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PRATICARE LA PSICANALISI 2

 

8/7/1997

 

Questa sera riprendiamo la conversazione iniziata martedì scorso intorno alla psicanalisi, una questione importante che rimane centrale in ciò che andiamo facendo. Ciò di cui non abbiamo detto la volta scorsa riguarda la nozione di libertà, una libertà particolare, molto differente da quella che viene proposta dalle religioni o dalle dottrine politiche in quanto non si tratta di una libertà dal male o da una schiavitù, ma la libertà dal non essere costretti a credere ciò che il proprio discorso produce, di questo si tratta. Come sapete il discorso di ciascuno produce continuamente nel suo farsi una serie notevole di proposizioni, fra queste alcune hanno la proprietà di essere credute vere, necessariamente vere da chi le enuncia, nel momento in cui queste proposizioni sono credute necessariamente vere questo comporta una modificazione nella condotta ovviamente e anche nel prosieguo del discorso. Tutto ciò che è creduto essere vero, necessariamente vero, costituisce un limite oltre il quale non è possibile andare perché se io credo vera una certa affermazione allora tutto ciò che potrebbe eventualmente negarla viene eliminato, perché quando qualcosa è ritenuto vero si suppone che tutto ciò che si oppone a questa proposizione sia falso e quindi in un certo senso il male, o comunque ciò che è da evitare perché corrisponde a una cattiva opinione, per esempio. È questo il modo cui generalmente accade di pensare, cioè un discorso produce delle proposizioni e ad un certo punto credo che sia così e cioè in definitiva che a questa proposizione (che può essere per esempio una conclusione di una serie di altre) corrisponda un elemento, una sorta di referente extralinguistico che come tale è assolutamente inaccessibile alla parola e identico a sé, se è vero allora questo costringe all’assenso e al rifiuto di tutto ciò che gli si oppone. Ma dicevo della libertà da questa sorta di costrizione a credere vere le cose che il discorso produce, ed è una costrizione non indifferente alla quale difficilmente si riesce a sottrarsi. Ciascuno in cuor suo immagina che da qualche parte, in qualche modo, per qualche motivo, debba esserci qualche cosa di necessariamente vero e cioè qualche cosa che elude la struttura del linguaggio, dal momento che tale elusione è la condizione per potere pensare che qualcosa sia vero necessariamente fuori dalle parole, perché se è vero all’interno della struttura linguistica allora è vero unicamente per le regole del linguaggio e quindi, come dicevamo la volta scorsa, è vero all’interno del gioco in cui questo elemento esiste, mentre fuori da questo gioco è nulla. Allora dunque è una libertà assoluta, posta in questa accezione, una libertà inimmaginabile e perlopiù impensabile, c’è l’eventualità che sia l’unica che abbia qualche interesse praticare. E come la si pratica? Come cioè si giunge a non trovarsi presi nella costrizione di credere delle proposizioni come necessariamente vere? Praticando la parola fino alle sue estreme conseguenze e cioè, un po’ come abbiamo fatto in questi ultimi incontri, non cessare di interrogare qualunque affermazione.. Nel momento in cui credo vera una proposizione cesso di interrogarla, perché se è così non c’è altro da aggiungere, posso trovare delle altre cose eventualmente ma ferma restando quella proposizione, adesso semplifico un po’ il discorso, potrebbe essere articolato in modo un po’ più complesso ma per il momento va bene così, portare dunque le cose alle estreme conseguenze, cioè non cessare di interrogarle, non è altro che considerare ciascuna volta in quale gioco è inserito ciò che sto dicendo e quali ne siano le regole. Prendiamo, per esempio, il discorso che sto facendo, è un gioco ovviamente, un gioco che trae la sua portata con tutto ciò che vi è annesso e connesso unicamente dalle regole della sua costruzione, fuori da queste regole questo stesso discorso è nulla. Le regole le abbiamo indicate altre volte, possiamo riprenderle per sommi capi: muovere unicamente da ciò che non può essere negato, salvo negare la possibilità