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DOVE CONDUCE UNA PSICANALISI

 

31/3/1998

 

La questione che ci interroga questa sera è dove conduce una psicanalisi; la volta scorsa abbiamo visto come inizia, grossomodo; stasera ci occupiamo di un aspetto non meno importante, cioè dove conduce, questione che taluni potrebbero tradurre, un po’ così rapidamente in "che cosa serve una psicanalisi?" Questione importante, tutto sommato, dal momento che la più parte delle persone che si rivolgono a uno psicanalista lo fanno per trarre da una psicanalisi un beneficio; un beneficio che generalmente si traduce con la cessazione di alcuni sintomi avvertiti come disturbanti o disagevoli (a seconda dei casi). Ciò che importa, a questo punto degli incontri che andiamo facendo, è precisare soprattutto attraverso che cosa la psicanalisi è condotta a degli effetti; effetti che possiamo chiamare anche di terapia. Dunque attraverso che cosa avviene un cambiamento, una variazione? Alcune cose le abbiamo accennate, ma le riprendiamo; in particolare dicevamo la volta scorsa che l’analista si occupa prevalentemente di porre delle questioni intorno a quegli assiomi che sostengono il modo di pensare; il quale modo di pensare è responsabile anche di ciò che è avvertito come disturbo, come problema in ogni caso. Ma se è di questo che si occupa, come pone in atto una cosa del genere, come fa sì, in altri termini, che questi assiomi, questi principi su cui si fonda il discorso di ciascuno, possano essere messi in discussione, che non potrebbe esserci cosa più difficile del variare il modo di pensare. Abbiamo accennato la volta scorsa che questa difficoltà consiste soprattutto nel fatto che ciascuno non soltanto ritiene il proprio modo di pensare cioè le cose che vede, che pensa, che esperisce come la norma, come il modo naturale di vedere le cose, non soltanto ma soprattutto non ha nessuno strumento per potere muoversi differentemente; nessuno metterebbe in discussione ciò che considera la realtà delle cose, la realtà dei fatti; primo, perché non ha nessun motivo per farlo; secondo, perché non ha nessuno strumento per fare una cosa del genere. Nessuno strumento nel senso che ciò che utilizzerebbe per mettere in discussione la nozione di realtà, è questa stessa realtà che per lui esiste, quindi si troverebbe preso in una sorta di circolo vizioso. Ed è anche per questo che la cosiddetta autoanalisi non conduce da nessuna parte; perché i mezzi di cui dispongo per potere analizzare il mio discorso sono gli stessi di cui è fatto il mio discorso e quindi c’è l’eventualità di girare in tondo; ed è anche questo il motivo per cui occorre, il più delle volte, la presenza di un’altra persona, un analista all’occorrenza per intendere che cosa, nel proprio discorso incontra qualche intoppo. Ciascuno pensa in un certo modo e il modo in cui pensa, è ritenuto da questa persona, il modo naturale di pensare, ne potrebbe pensare, di fatto, altrimenti. Soltanto in alcune situazioni, che potremmo "considerare fortunate", all’occasione di considerare che forse c’è qualche questione che riguarda il proprio discorso, e sono le situazioni di disagio, di disturbo, per qualunque senso e per qualunque motivo. Allora, in quell’occasione ecco che c’è l’eventualità di potere considerare che forse c’è qualche problema, ma generalmente, questo problema viene cercato al di fuori del proprio modo di pensare che comunque rimane una sorta di rocca inespugnabile e quindi viene cercato in fattori esterni, in problemi che si sono incontrati in varie cose. Negli anni ’70 si attribuiva generalmente il disagio alla società o come voleva la psichiatria, per esempio nei casi di schizofrenia, a una sorta di virus; per anni si è cercato il virus della schizofrenia. Gli psichiatri si davano molto da fare in questa direzione; taluni addirittura, avevano estratto una sorta di siero della schizofrenia e poi lo avevano iniettato nei ragni e si erano accorti che i ragni costruivano le tele in modo squinternato; poi hanno provato ad iniettargli una qualunque altra cosa