Torino, 16 marzo 2010
Libreria LegoLibri
La logica dell’amore
Daniela Filippini
TI AMO MA TI TRADISCO
Tradire. Essere traditi. È un verbo transitivo, richiede qualcosa o qualcuno oggetto dell’azione. Ma gli effetti della sua azione sono tutt’altro che transitivi, nel senso che non si guarisce tanto facilmente da un tradimento, né si dimentica mai completamente.
Ti amo ma ti tradisco: è un titolo volutamente provocatorio che allude al fatto che si può tradire anche quando c’è un sentimento forte, quando non manca nulla, quando apparentemente non se ne avrebbe motivo.
Ti amo, ma ti tradisco per dimostrare qualcosa a me stesso, e forse agli altri…
Ti amo, certo… ma c’è qualcosa ancora più importante del mio amore per te…
Teniamo ferma questa affermazione che può lasciare sconcertati, per rivolgerci prima ad altri interrogativi.
Chi si tradisce? Cosa si tradisce?
Si può tradire un fidanzato, una moglie e si può tradire la fiducia di un amico, di un figlio, di una madre. Ma si può tradire un ideale, un partito, l’azienda per cui si lavora, la patria.
E si può tradire un proposito, un’intenzione rivolta solo a se stessi, una convinzione.
Tradire non è soltanto sinonimo di mentire o ingannare, è qualcosa di più: una ferita così profonda, in particolare quando ne si è vittima, che difficilmente può essere perdonata, una violenza che scuote tutto l’essere di una persona coinvolgendo talvolta anche il passato, sicuramente influenzando il futuro, giungendo a stravolgere completamente la propria considerazione di una persona.
Ed è naturalmente una ferita che può essere subìta o inferta ad altri.
Ma cosa accade esattamente con il tradimento? Quali meccanismi vengono messi in atto?
Un uomo e una donna stanno insieme, si conoscono, si innamorano, pronunciano parole leggere, piene di dolcezza, di attenzioni che si scambiano nel presente e si prefigurano nel futuro, si progettano giorni insieme, interessi da condividere, tanti momenti per godere reciprocamente di quell’amore.
Quando accade, è un incontro quasi magico, sembra di potersi “riconoscere”, si provano emozioni fortissime, uniche. In quella persona posso specchiarmi come di fronte a me stesso, mi sento accettato e capito nelle mie sfaccettature non sempre luminose. Sono felice, l’altro mi rende felice.
È questa la promessa che, spesso in modo implicito, ci si scambia. Quella di essere felici, di renderci felici per un tempo indefinito, per sempre.
È l’aspettativa che si coltiva da tempo, quella ricerca che dura da una vita e che si concretizza ora grazie a quella persona.
Poi ad un certo momento, ci si rende conto che qualcosa è cambiato. Il desiderio di vedersi è meno intenso, non si pensa più al partner con la stessa intensità, possono trascorrere molte ore o giorni in cui non ci sente. Ci si vede, ma è “normale” vedersi quando si sta con qualcuno. I discorsi sono più concentrati sul lavoro, gli impegni pratici, l’organizzazione del tempo e delle varie attività.
Quello che prima era il bisogno di sapere tutto dell’altro è stato saziato, ci si è raccontati con tutte le proprie aspettative, delusioni, il passato, il presente e i sogni per il futuro.
E in quello scambio c’era tutto il volersi conoscere e stare insieme perché con quella persona e non altre era possibile essere felice. Ma ora quell’aspettativa di felicità si è attenuata, a volte sembra essere scomparsa.
È questo il primo tradimento, quello di un sogno che non si è realizzato come avrebbe dovuto, una promessa che è stata disattesa.
Spesso non c’è neppure bisogno di un altro uomo o un’altra donna con la quale materializzare un tradimento fisico o sentimentale. In quella stanchezza dei desideri che si affievoliscono c’è già il tradimento peggiore, quello appunto dell’aspettativa di essere felici per sempre.
Accade allora che la delusione profonda di vedere tradite le proprie aspettative, si scontri con il desiderio di riprovarci, di riprendere il proprio cammino verso la felicità; non può placarsi questo desiderio di piena soddisfazione, di benessere fisico e affettivo; è un bisogno fondamentale dell’essere umano che non può essere eliminato.
E se questo cammino non può più essere percorso insieme a colui o colei che credevamo perché non ci sono più i presupposti, cioè la promessa di felicità, non si può far altro che cambiare direzione e cercare l’uomo giusto o la donna perfetta…
L’aspettativa è il punto, cioè sono le proprie fantasie di felicità quelle che si chiede implicitamente all’altro di poter realizzare. Come se attraverso l’altro, il proprio desiderio potesse esprimersi, concretizzarsi, raggiungere la propria mèta. Come se l’altra persona fosse lo strumento per riscattare il proprio diritto alla felicità, rappresentando in un vero film quella sceneggiatura scritta lungo tutta la vita, mettendola in atto proprio come si era immaginata.
Accennavo prima al fatto che il tradimento possa riguardare una propria convinzione o un ideale, talvolta una fede religiosa.
Quando un’idea entusiasma particolarmente, quando sembra dare una spiegazione plausibile a situazioni o eventi che altrimenti non sapremmo motivare, quando questa idea riesce a “dare un senso alle cose” accade che ce ne si innamori, esattamente come ci si innamora di una persona.
In particolare appare fondamentale reperire una spiegazione per gli eventi che producono sofferenza, per i quali è necessario trovare una causa e soprattutto un motivo.
