtà, c’è soltanto perché inserita in quel gioco. Ma come si impara a parlare? Anche a questo abbiamo dovuto rispondere in modo sodisfacente. Ma la cosa più importante è stata cogliere che gli umani, le loro storie, la loro esistenza, sono quello stesso gioco che li fa esistere, e senza il quale non sarebbero mai esistiti, vale a dire il linguaggio, che abbiamo definito in un modo simile a quello utilizzato dall’informatica, che si è trovata a dovere insegnare a pensare a delle macchine. Da ultimo abbiamo considerato, ricorsivamente, che tutto ciò che abbiamo detto, tutte le affermazioni che abbiamo compiute, fanno parte esse stesse del gioco, e che di conseguenza non dicono come stanno “le cose”, che non ci sono senza quel gioco, ma hanno costruito soltanto quelle proposizioni che erano costruibili dalle regole del gioco. E questo è ciò che abbiamo fatto. È stato un lungo percorso, insieme lo abbiamo percorso velocemente.

ALICE. Sì, forse troppo velocemente.

SOFISTA. Hai paura?

ALICE. Non è paura, forse un po’ di smarrimento. Ho una strana sensazione. È come se tutto quanto si dissolvesse per ricrearsi altrove e in un altro modo, ma anche questo poi si dissolvesse e si ricreasse di nuovo differentemente, e incessantemente. È così che si sente un sofista?

SOFISTA. Non saprei. Ma è sicuramente ciò che avviene parlando. La metafisica, quindi il discorso occidentale, è stata il più grande tentativo di porre rimedio a tutto questo. Tentativo fallimentare, poiché lo stesso tentativo non poteva in nessun modo uscire dal gioco, essendo lui stesso un gioco.

ALICE. Ma è terribile! Sapere che ciascuna cosa, se è una cosa, e proprio perché è una cosa, è un gioco, e sapere che in nessun modo è possibile uscire dal gioco!

SOFISTA. Pensare che sia terribile, o qualunque altra cosa, non è forse un altro gioco?

ALICE. Cosa vuoi dire?

SOFISTA. Voglio dire che dal momento in cui ti accorgi che esisti perché sei dentro quel gioco, da quel punto in poi non puoi più tornare indietro.

ALICE. Io posso fare quello che voglio!

SOFISTA. Può darsi, ma non potrai non sapere che qualunque cosa vorrai fare sarà comunque un gioco ciò che farai. In quanto sofista, hai oltrepassato il punto di non ritorno. Da adesso in poi, nulla sarà più come prima.

ALICE. È una cosa bella?

SOFISTA. Ti piace giocare?

ALICE. Sì, soprattutto se sono io a condurre il gioco… vuoi dire che sono ancora alla ricerca del potere? Ma perché non si riesce a uscire da una cosa del genere? Non si riesce a non volere avere il potere!

SOFISTA. Non ti rattristare, ti sei già accorta di ciò che stavi dicendo. Non è poco.

ALICE. Ma non è abbastanza per te. Vero? Per te non è mai abbastanza.

SOFISTA. Sei pronta a seguirmi ancora?

ALICE. Ancora?

SOFISTA. Sì.

ALICE. Credo che tu mi abbia mostrato tutto ciò che c’è da vedere. Che altro potrebbe esserci?

SOFISTA. Tu.

ALICE. Io?

SOFISTA. Sì, tu. Non basta sapere che sei il gioco che stai facendo, puoi anche sapere giocare.

ALICE. Che cosa vuole dire sapere giocare?

SOFISTA. Potrebbe essere un cammino difficile. Resterai con me?

ALICE. Vedremo.

DIALOGO IV

 

SOFISTA. Dimmi Alice, come si impara a giocare?

ALICE. Imparando le regole del gioco, cioè imparando delle istruzioni, è ovvio!

SOFISTA. Ma imparare le regole di un gioco, è ancora un altro gioco.

ALICE. Stai dicendo che qualunque cosa si faccia è sempre un altro gioco?

SOFISTA. Sì, è sempre e soltanto un altro gioco. Così come abbiamo considerato, una qualunque cosa, se è qualcosa, appartiene a qualche gioco linguistico.

ALICE. A questo punto parrebbe proprio che sia così. Ma ci importa qualcosa?

SOFISTA. Dovrebbe.

ALICE. E perché?

SOFISTA. Hai detto che per imparare un gioco occorre imparare le regole di quel gioco, ma il gioco di cui ci stiamo occupando è il linguaggio.

ALICE. Il linguaggio sarebbe un gioco?

