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31 marzo 1995

 

LA POLITICA DELLA PROTEZIONE

 

Ciò di cui ci occupiamo questa sera è una questione di grande interesse, soprattutto in questi ultimi tempi: la questione della protezione, cioè della necessità di proteggere, ad esempio, di proteggere i cittadini da una serie di mali. A questo si approntano una serie di strumenti.

Che cosa fa sì che ciascuno sia interessato, se non addirittura desideroso di essere protetto?

Da sempre questa questione si è posta per gli umani: il desiderio o la necessità o l’occasione di essere protetti; c’è in alcuni casi proprio una richiesta esplicita.

Si tratta allora, in prima istanza, di intendere da che cosa ciascuno vuole, in linea di massima, essere protetto. Questione di un certo interesse. Perché molto si gioca intorno a questo. Da sempre, dicevo, almeno da quando esistono tracce di scritto, si pone questa questione.

Qual è una delle prime cose che gli umani hanno inventata? La religione.

La religione ha la funzione, come ciascuno sa, di costituire una credibile, soddisfacente, esauriente e esaustiva teoria del significato, cioè risponde alla domanda "che cosa significano le cose?", "da dove vengono e dove vanno?" e eventualmente "che cosa ci stanno a fare qui?". La risposta a tutto questo viene fornita, pur nella varietà delle religioni, attraverso l’esibizione di alcuni segni e soprattutto attraverso il fatto che alcune proposizioni non possono essere confutate.

Se dico che "Dio esiste", chi può confutare questa proposizione? Nessuno. Non può essere confutata perché non può essere provata. Può essere creduta. Il fatto che sia creduta comporta chiaramente questo, che questa risposta ha una funziona nell’economia di ciascuno, la funzione, dicevo, di dare un significato.

Significato nell’accezione più corrente, vale a dire come ciò che garantisce che le cose che io dico non siano sospese nel nulla, ma abbiano una garanzia.

Cosa vuol dire che abbiano una garanzia se non che ciascuna cosa che io dico debba necessariamente corrispondere a qualche cosa da qualche parte e che fuori da questo sarebbe arduo immaginare un significato in questa accezione, cioè un significato che sarebbe la risposta o un adeguamento, come dicevano gli antichi, di ciò che dico a qualche cosa.

Dunque, la teoria del significato dovrebbe rendere le cose adeguate, adeguate per esempio a ciò che voglio dire, a ciò che occorre dire, a ciò che devo dire. Sarebbe, in altri termini, una teoria dell’adeguamento.

Una delle cose che hanno inquietato da sempre gli umani nella loro ricerca, nella loro inquietudine intellettuale, è stata la nozione di nulla, per altro verso di niente, in alcuni casi nozioni sovrapponibili, in altri no.

Horror vacui, come lo chiamavano gli antichi, che si formula per lo più nel quotidiano in questo modo: non è possibile che tutto ciò che esiste venga dal nulla e torni nel nulla. Perché questo non sia possibile non è dato da sapere, però generalmente si formula in questo modo. Ma questo horror vacui si aggancia all’eventualità che ciò che dico, che ciò che faccio, che ciò che penso, possa non essere garantito e, quindi, possa non avere un significato in quanto tale. Qui sta l’intoppo, la difficoltà a cui occorre trovare rimedio, un rimedio che di volta in volta assume varie forme ma che ciascuna volta mostra questa faccia, quella per cui qualcosa garantisce che ciò che si sta dicendo o si sta facendo ha un senso e, quindi, ha una fine, un fine, un’origine e una causa.

Questo sembra fornire una certa quiete, una certa tranquillità e mettere al riparo appunto dalla dispersione.

Ecco, allora, in alcuni casi l’urgenza, la necessità di reperire qualche cosa che possa garantire che le cose che si dicono siano salde o che ci sia qualcuno almeno che le garantisca. Tutto sommato la teoria religiosa, cioè la teoria del significato, non è neanche delle più ingenue, in quanto si accorge che questa garanzia non può trovarla in ciò stesso che si dice, come già Tommaso aveva colto: le parole non garantiscono proprio niente. Da qui la necessità di qualche cosa che sia fuori e che da lì garantisca.