Dare un senso alla sofferenza è una delle principali attività umane, anche perché solo gli umani hanno la prerogativa di poter pensare a ciò che accade loro e alle emozioni che vivono.
La sofferenza è qualcosa che non può essere accettato passivamente, deve avere una giustificazione o almeno una spiegazione; non poterla reperire sarebbe una ulteriore sconfitta della propria debolezza umana, un arrendersi al volere dispotico della natura o della sorte.
Ecco il terreno fertile al pensiero di una possibile presenza di un dio onnisciente che conosce le ragioni profonde incomprensibili agli umani, ai quali si chiede innanzitutto di credere e poi di adeguarsi. Avere fede è letteralmente fidarsi a priori, non chiedere garanzie, abbandonarsi con tutto il proprio carico di speranze e delusioni….presupponendo che ci si stia affidando ad una entità superiore, benevola e certa.
In altri casi gli ideali si rivolgono a scopi sociali, umanitari, ambientali, politici.
In fondo a ciascuno di questi ideali c’è il desiderio di fare qualcosa di buono, di lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato, di costruire non soltanto per se stessi ma anche per chi si trova in condizioni svantaggiate.
Vi è una considerazione molto forte dell’idea di collettività, di un bene comune che è diritto di tutti, di valori universali che vanno garantiti per tutti, soprattutto per chi – per motivi di cultura o mezzi – non ha la possibilità di pensarci da sé.
Il raggiungere gli obiettivi connessi all’ideale diventa prioritario e spesso accade che le persone che si frequentano sono persone che ne condividono i principi e gli scopi. Bisogna poter condividere la propria idea con qualcuno; non chiunque, naturalmente, ma qualcuno che sia in grado di capire, che dia il giusto valore alle istanze che vengono portate avanti.
E altri possono essere affascinati e coinvolti nei progetti che scaturiscono da queste idee; parlandone, mostrando in vari modi il proprio pensiero e ciò che si prefigge è possibile ampliare il gruppo di coloro che aderiscono, che si danno da fare, che vanno avanti.
A fronte di un ideale – sia esso politico, sociale o religioso – ci sono sempre degli obiettivi da perseguire, qualcosa da realizzare.
L’ideale politico ha lo scopo di modificare la società e le norme che ne regolano il funzionamento a vantaggio di gruppi più o meno estesi di persone, sollecitando il cambiamento o il mantenimento di certe regole a seconda del caso.
L’ideale sociale si rivolge generalmente verso il sostegno di cause umanitarie o ambientaliste; la fede religiosa ha obiettivi ancora più ambiziosi, quelli di salvare l’individuo e l’umanità intera, garantendo niente meno che la felicità eterna, non solo dell’anima ma anche del corpo fisico.
Anche le idee più astratte hanno bisogno di un compimento nella realtà, persino nello studio teorico ci sono obiettivi pratici come il conseguire una laurea, trovare uno sbocco professionale, realizzare un progetto, trasferire le proprie conoscenze, scrivere un libro, ricevere un riconoscimento.
Un ideale si tradisce quando delude, quando mostra i propri punti deboli in termini di credibilità, onestà, veridicità.
Se ciò che credevo essere autentico mostra di essere incerto, come posso continuare a crederci?
Se ciò su cui fondavo la mia abnegazione è infondato, come posso continuare ad impegnarmi per esso?
Se dio è amore perché permette che enormi catastrofi uccidano intere popolazioni o malattie incurabili infieriscano su bambini innocenti? Come si può sostenere senza ipocrisia che il dolore abbia il potere terapeutico di guarire dal peccato? Viene il dubbio che affermazioni del genere si possano fare solo nella misura in cui catastrofi, malattie e dolore non ci riguardino personalmente…
L’ideale tradisce le aspettative, quella che era la giusta causa alla quale dedicare tempo ed energie per il benessere collettivo, spesso mostra incongruenze che hanno il sentore di interessi personali e ci si può sentire abbandonati persino dal dio che è fedeltà e verità per definizione.
Se le condizioni cambiano e il progetto non può essere realizzato, se i compagni lasciano la causa, se ciò che appariva buono e giusto sembra perdere consistenza…può accadere di sentirsi traditi dai fatti o dalle persone, dalla storia o dalla collettività per la quale ci si stava sacrificando.
Si può considerare che ciò che appariva tanto importante da coinvolgere energie, tempo, denaro, impegno e speranze ad un certo punto mostri qualche punto debole o venga addirittura riconsiderato nei suoi fondamenti. È accaduto anche in tempi recenti con i grandi movimenti di pensiero, con le correnti politiche, con le organizzazioni giovanili ed è accaduto in ogni periodo storico con le sue specificità teoriche e sociali.
Tra i molteplici fattori che influiscono nella vita di una persona – costruendone fantasie ed obiettivi - vi è il ruolo fondamentale giocato dalle aspettative sociali nei confronti dell’individuo.
Credo che una riflessione sulle aspettative sociali sia degna di considerazione, nella misura in cui già nella famiglia di origine si prospettano una serie di tappe che il bambino deve superare per entrare nel mondo degli adulti. Ciò che un individuo deve realizzare nella propria vita è scandito da tappe più o meno obbligatorie che riguardano gli studi e il lavoro, fino alla massima espressione di maturità che coincide con il formare una famiglia propria, basata sul matrimonio e sui figli.