SOFISTA. Non è forse ciò che stiamo dicendo?

ALICE. Credo di sì, ma in che senso sarebbe un gioco?

SOFISTA. Per poterlo giocare hai dovuto imparare come si gioca, hai dovuto apprendere le istruzioni che ti consentono di giocare, vale a dire quali mosse sono consentite e quali no, e come si combinano fra loro i vari elementi di quel gioco.

ALICE. Fammi un esempio.

SOFISTA. Se volessi imparare un gioco di carte, per prima cosa ti si mostrerebbero quali sono gli elementi con i quali dovrai giocare, e cioè le carte, differenti l’una dall’altra, perché se fossero tutte uguali non potresti giocare nessun gioco. Dopodiché ti si mostrerebbero quali combinazioni sono consentite e quali no, quali combinazioni hanno un certo valore all’interno di quel gioco.

ALICE. Sicuro, ma per apprendere queste cose devo già possedere moltissime informazioni, in pratica devo già essere in condizioni di parlare e di intendere ciò che mi si dice.

SOFISTA. Hai perfettamente ragione. Ma per insegnare a parlare come dovremo procedere? In che modo trasmetteremo le informazioni e le istruzioni necessarie per incominciare a parlare?

ALICE. Questo mi pare che lo avessimo già detto, quando abbiamo considerato come si insegna a pensare a una macchina.

SOFISTA. Esattamente.

ALICE. E allora?

SOFISTA. Hai già risposto, si trasmettono delle informazioni e delle istruzioni per farle funzionare, cioè per fare combinare quelle informazioni tra loro, proprio come si fa con una macchina.

ALICE. Non capisco dove vuoi arrivare.

SOFISTA. Non essere impaziente.

ALICE. Sono come mi pare!

SOFISTA. D’accordo. Dicevamo di imparare a giocare.

ALICE. Sei tu che volevi che imparassi a giocare. Non te l’ho chiesto io. E perché vuoi che impari a giocare?

SOFISTA. Per potere continuare a parlare con te.

ALICE. Magari non te ne sei accorto, ma stiamo già parlando.

SOFISTA. Sì, parlare appare facile, continuare a parlare qualche volta non lo è.

ALICE. Che intendi dire?

SOFISTA. Parlare è un gioco, e come in tutti i giochi occorre aumentare la complessità, la difficoltà, perché possa continuare. Per non lasciarlo esaurire, togliendogli quell’interesse che lo aveva avviato.

ALICE. Aspetta un momento, mi stai dicendo che quello è il modo perché una relazioni non termini mai?

SOFISTA. Una relazione è fatta di linguaggio, e il linguaggio è un gioco.

ALICE. Grande! Già, ma come si fa, è difficile. In effetti lo hai detto: continuare a parlare è difficile. Ma forse diventa difficile se si cessa di giocare, cioè di considerare che si sta solo giocando.

SOFISTA. Diventi sempre più brava.

ALICE. Lo so, lo so. Va bene, allora voglio imparare a giocare. Voglio imparare a non smettere di giocare, a non smettere di parlare. Me lo insegni? Vero?

SOFISTA. Non posso non farlo.

ALICE. Che vuoi dire?

SOFISTA. Che sono un sofista. Non posso smettere di giocare.

ALICE. Bene, sono pronta. Credo. Ma è questo ciò a cui si giunge? A non potere smettere di giocare? È questo il punto di non ritorno di cui mi parlavi?

SOFISTA. Sì. È così. Ora considera questo: quando si gioca, ciascun elemento è quello che è in relazioni agli altri elementi del gioco, così come ciascuna carta di un gioco vale in relazione alle altre carte del gioco, e cioè vale soltanto in quanto inserita in quel gioco e per le regole di quel gioco.

ALICE. Questo è facile, una carta da gioco non vale niente se non viene fatta giocare in un qualche gioco.

SOFISTA. Vale lo stesso anche per una parola?

ALICE. Beh, non saprei, forse sì. Ma lo abbiamo già detto! Una parola è quello che è solo all’interno del discorso in cui interviene, fuori dal discorso non è niente, è quello che è perché inserita in una rete di connessioni. È fatta di quelle connessioni.

SOFISTA. Abbiamo anche detto che proprio perché esiste in una rete di connessioni non potrebbe essere quello che è, poiché il “quello che è”, è sempre qualche cos’altro.

ALICE. Ma bravo il mio sofista! E adesso? Oltre a farmi innervosire che cosa hai ottenuto?

SOFISTA. La tua attenzione su questa questione.