Allora, in questo caso, la religione è una garanzia o, più propriamente, una protezione, ciò che protegge dall’eventualità del caos, dall’eventualità del nulla, dall’eventualità dell’arbitrio assoluto. Almeno così è immaginato tutto ciò che sfugge alla garanzia, che sfugge alla teoria del significato.

Ma, stando questa fantasia, ciò che segue è immediatamente una richiesta che qualcuno o qualcosa si faccia carico di questo significato, di questo senso. Un carico che è pesante a sostenersi. Giusto un dio può farlo, che ha le spalle larghe, perché qualunque è sempre soggetto a essere interpellato e quindi costretto a rispondere, rispondendo si contraddice, si inceppa, fa un sacco di macelli e quindi non risulta così affidabile. Dio sì, Dio è sempre assolutamente affidabile, Dio non sbaglia mai. Perché? Perché non risponde, evidentemente. Quindi, o vi astenete dal rispondere in assoluto o vi troverete presi in una serie di grovigli che potrebbe essere difficile da dipanare.

La religione protegge, in prima istanza, da un’assenza di significato, da un’assenza di garanzia, di supporto, di fondamento.

Certo questo ha poi consentito di garantire molte altre cose di conseguenza. Tutta la teoria del giusnaturalismo intorno allo stato muove da qui - interessantissime le notazioni che fa Kelsen intorno a questo argomento, cui dedica un libro, Dio e stato - giustificando anche un certo ordinamento: perché è così? perché Dio lo ha voluto, è così da sempre. Gli umani hanno stabilito così da sempre e, pertanto, non lo hanno fatto perché sono capricciosi e instabili ma perché evidentemente, se è sempre stato così, è perché Dio vuole così, non c’è altra spiegazione. Ergo, così devono essere le cose, necessariamente. In fondo, fino al basso Medioevo ha funzionato così, perfettamente. Poi, qualcuno ha cominciato a porre qualche obiezione, dapprima timidamente, poi un po’ meno. Però, la struttura non è cambiata moltissimo.

Per consolidare tutto ciò è necessario che ciascuno desideri essere protetto e ciascuno, in effetti, a modo suo cerca una protezione dall’assenza di significato, da quello che per molti medioevali è l’abisso o la regressio ad infinitum, come dire che il trovarsi di fronte all’impossibilità di arrestare una ricerca di una causa o di un fondamento, ecco la regressio, il tornare indietro, poi indietro, indietro ... Fino a dove? Non c’è possibilità di arrestarsi.

Questo costituisce, già Aristotele l’aveva inteso perfettamente e Platone prima di lui, il fondamento su cui è possibile costruire qualunque credenza, qualunque superstizione. Anche quella famosa di Platone, la nobile menzogna: tu sei figlio del ciabattino, il destino ha voluto così, e quindi è giusto che tu continui a fare il ciabattino. Guardati dal fare altro, soprattutto dal farti venire in mente altro, per esempio di fare il magistrato o il filosofo o altro. Se sei figlio del ciabattino Dio ha voluto così. Questo è poi particolarmente marcato nelle religioni orientali che in buona parte hanno preso dal platonismo: sei nato paria, Dio lo vuole; che cosa vuoi, rimani paria. Se lo vuole Dio, non possiamo opporci alla volontà di Dio. Sarebbe una bella arroganza.

Questa necessità di essere protetti dall’eventualità dell’assenza di significato costituisce il fondamento per cui ciascuno accoglie di buon grado chiunque invece indichi che le parole e le cose hanno un senso, un’origine. Dato questo fondamento, non è che ci sia qualcuno che abbia un interesse particolarissimo per costringere altri in schiavitù o in soggezione. Ci possono anche essere ma l’interesse è reciproco ed è questo che funziona così bene da tremila anni, altrimenti non avrebbe funzionato. E invece no, funziona benissimo e continua a funzionare perfettamente, anzi, funziona sempre meglio. Una volta occorreva ridurre le persone in schiavitù per farle lavorare, adesso lavorano da sole e sono anche contente di farlo.