e i ragni continuavano a fare le tele in modo squinternato e allora forse non era quella la volta buona del siero contro la schizofrenia. Tuttavia, trovare la causa del proprio disagio in un evento esterno, qualunque esso sia, è un fenomeno che accade con una frequenza notevolissima, ma che soprattutto non porta da nessuna parte. Possiamo dire che io posso attribuire la causa del mio disagio a qualunque cosa, ma una volta compiuta questa operazione il disagio rimane tale e quale, fino al punto in cui una persona si accorge che non è più sufficiente cercare un’altra religione, non basta più; qualunque risposta si sia data non è sufficiente, e si mostra inadeguata, non cambia nulla. Ecco che allora c’è l’eventualità di mettere in gioco il proprio discorso. Mettere in gioco il proprio discorso non è altro che incominciare a riflettere sulle cose che generalmente sono date per scontate, per acquisite. Come si trovano le cose che costituiscono un problema nel discorso? Voi ascoltate un discorso, uno qualunque per esempio, ad un certo punto vi accorgerete che nel discorso che vi trovate ad ascoltare da parte del vostro interlocutore, una o alcune cose sono date come assolutamente scontate, acquisite, come se fossero la cosa più naturale del mondo e in aggiunta a questo, vi accorgerete che, o ascolterete un tentativo almeno, di confermare che queste cose sono assolutamente naturali. Tentativo che può avvenire attraverso una ricerca di elementi che confortino questa tesi oppure una ricerca dell’approvazione da parte dell’interlocutore; in ogni caso sono elementi che intervengono nel discorso e che devono essere confermati in un modo o nell’altro oppure sui quali c’è una particolare attenzione; ci si sofferma moltissimo per trovare delle prove e controprove che sia proprio così, come se l’interlocutore si impegnasse a volere provare un cosa che nessuno gli ha chiesto di fare. Rimane che nel discorso che vi trovate ad ascoltare, trovate quasi sempre la presenza di un elemento che interroga il vostro interlocutore e che lo interroghi lo rilevate da questi elementi che vi ho indicati o anche da altri. Come dire che lì c’è qualcosa che non si è riuscito a mettere a tacere e che continua a interrogare, a questionare, a domandare. E allora ecco il gran darsi da fare per farlo tacere; farlo tacere cercando di trovargli una risposta che sia definitiva. In un’analisi le cose non avvengono in modo molto differente; la persona che vi parla si troverà comunque a raccontare delle cose e qualunque cosa racconti, da qualunque punto incominci il suo discorso, prima o poi il suo discorso andrà a cadere su qualcosa che lo interroga fortemente e interrogandolo fortemente gli provoca qualche disagio. Perché prima o poi andrà a cadere lì? Perché comunque è una cosa che per lui è aperta e non trovando una risposta soddisfacente e quindi continuando ad interrogarlo, si impone in qualunque cosa dica o pensi, come l’elemento di disturbo, e quindi ciascun discorso che farà o buona parte dei discorsi che farà, in qualche modo cercheranno sempre di risolvere questo problema. Ecco che lì occorre intervenire ovviamente e intervenire, in questo caso non è altro che interrogare l’interlocutore intorno a ciò che sta dicendo in modo che ciò che sostiene, o meglio, tutto ciò che è connesso con questa interrogazione, trovi il modo di dirsi in un altro modo. Per esempio: supponete che ci sia una persona che a un certo punto si accorge che il suo pensiero molto spesso va a parare sul timore che possa accadere una disgrazia ad altri oppure a se; supponiamo che questo pensiero crei dei problemi, nel senso che in alcuni casi impedisca di muoversi con una certa mobilità; un pensiero del genere può arrivare anche a paralizzare una persona. Allora, parlando con questa persona, soprattutto lungo un’analisi dove maggiormente chi parla è esposta al suo discorso, affiorerà questa questione, non necessariamente direttamente; può giungere a manifestarsi anche in modo indiretto, per discorsi traversi, però se questo interroga la persona, inesorabilmente