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PREMESSA ALLA NOSOGRAFIA PSICANALITICA

 

30/9/1997

 

Si è trattato, lungo la ricerca psicanalitica, di intendere che cosa fosse ciò che Freud indicava come nevrosi o, potremmo dire più semplicemente, un disagio psichico come generalmente si intende dire. Come avviene che una persona ad un certo punto della sua esistenza avverta un disagio, da dove viene? Che cosa lo supporta? E cosa fa sì che si mantenga? Questi erano i quesiti che già Freud si poneva e con i quali si è trovato ad avere a che fare per tutta la sua vita, così come in definitiva ciascuno psicanalista inevitabilmente si trova a porsi queste domande tutt’altro che risolte, tutt’altro che facili da affrontare. Da dove viene il disagio e che cos’è? Per quanto riguarda la seconda questione e cioè che cos’è il disagio molti hanno tentato una risposta, indicando prevalentemente un insufficiente adattamento alle richieste esterne, lo stesso Freud sembra andare in questa direzione quando parla dei conflitti fra l’Es e l’Io e il Super Io. Dunque un adattamento non sufficiente, da una parte delle richieste pulsionali e dall’altra degli impedimenti a soddisfare queste richieste e in effetti generalmente il disagio si manifesta in questo modo, come una sorta di insoddisfazione, che poi si può configurare come insoddisfazione per il proprio lavoro, la propria vita in generale, ma in ogni caso c’è sempre qualche cosa che non va, qualche cosa che non soddisfa e di fronte a questo problema l’impossibilità di trovare una soluzione, ed è in questi casi che generalmente ci si rivolge ad uno psicanalista, in modo da trovare una soluzione e la soluzione generalmente si immagina in una risposta alla domanda "perché ho questo disagio?". Abbiamo detto e visto in queste occasioni che di risposte a tale domanda possono fornirsene un certo numero, ma abbiamo visto anche che non si tratta tanto di questo, cioè di dare una risposta nel senso di dire che tale disagio proviene da questo fenomeno, quanto piuttosto intendere che cosa la persona sta enunciando affermando il suo disagio, e ciò che si afferma enunciando il proprio disagio è una serie di elementi di cui in definitiva quella persona è fatta, al punto che, come lo stesso Freud aveva ravvisato, nel momento in cui una persona giunge di fronte all’eventualità di abbandonare tale disagio può accadere che abbandoni l’analisi, cosa che sorprese molto Freud, però considerando che il disagio è fatto delle stesse cose di cui è fatta la persona, generalmente avviene che il timore sia quello che perdendo il disagio insieme con questo possano perdersi anche le emozioni, le sensazioni e tutta una serie di cose a cui la persona tiene moltissimo. Si è considerato quasi sempre o comunque da quando la medicina si è impadronita della psicanalisi, che questi disturbi fossero una sorta di malattia e come tali dovessero essere trattati. Una malattia si cura, si trova il rimedio e la malattia scompare, quasi sempre, non sempre, in questo caso però la questione si è rivelata fin da subito molto più complicata. Tuttavia questo impossessamento della medicina nei confronti della psicanalisi ha avuto o ha causato una serie di problemi: intendendo il disagio come una malattia ha sviato notevolmente l’attenzione da ciò di cui si tratta considerandolo unicamente come un disturbo da cui guarire. La psicanalisi americana si è adoperata in questa direzione e quindi si è risolta in molti casi come un opera di convincimento o persuasione, in definitiva la stessa psicanalisi junghiana a tutt’oggi si basa su questo e cioè accettare una condizione comune di disagio e come suole dirsi farsene una ragione: se le cose stanno così, non possiamo fare niente, salvo appunto fare in modo che la persona le accetti per quelle che sono. Abbiamo detto in altre occasioni che questa posizione non ci è parsa di grande interesse, tutto sommato ha la forma della rassegnazione. Questione molto religiosa, è come dire che si soffre per via del peccato originale, non è molto lontano dall’affermare che si soffre perché la condizione umana è tale da costringere alla sofferenza.