C’è un libro bellissimo di Vittorio Mathieu, Gioco e lavoro, dove considera proprio questo, come il salariato di oggi sia in effetti lo schiavo di una volta, con le opportune varianti. Se bene si considerano le cose, non è affatto sicuro che sia meglio oggi di allora.

La necessità è quella di mantenere sempre lo stesso meccanismo, quello della protezione: continuare a conservare l’idea che ci sia sempre qualche cosa che può garantire un senso, un significato. Che cosa funziona per questo? Ciascuna struttura di pensiero religioso, l’ideale, l’ideologia, tutto ciò che ruota intorno a questo.

Ciascuna cosa viene fatta per gli ideali più nobili, non c’è massacro che non abbia origine in un ideale nobilissimo, perfettamente condivisibile e sottoscrivibile da qualcuno, da chiunque. La questione è che in effetti, muovendosi lungo questa via, la necessità è quella di appellarsi necessariamente sempre a qualche cosa che è là da venire. Non so se avete mai sentito ciò che dice il governo italiano, che è oggi è necessario fare dei sacrifici perché domani finalmente le cose andranno molto meglio. Io sono giovanissimo però fin da piccolo avveniva questo. Perché? Beh, perché il governo precedente chiaramente aveva fallito, erano tutti ladri e delinquenti, quindi hanno mandato l’Italia in sfacelo e adesso finalmente con il vostro sacrificio potremo risorgere. Quando mai non è avvenuto così?

Come ciascuna guerra è sempre l’ultima e necessaria, perché dopo non ce ne siano più. Ciascuno sforzo è sempre l’ultimo perché dopo non ce ne siano più. È da tremila anni che va avanti così.

Ma come mai funziona così bene? Su che cosa si sostiene questo meccanismo così perfetto?

Abbiamo detto all’inizio di questa necessità di dare un significato alle cose e di trovare dei valori. C’è per esempio un tale, a nome Francesco Alberoni, che lamentava qualche tempo fa l’assenza di valori. Ma non c’è solo lui, c’è anche quell’altro, Camon, che ogni tanto scrive sull’Espresso. E anche il Papa.

L’operazione che viene fatta è quella antichissima di insistere sul fatto che ciascuno, senza una certa cosa, si trova male, a mal partito, senza valore, come dice Alberoni.

Cos’è un valore? È importante questo perché è una nozione che viene utilizzata in modo massiccio con gli stoici. Il valore è ciò cui si attribuisce per lo più qualcosa di essenziale, di irrinunciabile per proseguire. Ora questi valori sono il credere in qualcosa, nel bene, nella virtù, nella famiglia, nel Papa, in quello che vi pare. Avere dei valori. Perché se la persona non crede è un pericolo, una minaccia, un sovversivo, un senza Dio, uno sciamannato. E allora occorre che creda.

Ma ciascuno crede già di per sé, non avrebbe bisogno di tante cose, anzi, chiede lui di credere. È chiaro che ciò che occorre fare è indirizzare, dirigere ma sono già gli umani che chiedono loro di credere: non c’è bisogno di fare grandi sforzi. È già tutto pronto.

Chiedono di credere che le cose che si dicono, che si fanno, che si pensano, abbiano una causa, un’origine, una finalità: questo vogliono e questo gli si dà. È chiaro che le persone che lo forniscono non è che ci credano di meno. Possono avere valori differenti: anziché credere nella religione, credono nel potere o in qualunque altro cosa.

Dicevamo, dunque, che se una persona non crede diventa una minaccia e torno a dire che non importa in che cosa creda. Non ha nessuna importanza. L’importante è che creda. Solo in questo caso è una persona sicura, tranquilla, affidabile e che non creerà mai problemi perché comunque avrà sempre qualcosa da difendere e pertanto sarà sempre ricattabile.