giungerà a porsi. Dunque, teme che possa succedere qualche cosa, ma che cosa sa l’analista da parte sua di una cosa del genere? Le cose che sa non sono moltissime, ma quelle poche sono fondamentali; sa che se c’è un pensiero, se interviene un pensiero, questo pensiero è connesso con altri e sa soprattutto che qualunque pensiero, qualunque cosa si dica, è sorretta da qualche altro elemento. Dico sorretta e non causata perché parlare di causa-effetto è sempre un po’ problematico, ma insomma è sorretta da altri elementi che, per dirla più propriamente sono la condizione di questo pensiero. Allora si tratta di intendere e di fare intendere, soprattutto, a che cosa serve un pensiero del genere: è un modo spiccio, un altro modo per indicare la connessione, cioè quali altri pensieri lo supportano. Generalmente non si pone la questione in questi termini in una seduta, anche perché una persona potrebbe disorientarsi difronte ad una domanda del genere, in quanto immediatamente penserebbe che non serve assolutamente a niente, anzi è un intoppo. Tuttavia, se interviene un pensiero del genere, potremmo dire che a qualcosa serve; come diceva Freud "ha un tornaconto"; "quale?" Per rispondere ad una domanda del genere ovviamente occorre interrogare la persona, solo lui può rispondere ad una domanda del genere, dire che cosa serve questa paura. Per esempio, può rispondervi o lungo l’analisi può affiorare che questa paura serve ad impedirgli di fare alcune cose, che vorrebbe fare ma che per alcune considerazioni non del tutto consapevoli si impedisce di fare, e allora da una parte, come spessissimo accade, c’è il desiderio di fare una certa cosa e dall’altra un altro pensiero che lo impedisce; allora si trova una sorta di compromesso. Supponiamo che si giunga a sapere che questo desiderio di morte, originariamente era rivolto ad altri: supponiamo che si rivolto verso il papà. Ora, non è bello pensare una cosa del genere nei confronti del proprio papà e allora interviene una sorta di punizione, cioè si costruisce fantasmaticamente tutta una serie di proposizioni che giungono a questa conclusione: "io ho desiderato la morte del mio papà, però a questo punto, considerato che sono un delinquente, devo morire; cioè ciò che ho augurato a lui, succederà a me". In questo modo, l’idea della distruzione dell’altro si rovescia su di sé, e allora incomincio a temere che possano accadermi delle brutte cose. Che cos’è il timore, perché una persona teme certe cose pur non avendo nessun motivo di temerle? Intendo qui con timore quella sensazione, generalmente spiacevole, di attesa che un evento infausto possa accadere, perché uno potrebbe dire che teme una cosa anche senza che si ponga una cosa del genere. Cosa indica un timore? Per esempio il timore che ad una persona cara succeda un malanno, visto che non c’è nessun motivo, tutto sommato perché possa accadere, oppure posso pensarne cento miliardi, qualunque cosa, dall’asteroide che colpisce il pianeta e va a cadere sulla testa di questa persona, oppure una guerra atomica mondiale, etc..; catastrofi possono avvenirne infinite in qualunque momento, ma non per questo ciascuno organizza la propria esistenza, tutte le mattine, tenendo conto di questa eventualità, cioè di non arrivare a fine giornata. Dunque, questo pensiero che si forma nella mente di qualche persona, non è del tutto casuale; se io temo che un amico possa morire, intanto sono io che lo penso, in prima istanza, e di questo occorre tenere conto, che è una mia produzione; dopodiché posso anche domandarmi come mai io produco un pensiero del genere, a che scopo, visto che potrei produrne di altri magari più piacevoli. Di nuovo questo timore ha una funzione, ha un utilizzo; il pensiero che possa accadergli qualcosa, che gli accadrà qualcosa, che necessariamente gli accadrà qualcosa. Ora, io mi trovo a pensare che necessariamente, a questa persona che mi è cara, accadrà un fattaccio; visto che nessuno mi obbliga a pensare una cosa del genere, occorre che mi assuma la responsabilità di questo pensiero, e almeno mi chieda