Si nasce con un percorso sociale generalmente predefinito che inizia con una differenziazione dei giochi, attraverso l’identificazione del bambino e della bambina nei ruoli che questi dovranno esercitare una volta adulti. Classicamente, la bambina riceverà giochi che emulano i compiti della mamma nell’accudimento dei figli e della casa, dalle bambole all’aspirapolvere in miniatura, mentre ci si aspetterà che il bambino maschio giochi con soldatini, macchinine, costruzioni meccaniche e simili, così come ci sono sport, cartoni animati e attività per femmine ed altri destinate ai maschi.
Il bambino ha davanti a sé un percorso di formazione scolastica finalizzato ad ottenere un posto di lavoro, possibilmente soddisfacente e sicuro, che gli permetta l’autonomia economica necessaria per staccarsi dalla famiglia di origine; una volta uscito dal nucleo familiare, ci si attende che metta la testa a posto, che trovi un compagno o una compagna con la quale formare una famiglia propria, nella quale dovranno nascere certamente dei figli. Da qui il percorso è quello di crescere i figli e arrivare in salute alla pensione, cercando parallelamente di migliorare la propria condizione economica e il proprio status sociale.
Questo è il modello proposto al 99% degli individui, come riferimento per una vita cosiddetta normale, riconosciuta dalla società come naturale e giusta.
Ci sono molti aspetti collaterali a questo percorso. Anzitutto è curioso come ci si trovi continuamente proiettati verso un obiettivo successivo: si studia PER ottenere il lavoro, si lavora PER l’autonomia economica, ci si sposa PER formare una famiglia, si mettono al mondo dei figli PER garantirsi degli eredi o un aiuto negli anni della vecchiaia. Il momento presente è vissuto accidentalmente, come un passaggio inevitabile dal passato all’obiettivo che ci si è posto per il futuro, ma spesso senza riuscire a coglierne e valorizzare le opportunità.
È come se in un altro momento (e non ora), in un'altra situazione (e non questa) si trovassero le condizioni di soddisfazione, benessere e felicità che si cercano. E ancora ci si trova di fronte ad uno scostamento tra l’aspettativa e ciò che si vive.
Una seconda considerazione riguarda il fatto che nel programma sociale non c’è spazio per un’alternativa, c’è un solo modello e discostarsene viene visto nel migliore dei casi come un atteggiamento stravagante, in altri come una devianza, un’anomalia. Un soggetto che decida di concentrarsi unicamente sulla propria realizzazione professionale, ad esempio, viene definito arrivista, così come una donna che deliberatamente scelga di non avere figli viene considerata egoista e colui che cerca di vivere dedicandosi ai propri interessi appare come un materialista superficiale e arido.
Il concetto di normalità viene praticato per imporre il modello e chiunque si allontani da esso diventa un diverso sul piano sociale, professionale e relazionale, estendendone i confini anche alla sfera affettiva e sessuale.
Non adeguarsi al modello diventa un atto di coraggio e richiede un percorso individuale spesso sofferto e difficile perché occorre innanzitutto accorgersi dell’esistenza di queste aspettative familiari e sociali.
È normale vivere in un certo modo, rispettando certi schemi; da che mondo è mondo gli esseri umani hanno sempre fatto così e il sistema legislativo ha provveduto da tempo a regolarizzare quella che è certamente una organizzazione sociale funzionale al controllo del singolo fin nell’intimità dei suoi desideri e della sua vita privata.
Le implicazioni di vivere in un mondo regolato da aspettative così forti e vincolanti può determinare in colui che non riesce a soddisfarle un senso di frustrazione, disagio e malessere molto profondo. Se non riesce ad accontentare l’aspettativa della famiglia, ad esempio, la persona difficilmente è in grado di dubitare che sia sbagliato subire il confronto con un modello stabilito da altri o di cercare una strada personale nella quale dedicarsi ai propri interessi e al proprio stare bene; più probabilmente questa persona penserà di essere inadeguata, incapace, portando il peso del fallimento.
Oppure può accadere che, avendo superato tutte le tappe conformi al modello sociale, l’individuo non provi quella soddisfazione e quell’appagamento che dovrebbero corrispondere alla raggiunta maturità sociale, professionale, economica desiderata e attesa.
Cosa manca ancora per essere felici? Nuovi traguardi da sottoporre all’approvazione di altri?
Questi sono alcuni esempi piuttosto comuni di situazioni nelle quali ci si può trovare; cercare di riflettere su ciò che avviene e sulle emozioni che si provano può servire a saperne qualcosa di più sulle cause che spesso si immaginano esterne a sè. Invece è proprio a partire dai pensieri che la persona continuamente costruisce, dai suoi sogni, le sue aspirazioni, le sue paure che è possibile conoscere quali sono le aspettative profonde che determinano i suoi comportamenti e le sue relazioni sociali.
L’abbiamo considerato in modo piuttosto preciso: le aspettative sono ciò che ci si attende dal partner in un rapporto sentimentale, dal gruppo, dalla società. E parallelamente si è oggetto di aspettativa da quegli stessi soggetti.
Non si tratta di semplice desiderio che qualcosa si realizzi, è qualcosa di più; l’aspettativa richiede di essere soddisfatta in modo piuttosto imperativo e quasi sempre secondo un certo schema che tende a ripetersi.
Ognuno ha in animo qualche desiderio profondo, qualcosa che avverte come necessario per il compimento della propria felicità, pur senza conoscerne esattamente le caratteristiche e le modalità per raggiungerlo.
Potremmo definirle come le fantasie di una persona e non sempre si è consapevoli di esse; talvolta affondano le radici in tempi antichi che non riemergono facilmente, si compongono di frammenti ricavati dalle esperienze dei primi anni di vita che rimangono lì, sepolti dalle esperienze successive, dalle emozioni che via via si sono stratificate nella personalità di ciascuno.