Il ricatto è importante. La persona è ricattabile quando ha qualcosa da difendere e allora ma si minaccia della perdita di questa cosa. E quindi si darà un gran da fare per difendere ciò in cui crede. Si attiva immediatamente e si slancia in varie cose.

Ora, coloro che sono più facili agli entusiasmi sono i giovani, come è noto. Sono loro che si scagliano anche nelle guerre. Non si è mai visto un vecchietto precipitarsi alla carica ... Sono i giovanotti che fanno questo, anche perché hanno le energie sufficienti per fare queste cose. Gli altri dopo un po’ si stancano, non ce la fanno più. Occorre avere vent’anni per correre, per darsi da fare, saltare di qua e di là. Ma, soprattutto, per essere mossi da grandi entusiasmi. Poi, gli entusiasmi si riducono generalmente a pochissimi e diventa soltanto più una difesa più o meno arroccata su qualche posizione. Prima si parte all’attacco, poi ci si ferma e ci si arrocca su una posizione, tanto per usare un gergo militare. Avete letto von Clausewitz? Leggete l’Arte della guerra, è un trattato di retorica, ve lo suggerisco. È un manuale di retorica, insegna a discutere, a parlare, a conversare. È stato preso per un manuale militare ma di fatto ...

Per tornare alla questione, la politica della protezione è quella mafiosa. È questo il funzionamento. La mafia non ha fatto altro che portare all’esasperazione una struttura che è molto nota. Tu mi dai un tot e io ti proteggo. Da che, se non ho nemici? Tu prova a non pagare e poi vedi, i nemici li avrai subito. E cattivissimi anche: bruciano il negozio, danno fuoco alla moglie, al bambino, sgozzano il parente. Insomma, fanno questi avvertimenti.

La protezione da che cosa protegge? Dal male, naturalmente, dal pericolo.

Si tratta allora di insistere su questo e cioè che in assenza di significato, di causa, in assenza di finalità delle cose, esista il pericolo, un pericolo gravissimo, mortale.

E allora c’è un addestramento a questo, addestramento che passa anche attraverso la scuola. Cosa insegna la scuola? È un addestramento a pensare in un certo modo. Il pretesto è quello di dare informazioni. Ma, tutto sommato, queste informazioni, potrebbero darsi in pochissimo tempo e con maggiore efficacia, ma in effetti non è questo l’intendimento. L’intendimento è quello di insegnare, di stabilire, di addestrare a un certo modo di pensare, un modo di pensare per cui ciascuna cosa deve avere una causa, deve avere un fine, deve avere un’origine. Necessariamente. Operazione questa dell’insegnamento che ha un grandissimo successo e che avviene con grandissima facilità. Si tratta appena appena di indirizzare qualcuno che è esattamente questo che sta chiedendo e, quindi, questa operazione è facilissima.

Prendete i bambini. Sono i più intransigenti, i più ferrei rispetto, per esempio, all’attenersi a ciò che si dice (poi, crescendo, diventano magari più elastici, più morbidi). La mamma dice che farà qualcosa, poi non lo fa. Come? Mi avevi detto che ...

La rigidità che in molti casi mostrano viene da una necessità che alcune cose siano assolutamente ferme, stabili, come se cercassero soltanto questo. E questo trovano.

Da qui la facilità con cui si prosegue in questa direzione. Tutto ciò non diventa acquisito e consolidato ma naturale. Diventa ciò che si chiama il naturale, la natura delle cose: "nulla avviene in natura per un ghiribizzo ma secondo leggi e cause precise", ecc. Questo ha una portata immensa rispetto al modo in cui si pensa, nella ricerca immediata e continua di cause e di finalità.

A questo hanno contribuito moltissimo la filosofia, la logica, la religione. Quasi tutti hanno dato il loro contributo in questa direzione. Sempre in buona fede, naturalmente. Perché, in effetti, tutto ciò diventa un processo non più artificiale ma assolutamente naturale. Diventa naturale che a qualunque azione debba corrispondere una causa ed un fine.