stessa di negare alcunché, solo questo. Abbiamo detto varie volte che non è un criterio migliore o peggiore di qualunque altro, ha soltanto la prerogativa di non esser negabile, non di essere confutabile o dimostrabile, di non essere negabile. Dunque so che tutto ciò che il discorso produce è prodotto all’interno di questo gioco e incontra del senso all’interno di questo gioco che sto facendo, questo mi consente di non incontrare in nessun modo e per nessun motivo l’eventualità di pensare che ciò che dico corrisponda a qualche cosa da qualche parte fuori dalla parola, o per dirla più semplicemente che stia illustrando uno stato di cose, uno stato di fatto, cioè le cose stanno così. No le cose non stanno né così né in altro modo, o più propriamente stanno così come le regole del gioco in cui è inserito impongono di essere. È un discorso estremo quello che vado facendo ma per il momento ci è parso l’unico che valesse proseguire, l’unico in quanto il discorso che consente una maggiore apertura o come dicevamo prima una maggiore libertà, libertà dalla costrizione di credere vera qualcosa. Siccome non avevamo incontrato altrove un discorso del genere abbiamo deciso di inventarlo e oltre che inventarlo in qualche modo di avvalercene, ma come è possibile avvalersi di un discorso come questo che impedisce di credere? Lunedì scorso, in una pagina del Corriere Della Sera c’era un articolo di un tale Alberoni, non so se lo conoscete, il quale affermava con molta determinazione che ciascuno ha bisogno di una fede. Al di là di una totale gratuità di una affermazione del genere e della sua assoluta inconsistenza, tuttavia ripropone un luogo comune il quale afferma che ciascuno ha bisogno di credere in qualche cosa e che se questo non avviene allora succede una serie di malanni. È un discorso molto religioso, come dire chi non crede in dio o chi per lui andrà all’inferno. Inferno che può essere o quello descritto dalla chiesa oppure quello, apparentemente laico ma non meno religioso, che è costituito dal nichilismo, per esempio, dalla paura del nulla, quella che gli antichi chiamavano "horror vacui" che sembra incutere molto timore, così come la perdita di identità, la perdita di riferimento, la perdita di valori, la perdita di tutta una serie di cose di cui ciascuno di voi avrà letto frequentemente sui quotidiani. Lo stesso Papa Giovanni Paolo II vi invita continuamente a credere nei valori, nella fede, nella religione, nella famiglia, nello stato, in tutta una serie di cose perché senza questo l’uomo, così si dice, si smarrisce, perde la via, perde l’orientamento, perde il senno, perde tutto quanto... di fronte ad un simile discorso è possibile avvalersi di ciò che andiamo dicendo, generalmente è sufficiente porre ad un qualsiasi discorso, che affermi qualcosa la domanda "come sa ciò che afferma" per arrestare una serie di affermazioni, come sa, chi afferma che senza i valori c’è lo smarrimento oppure che ciascuno in qualche modo crede perché ha una fede, come lo sa? Chi glielo ha detto? E ciò che sa può provarlo o è una sua opinione, così come qualunque altra. Domande legittime a cui generalmente non c’è alcuna risposta, salvo appunto la proposizione che afferma che è così e tanto basta, però ci è accaduto di non essere soddisfatti da questa risposta, può accadere e in questo caso tale insoddisfazione ci ha condotti a considerare invece con estremo rigore questa serie di affermazioni rilevandone con estrema rapidità la totale inconsistenza. Inconsistenza qui intendo l’assoluta gratuità, non provabilità e quindi l’assoluta arbitrarietà di una simile affermazione che in tal caso ha la stessa validità della sua contraria e cioè quella che afferma che nessuno ha bisogno della fede, entrambe le proposizioni sono altrettanto provabili, altrettanto confutabili, però ora ciascuno può anche esercitarsi a dimostrare e confutare qualsiasi affermazione, prenderlo come esercizio, un esercizio utile oltre che interessante, dicevo forse martedì scorso in un incontro che abbiamo fatto nella sede dell’Associazione che ciascuno occorre sia in condizione almeno di potere, a piacere, dimostrare o