ALICE. Era solo questo che volevi ottenere? Ma poi, che cosa significa: “quello che è”?

SOFISTA. È proprio questa la questione. Ma possiamo risolverla se teniamo conto delle istruzioni e dell’allegoria della macchina. Abbiamo considerato che l’affermare che qualcosa è quello che è non può essere provata, né con un richiamo alla “realtà”, né appellandoci alla struttura in cui quella cosa è inserita.

ALICE. Ma allora quando utilizziamo un certo termine in un certo modo, questa è una cosa che decidiamo noi.

SOFISTA. Questa è la via. Infatti quella cosa che definiamo in un certo modo, è quello che è dopo che l’abbiamo definita in quel certo modo.

ALICE. Mi stai dicendo che è questo “giocare”? Che ciascuna parola è “quella che è” perché sta giocando in un certo modo in un certo gioco? Ma se è così allora non è una decisione, dipende dal gioco, dalle sue regole, dalle sue connessioni! E tu ti stai contraddicendo perché prima mi hai detto che qualcosa è quello che è per una decisione! Che mi dici adesso, eh?

SOFISTA. Che hai molta fretta di concludere.

ALICE. Fretta o no, ti sei contraddetto, e io me ne sono accorta! Allora, è una mia decisione o dipende dalle regole del gioco? Deciditi!

SOFISTA. Le regole di un gioco indicano quali combinazioni sono consentite, non quali utilizzerai fra queste; ti dicono soltanto che un re di fiori è un re di fiori all’interno di un certo gioco, ma non dicono come utilizzerai il re di fiori in quel gioco, il modo in cui lo utilizzerai sarai tu a deciderlo. Tu, cioè il discorso, le parole di cui sei fatta.

ALICE. Stai dicendo che per potere utilizzare un termine in una qualsivoglia maniera, quel termine deve essere quel termine?

SOFISTA. Deve essere individuato e riconosciuto come tale, certo.

ALICE. Peccato!

SOFISTA. Sei dispiaciuta?

ALICE. Speravo che ti stessi contraddicendo. Mi avrebbe fatto piacere coglierti in fallo, in errore. Sei troppo perfetto. Sofista.

SOFISTA. Perché ti avrebbe fatto piacere?

ALICE. Questo ti avrebbe reso umano.

SOFISTA. Cioè fallibile?

ALICE. Se adesso mi dici che voglio che tu sia fallibile per avere un qualche controllo su di te, un qualche sapere su di te, un qualche potere su di te, io me ne vado.

SOFISTA. È una tua decisione.

ALICE. Certo che è una mia decisione! E l’ho deciso perché non ti sopporto più, e non vedo neppure perché dovrei stare qui a sopportarti! Credi di sapere tutto tu, e solo quello che dici tu è importante, intelligente e degno di essere detto e ascoltato. Ma non è così, tu non sai niente. Non sai niente di me. Di quello che sento, di quello che provo, di come sono.

SOFISTA. So che sei una interlocutrice straordinaria.

ALICE. Se credi di potere abbindolarmi così ti sbagli di grosso! Ma cosa vuoi da me?

SOFISTA. Continuare a parlare con te, e che tu voglia continuare a parlare con me.

ALICE. Beh, allora devi trovare un altro modo.

SOFISTA. Lo troveremo insieme.

ALICE. Ma è possibile che le cose stiano come dici tu?

SOFISTA. Le cose non stanno come dico io né in alcun altro modo. Stiamo soltanto facendo un gioco che abbiamo inventato.

ALICE. Sì, ma da quanto dici tu ci sono soltanto giochi linguistici, costruzioni, invenzioni fine a se stesse. Non c’è qualcosa di cui possiamo essere sicuri?

SOFISTA. Perché dovresti volere essere sicura?

ALICE. Perché la sicurezza dà una sensazione piacevole. Già. Ma perché? Ma allora è il sapere come stanno le cose che dà un sensazione piacevole. Conoscere la verità?

SOFISTA. Sì, o comunque pensare di conoscere la verità.

ALICE. Eccola la sensazione di potere sulle cose, sulle persone. E se dicessimo che è questo che pilota, orienta, determina ciò che le persone fanno, pensano, decidono?

SOFISTA. Possiamo farlo, è un gioco.

ALICE. Incomincia a girarmi un po’ la testa. Come si può credere che sia tutto qui? È una follia!

SOFISTA. Oppure la follia è pensare che ci sia qualche cos’altro fuori da questo.

ALICE. Certo, tanto è un gioco!