Questo sviamento che la medicina ha operato nei confronti della psicanalisi è stato deleterio, Freud se ne accorse ad un certo punto, dicendo a chiare lettere che i medici sono le persone meno indicate per praticare come analisti, proprio per via della loro formazione che li mette nelle condizioni di ascoltare molto poco di ciò che si dice, e precipitarsi invece a trovare un rimedio. Una sorta di furor sanandi come lo chiamava a proposito di Groddek, la fretta di trovare il rimedio per guarire, però in questa circostanza la questione è molto più complessa e difficilmente riducibile a una malattia o comunque a uno schema nosografico, in effetti la nosografia inventata da Freud, almeno in parte inventata e in parte mutuata da altri, ad esempio la schizofrenia è un termine mutuato da Bleuler, l’isteria un termine antichissimo ecc. però diciamo che ha dato a questi elementi una sorta di dignità, di strutture organizzate di discorso. Quattro discorsi in particolare che sono quelli su cui ci soffermeremo negli incontri successivi, cioè il discorso isterico, ossessivo, paranoico e schizofrenico. Lacan come sapete ne aggiunge uno, il discorso dell’analista. Ma dicevo dunque che Freud ha posto questi discorsi tutt’altro che come malattie ma come strutture o più propriamente come una sorta di rimedio a un malessere che si avverte, ad un disagio. La nevrosi la indica come una terapia, cioè il cosiddetto nevrotico è tale in quanto cerca a modo suo di trovare un rimedio ad un disagio. A questo punto si è trattato e si tratta a tutt’oggi di trovarsi a definire il disagio considerando che porlo come malattia non ci porta molto lontani, dunque da dove viene questo disagio? Cosa lo sostiene dicevamo all’inizio? Che cosa manca? Che cosa manca ad un certo punto per cui tale mancanza viene avvertita come qualcosa di insopportabile, di insostenibile, qualcosa che fa vivere male in definitiva ma soprattutto che cosa manca al punto tale per cui se qualunque cosa viene posta al suo posto risulta assolutamente insoddisfacente? Una mancanza che pare incolmabile, già gli antichi l’avevano individuata come qualcosa di strutturale, e Jung si è avvalso di questo per individuare questa mancanza nell’impossibilità di cogliere o di fare proprie quelle strutture antiche che hanno costituito e costituiscono il pensiero dell’uomo, che mano a mano si è andato allontanando dall’originario, ma forse non è neanche tanto questo; Freud ha puntato, almeno inizialmente, la questione sull’aspetto sessuale, sulla sessualità come causa di buona parte del disagio, la sessualità diceva, deve essere repressa non per il ghiribizzo di qualcuno ma perché se non lo fosse la società così come esiste si dissolverebbe, forse non aveva neanche torto, ma forse non è neanche questo o non soltanto perché questa mancanza di cui dicevo sembra essere molto più strutturale, ma forse non è un male cioè non è qualcosa che necessariamente debba provocare un disagio, un malessere, anzi potrebbe essere addirittura una chance, un’occasione, una fortuna, ma vediamo meglio di cosa si tratta. Freud individuava questa mancanza nella castrazione, qualcosa di strutturale a ciascuno, non tanto l’evirazione, ma la castrazione come fantasia anche, un modo per intendere che comunque qualcosa manca, ma perché qualcosa manchi occorre che ci sia un posto rispetto al quale si avverta la mancanza diceva Lacan, così come in uno scaffale mi accorgo che manca un libro se c’è un posto vuoto. Che cosa fa sì che io avverta questa mancanza o che cosa mi consente di avvertirla? Uno sorta di ordine evidentemente, di ordine che esiste in qualche modo per ciascuno, come dire che le cose per essere a posto occorrerebbe che fossero in un certo modo, le cose ma soprattutto i pensieri, magari i miei pensieri. Si immagina talvolta di dovere mantenere un ordine nei pensieri, molto rigido, molto ferreo dal quale poi eventualmente allontanarsi per trasgredire, ma per trasgredire occorre pure ci sia una regola da trasgredire, in assenza di regole non c’è possibile trasgressione. Ma se consideriamo la cosa in termini più radicali e cioè nei termini tali per cui ci confrontiamo con qualcosa che necessariamente si dà per potere fare tutte queste considerazioni, allora forse questa mancanza può essere indicata in qualcosa che non tanto, come diceva Lacan fa buco nel linguaggio, ma come una sorta di costruzione che viene impiantata allo scopo di rendere conto della impossibile localizzazione del linguaggio, della sua origine, in definitiva potremmo anche dirla così: da dove viene ciò stesso che mi consente di immaginare la mancanza, che mi consente di immaginare qualunque cosa, che mi consente di pensare, che mi consente di pensarmi esistente per esempio. Questa struttura di cui dicevamo la volta scorsa, che abbiamo indicata come il linguaggio, è la struttura che consente di compiere queste operazioni, ora se è questa la struttura che consente di compiere tutte queste operazioni ha una responsabilità non indifferente, dal momento che la mia stessa esistenza ne è debitrice, perché senza il linguaggio non solo non esisterei ma non sarei mai esistito, visto che è il linguaggio che mi consente di dirmi che esisto, o dirmi che non esisto, a piacere, allora se vogliamo andare a cercare questa fantasia là dove più radicalmente si installa occorre che riflettiamo sulla struttura del linguaggio, visto che non è indifferente il fatto che sia il linguaggio che ci stia consentendo di domandarci queste cose e, visto che ce lo consente, forse consente anche di dirne qualcosa in più. Dire che qualcosa manca nel linguaggio è assolutamente arbitrario, qualcosa nel linguaggio fa buco dicevamo riprendendo Lacan, di per sé non significa niente, è una sua costruzione, possiamo dire che fa buco, possiamo dire che non lo fa, possiamo dire qualunque cosa, ciò che non possiamo non dire è che ci consente di pensare e di fare anche queste considerazioni.