confutare tutto ciò che afferma, qualunque cosa, e anche questo che intendevo con portare il discorso alle estreme conseguenze. Voi avvertite immediatamente che nell’eventualità di potere dimostrare e confutare a piacere qualunque affermazione vi sarà particolarmente arduo credere che queste affermazioni siano vere; saranno delle proposizioni, se vi piace pensarla così, delle figure retoriche. Figure retoriche in quanto propriamente dei modi di dire ma che non sono sottoponibili ad un criterio verofunzionale. Nel discorso del luogo comune invece apparentemente dovrebbero esserlo, ma se interrogate in questo senso non rispondono, mentre retoricamente è noto che un tale criterio non sia applicabile. Affermare che Don Abbondio non aveva certo un cuor di leone non comporta necessariamente una verifica. Al di là del fatto che se Don Abbondio fosse mai esistito a quest’ora sarebbe morto e quindi il cuore sarebbe difficile reperirlo, ma a nessuno verrebbe in mente di andare a verificare se all’interno del petto di questo signore batta il cuore di quel tale mammifero, a nome leone, e perché no? Perché nel gioco che compie la retorica questa operazione è proibita, è proibita come non senso; così come ciascun gioco consente e proibisce delle mosse, come negli scacchi, nel gioco delle carte, alcune cose sono consentite altre no e questo per l’economia del gioco perché nel caso contrario il gioco non potrebbe più farsi, se dovessi sottoporre ciascuna figura retorica a un criterio vero funzionale il gioco della retorica non potrebbe più farsi. Non potendosi fare sarebbe altro evidentemente, facciamo l’esempio di un fenomeno che accade con una certa frequenza, per esempio prendersela con qualcuno o con qualcosa, stando a ciò che andiamo dicendo in questo caso, ponendosi nel discorso che stiamo producendo, risulterebbe impossibile non sapere in ciascun istante, che ciò che sta avvenendo è un gioco linguistico che mi lascia la libertà, per così dire, di proseguire ad arrabbiarmi oppure no. Vi parrà bizzarro tutto questo ma è una libertà che il discorso vi concede, perché avete questa libertà? Perché non potete a questo punto non considerare che le proposizioni che mano a mano intervengono, cioè che il vostro discorso costruisce, non sono vere e neanche false, sono figure retoriche e in quanto tali non costringono all’assenso, mentre per scatenarsi con veemenza contro qualcuno o contro qualcosa è necessario che almeno una di queste proposizioni sia creduta necessariamente vera. Se no, no, non c’è questa possibilità. Non posso arrabbiarmi per una cosa che mi viene detta e che io so essere falsa. Non per quella cosa, almeno, mi trovo in quel momento a parlarne con chi me la racconta ma anche in questo caso ciò che scatena l’ira, per usare un termine fra i più grossi, il disagio che una persona lamenta è l’idea per esempio di essere stato ingannata, o che questa persona che si considero degna di fiducia abbia tradito, tutte cose che possono fare arrabbiare, ma a quali condizioni? Che io creda vera, per esempio, la proposizione che afferma che quella persona non mi tradirà e non mi mentirà, io posso pensare che faccia una cosa del genere o non lo faccia ma non crederlo. E non per una questione morale ma per una questione prettamente linguistica, perché questa proposizione che afferma che questa persona non mi tradirà è una proposizione che non ha nessun referente fuori dal mio discorso che la produce e come tale né vera né falsa, è una figura retorica, esattamente come quella che afferma che "Don Abbondio non aveva certo un cuor di leone" dice il Manzoni nei Promessi sposi, e questo sempre a proposito della libertà di cui vi sto parlando. Si tratta di rendere tale libertà inesorabile, di renderla inevitabile e se volete di renderla assoluta, cioè letteralmente senza soluzione. C’è l’eventualità che non vi sia altra libertà se non quella che stiamo descrivendo, dico c’è questa eventualità dal momento che non c’è elemento che non sia elemento linguistico e la libertà è un elemento linguistico, che non ha nemmeno lei nessun referente, ha un senso certamente, che è quello che io le attribuisco e