perché penso che gli accadrà qualche cosa; perché "io" penso che a lui gli accadrà una disgrazia. Provate a considerare bene la questione: è come se lo vedessi morto continuamente, perché? Se dunque, mi assumo la responsabilità di questo pensiero, non posso che considerare che io costruisco la proposizione che afferma che la persona che mi è cara muore. Visto che questa proposizione la costruisco io, è un prodotto dei miei pensieri, allora sono io che lo penso, sono io che lo costruisco, cioè il mio discorso va in quella direzione. Sapete cos’è il desiderio? Il desiderio non è altro che ciò che mi muove in una certa direzione. Posta in questi termini (già Freud la pose in questi termini), non resta che considerare che il fatto la persona che mi è cara muoia, è qualcosa che riguarda il mio desiderio. Come giungo a questa considerazione? Interrogandomi sul desiderio intanto, sul fatto che desiderio, ciascuna volta è ciò che mi muove in una certa direzione. Poi proseguendo lungo un’elaborazione, effettivamente si giunge a cominciare a considerare che quella persona che mi è cara, sì mi è cara, però ci sono anche dei problemi, al punto che, di fatto, posso anche arrivare a considerare che, tutto sommato, se morisse non sarebbe un danno così grave, forse nei avrei dei benefici. Però, in alcuni casi è arduo pensare una cosa del genere, scatena una quantità notevole di sensi di colpa: posso io volere la morte di mio padre? E se fosse, perché no? Certo, è sconveniente, è considerata una cosa da non farsi generalmente; vuoi augurare la morte, vuoi procurargliela, direttamente, è ritenuta cosa ancora più sconsiderata. Ma, ciascuno può avere una quantità di ottimi motivi per pensare che una certa persona se scomparisse, tutto sommato, ci sarebbero dei vantaggi. In effetti, una fantasia non è che va molto per il sottile, fa come la mafia: se una persona ingombra, viene eliminata fisicamente, che è il modo più sicuro per eliminarla definitivamente. Allora, tutto questo discorso per giungere a considerare che una fantasia di distruzione, di catastrofe, può essere una sorta di rovesciamento; in questi casi qual è il problema? Certo, uno potrebbe considerare che avere un desiderio di morte nei confronti del padre può essere sconsiderato rispetto alla civiltà in cui viviamo però, tutto sommato è solo un’idea. E quindi accogliere questa fantasia, tenendo conto che se c’è questa fantasia, poi dall’altra parte ci sono anche altri aspetti che fanno pensare che forse è meglio non fare questa operazione, anche perché, magari considerato sotto altri punti di vista, è una persona anche gradevole. Quindi è una fantasia che teoricamente potrebbe accogliersi; cosa accadrebbe se fosse accolta? Accadrebbe che cesserebbe di essere combattuta; pensate al cosiddetto sintomo di cui parla Freud, questa sorta di formazione di compromesso, in effetti, fra un pensiero che va in una direzione e quello che va in una direzione opposta; togliete quello che va nella direzione opposta e il problema è risolto, nel senso che, se posso accogliere questa fantasia, non ho più la necessità di proteggermene(da questa fantasia), e il modo in cui mi proteggo da questa fantasia non è altro che ciò che comunemente si chiama sintomo. Quindi per esempio la paura che possa accadermi qualcosa, o che possa accadere a qualcuno, perché a questo punto, sapendo benissimo che questa paura è sorretta dall’idea di fare fuori qualcun altro, non ho più bisogno di rovesciarla su di me, posso accoglierla per quello che è, una fantasia molto simile a quella che hanno altri sei miliardi di persone. Era Freud che osservava incuriosito che, ciascuno che incominciava ad andare da lui, la psicanalisi la stava inventando quindi non aveva ancora grandissima esperienza, era molto timoroso ad enunciare certe fantasie, pensando di essere l’unica persona al mondo ad avere delle fantasie simili, così scriteriate e perverse, non sapendo che era in compagnia di altre sei miliardi di persone che posseggono fantasie del tutto simile(sei miliardi sono circa gli abitanti del