Solo ultimamente alcuni, riprendendo questioni antiche, hanno cominciato a riflettere intorno a questo, cioè se è proprio una necessità oppure no. Questioni molto antiche. Per esempio, i sofisti mettevano in discussione questo aspetto o, più propriamente, non se ne curavano un granché. Prigogine, anche se non è un sofista ma uno scienziato contemporaneo, si è occupato come altri delle cosiddette leggi del caos: non è possibile stabilire una traiettoria, un percorso, quindi un fine perché non è individuabile l’origine, non è stabile.

Ma questo è un racconto, una metafora, appena per illustrare come qualcuno si affacci a questa eventualità e cioè che le cose potrebbero non avere necessariamente un’origine, una causa o un fine o, se volete dirla in modo più appropriato, che cosa stiamo dicendo quando ci chiediamo qual è l’origine di qualche cosa o quale il sua fine, che cosa ci stiamo chiedendo con questo, un po’ parafrasando Wittgenstein. Cominciando così a prendere le distanze da una sorta di ontologia, di metafisica che dà l’origine e il fine delle cose come necessari. Ma di fatto porre una causa ed un fine è un’operazione che può farsi e che ha degli effetti di senso. Il fatto che se creda che debba necessariamente esistere una causa è qualche cosa che va al di là dell’operazione metafisica, ontologica, anche se risulta difficilmente pensabile che non sia così o che non possa essere così.

Ma ci sono moltissime cose che sono difficilmente e non per questo non possono pensarsi e non per questo non possono, pensandosi, produrre degli effetti di un certo interesse. Per chi crede in Dio non è possibile pensare che Dio non esista. È inconcepibile, inammissibile. Anzi, si chiede come qualcuno possa fare una cosa del genere: sicuramente è opera del diavolo. Cioè, ciascuno si muove secondo dei criteri, dei modi, dei termini che gli sono propri e che costituiscono propriamente la realtà che lo circonda. Per cui quando una persona parla della realtà che lo circonda parla di questo in definitiva. Ma per lui non è assolutamente eccepibile né discutibile perché non può pensare altrimenti né ha gli strumenti per farlo. Può acquisirne all’occorrenza, perché no? Ma non è semplicissimo. C’è un momento in cui ci si accorge che dell’eventualità che le cose non siano propriamente così come si pensa che siano e questo può creare qualche disorientamento. Per evitare questi disorientamenti occorre che ciascuno sia ben protetto e a proteggerlo ci pensano varie organizzazioni, varie strutture ma poi, in definitiva, ci pensa già lui stesso a cercare una protezione. Si tratta soltanto di fornire quella più consona in quel momento. Può essere una certezza religiosa, un ideale politico, un ideale edonistico, una cosa o il suo contrario, non ha nessuna importanza, purché sia creduta.

Una delle ultime invenzioni, non meno perniciosa e non meno catastrofica delle altre è la ratio, la ragione, che soprattutto con l’illuminismo, come è noto, ha avuto una certa fortuna. Potremmo farla cominciare con Voltaire tanto per dare un momento storico a un pensiero.

Ma la cosa è molto più antica. Pensate alla gnosi, alla questione gnostica. Cosa dicevano gli gnostici? Eritis sicut dei, sarete come dei. Quando? Prima avrete il sapere, sophia, che non è una fanciulla ma il sapere. È il sapere che rende simili agli dei. Da qui il fatto che il cattolicesimo ha sempre combattuto la gnosi e i suoi vari prolungamenti fino ad oggi, fino all’hegelismo, fino al lacanismo, fino alle sette di vario genere.

Dunque, la possibilità di raggiungere il sapere e di divenire come dei, chiaramente, non può essere accolta dalla chiesa.

(Cambio cassetta)

Il più abile e rigoroso scritto di Agostino, il De Trinitate.

Dunque, il sapere, la ratio, la ragione. Agire secondo ragione. E la ragione di che cosa è fatta?

La ragione è quella facoltà di cui dispongono gli umani, che piaccia loro o no, che lo vogliano o no, che consente loro da alcune premesse di giungere in modo corretto a delle conclusioni. Che cosa consente loro di fare questo se non la ragione? È una domanda retorica.