che ciascuno le attribuisce. È noto come questo significante in particolare, insieme a qualche altro, produca un senso che è straordinariamente differente fra le persone, insieme con altri significanti, come dicevamo in altre occasioni, come il vero, il bene, il bello... questo significante produce un senso ma sapendo che sono io che produco tale senso questo comporta che non stia a cercare un senso assoluto di questo significante. Che cos’è la libertà? Ciò che io voglio che sia, poi naturalmente posso proseguire l’interrogazione, domandarmi perché io voglio che la libertà sia una certa cosa e reperire eventuali proposizioni che sostengono il senso che io do a questo significante e considerare se eventualmente fra queste proposizioni ce n’è qualcuna che io credo necessariamente vera, perché in quel caso questa costituisce un intoppo, nel senso che in quella direzione non può proseguire e cioè mi costringerà a credere che la libertà sia necessariamente la certa cosa che io credo che sia. La libertà come qualunque altra cosa ovviamente. Generalmente abbiamo utilizzato questo criterio da seguire e cioè reperire se di un qualche termine si potesse affermare qualche cosa che non potesse non dirsi per potere continuare a utilizzare questo termine, questo significante. In questo caso che cosa questo significante libertà occorre che sia, cioè che cosa non può non essere, che cosa non può non dire per potere continuare a utilizzarlo, il non avere nulla che impedisca un certo percorso, nulla che lo arresti. Posta la questione in questi termini e tenendo conto che libertà è un significante, allora possiamo dire che ciò che accogliamo con questo significante è l’idea che nulla impedisca un percorso, anche questo senso è arbitrario ovviamente e noi lo sappiamo perfettamente, però possiamo attribuirglielo per costruire altre proposizioni, altrettanto arbitrarie, per questo il discorso che vi sto facendo da qualche tempo non costituisce né può costituire un arresto a nulla, anzi consente la produzione di un numero sterminato di proposizioni, proprio perché non ha limiti, cioè è libero e ciò che gli consente questa libertà è la consapevolezza, o più propriamente l’impossibilità di fare altrimenti e cioè l’impossibilità di credere vera una qualunque cosa. Ed è questo che un itinerario analitico sarebbe interessante che producesse, e cioè sostituire delle convinzioni con altre, sempre altrettanto gratuite; porre la persona nelle condizioni di potere considerare ciascuna volta l’assoluta arbitrarietà di ciò che fa e quindi non essere costretto a credere. Come si diceva qualche incontro fa, non avere la necessità di credere nemmeno di stare male e cioè a quella proposizione creduta necessariamente vera che funziona da principio, da postulato su cui si sorregge, si sostiene tutta la serie di proposizioni la cui ultima, quella conclusiva, è quella che afferma che sta male. Ecco perché abbiamo accolto questo gioco anziché altri, perché è più libero, non che altri fossero meno interessanti, possono anche esserlo, però sono sempre vincolati a un atto di fede che per gioco abbiamo deciso di non compiere, per gioco, non c’era nessun motivo in effetti né per compierlo né per non farlo, per gioco. Una considerazione marginale che può trarsi è che non accorgendosi, non constatando, non verificando in atto il gioco con cui ci si trova, ci sia l’eventualità di trovarsene giocati, ingannati dal proprio discorso, illusi, con tutto ciò che ne consegue. Abbiamo provato a sospendere questa illusione, questo inganno che procede dalla struttura del discorso occidentale il quale impone a ciascuna affermazione di essere vera, tant’è che quando si afferma qualche cosa, soprattutto nei discorsi che maggiormente richiedono rigore come quello scientifico, ciascuna affermazione che viene compiuta deve essere provata. Qual è l’inganno? Che da una parte obbliga a compiere questa affermazione, dall’altra non fornisce gli strumenti per farlo e cioè obbliga a fare una cosa che non può fare in nessun modo, questo è l’inganno del discorso occidentale, che talvolta i filosofi hanno intravisto, ma è un inganno grammaticale.