Come vedete ci siamo molto allontanati dalla nozione di malattia per soffermarci su qualcosa che forse ha molto più a che fare con il disagio e cioè il linguaggio, e più propriamente la sua struttura, sempre tenendo conto che è anche attraverso il linguaggio che io so di soffrire per esempio. Se (facciamo un ipotesi per assurdo) io mi trovassi fuori dal linguaggio e quindi non sapessi di soffrire, soffrirei? È una questione che ciascuno può porsi, la risposta a questa domanda è inesorabile ed è no, inesorabilmente no, e questo ancora di più ci costringe a riflettere su questa bizzarra struttura che generalmente è nota come linguaggio. Ma perché il disagio sarebbe connesso con il linguaggio visto che il linguaggio è la struttura che consente di esistere tutto sommato, e da dove viene questo disagio? Prima ho accennato a un’idea che è quella di trovare l’origine del linguaggio in modo da potere fondarsi in un modo tale che sia molto più sicuro, più stabile, più affidabile di quanto lo sia il fondarsi su una struttura come il linguaggio, molto mobile e sfuggente, e allora non soltanto la mia stessa esistenza essendo direttamente dipendente da tale struttura verrebbe a essere piuttosto instabile, ma tutte le mie affermazioni, di qualunque tipo e per qualunque motivo io lo faccia sarebbero altrettanto instabili, arbitrarie e riceverebbero un senso unicamente dalla stessa struttura in cui esistono o, come direbbero i linguisti, dalla combinatoria linguistica o dalla stringa di significanti in cui sono inserite. Ma potrebbero le mie affermazioni, talvolta così importanti e coinvolgenti e determinanti, essere considerate sempre inesorabilmente, inevitabilmente, totalmente arbitrarie e totalmente prive di senso, salvo quello che traggono dalla combinatoria linguistica in cui sono inserite ciascuna volta di volta in volta? Cosa potrebbe essere costruito su questo? Ma da dove viene la necessità di stabilire con tanta certezza la fondabilità delle mie affermazioni o di qualunque altra cosa? Considerando che molto semplicemente essendo una produzione di questa struttura nota come linguaggio di per sé non lo richiederebbe. Da dove viene questa necessità? È difficile darvi una risposta, possiamo però con Platone evocare una nobile menzogna, che tutto ciò che si afferma sia necessario, che alcune grandi verità esistano, che il bene, il giusto, il vero ecc. tutto ciò esista necessariamente, tutto questo è falso tuttavia è bene che le persone lo credano, è bene che lo credano per il loro stesso bene e soprattutto per il mio, dettaglio marginale, nel senso che dicevo, già Freud ravvisò la questione affermando che sulla repressione sessuale si è costruita e può mantenersi la società, che è ancora un modo un po’ allegorico di porre la questione, potremmo dire che ciò che risulta necessario perché una società di qualunque tipo, qualunque sia il suo obiettivo possa darsi, è che i suoi componenti o almeno la più parte di questi creda tutte le cose che indicavamo prima come assolutamente necessarie, meglio ancora se naturali, è per questo che la volta scorsa vi dicevo che ciò che fa uno psicanalista non va generalmente nella direzione delle istituzioni, dello Stato o comunque della società, contrariamente a quanto fanno gli psicanalisti americani, ma semmai esattamente nella direzione opposta.