pianeta). Dunque, uno degli elementi che impedisce di potere considerare una cosa del genere, che accogliendo una cosa del genere o pensando una cosa del genere, di essere un criminale e depravato, degno della forca. E, in effetti, si comporta come se fosse così la persona in questione, schiacciata da sensi di colpa, può giungere fino a paralizzarsi, perché pensa che qualunque cosa farà, succederà una catastrofe. L’analisi dissolve una cosa del genere consentendo a una fantasia, per esempio di morte nei confronti del padre, di potere dirsi tranquillamente; esporsi e intendere da dove viene, che cosa infastidisce del papà. Ora, accogliere una simile fantasia è soltanto il primo passo, poi si tratta di vedere che cosa esattamente è insopportabile e per quale motivo e si procederà esattamente allo stesso modo. Se una cosa risulta insopportabile è perché ha una funzione, una funzione nel proprio discorso e quindi si procederà ad intendere quale sia la funzione di quell’elemento. Dunque, dove conduce una psicanalisi? A cessare di avere la necessità di proteggersi da fantasie; a cessare di difendersi dalle proprie fantasie, che è un altro modo per dire di cessare di avere paura. Uno ha paura di un pensiero, ha paura di ciò che potrebbe fare, ha paura di una infinità di cose e la psicanalisi è soltanto quella via, quel modo che permette di potere accogliere tutto ciò che fa paura senza averne paura, molto semplicemente; meno semplice è tutta l’operazione perché la persona è molto difesa, molto protetta, in alcuni casi molto blindata. Perché se deve difendersi fortemente da una certa fantasia, è chiaro che ogni volta che incontrerà questa fantasia, sarà molto allarmato e se delle difese incominciano a venire smantellate, può preoccuparsi moltissimo e quindi rimettere in atto tutti quei meccanismi di difesa che aveva utilizzati in precedenza; da qui, in alcuni casi la recrudescenza direi quasi, di alcuni sintomi nel corso di un’analisi. Recrudescenza ovviamente momentanea e alla quale, mano a mano, vengono forniti gli strumenti per affrontare. Però può accadere; generalmente nell’analisi c’è un primo periodo di euforia, poi c’è un periodo di riflessione, poi c’è un contraccolpo, e poi mano a mano si acquisiscono degli elementi sempre più potenti per potere affrontare le cose più temibili e cioè i propri pensieri. Ciascuno teme questi, i propri pensieri, cioè le cose che lui ha costruite; ciascuno costruisce delle cose e poi ne è spaventato. Togliere la paura è un’operazione piuttosto sovversiva, forse tra le più sovversive; come dicevamo tempo fa, la paura è il migliore alleato di ciascun governo, di ciascuna istituzione; senza la paura è difficile governare, sia il governo democratico, tirannico, oligarchico: è con la paura che si tengono soggiogati i cittadini. Questo i governanti più acuti e meno sprovveduto lo sanno molto bene e ne fanno ampio uso; la paura di qualunque cosa, può essere un nemico esterno, può essere l’incertezza del lavoro, può essere la paura di non farcela economicamente, ci sono tanti modi per tenere la gente sulle corde e mantenere quel livello di paura per cui, per paura, è possibile muovere in qualunque direzione. Ora, non è così semplice come lo sto dicendo, però non sarebbe possibile governare se i sudditi non avessero paura di qualche cosa. Freud accennava al senso di colpa come motore di ciascun governo; è un altro modo di formulare la questione della paura. E’ molto più facile persuadere una persona che ha paura; è sufficiente fare in modo che pensi che in un cero modo la cosa che teme verrà eliminata. Retoricamente non è difficilissimo, è chiaro che poi la cosa si fa complessa quando le persone invece che una, due, tre, sono una decina di milioni. Ecco che la questione è più difficilmente gestibile, però è essenziale che i cittadini temano, temano qualunque cosa; più temono e meglio è, questo per ciascuna istituzione ovviamente; ecco perché una psicanalisi è fondamentalmente sovversiva: togliendo la paura si toglie la possibilità che una persona creda, e la paura è uno dei più forti