SOFISTA. Infatti.

ALICE. Stai dicendo che pensare che qualsiasi cosa è un gioco, non è un gioco ma una verità?

SOFISTA. Forse anche pensare che sia una verità è un gioco linguistico, costruito su regole ben precise e collaudate.

ALICE. Collaudate per chi?

SOFISTA. Per chi ci crede.

ALICE. Ah. Ma anche credere è un altro gioco linguistico.

SOFISTA. Parrebbe.

ALICE. E se io volessi trovare qualcosa che non è un gioco linguistico?

SOFISTA. Puoi farlo. E puoi anche pensare che ciò che avrai trovato non sia un gioco linguistico, dopo tutto è un tua decisione.

ALICE. È un marchingegno infernale. Come ne usciamo?

SOFISTA. Dipende da che cosa intenderemo con “uscire”.

ALICE. Certo. Se intenderemo una certa cosa ne usciremo, se ne intenderemo un’altra allora no. È così?

SOFISTA. Sì, è così.

ALICE. Ma in teoria a questo punto non potresti dire “è così”, perché non lo è.

SOFISTA. Certo che posso, “è così” all’interno del gioco che stiamo facendo, con le regole che abbiamo deciso di accogliere.

ALICE. Quindi possiamo anche fare un altro gioco?

SOFISTA. Sì.

ALICE. Ma sarà sempre un gioco!

SOFISTA. Già.

ALICE. Quindi qualunque cosa appartiene a un qualche gioco. E questa è una certezza?

SOFISTA. Lo si può pensare.

ALICE. Come sarebbe?

SOFISTA. Non potrebbe, anche questo, essere un altro gioco?

ALICE. Sì, potrebbe. Ma se io non accettassi una cosa del genere?

SOFISTA. Che succederebbe?

ALICE. Non lo so, ma se non possiamo uscire dal linguaggio, non possiamo neppure uscire dal gioco, non possiamo smettere di giocare! E non sono neppure libera di non giocare, per volere non giocare devo comunque fare un gioco linguistico, quello che mi consente di pensare di non volere giocare. È per questo che dicevi che non puoi smettere di giocare?

SOFISTA. Sì. Nessun parlante lo può. Può accorgersene però.

ALICE. È questa dunque la via del sofista? Sapere in ogni istante che comunque non puoi smettere di giocare un qualche gioco linguistico? Ma senti un po’. Quel discorso che facevi intorno al linguaggio, alle informazioni e alle istruzioni che lo fanno funzionare, che pareva la descrizione di ciò che non può non essere, se siamo parlanti. Tutto quello che hai detto al riguardo, era tutto soltanto un gioco?

SOFISTA. Sei molto sveglia Alice. Ma quel “soltanto” pare alludere a qualche cosa che gioco non è, e che non essendo un gioco avrebbe maggiore valore del gioco. Ma ciò che dicevamo intorno alle informazioni e alle istruzioni, non era nient’altro che il gioco stesso, che procede attraverso l’esecuzione di istruzioni e la costruzione di nuove sequenze. Che si tratti di un discorso, di una partita a carte, o della costruzione della cosiddetta intelligenza artificiale, si tratta sempre e comunque di giochi linguistici, che procedono nel modo che abbiamo indicato. Indicare il gioco nel modo in cui lo abbiamo fatto, è un gioco linguistico.

ALICE. Ho paura di non capire più niente. Dire di qualcosa che è un gioco, è un gioco?

SOFISTA. Un gioco linguistico, sì.

ALICE. E dire di qualche cosa che non è un gioco, è un gioco?

SOFISTA. Anche quello lo è.

ALICE. Quindi affermare di qualche cosa che non è un gioco, è un paradosso, vale a dire che posso affermare che non è un gioco, se e soltanto se è un gioco.

SOFISTA. Proprio così.

ALICE. Carino! E un gioco non è altro che l’esecuzione di istruzioni al fine di produrre altre sequenze di gioco? Ma io continuo a non capire a che cosa ci serve tutto questo.

SOFISTA. Ricordi che dicevi che non si riesce mai a non volere avere il potere su qualcuno o su qualcosa?

ALICE. Sì. L’ho detto.

SOFISTA. Bene. Potremmo dire che tutti i giochi che riescono a fare gli umani sono giochi di potere? Che hanno cioè il solo scopo di riuscire a ottenere del potere su altri, avere cioè ragione su altri?

ALICE. Non saprei. Però se un gioco è fatto per vincere una partita, allora sì. Ma tu parli di giochi linguistici, non del tre sette!