Provate a pensare che cosa accadrebbe se voi potreste avere ciascuna volta, in ciascun istante, la totale assoluta e irreversibile consapevolezza che ciò che state affermando e ciò che viene affermato da chiunque e per qualunque motivo e in qualunque modo sia totalmente arbitrario. Cosa intendo per totalmente arbitrario? Che non può essere provato in nessun modo. Ora potrebbe dirsi che poco importa se può essere provato, è efficace, funziona, ma è esattamente su questo che si è basata la nobile menzogna, non importa se è vero o falso, importa che funzioni per ottenere qualcosa che mi sono prefissato, poi si può anche discutere sullo scopo, però può risultare marginale e il più delle volte lo è. E allora fare credere che una persona, per esempio, non stia più bene con un’altra o in famiglia o nella società in cui è inserita sia una malattia, è una nobile menzogna che fa bene allo stato, ai famigliari, ai vicini e tutto sommato anche alla persona, e comunque non starà peggio di prima, ma questa nobile menzogna potrebbe anche non dirsi, mentre se si considera una malattia è qualche cosa che deve essere evitato, cioè la responsabilità non è della persona, uno non è responsabile del proprio raffreddore, almeno generalmente si considera così, considerare il disagio una malattia toglie la responsabilità a tutti, è una soluzione straordinaria, nessuno è più responsabile, se non il caso, la società, il fato…ma se non fosse così? Perché c’è anche l’eventualità, per quanto generalmente si consideri remota, che non sia proprio esattamente così, e che questa persona sia assolutamente responsabile di quello che sta dicendo e cioè che sta male con la famiglia, che sta male ovunque si trovi, e che cosa sta dicendo esattamente? Abbiamo detto che enuncia un disagio in prima istanza, ma muovendo dall’idea che non sia una malattia allora è in prima istanza una proposizione quella che enuncia, che dice qualcosa, che trae un senso da altre proposizioni di cui quella persona è fatta. In definitiva, come è emerso fra le righe, ma adesso lo diciamo in modo esplicito, il disagio ha come condizione che una serie notevole di elementi siano necessariamente creduti veri, solo a queste condizioni è possibile avvertire il disagio, può sembrare un’affermazione piuttosto bizzarra, però occorre tenere conto di un elemento principalmente, che il disagio non è necessario, non è un obbligo, come dire che paradossalmente ciascuno è libero di provarlo oppure no, non essendone obbligato. Dico paradossalmente perché poi di fatto è avvertito invece come una costrizione, ma una costrizione di che tipo? Poco che ci riflettiate avvertite immediatamente che è una costrizione logica e cioè è fatto in questo modo: se le cose stanno così allora io non posso che soffrirne, ma le cose stanno così dunque soffro. Adesso è detta in modo molto banale, ma ha la struttura di un’inferenza, di un sillogismo: se A allora B. Per cui a questo punto potremmo dire che laddove riuscissimo a inserire un elemento che nega la premessa, l’antecedente, l’apodosi come la chiamano i retori, anche il conseguente varierebbe, cioè: se A allora B, ma non A dunque non B, se le cose stanno così io sto male, ma le cose non stanno così e quindi non sto male. Pare molto semplice posta in questi termini, occorre che lo diventi così semplice. E ciò che fa uno psicanalista, ciò che lo muove è esattamente questo, disporre le cose in modo tale che possano diventare talmente semplici che in nessun modo potrebbero costituire un problema. Operazione che non è semplice tuttavia, se ciò che dico è molto semplice tuttavia porre in atto tutto questo lo è molto di meno. E tutto sommato potremmo dirla con Freud che è sorprendente, che sia così difficile porre in atto una cosa del genere, perché con Freud? Perché lui aveva ravvisato fin da subito che le persone che si rivolgevano a lui per dissipare un disagio, mano a mano che procedevano lungo l’analisi accadeva che si opponessero al proseguimento dell’analisi stessa, cosa che lo sorprendeva, si chiedeva come fosse possibile una cosa del genere. Vedete, abbandonare il proprio discorso o, come dicevamo prima le premesse su cui si regge il proprio discorso e quindi in definitiva la propria esistenza, può non essere facilissimo, dal momento che su queste premesse appunto si è costruita la propria esistenza. Talvolta l’impressione è che se tali premesse dovessero crollare anche la mia esistenza verrebbe annullata. Anche se non è esattamente così. Viene annullato un modo di pensare questo sicuramente. Viene annullato in quanto ciò che io ritenevo necessario e da cui traevo tutta una serie di inferenze fino alla conclusione ultima, ebbene tutto ciò posso ritenerlo non più necessario ma una costruzione, una costruzione del linguaggio. In questi termini ogni cosa, ogni elemento, ogni sensazione, non è che cessi, ma cambia connotazione, non è più possibile pensarla allo stesso modo, così come non sarebbe possibile, venendo a sapere una certa cosa rispetto per esempio a una certa persona, continuare a pensare allo stesso modo di quella persona, e questo ha valore retroattivo. Accade per esempio che due persone magari sposate, vivano insieme per qualche decina di anni, ad un certo punto una delle due, non importa quale, confessa o ammette un tradimento. Può accadere che da quel momento tutto ciò che è stato prima, cambi totalmente connotazione, e cioè quella persona non è più la stessa. Adesso io ho fatto un esempio molto banale, non è che sia una legge ovviamente, succede, diciamo che è accaduto, e cioè nel discorso di una persona si è inserito un elemento tale per cui una buona parte della sua vita assume di colpo tutt’altro aspetto. Così magari voi mi vedete in un certo modo, se veniste a sapere all’improvviso che sono un agente del KGB, che faccio questo soltanto come paravento, probabilmente mi vedreste in un modo differente, forse, non è sicuro, però, magari l’inserimento di questo elemento cambierebbe moltissimo e come può avvenire una cosa del genere? Per quale struttura, per quale via? Perché basta che io sappia una sola cosa e tutto ciò che ho saputo prima cambia, non è più vero? Se ci pensate bene è un ben bizzarro fenomeno, anche se appare assolutamente normale, però invece è curioso, è curioso perché in effetti solo un elemento linguistico può variare una struttura linguistica, inserendo un elemento, ed è qualcosa del genere che avviene in una analisi, inserire un elemento tale per cui le premesse variano, per cui tutte le conseguenze che si sono tratte necessariamente ne vengono modificate, anche lo stare male ovviamente. Perché variando le premesse (essendo lo stare male la conclusione logica e necessaria di una serie di inferenze) anche questo viene a vacillare, a quel punto non ho più bisogno di stare male, posso anche continuare a farlo, ma avendone la totale consapevolezza. Nessuno mi impedisce di soffrire se mi va di farlo, ma nessuno mi obbliga, c’è una sorta di libertà, e in effetti una struttura come quella che vi sto tratteggiando comporta una libertà assoluta, e anche ad un certo punto irreversibile, nel senso che non è possibile tornare indietro. Un percorso come questo ha questa prerogativa, che sbarra ad un certo punto il ritorno, non è più possibile tornare indietro, per lo stesso motivo e per la stessa struttura che impedisce, quando sapete essere falsa una cosa, che la crediate vera, dal momento in cui la sapete essere falsa non potete tornare indietro e credere che sia vera, ecco per lo stesso motivo, cioè per una struttura linguistica che impedisce tutto sommato che io possa credere vera e falsa una certa cosa, tranne come variante, cioè come figura retorica, allora posso affermare una cosa e il suo contrario ma posso inserire una variante unicamente perché qualcosa non varia, se non ci fosse almeno un elemento che non varia non potrei inserire nessuna variante, varierebbe rispetto a che? Ciò che non varia e non può variare in ciascuno è l’esistenza di questa struttura che indicavo come linguaggio, non può variare nel senso che non può togliersi, non è possibile uscirne, in questo senso non varia, può costruire una infinità di varianti, di figure retoriche che non sono altro che i modi in cui le cose si dicono. In effetti nei titoli che ho dati ho indicato le figure della psicanalisi e con queste figure ho indicato appunto il discorso isterico, ossessivo ecc. ma come figure cioè come modi in cui una cosa si dice, in quel caso un disagio si dice in quel modo. Un itinerario analitico è prevalentemente un itinerario retorico che giunge anche, certo, ad intendere che cosa supporta la retorica cioè che cosa la fa esistere e quindi la logica, potremmo dire in questa accezione, e cioè come tutto ciò che costituisce necessariamente l’esistenza del linguaggio, quegli elementi senza i quali il linguaggio cesserebbe di esistere, questo intendiamo con logica, con retorica tutto il resto. Qualunque cosa si affermi, dalla più ponderosa alla più amena, alla più importante, sarà sempre necessariamente una figura retorica. La legge di gravitazione universale è una figura retorica, per quanto potrebbe apparire il contrario, intendo pertanto con retorica tutto ciò che risulta non necessario. Che cosa è necessario invece? Ciò che non può non essere e qual è l’unico elemento che non può non essere? Quello che mi consente di fare questa affermazione, qualunque altro è arbitrario.