- Intervento: fa bene credere

Beh, sicuramente può fare meno male degli ansiolitici...(...) sì l’ho sentito dire anch’io, però forse la questione può essere più complessa, effettivamente ciò che lei dice è sostenuto da molti, anche questo tale che io citavo, tal Alberoni, e cioè che non c’è nessuno che non abbia una sua fede, perché senza questa fede si smarrisce e quindi immediatamente si dà da fare per trovarne un’altra, e la motivazione che proponeva non era molto lontana da quella che avanza lei e cioè il bisogno che gli umani avrebbero di trovare risposte alle loro domande. Tuttavia occorre considerare anche un altro aspetto e cioè che la ricerca di una risposta ad una domanda di per sé è già un’altra domanda. Intendo dire questo, che se Lei conduce questa sua interrogazione al di là del punto in cui è arrivata, può riflettere su questo e cioè perché dovrebbe essere proprio così? E cioè che gli umani cercano una risposta alle loro domande? Potrebbe rispondere: accade che i più facciano questo. E su questo forse possiamo anche concordare, ciononostante difficilmente potremmo porre questa affermazione come necessariamente vera. "Tutti cercano risposte alle loro domande?" E se non fosse così?

- Intervento:…

Che si possa credere questo è un altro discorso, noi stiamo discutendo della affermazione, o meglio della proposizione che afferma che è necessario credere, ma questa proposizione è necessaria? Oppure è assolutamente arbitraria? Intendo dire questo, che affermare che è necessario credere non significa nulla più di quanto non significhi l’affermazione contraria, cioè ciò che generalmente si chiama opinione: io credo che sia necessario credere. Va bene, perché non dovrei credere una cosa del genere? Oppure non credo che sia necessario credere, ma la questione può porsi in termini ancora più radicali, dicevamo che è possibile credere se e soltanto se il discorso si arresta se no, no. Se no non si pone neppure la questione della risposta alla domanda come elemento conclusivo ad una ricerca. La risposta, se vogliamo continuare ad usare questo termine, d’altra parte non vedo perché non farlo. Dunque perché gli umani vogliono credere? O credono in alcuni casi? Propriamente la questione posta in questi termini non avrebbe nessun senso, è possibile interpellando una persona che afferma di credere venire a sapere qualcosa della sequenza di inferenze da lui compiuta per giungere a questa conclusione, questo potremmo eventualmente fare, potremmo considerare che molti credono, ma considerato questo non è che siamo andati molto lontani. No, "la necessità di credere"" è una proposizione che non dice niente, è assolutamente arbitraria....

- Intervento:…

Cosa dice il Papa? Mi sono perso le ultime del Papa? Sì certo, potrei anche dirvi che ciascuno di voi è libero se e soltanto se fa esattamente quello che io gli dico di fare, ed è questa l’unica libertà possibile, ammissibile, accettabile, condivisibile e necessaria. Perché no? Accogliereste questa nozione di libertà? No? E perché no? Non è né migliore né peggiore di qualunque altra… È un’imposizione? Non più di quella del Papa. La libertà è solo nella fede, anche in questo caso impone.... Sì io l’ho detta in modo eccessivamente drastico, ma secondo voi, la nozione di libertà di cui parla Papa Woitila e quella di cui parlava Marx, sono esattamente la stessa cosa?

- Intervento: Grosso modo

È quando il modo è grosso che sorgono problemi altrettanto grossi, perché è quando si va nello specifico che ci si trova di fronte a problemi insormontabili, così come l’esempio che si faceva tempo fa riprendendolo da Hijelmslev a proposito della nozione di democrazia: Kennedy e Krusev entrambi parlavano di democrazia, ma è risultato che intendessero altro, ciascuno rispetto all’altro, e così la nozione di libertà, anche la nozione di giustizia, così come quella di bene. Quando si descrive in termini molto astratti ciascuno è disposto a sottoscrivere questa definizione, poi quando si scende nel dettaglio, ecco che iniziano i problemi e cioè quando si cerca effettivamente di definire questa nozione...

- Intervento:…

Questa è una bella questione, da che cosa ciascuno parte. Dalle cose che pensa, che crede generalmente. Ora può, o provare ad interrogare queste convinzioni oppure lasciarle immutate. Il problema che sorge immediatamente consiste in questo, che la buona parte di tali convinzioni, non sono considerate affatto tali, ma sono considerate la realtà, il mondo e questo ovviamente impedisce di confrontarsi, di interrogare qualche cosa. Perché un conto è se io muovo dal pensiero che una certa affermazione è arbitraria e è una mia opinione, altro è se questa mia affermazione io penso che corrisponda ad una descrizione di uno stato di fatto, allora non ci sarà nessuna occasione per interrogarla, perché è così. È una questione non lontanissima da quella che rilevava Freud rispetto alla cosiddetta autoanalisi. Sapete che poneva delle obiezioni alla autoanalisi, obiezioni legittime, dal momento che una persona dovrebbe interrogare il proprio disagio utilizzando quegli stessi elementi che lo mantengono, trovandosi inesorabilmente in una sorta di circolo vizioso, cioè gira in tondo, da qui l’opportunità di qualcuno che non essendo preso nelle stesse questioni possa considerarle appunto come questioni, come domande, anziché come dati di fatto e rilanciarle come questioni, cosa che propriamente è ciò che fa l’analista...