motori che inducono a credere. Ma dato che l’elemento che crea il problema all’interno del discorso non è altro che un significante a cui si attribuisce un significato, la quale attribuzione è data da alcune regole, allora si deve intervenire sulle regole di attribuzione o sul significante? Si deve variare tutta la struttura, per ottenere che quell’elemento non crei problemi in un'altra struttura, oppure si deve sopprimere quell’elemento in modo da mantenere la struttura? No, occorre variare la struttura, cioè intendere quali sono le regole che supportano quel gioco e quindi, all’interno di quel gioco, quel significante che è provvisto di quel senso. Una persona che ha paura è come se fosse programmata ciascuna volta che c’è un determinato elemento a temerlo, e quindi risponde immediatamente sempre allo stesso modo, come un computer. Quindi occorre intervenire sulle regole del gioco in cui si trova, perché in prima istanza non è avvertito che si tratta di un gioco, con delle regole ben precise che stanno operando in una certo modo; fatto questo, cioè poste le condizioni perché possa avvertirsi che si tratta di un gioco linguistico, intendere per quale motivo questo gioco è bloccato in modo tale che a quel significante deve necessariamente corrispondere quel senso. Come se non potesse giocare quell’elemento nessun altro ruolo all’interno del gioco; se io ho paura di una catastrofe, non posso scherzare con questa cosa, ogni volta che mi viene questa paura, non ho molta possibilità di gioco, sono bloccato. L’analisi invece conduce a potere invece muoversi rispetto a questo, a considerarla certo, ma senza che questa paura blocchi assolutamente nulla, e se non blocca più nulla non è neanche più paura: cessa di essere tale. è soltanto un elemento del gioco insieme ad infiniti altri. Anche nei confronti degli animali la paura è diffusa, perché si ha, per esempio paura dei topi, dei cani etc.., e soprattutto perché si ha paura di certi animali, ma di altri no? Ma, in effetti, uno ponendosi la questione in questi termini cioè perché non ha paura di certi animali, può darsi una serie di motivazioni e poi ribaltare la questione sul perché invece altri fanno paura e considerare se non ci sono eventualmente le stesse condizioni; cosa che induce immediatamente a pensare che se c’è paura di un animale allora c’è un buon motivo. Perché, c’è l’eventualità che vada aldilà della paura di quell’animale in quanto tale, perché non necessariamente tutti quegli animali si comporteranno nello stesso modo nei confronti di quella stessa persona. Ma la paura come si comporta rispetto alla mobilità del significante? Nel senso che, siccome non si può attribuire un significato ad un significante così a caso, come talvolta accade di ascoltare, per cui questo significante comporta che ci sia quasi una sorta di nonsenso, un senso unico; la paura può essere allora determinata dal fatto che questo senso, comunque non riesce mai ad essere unico? Qui andiamo un po’ all’origine della questione, cioè la considerazione che ciò che si dice non è controllabile, non è gestibile, ma ciascuna volta si anamorfosizza. Quindi una sorta di ingestibilità certo, ma anche qui occorrerebbe riflettere a fondo. C’è l’eventualità che la paura non sia altro che una proposizione connotata in questo senso; la paura come una sorta quasi di fatto extralinguistico, mentre non è altro che una serie di proposizioni che affermano la paura, la paura è connotata, nel discorso occidentale in un certo molto, ma è un discorso molto ampio, molto complesso. Ad esempio, in un certo senso riflettendo intorno a quello che è il buddismo che punta all’assenza di desiderio, si può collegare la questione della paura anche rispetto al desiderio. Certo che quando si parla del discorso occidentale, la paura è la possibile assenza di risposta. In effetti, una delle cose che può incuriosire è che un’analisi inizia sempre con una richiesta di risposta. C’è questa domanda, come se la sicurezza che uno cerca, sia la sicurezza della risposta, un qualche cosa che confermi l’esistenza