Ognuno è il risultato delle esperienze vissute, soprattutto del come queste esperienze sono state considerate, elaborate, interiorizzate, trasformate in nuove considerazioni, in punti di partenza verso nuovi pensieri.
Una stessa esperienza non produce le stesse elaborazioni in individui diversi e talvolta anche nello stesso individuo; ogni istante le reazioni possono essere diverse, l’impatto di un evento è sempre unico, modificato continuamente dallo scorrere senza sosta dei pensieri e delle conclusioni che si traggono.
Qualcosa però resta fermo nel fluire ininterrotto del pensiero, sono le credenze, i valori che ciascuno ha posto come riferimento per il proprio valutare e decidere di volta in volta. Ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, che si fa o che non si deve fare, ciò che è importante, solido, affidabile, assolutamente certo. Su queste convinzioni poggiano le decisioni dell’individuo, di qualunque individuo ed ognuno ha in qualche modo fondato il proprio pensiero su alcuni valori incrollabili, sui quali confrontare ciò che accade e pensa in ogni momento.
È una funzione ricorsiva del pensiero che ogni volta verifica che ciò che elabora sia coerente con il punto di riferimento, con la premessa. Se è coerente, il pensiero può procedere e arrivare ad una conclusione; se invece ciò che si pensa contraddice la premessa, allora il pensiero si arresta, cambia direzione, deve trovare comunque una conclusione che si attenga a ciò che sta alla base.
Se accade quello….allora io penso questo….; se questo….quindi agisco così.
Naturalmente perché ciò accada occorre pensare che una certa credenza sia assolutamente vera, intoccabile e necessaria. Non può essere una questione arbitraria, perché altrimenti si potrebbe modificarla a proprio piacimento e non sarebbe più un riferimento.
Le fantasie sono rappresentazioni della realtà, proiezioni di come una persona immagina che stiano le cose, sono l’idea di come è fatto il mondo intorno e questa idea è la cosa più preziosa che possiede una persona perché è per definizione ciò che è vero, il fondamento di tutti i suoi pensieri e le sue convinzioni.
Non si può vivere senza certezze, ma sarebbe logico verificare le credenziali di ciò che si crede vero, se non altro per il motivo molto pratico per cui le azioni e le scelte di una persona sono direttamente conseguenti a ciò che essa pensa.
Non basta sapere che sono in molti a pensare una certa cosa per ritenerla fondata o comportarsi in un certo modo perché la tradizione lo richiede; anzi, cercare una solidarietà quantitativa significa escludere a priori la ricerca di argomentazioni valide per la propria idea e adagiarsi nel pensare di essere dalla parte giusta.
Credere in qualcosa senza porsi il minimo dubbio è una condizione pericolosa per la propria intelligenza: a volte in nome di una certezza si è troppo rapidi nel valutare, nel condannare, nell’allontanare da sé chi non la condivide, in una sorta di chiusura volontaria che non sente ragioni.
Le credenze, come le fantasie, vincolano, rimpiccioliscono l’orizzonte delle persone, sono un velo che condiziona il modo in cui si percepiscono la realtà e gli altri.
Sono spesso un film che viene proiettato senza pause, di situazione in situazione, a cicli ripetuti che non possono essere ritenuti casuali.
Le fantasie pilotano la vita a meno che non vengano esplicitate, interrogate, messe in discussione e viste per quello che sono: fantasie appunto, giochi liberamente scelti tra altri possibili giochi per motivi che ciascuno, avendo gli strumenti giusti può conoscere ed eventualmente modificare.
Sono solo fantasie e con esse si può scegliere di giocare oppure no, in modo arbitrario, ossia cessando di esserne giocati. La fantasia rimane, ma si modifica il proprio ruolo decidendo di averne parte attiva, responsabile.
Vi è una differenza sostanziale tra ciò che si subisce come un bisogno e ciò che si sceglie consapevolmente: la posizione è opposta, da una parte la necessità di pensare (e agire) in un certo modo, dall’altra la libertà di decidere cosa si preferisce, cioè una scelta volontaria.
Nel primo caso, le aspettative personali e sociali devono necessariamente essere confermate, altrimenti si incorrerà nella delusione e nel tradimento.
Il concetto di tradimento è strettamente connesso a quello di fedeltà, uno dei valori più saldi in tutte le società umane. Il valore della fedeltà è radicato quanto quello della verità, al quale viene spesso accostato come una conseguenza: se esiste una verità, a questa è necessario attenersi, si procede soltanto nella direzione che si è individuata come vera, affidabile, autentica, e ad essa occorre essere fedeli. Da qui deriva anche il valore riconosciuto alla coerenza: coerenza tra ciò che si dice e ciò che si pratica, coerenza delle proprie idee, coerenza del proprio atteggiamento.
Se il concetto di fedeltà non fosse ritenuto necessario, il tradimento non esisterebbe e le idee, così come i comportamenti potrebbero affacciarsi su nuovi orizzonti.
Ci si potrebbe chiedere a cosa è necessario essere fedeli, in ultima analisi, per non tradire o sentirsi traditi. Se ciò che di più radicato e prezioso in una persona sono le sue credenze, i suoi valori, le sue fantasie, non potrebbe essere che il tradimento abbia a che fare con il non attenersi a queste credenze? Al fatto che l’altro – o il gruppo o la società – non considerino con la giusta importanza le cose in cui questa persona crede fermamente?