Vi siete resi conto della distanza immensa che tutto questo ha preso del considerare, per esempio, l’isteria come una malattia, come un disturbo da cui guarire. È possibile guarire da una figura retorica? Si può articolarla, si può volgerla in altre figure retoriche, chi avrebbe mai in animo di guarire da una sineddoche? Non usa generalmente, pertanto inevitabilmente uno psicanalista si pone di fronte ad un discorso non come il medico si pone di fronte a una malattia, mi sembra che questo sia emerso in un modo abbastanza chiaro, semmai come un retore di fronte a una serie di affermazioni che vorrebbero porsi come necessarie e che non lo sono affatto e quindi mostra, di queste affermazioni di cui si enuncia l’assoluta e la solenne necessità, la più totale arbitrarietà e cioè che quindi non è necessario attenercisi, non è necessario crederle, mentre se si pongono come verità. La verità così come è comunemente intesa è terroristica, costringe all’assenso. Se una cosa è così tutti devono riconoscerla, la retorica no, non costringe all’assenso, persuade eventualmente, anzi spesso è stata utilizzata in questo modo, per persuadere, ma tutto sommato non è che ci interessi persuadere nessuno di nulla, ma semplicemente mostrare come ciò che si afferma, forse non è così necessario e quindi non è necessario attenercisi e quindi ancora non è necessario stare male, potrebbe… Roberto cosa dici a questo punto…