della risposta. Quando si parlava della guarigione, come per esempio come forma anche di conversione religiosa, si trattava di giungere alla sostituzione di una risposta che aveva fallito il suo compito, con qualcosa che, provenendo dall’esterno, si imponesse in modo definitivo. La paura del discorso occidentale sembra proprio questa, cioè questa ricerca di sicurezza, la ricerca della risposta. Certo, il discorso melanconico fa il verso a tutto questo "perché sto male?; "perché esisto", "perché esisto?" e qui generalmente si ferma. E’ la domanda fondamentale di Heidegger: "Perché esisto, anziché no?", anche se la abbiamo un po’ modificata, la quale interviene talvolta e alla quale potrebbe non essere facile rispondere; potrebbe, ma può essere anche molto semplice. Ma cosa si intende e perché c’è questo periodo di euforia, di riflessione, di contraccolpo? L’euforia, il più delle volte procede dal fatto di avere trovato finalmente, non ancora la risposta, ma l’idea, la sensazione che ci sarà la risposta; "questa persona finalmente mi guarirà" e quindi si mette l’anima in pace, può cessare di essere teso, agitato, perché c’è qualcuno che se occupa, e questo da una sensazione di sicurezza: da qui l’euforia e la tranquillità e sembra che tutto funzioni bene. Poi ci si incontra con il proprio il discorso, e allora delle questioni antiche cominciano a riaffiorare e a creare un disagio molto simile a quello che hanno provocato originariamente e per il quali sono poi sorti i sintomi; allora ecco che può accadere o una maggiore richiesta di appoggio all’analista, oppure l’abbandono. Ma, occorre che procedendo l’analisi fornisca anche gli strumenti per potere affrontare l’impatto, che in alcuni casi è anche violento, con delle situazioni penose, perché mano a mano saranno sempre più penosi, però occorre che gli strumenti di cui si dispone siano sempre più efficaci al punto i cui è possibile affrontare una qualunque cosa senza nessun timore. Poi, al periodo di questo contraccolpo, segue, si avvia una riflessione intorno, effettivamente alla propria vicenda; forse a quel punto inizia l’analisi, in un’accezione più precisa: l’analisi è quindi una considerazione del proprio discorso che non è più ne il racconto, ne il timore delle varie cose delle varie cose, ma una riflessione intorno alle condizioni, a ciò che lo supporta, a tutto ciò che ha fatto sì che qualche cosa si configurasse in un certo modo. Quindi può avvenire l’interruzione dell’analisi in seguito a dei problemi che possono insorgere; anche l’interruzione dell’analisi può indurre ad un periodo di euforia, perché se si è posti una questione intollerabile, eliminando l’analisi e l’analista, è come se momentaneamente si eliminasse anche la questione. E’ un po’ come avviene all’inizio dell’analisi, solo per motivi opposti; nel primo caso l’euforia dell’analisi, perché ci si affida ad una persona che finalmente si occuperà di tutto, nel secondo invece perché mi sbarazzo della persona e del percorso che mi fanno stare male. Ma si può abbandonare l’analisi anche perché si crede di avere raggiunto una certa tranquillità, di avere trovato l’equilibrio? Sì certo, questa è anche un’altra eventualità; in questo caso, in molte circostanze ho considerato che l’abbandono in quel momento e cioè di un raggiunto benessere costituisca una sorta di protezione, come se si avvertisse che procedendo, che se mai si proseguissi, forse accadrebbe qualcosa di spiacevole, e allora questo momentaneo stato di benessere viene perseguito in modo tale come se fosse il raggiunto obiettivo, mentre invece il più delle volte è soltanto un modo per non volere sapere di qualche cosa, che comunque continua ad interrogare e che si avverte, in qualche modo, che se si proseguisse lungo il discorso, inevitabilmente si incontrerebbe. Poi, ovviamente, di lì a poco tutto torna esattamente come prima, perché non si è elaborato nulla, non si è inteso nulla delle condizioni che hanno costituito il disagio e quindi quello ritorna, ritorna perché non c’è nessun motivo per non farlo. La questione, forse