SOFISTA. È diverso?

ALICE. Certo che lo è! Prendi l’esempio della macchina che facevi tu. Un macchina non deve vincere nessuna partita.

SOFISTA. E tu?

ALICE. Io cosa?

SOFISTA. Muovendo le tue considerazioni, le tue obiezioni, stai cercando di avere ragione, mostrando che io ho torto, perché le cose stanno altrimenti, o che altro?

ALICE. Se anche fosse?

SOFISTA. Allora in questo caso non stai cercando di vincere la partita? Cioè di giungere a qualche cosa che possiamo considerare vero, o forse addirittura dobbiamo considerare vero nel gioco che stiamo facendo?

ALICE. Ma vincere una partita non è giungere a considerare ciò che è vero! Sia pure nel gioco che si sta facendo.

SOFISTA. Dipende da che cosa intenderemo con “vero”.

ALICE. Ci risiamo! Possibile che non ci sia mai nulla che è quello che è?

SOFISTA. Sì, se lo stabiliamo. Dopodiché sarà ciò che avremo deciso che sia.

ALICE. Questo è uno dei tuoi trucchi da sofista. Però, dopo tutto quello che abbiamo detto, non saprei quale altra direzione prendere. Occorrerebbe che “vero” fosse fuori dal gioco per potere stabilire che cosa è. Ma stabilire che qualcosa è fuori da un gioco linguistico è complicato… Ma abbiamo appena detto che qualunque cosa è ciò che stabiliamo che sia, e quindi possiamo anche stabilire che “vero” sia fuori dal gioco! Credo.

SOFISTA. Possiamo farlo, ma potremo farlo soltanto utilizzando quelle regole che ci consento di compiere una operazione del genere.

ALICE. Il linguaggio. Quindi un gioco linguistico. E a quel punto affermare che “vero” è fuori dal gioco linguistico ha la forma del paradosso. Cioè “vero” è fuori dal gioco linguistico, a condizione che “vero” appartenga a un gioco linguistico.

SOFISTA. Proprio così.

ALICE. Allora è un paradosso qualunque affermazione che dica che una qualunque x, non appartiene al linguaggio.

SOFISTA. Abbiamo anche considerato che qualunque gioco linguistico occorre che concluda con una affermazione riconosciuta come vera dal gioco cui appartiene. E affermare cose vere è la condizione di ciò che per gli umani si configura come il potere.

ALICE. Sì, appariva così, che ogni gioco è un gioco di potere. Ma ne siamo sicuri? E non dirmi che dipende da che cosa intendiamo con “sicuri”. E comunque se fosse così, allora è questo ciò per cui vivono le persone, esercitare il potere su qualcuno, e non possono non farlo, se parlano, quindi se pensano. Non mi piace questa cosa. E poi chi dice che è proprio così? È una certezza? Ma anche la “certezza” è ciò che noi decidiamo che sia? Ma sapere che sarà ciò che avremo deciso che sia, questa è una certezza? Forse mi sfugge qualcosa.

SOFISTA. Non ti sfugge nulla, stai solo cercano qualcosa che non sia un gioco linguistico.

ALICE. Qualcosa a cui aggrapparmi? Sì, perché mi pare di precipitare in un vortice senza fine. E non è una bella sensazione. Avevi detto che non mi avresti fatta precipitare! A meno che… A meno che il precipitare non sia nient’altro che la ricerca di qualcosa che sia fuori dal gioco linguistico! Allora se continuo a giocare non precipito più! È questo che intendevi dicendo che non mi avresti fatta precipitare? Insegnandomi a giocare?

SOFISTA. È così. Se continui a giocare, non c’è più nessun precipizio.

ALICE. Ma riuscirò a giocare, ad accorgermi che sto giocando un gioco ciascuna volta? A smettere di essere una scema metafisica alla continua ricerca di ciò che gioco non è, alla ricerca del Santo Graal?

SOFISTA. Ora sai ciò che ti serve.

ALICE. Stai dicendo che mi lasci?

SOFISTA. Questo non sarà mai possibile.

ALICE. Ma ci rivedremo ancora? Voglio che ci vediamo ancora! È bello parlare con te. E abbiamo ancora tantissime cose da dire, da considerare, come le implicazioni che hanno tutte le cose che abbiamo dette per le persone.

SOFISTA. Sì, ma dovrai essere tu a mostrarle.

ALICE. Perché io?

SOFISTA. Perché è tempo di congedarci.

ALICE. Non è giusto. Ma ciao Sofista. Torna presto.