  - Intervento: Ho letto il saggio di Heidegger "In cammino verso il linguaggio", lui diceva che non abbiamo modo di intendere la filosofia orientale perché il nostro è un diverso modo di parlare, gli orientali non fanno un uso di parole o figure retoriche…

 Hai mai provato ad andare a Pechino e comprare un vaso cinese e trattare sul prezzo? Vedi quante figure retoriche saltano fuori.

 - Intervento: la traduzione…

 La difficoltà di traduzione è nota, ma difficoltà di traduzione anche da lingue molto più vicine a noi, basta parlare con un buon traduttore anche soltanto dal francese, il banalissimo francese, o l’inglese, può trovare difficoltà enormi fino a giungere, come hanno teorizzato i Francesi, alla assoluta impossibilità di tradurre da una lingua in un’altra, rimane un’altra cosa e questo Heidegger lo sapeva bene, perché si è trovato a tradurre i testi greci sapendo molto bene che qualunque traduzione possa venire fatta oggi, potremmo aggiungere anche allora, sarà sempre una sorta di tradimento del testo originale, al punto che Derrida e altri dopo di lui si sono chiesti se questo testo originale esista oppure no, visto che comunque qualunque traduzione per quanto sia buona… ma io stesso che lo leggo lo sto traducendo. E allora questo testo originale dov’è? È una questione legittima, sì potrai dire Roberto che non ci porta molto lontani, questo è possibile, in effetti è un po’ questa l’obiezione anche rispetto all’ermeneutica, che muove da un testo ma se questo testo non c’è in quanto tale tutta l’operazione risulta molto complessa. Ora il retore che cosa fa? Prima dimostra l’assoluta necessità del testo in quanto tale, dopo di che dimostra l’assolta impossibilità del testo in quanto tale. Ma la difficoltà non è tanto questo, ma fare un passo ulteriore rispetto a tutto ciò e cioè muovere da questo, e cioè che in effetti disquisire sulla necessità del testo o sulla sua impossibilità, se vogliamo proprio dirla tutta è un non senso, in quanto ciascuno può altrettanto legittimamente, come si diceva prima, sostenerne la legittimità quanto l’impossibilità e allora sì, può essere un esercizio retorico, anzi, suggerisco di farlo, suggerisco di farlo perché l’aspetto più interessante di tutto questo è trovarsi a compiere queste operazioni, rispetto al proprio discorso, qui la questione è difficile perché c’è l’eventualità di potere constatare, al pari di ciò che si diceva prima, l’inutilità, se non come esercizio, di stabilire la necessità o la impossibilità di alcunché… quindi dicevo trovarsi a compiere questo esercizio rispetto al proprio discorso e c’è l’eventualità di trovarsi di fronte al fatto che qualunque affermazione magari subisce lo stesso destino, e cioè si rileva essere totalmente arbitraria. Perché l’obiezione che potremmo fare o muovere ad Heidegger rispetto al fatto che un singolo lessema, una parola giapponese non può essere tradotta in tedesco (visto che lui parlava tedesco), questa semplice e banale affermazione può comportare invece problemi colossali. Saprebbe dire Heidegger perché non è traducibile, e come lo sa? Se non trovandosi preso immediatamente in una sorta di regressio ad infinitum e quindi la sua affermazione risulta, nella migliore delle ipotesi, una sua opinione, crede che sia così. Va bene, perché no? Ma non ci dice molto, se non un resoconto di ciò che Heidegger pensava, potrebbe essere anche interessante, Heidegger dice anche delle cose notevoli ma trovarsi ad affermare cose del genere è sempre molto problematico, occorre sempre domandarsi: come lo so? Attraverso a che cosa? Attraverso quali criteri, quali paradigmi, quali strutture io posso affermare una cosa del genere? Che se dico che non è traducibile, già devo muovere dall’idea della traducibilità, e qui possono sorgere problemi notevoli: come so di avere tradotto perfettamente? Come so che la traduzione è perfetta? O è soltanto possibile, o più propriamente che cosa intendo esattamente con traduzione? Siccome qualunque definizione io possa fornire sarà sempre possibile fornirne un’altra, vedi che… io insomma andrei più cauto a fare queste affermazioni, almeno queste…