più importante con cui ci si scontra lungo un’analisi, è che ciò che comunemente sono chiamati i sintomi, hanno una funzione, un tornaconto e producono delle sensazioni, in molti casi molto forti, e che poche altre cose producono le stesse sensazioni e quindi, se l’attesa è che l’analisi produca sensazioni altrettanto forti, immediatamente questa attesa può essere disillusa. Questo aspetto lo si nota in modo particolare con i cosiddetti drogati; perché le persone non cessano di drogarsi? Perché generalmente ciò che gli viene proposto in cambio è la coltivazione degli ortaggi e lavoretti di intaglio, che non producono le stesse forti emozioni che producono l’eroina, il crac e le altre sostanze: quindi ciò che gli si da in cambio è niente, per questo dopo un po’ riprendono a drogarsi. Non voglio dire con questo che facciano bene o male a drogarsi, ma è solo un modo di considerare una struttura che per alcuni versi non è dissimile da quella che Freud chiamava nevrosi: uno ritorna ai propri sintomi perché ne è irresistibilmente attratto, perché producono anche forti emozioni, non soltanto per il tornaconto che hanno, o meglio un tornaconto può essere anche questo. Tenendo conto di questo, cioè del fatto che persone che sono in analisi sono soggette a mutamenti di umore molto repentini che lo stesso Freud chiedeva il pagamento anticipato. Comunque, la cosa più difficile, forse più importante, è quella di porre le condizioni perché ciascuna volta si instauri una sempre più forte curiosità rispetto al proprio discorso. Poi in definitiva si tratta di questo, trasformare un paura in una curiosità, cioè se, ad esempio, avessi paura dei cani, perché i cani mi fanno paura? Quasi come un gioco; certo occorre porre delle condizioni perché questo possa accadere, però è questo. Ma dato che la maggior parte delle persone basano la propria esistenza su delle certezze, che a questo punto potremmo considerare delle non certezze, ma che alle volte vengono da noi alimentate per sopperire a delle nostre insicurezze, allora una persona che mette in discussione tutto quanto, dobbiamo continuare a definirla sempre insicura, oppure no? E no, perché si provi a pensare ad una persona molto insicura, è tale perché gli manca la sicurezza e se l’avesse cesserebbe di esserlo; ma in questo caso l’idea è che ci sia qualche cosa di sicuro che io non ho, ma che se avessi, allora ecco che starei bene. Il discorso che stavo facendo non porta a questo, non manca la sicurezza, ma non c’è più la necessità della sicurezza. Perché anche la ricerca del benessere provoca non pochi problemi, occorre precisare ciascuna volta che cosa ciascuno intenda con benessere perché il benessere per uno può essere una catastrofe per un altro; generalmente ciascuno intende con benessere una condizione in cui non c’è nulla di ciò che lo inquieta. Però tutto ciò che lo inquieta, lo inquieta per un motivo, non è che lo inquieta così, per un decreto divino, c’è un qualche cosa che si aggancia la suo discorso che lo fa inquietare. Non si tratta de nirvana, cioè l’assenza di desiderio, non si tratta dell’assenza di niente, ma di potere confrontarsi con qualunque cosa accada senza paura; il nirvana tutto sommato è l’effetto della paura, ma del desiderio e allora il desiderio deve essere eliminato. Quindi, non togliere come vuole il buddismo zen, ma aggiungere e aggiungere una quantità sterminata di cose, e poterle accogliere man mano che si aggiungono perché magari si aggiungerebbero comunque, solo che c’è una sorta di sbarramento, di protezione continua. Potere accogliere qualunque cosa senza paura, poi non avendo paura, si potrà decidere forse con maggiore libertà il modo in cui muoversi nei confronti di questa cosa, perché se uno è spaventato generalmente si muove male e in un modo un po’ disorientato; una persona che ha paura, generalmente è pericolosa perché può fare qualunque cosa. Quindi, in definitiva questo è l’obiettivo: non avere la necessità di avere paura, di nulla: questo potremmo indicare con l’analista: chi non ha la necessità di avere paura.