Pensando ad un rapporto di coppia, ciò che si chiede al partner è certamente di ascoltare e capire le proprie idee, ma questo capire consiste sostanzialmente nel dare a ciò che credo vero la stessa importanza che io do.
Come si diceva scherzosamente in una conferenza di qualche settimana fa, una donna si sente capita quando le si dà ragione. Battute a parte, ciò che si chiede all’altro – partner, amico o società – è fondamentalmente che questo possa condividere il mio pensiero per confermarmi che ciò che penso è giusto e che le mie verità risultino effettivamente tali.
Si cerca un alleato, un complice che avalli le proprie convinzioni e il proprio modo di agire che, necessariamente, è determinato dal modo di pensare.
La felicità di cui parlavo all’inizio descrivendo le aspettative di un innamorato, ha probabilmente a che fare con questo sentirsi capiti ed appoggiati nel più profondo dei propri pensieri. E allo stesso modo la maggior sicurezza di sé che deriva dal sentirsi amati, è determinata dalla conferma che l’altra persona dà rispetto a ciò che si crede.
Il contrario di tradimento non è fedeltà, ma libertà: una libertà molto diversa dal “fare ciò che si vuole” o una sorta di autorizzazione a seguire i propri istinti di poligamia, tutt’altro!
È qualcosa di molto più complesso e anche di più affascinante, nella misura in cui si pensa alla libertà come alla consapevolezza di sapere perché si pensa ciò che si pensa e perché ci si comporta in un certo modo.
Significa in primis sapere di cosa sono fatte le proprie aspettative rispetto agli altri, a se stessi, cosa ci si attende per il futuro e per quali motivi.
Significa considerare che nel proprio pensiero sono attive delle fantasie che servono come termine di paragone di ciò che accade e che in base ad esse una persona delimita ciò che vuole o non vuole, giudica, decide, progetta, sogna ed ama.
Imparare a conoscere le proprie fantasie senza spaventarsi di esse, significa liberarsi della possibilità di tradire e di essere traditi, perché non si ha più bisogno di vedere verificate le proprie aspettative.
L’aspettativa significa pregiudizio, nel senso di giudicare in anticipo, illusione sul fatto che le cose debbano andare in un certo modo, ossia nel modo in cui si è immaginato dovessero andare.
Quindi, aspettativa significa anche desiderio di potere, cioè la volontà di avere il controllo sulle persone e sulle situazioni per fare in modo che si attengano a quanto si desidera.
Come si diceva poco fa, è un desiderio che diventa imperativo e vincolante per quelli con cui ci si rapporta, a tal punto che – se l’altro manifesta comportamenti e idee diverse da quelle attese – ci si sente traditi, delusi, abbandonati e pronti a tradire a propria volta.
Da tutto ciò si capisce come l’unica l’alternativa a questo gioco di potere, sia la libertà dalle proprie fantasie, sia quelle che costringono l’altro ad entrare nei propri schemi più o meno rigidi, sia quelle delle quali l’individuo è vittima e che lo condizionano in tutto il suo pensare ed agire.
Per concludere ritornando al tema di stasera dopo tutte le varie riflessioni, il titolo della conferenza potrebbe diventare: Ti amo, quindi rispetto la tua libertà e la mia.
È il pensare e ricordare continuamente a se stessi che l’altro è una persona distinta, con idee e desideri propri che possono anche non coincidere con i miei.
È considerare il diritto dell’altro a mantenere le proprie idee, amicizie e spazi personali importante quanto il diritto che io rivendico sulla mia autonomia di movimento e di pensiero.
Infine, è poter pensare di vivere una relazione sentimentale senza sottostare alla paura di rimanere da soli o al bisogno dell’altra persona.
A queste condizioni l’altro può essere considerato un bene che si aggiunge alla propria vita, il compagno con cui condividere momenti ed esperienze piacevoli, una ricchezza e non un bisogno da soddisfare a qualunque costo.