 - Intervento:…

 È un po’ animistica questa cosa. È Lacan che la riprendeva, dicendo "ça parle" qualcosa parla, riprendendo la frase di Freud, Lui parlava dell’Es… (…) certo, sì l’idea che gli umani siano parlati dal linguaggio sì, può dirsi così come metafora però se presa in termini teorici offre il fianco a notevoli obiezioni…

 - Intervento:…

 No, perché tu ti muovi in questo senso, a livello prettamente, oltre che prevalentemente, retorico. Tu puoi costruire una metafora? Se sì, allora puoi inserirti nel linguaggio, se no, no. Se sì, nel senso che puoi costruire un elemento del linguaggio attraverso ovviamente la struttura del linguaggio che te lo consente, tale per cui altre proposizioni ne saranno variate. No, non c’è nessuna possibile uscita dal linguaggio, il funzionamento non è molto dissimile da… sei un programmatore anche? Bene, tu puoi costruire un virus e inserirlo in un programma, e il programma cambierà. Un certo programma è fatto per seguire una certa procedura, inserendo questo virus cambi la procedura. Ho fatto l’esempio del computer perché pensano grosso modo come pensano gli umani, perché costruiti utilizzando una certa struttura che è quella del pensiero degli umani.

 - Intervento:…

 Sì a buon senso ti si potrebbe rispondere di sì, ma se ci riflettiamo in modo molto più rigoroso dobbiamo dire che il virus che costruisci, direbbe Heisenberg cambia, cambia perché tu hai fatto qualche cosa, hai interagito con una struttura linguistica e questo cambia anche te perché qualcosa in più magari sai, qualche cosa è avvenuto in te, non è esattamente più la stessa cosa di prima, oppure possiamo anche dire che tu non sei cambiato, cosa preferisci? Facevo questo esempio molto banale per indicare una struttura, inserire un elemento vale qui a consentire a una persona di accorgersi che delle premesse non sono necessarie, se non sono necessarie le premesse non lo sono nemmeno le conclusioni. E questo la persona lo sa pur non avendo fatti precisi, approfonditi e dettagliati oltreché lunghissimi studi di logica, lo sa perfettamente, questione bizzarra anche questa, che ciascuno si muove utilizzando una logica rigorosissima che non ha mai imparata, perché di fatto è una struttura del linguaggio, una procedura, poi può anche divertirsi a studiare la logica perché no? È divertente, vero Roberto che è divertente la logica? Sì, indica come avviene che da una premessa, di fatto si arrivi ad una conclusione, attraverso quali vie, molto semplicemente. Sì, considerando poi i vari casi che sono sterminati, però in definitiva la struttura è questa: se A allora B e se B allora C, allora se A allora C. Non fa una grinza…

 - Intervento: Lei diceva che una persona sa benissimo che se si aggiunge un elemento alla premessa questa cambia, cambiando la conclusione. La persona non avrebbe paura di proseguire, non abbandonerebbe l’analisi se non ci fosse questo "sapere"..