- Intervento:… penso che ascoltando esperienze comuni possano venire fuori cose interessanti.. .confrontandosi...

Che cos’è un confronto esattamente? Cosa avviene quando ci si confronta?

- Intervento: quando una mia convinzione la sottopongo al giudizio degli altri

E questi altri con che cosa valuteranno la sua convinzione se non con le loro convinzioni?

- Intervento:…

Se portata alle estreme conseguenze sì può compiere una cosa del genere, ma è moto difficile. E sa perché? Perché le sue convinzioni lei è disposta ad abbandonarle generalmente se già non ci crede moltissimo e allora può dire che quell’altro ha un’altra idea che Le piace di più. Ma quelle sulle quali ha costruito e costruisce la sua esistenza è fortemente improbabile che Lei le sostituisca con altre. La stessa cosa farà l’altro che Lei ha eletto a giudice delle sue convinzioni, e allora dicevo in teoria sì, per esempio i Sofisti avendo girato per buona parte del mondo allora conosciuto ed essendosi accorti che le leggi di ciascun paese erano assolutamente differenti da quelle di ciascun altro che là dove una certa cosa era considerata un crimine nell’altro paese era considerata una virtù, giunsero alla conclusione della vacuità oltre che della vanità di ciascuna ordinamento legislativo, che è assolutamente arbitrario. Ora ciascuno teoricamente potrebbe compiere un’operazione del genere rispetto alle proprie convinzioni, in teoria sì, in pratica è molto difficile, molto difficile per i motivi che indicavo prima e cioè la difficoltà di abbandonare ciò su cui si è costruita la propria esistenza...

- Intervento: dal confronto delle proprie convinzioni si potrà cambiare: un po’ cambieremo noi, un po’ cambieranno loro

Sì interviene questo ad intervalli più o meno regolari che le persone si uniscano perché considerano che tutte unite lo sforzo diventa comune e quindi è possibile ottenere migliori risultati. Poi avviene che di questi risultati qualcuno cerchi di appropriarsene e ci si accorge che tutta questa unità va a discapito dei ricchi e a vantaggio dei più poveri, cioè in definitiva c’è qualcuno che ci rimette e questo qualcuno non ha tanta voglia di rimetterci e allora si chiede: perché dovrei sostenere io questi altri? Che si sostengano da sé. E si ritrae. E allora dal centralismo si ritorna a posizioni totalmente decentrate, poi aggiungendosi questioni razziali, economiche, politiche e chi più ne ha, più ne metta... storiche quante ne vuole e allora si frammenta tutto quanto, dopo di che ci si accorge che invece tutti insieme si è più forti, si raggiungono migliori risultati e si diventa più ricchi, e ci si rimette insieme finché avviene che alcuni che comunque rimangono i ricchi, o che hanno maggiore ricchezza, si chiedano come mai devono condividerla con altri, che facciano da sé... e si ritraggono... si parcellizza di nuovo il tutto, finché... devo andare avanti ancora molto? Ma questa non è una maledizione di dio, né un anatema scagliato da qualcuno è, direi, quasi inesorabile, una serie di conclusioni che si traggono da una struttura di pensiero che è quella occidentale, che conduce inesorabilmente a queste conclusioni. Ciò che stiamo provando a fare in questi anni è vedere se c’è l’eventualità di inventarne un’altra, se c’è questa eventualità, non è detto... per questo stiamo facendo questo gioco. Non è che ci interessi più di tanto inventare un altro modo di pensare per salvare l’umanità o per fare chissà quali altre prodezze, no lo facciamo perché è un gioco che ci diverte, per questo motivo. Non abbiamo da salvare nessuno da alcunché, però se una persona è incuriosita e vuole parlare con noi siamo felici di parlare con lei. Tutto qui. Grazie a tutti e buona notte.