Intervento di Luciano Faioni
Approfitto per dire qualcosa mentre le persone riflettono. Le cose dette sono moltissime e meritano una certa riflessione. La questione centrale in tutto ciò che è andata dicendo Daniela consiste nella possibilità di accorgersi delle proprie fantasie. Con fantasia intendiamo ciò che le persone pensano comunemente, ciò che le persone credono. Le cose in cui si crede difficilmente sono state valutate e considerate attentamente, il più delle volte si crede così, per abitudine, perché l’ha detto qualcuno che si ritiene affidabile, o perché l’ha detto la mamma, anche la mamma per un certo periodo pare una persona affidabile, però queste fantasie, che poi costituiscono il mondo in cui la persona vive, non sono considerate, elaborate, intese, ed è questo il motivo per cui ciascuno si trova letteralmente sballottato dalle cose cui crede, senza avere per altro, queste cose in cui crede, senza che abbiano nessun fondamento. Non ce l’hanno perché se la persona dovesse incominciare a interrogare queste cose, le cose in cui crede dovrebbe compiere un lavoro non semplice perché si tratta di incominciare a mettere in discussione una quantità notevole di cose, e una persona generalmente non ha voglia di fare un’operazione del genere per cui si adagia sulle cose che crede, che sa o che suppone di sapere senza interrogare. Anche il tradimento in effetti, diceva giustamente Daniela, muove da una serie di valori, di cose in cui la persona crede e ha anche detto Daniela che non è necessario credere, anche se appare straordinariamente difficile non farlo però non è necessario. Credere significa in definitiva dare il proprio consenso a qualche cosa che di per sé non può essere provato essere vero, però gli si da il consenso, e una volta compiuta questa operazione ci si muove anche di conseguenza. Non è necessario credere: sta in questo l’avvio a ciò che veniva indicato come libertà, libertà in prima istanza dalle cose in cui la persona crede, credere non è come molti suppongono un bene, non lo è affatto anzi, è la condizione per potere avviare le peggiori catastrofi, come le guerre, che sono sempre guerre di religione vale a dire una verità contro un’altra. Soltanto chi ha qualcosa da difendere è disposto a combattere quindi a uccidere o a morire per le cose in cui crede, se una persona non crede non ha bisogno né di difendere alcunché, né di conseguenza di aggredire alcuno. Supponete che un fondamentalista islamico che ama farsi saltare per aria cessi di credere in Allah, cessi di credere semplicemente, non crede più niente, né in Allah né in qualunque altra cosa, di sicuro non farà più questa operazione, magari si occupa di altro. Credere è un’operazione straordinariamente pericolosa, naturalmente ciascuna religione, ciascun governo fa di tutto perché le persone credano perché solo a questa condizione sono manipolabili: una persona che cessa di credere, cioè non ha più nessun bisogno di credere, cessa anche di essere manipolabile e questo è un problema. Rimane il fatto che la condizione per sentirsi traditi è credere, naturalmente qualunque persona che subisca un così detto tradimento si sente tradita perché è stata addestrata a pensare in questo modo, dico addestramento non a caso, un addestramento continuo a credere in una serie di cose, tutte assolutamente infondate, sta qui la possibilità di potersene sbarazzare all’occorrenza, visto che non sono fondate valgono quanto le loro contrarie …
Intervento: capisco quello che lei dice, ma mi rendo anche conto che è difficile vivere senza credere in qualcosa ...
Vero, però è possibile ...
Intervento: però se potesse dire qualche modo ...
Intervento: mi aggancio a qualcosa che ha letto Daniela e alla conferenza dell’altra volta dove si diceva che le nostre azioni sono chiaramente il risultato delle nostre paure e dei nostri desideri, delle nostre fantasie diciamo … comunque vivere senza fantasie e senza desideri che poi possano cambiare quando ci fanno male perché questi desideri ci mettono in condizioni poi di sofferenza perché viene fuori un tradimento d’accordo ma proprio l’inesistenza di queste fantasie o l’eliminazione totale la trovo una cosa piuttosto utopistica non realizzabile, se no da che cosa uno è spinto? È spinto da che cosa?
Intervento: credo che anche l’esistenza cioè l’inesistenza di motivazioni che credo si possono associare le motivazioni al credere poi anche qui si potrebbe discutere che cosa sia la motivazione ...
Sì diciamo che molto spesso avviene così ...
Intervento: per dire però che senza motivazioni mi sembra arduo, però la voglio mettere in positivo quali sono secondo lei, se uno accetta questo principio, questo relativismo dei valori, quali sono le indicazioni che comunque uno deve ricercare per condurre la propria esistenza?
È una bella domanda, e allora darò una bella risposta. Supponete che a un certo punto vi venga in mente di volere considerare attentamente, per esempio, la realtà, che è una delle cose più solide comunemente intese, più sicure, incominciate per tanto a chiedervi che cos’è, a questo punto naturalmente dovete provvedervi di alcuni strumenti, strumenti che sono strumenti di pensiero soprattutto perché qualunque cosa vi troviate a rispondere a questa domanda, cioè che cos’è la realtà per esempio, dovete a questo punto domandarvi perché avete accolto quella risposta e cosa state facendo esattamente quando vi ponete una domanda, e perché come dicevo accogliete una risposta anziché un’altra, in base a quali criteri? L’osservazione? L’osservazione è un problema, questo già i greci l’avevano notato, perché accade che una persona osservi una cosa e un’altra ne osservi un’altra e che tragga conseguenze e implicazioni differenti, non è un criterio così affidabile, quale criterio dunque? La riflessione, la deduzione certo; per dedurre in modo corretto occorre partire da qualche cosa che sia certo, che sia sicuro. Ci stiamo chiedendo che cos’è la realtà e non abbiamo fatto nient’altro che chiederci che cos’è il che cos’è intanto, anche perché riflettendo in ambito teorico occorre andare molto cauti, è straordinariamente facile trovarsi a dire delle sciocchezze cioè cose che non stanno né in cielo né in terra o comunque non provabili. Quando si discute in abito teorico occorre che le proprie affermazioni siano dimostrabili, provabili o almeno dovrebbe essere così, anche se non sempre lo è, ma provabili come? Con quale criterio? Dove lo troviamo un criterio? Un criterio che sia sufficientemente solido e che ci possa dire che cos’è questa realtà di cui stiamo parlando, a questo punto la nostra impresa si fa ancora più ardua perché qualunque criterio utilizzeremo come faremo a sapere che questo criterio è vero? È necessario? Potrebbe essere che questo criterio sia assolutamente falso. A questo punto molti hanno abbandonato la partita, come dire che non è possibile stabilire una verità ultima delle cose e pertanto se ne può soltanto dire qualcosa intorno ma ciò di cui si tratta rimane inaccessibile, la cosa in sé di kantiana memoria rimane fuori portata, mettiamola così, molto semplice, e questo in fondo è ciò che sostiene anche l’ermeneutica, come dire che il pensiero degli umani si è arrestato di fronte a una domanda del genere, non c’è possibilità di rispondere perché qualunque risposta incomincia a girare in tondo. Incominciare a cercare un criterio di verità, ma se non conosce ancora la nozione stessa di verità perché ancora si deve trovarla come si farà a sapere se il criterio di verità è vero oppure falso? Non lo si saprà mai e quindi si gira in tondo, da qui molti pensatori hanno, come dicevo prima, o abbandonata la partita oppure si sono dedicati ad altro. Ma proviamo a non abbandonare la partita ...