La ratio è quella che garantisce della giustezza delle cose che si dicono, delle conclusioni cui si giunge. Ma è proprio così affidabile?

Non offre nessuna affidabilità salvo per un gioco linguistico ma se dovesse, per esempio, sostenere se stessa, provare se stessa, dimostrare se stessa, non potrebbe farlo. Allora, delle due l’una: o con il Papa diciamo che la ragione viene da Dio e quindi non c’inganna, oppure con altri, per esempio Wittgenstein, che invece questo è soltanto un gioco linguistico che non prova assolutamente niente, se non la correttezza del procedimento. Cioè, io invento un gioco, mi attengo a questo e poi dico che sono stato bravo.

Questa è una questione complessa perché costringe a confrontarsi con questioni ardue, incredibilissime. Perché, evidentemente, se toglie ogni garanzia alla parola allora impedisce di giungere a delle conclusioni affidabili, affidabili nel senso che sono sicure da cui possiamo muoverci per fare un passo ulteriore verso un futuro radioso. Quindi, se toglie questo, toglie anche l’eventualità alle stesse cose che sto dicendo. Tuttavia, questo non ci impedisce di parlare. Ci impedisce soltanto di crederci, che sia proprio così, che stiamo definendo uno stato delle cose, immutabile e sicuro.

Detto questo evidentemente si apre una questione immensa da svolgere, da affrontare. Cioè, tutta la questione intorno al linguaggio e a ciò, propriamente, di cui non è possibile non tenere conto. Una di queste cose è la considerazione che gli umani parlano. Questa non è una prova di nulla né un dato di fatto. Non è assolutamente niente, è soltanto una proposizione che non può confutarsi. Tutto lì. Chi si proverà a farlo, lo farà parlando. Lo farà, cioè, in un linguaggio, necessariamente. In questo senso non è confutabile, perché qualunque operazione di questo tipo prevede una struttura di linguaggio per cui possa compiersi questa operazione.

Ciò che interessa è questo: quali implicazioni, cosa possiamo trarre da tutto ciò, quali sono le considerazioni? Ma sempre nell’ambito di questo gioco, vale a dire che ci avvaliamo evidentemente di ciascuna forma di inferenza, della deduzione, dell’induzione, anche dell’abduzione, quella di Peirce.

Ma ciascuna conclusione cui giungiamo non costituisce nulla se non uno strumento che ci consente di proseguire in un gioco che di per sé non ha alcun fine, nessuna direzione, nessun senso. Produce del senso ma non ce l’ha in quanto tale. Non ce l’ha di per sé. Posso darglielo io; certo, posso dargli quello voglio. Ma già il pensare che ne abbia uno è già un altro elemento di questo gioco in cui ci troviamo.

Detto tutto ciò, è chiaro che, tolta la possibilità di credere in qualunque cosa, può trovarsi a cessare di avere la possibilità di credere. Questo è un atto che possiamo considerare politico, di una sovversione tale rispetto qualunque idea di rivoluzione, di soluzione, di sovvertimento politico è niente.

Ciascun governo cambia, ci sono rivoluzioni, sovvertimenti. C’è una sola cosa che resta immutabile: la polizia. È sempre lì, è sempre la stessa. Perché in effetti ha una funzione che è particolarissima, di cui un giorno magari diremo.

Questo per dire che si tratta forse di cominciare a porre delle condizioni per compiere un gesto che risulta come effetto "politico", non come intendimento. Non è che abbia alcun intendimento, propriamente. Incontra un tendere, cioè un tendere a qualcosa mano a mano. Qui ci si aggancia al discorso che facevamo intorno alla psicanalisi, alla funzione di questa pratica.

Un gesto, dunque, che ha un effetto politico, in quanto impedisce che ci sia la possibilità di credere, di credere tout court.

È molto difficile, difficilissimo, in quanto ci si trova magari con una relativa facilità a cessare di credere in grandi ideali o altre cose del genere, ma resta molto difficile di cessare di credere nelle cose del quotidiano. Questo è straordinariamente difficile. Può essere però un’occasione.