 Qui questo sapere si rivolge più a fantasie che sono ancora al di qua, certo c’è un sapere che può giungere anche a questo, però… la paura? La paura è un’altra bella questione di cui accade di occuparsi in analisi, la paura è che data una certa premessa segua una tale conclusione. Anche lì, se la premessa fosse differente la conclusione lo stesso, e la paura non saprebbe più su cosa sostenersi.

 - Intervento: quando si parla di disagio non si può non rimanere coinvolte

 Potrebbe non essere così automatico, perché avviene questo coinvolgimento? È una questione che non va così da sé questa sorta di immedesimazione nell’altro. Si vede una persona che soffre e accade, quasi per risonanza, di soffrire con lei. Però non è una struttura così necessaria, come dire che qualche cosa attrae in questa sofferenza, se ne impadronisce, si soffre insieme con l’altra persona, in molti casi è un innesco, un occasione, un pretesto per soffrire. C’è chi le va a cercare le situazioni dove persone soffrono, proprio per questo motivo, non tutte ovviamente ma avviene. Per esempio Freud descrive la situazione in un collegio femminile dove una ragazzina riceve una lettera del suo innamorato, dove evidentemente l’innamorato dice cosacce per cui scoppia a piangere e soffre tantissimo e allora Freud racconta che le amiche vanno lì vicino per consolarla e si mettono a piangere anche loro. Perché si chiede? Non avrebbero avuto motivo, il loro ragazzo non le stava lasciando e quindi non c’era nessun motivo di piangere e invece c’è stata una sorta di identificazione con questa sofferenza, come dire: anch’io voglio usufruire di queste forti sensazioni, di queste forti emozioni, e quindi faccio come se fosse capitato a me, e così posso piangere, immedesimarmi, capita spesso,

 - Intervento: compassione, l’idea collettiva di sofferenza può avere dei vantaggi

 Compassione, letteralmente soffrire insieme con altri. Sì la compassione è presente in tutte le forme di religione, anche in quella cristiana non è che la disprezzi, anzi, la pone come uno dei cardini, la pietà, la pietas… Ma forse la signora voleva aggiungere qualcosa? La sofferenza è uno dei cardini, senza la sofferenza e senza il senso di colpa sarebbe un problema. Secondo Freud per esempio gli umani sono così facilmente addestrabili per via del senso di colpa, faceva l’esempio dei rettili i quali sembra che siano privi del senso di colpa e sono difficilmente in effetti ammaestrabili, se gli umani ne fossero privi, sarebbe molto più difficile addestrali…

 - Intervento: i cani hanno il senso di colpa?

 Sotto il collare, che domande fai? Come il Papa che dice che hanno l’anima anche loro, che hanno un loro paradiso oppure lo stesso, questo non lo so…. anche gli animali vanno in paradiso, se e soltanto se sono stati buoni…

 - Intervento: come spiega che moltissimi analizzanti non si staccano facilmente dal loro analista?

È una questioni che l’analisi affronta, se c’è una sorta di fantasia di dipendenza questo è un elemento fra infiniti altri che si tratta di discutere, non è differente da qualunque altro, certo una persona può anche proseguire perché incuriosita, o può interrompere non perché ha incontrato un problema, per esempio, facevo alcuni esempi, non formulo mai leggi universali, faccio degli esempi certo…

- Intervento: Consideravo il fatto che del disagio si sono impadroniti i medici, gli psichiatri in particolare e mi chiedevo fino a che punto è stato un gioco del medico o di chi è rivolto al medico o ha permesso che questo medico avesse potere di decretare la fine del disagio o no, cioè la questione economica tutto sommato, con il suo erotismo e quanto gioca l’erotismo nell’accettare qualsiasi soluzione, qualsiasi decreto, qualsiasi comandamento tutto sommato, c’è il male e il medico dell’anima che è il prete e il medico del corpo che è il medico del male…

Sì, lo psicanalista non gioca al dottore. Va bene, allora il 7 ottobre parleremo del discorso isterico, grazie a tutti e buona notte.