Intervento: mettiamo un dogma ...
Allora il dogma è questo: quello che dico io è vero. Punto. Soddisfatta? Ma la risposta non è forse così soddisfacente. Dicevo che occorre trovare il criterio, per compiere tutte queste operazioni cioè per interrogarci su questo o su qualunque altra cosa ci serve uno strumento, ci serve una struttura. Gli umani sono esseri parlanti e questo è fondamentale, vale a dire che io posso pensare queste cose, cioè posso chiedermi che cos’è la realtà perché sono un essere parlante se no non potrei domandarmelo, e allora ecco che la riflessione verte proprio su questa struttura che consente agli umani di parlare e cioè il linguaggio. Il linguaggio che consente agli umani di potere costruire delle proposizioni, senza il linguaggio non ci sarebbe nessuna possibilità di pensare, di concludere alcunché, non si sarebbe nessuna possibilità né di tradire né di pensare di essere traditi, di amare, di odiare, di fare niente, dunque se questo linguaggio è ciò che è a fondamento di tutto ciò che gli umani possono pensare e quindi costruire allora se noi riuscissimo a trovare il fondamento e cioè questo criterio esclusivamente nel linguaggio forse avremmo trovato ciò che gli umani cercano da sempre e cioè la condizione di tutto; provate a pensare per un istante l’assenza di linguaggio, non c’è più linguaggio cioè voi non potete più pensare, non potete pensare niente, cosa fate? Esistete ancora? È una domanda che è assolutamente priva di senso visto che non c’è nessuno per cui questo esistere abbia un significato, noi possiamo dire che esistiamo in base al fatto che c’è una struttura che ci consente di pensare una cosa del genere se no il problema non si potrebbe porre. Gli umani esisterebbero se non avessero il linguaggio? Questa è una domanda che non ha nessun senso, cioè non ha risposta, non è possibile rispondere in nessun modo, dovremmo uscire dal linguaggio e da lì stabilire se l’esistenza si mantiene oppure no ma a questo punto, in assenza di linguaggio, con che cosa lo stabiliamo? È un grosso problema. Detto questo, considerato che il linguaggio è la condizione per cui gli umani siano in grado di pensare allora questo criterio che cerchiamo non possiamo che cercarlo lì dov’è la condizione per potere stabilire qualunque criterio: qualunque criterio io stabilisca comunque lo creo con il mio pensiero, quindi con la parola, quindi con il linguaggio, se io potessi stabilire come funziona esattamente il linguaggio allora saprei qual è il criterio: è vero tutto ciò che il linguaggio accoglie, falso ciò che respinge. Che cosa respinge il linguaggio? Questo ciascuno lo sa, per esempio una persona non può affermare una certa cosa e negarla simultaneamente, occorre che una parola sia distinguibile da ciascun altra. Provate a immaginare un dizionario, un buon dizionario contiene centocinquanta, centosessantamila vocaboli grosso modo, immaginate che una parola li significhi tutti simultaneamente, potreste ancora parlare? No. Ecco, questa è già una delle regole che fanno funzionare il linguaggio, a questo punto se una persona avesse l’opportunità di sapere, senza potere non saperlo in ciascun istante che ciò che sta facendo mentre parla, mentre pensa, non è nient’altro che costruire sequenze di proposizioni al solo scopo di costruirle, allora le cose incomincerebbero a cambiare. Perché il linguaggio, che diciamo è la struttura di base, costruisce proposizioni quindi discorsi? Per niente, assolutamente per niente, e di conseguenza perché gli umani continuano a parlare? Per niente. Per continuare ad affermare delle cose perché il linguaggio, la sua struttura, li costringe a costruire sequenze che hanno questa forma: premessa, passaggi coerenti con la premessa, conclusione, che non deve contraddire la premessa. Tutto qui, e per tutta la loro esistenza, e da quando esistono, non hanno fatto nient’altro che questo. Poi, facendo questo hanno costruito, inventato tutta una serie di cose ma di fatto ciascuna persona essendo fatta di linguaggio non può fare nient’altro che ciò che il linguaggio la costringe a fare, e cioè costruire proposizioni, proposizioni che concludono con una proposizione che risulti vera. Dicevo che il linguaggio costruisce proposizioni per niente, avete presente il codice genetico? Di cosa è fatto il Dna? In fondo sono quattro aminoacidi, niente di più, che costruiscono proteine. In base alle istruzioni che hanno possono costruire un dinosauro, un bambino, una zanzara, un coniglio, perché cosa? Per niente, sono semplicemente istruzioni, istruzioni che costruiscono delle sequenze e queste sequenze costruiscono proteine eccetera, per niente. Se ci fosse la possibilità di incominciare a riflettere su questo, cioè sul fatto che il linguaggio è per niente e che tutti i cosiddetti valori, immaginati importanti a cui le persone credono, sono di fatto nient’altro che giochi linguistici costruiti al solo scopo di fare funzionare questo sistema operativo che chiamiamo linguaggio, dunque dicevo, se lo sapesse e non potesse non saperlo in ciascun atto di sicuro la sua vita cambierebbe: intanto non avrebbe più nessuna necessità, di credere in qualcosa perché saprebbe che questo qualcosa in cui crede di per sé non è né vero né falso, se gli piace credere che sia vero, crederà che sia vero, se gli piace credere che sia falso crederà che sia falso in base al criterio del momento, quello che gli passa per la testa. Ciò che abbiamo fatto dunque è costruire un discorso che offra la possibilità, che consenta a ciascuno di potere accorgersi di una cosa del genere, che per altro è stata sotto gli occhi degli umani da quando esistono, alcuni si sono avvicinati già molto tempo fa, parlo per esempio di sofisti, sono andati molto vicini, altri invece molto più recenti come Wittgenstein, come Austin e altri, eppure è mancato sempre quel passo, un passo importante e cioè accorgersi quando si riflette attorno al linguaggio che di fatto lo si sta utilizzando, cosa che in nessun modo bisogna perdere di vista in questa ricerca, e se lo si utilizzata di fatto lo si sta applicando cioè si stanno applicando le regole che fanno funzionare il linguaggio continuamente, basta reperire queste regole e voi avete in mano praticamente tutto, la risposta a qualunque domanda visto che è il linguaggio che crea le domande è il linguaggio che crea le risposte ...
Intervento: e quindi sto creando la mia vita ...
Se vuole, sì, anche ...
Intervento: per mezzo del mio pensiero riesco a costruire con il linguaggio creo le mie azioni, io sto costruendo sia nel bene che nel male e ho l’opportunità di scegliere quello che voglio ...
Ha anche l’occasione di riflettere anche su qualche cosa che è ritenuto bene oppure ritenuto male, perché ritenuto bene? perché ritenuto male?
Intervento: perché mi allinea a degli schemi mentali o a degli schemi sociali ...
Sì, però la domanda si sposta ancora, perché si allinea? A che scopo?
Intervento: perché ho voglia di avere dei riferimenti ...
Perché ha voglia di avere riferimenti?
Intervento: perché questi sono indispensabili se no mi muovo fuori dagli schemi ...
È un po’ più complicato non è così semplice, forse ...
Intervento: è collegato al credo di cui diceva prima no?
La persona perché crede in qualche cosa? Questa è una bella domanda, in base a ciò che ho appena detto della struttura di questa cosa che fa esistere gli umani, credere, come dicevo prima, è dare il proprio assenso a qualche cosa che appare essere vero ma la questione potrebbe da una parte essere molto complessa, dall’altra invece molto semplice. Vi dico la parte semplice: le persone credono in qualche cosa perché il linguaggio di cui sono fatti li costringe a concludere con una proposizione vera, necessariamente, così come ciascuno cerca di avere ragione, allontana da sé le cose che sa essere false. Per esempio una persona non può credere vero ciò che sa essere falso, per una questione grammaticale, il linguaggio è quella struttura, per fare una metafora informatica, di hardware che consente la costruzione di qualunque discorso, qualunque discorso è costruito da sequenze, sequenze di proposizioni, queste proposizioni costituiscono i giochi linguistici, se non si intende una cosa del genere allora effettivamente capita di credere qualunque cosa che passi per la testa, in fondo perché non dovrebbe essere vera? Potrebbe esserlo e quindi si da l’assenso, non è né bene né male una cosa del genere semplicemente limita, limita la propria capacità di pensare che invece può non avere limiti tecnicamente e mostrare un’assoluta libertà, libertà dei propri pensieri dalle cose in cui si crede, e soprattutto la libertà di potere leggere anche ciò che le persone dicono, ciò che si ascolta in modo molto più attento e meno ingenuo: la persona si costruisce la propria vita? È ciò che ciascuno fa da sempre, però non è tanto questa la questione, ma porsi di fronte alla possibilità di sapere sempre perché si pensano le cose che si stanno pensando, perché? Da dove arrivano? Cosa le sostiene? Dicevo prima delle fantasie sì certo, diceva che toglierle non è facile, ma intenderle sì è possibilissimo e accorgersi soprattutto che è una fantasia anziché la realtà delle cose, che è già un passo avanti, è una fantasia vale a dire una costruzione che di per sé non è né vera né falsa, mentre il più delle volte viene creduta vera così come la realtà che ci circonda, credere che la realtà esista così di per sé di fatto è un’ingenuità, è una cosa che ormai neppure i fisici credono, perché non è sostenibile, giustamente Daniela mi ha ricordato che è tardi e che le persone devono intervenire …
Intervento: secondo la sua esperienza l’esistenza ha un senso?
Sì, ha quello che vuole lei, non ne ha altri, quello che lei decide che ha, così come quando la persona chiede che cos’è l’amore, l’amore è quello che pensa che sia, nient’altro che questo. L’esistenza ovviamente è un concetto, qualcosa che gli umani hanno costruita, lei si chiede se ha un senso. Intanto occorrerebbe definire l’esistenza e poi definire il senso, concetti che non sono così semplici da definire e è importante puntualizzare questi aspetti perché se si dà per acquisito un certo significato di esistenza dopo si va avanti tranquillamente dando per buono quel significato senza averlo interrogato e quindi senza accorgersi che magari è sostenuto su niente, e quindi l’unica risposta alla sua domanda e cioè se l’esistenza ha un senso è sì, quello che lei vuole, quello che lei decide di giorno in giorno, di minuto in minuto come preferisce. Molti si chiedono se le cose, se l’esistenza stessa come diceva lei o la realtà o il mondo abbiano un senso, è una domanda che non porta molto lontano perché si può rispondere qualunque cosa e il suo contrario indifferentemente, c’è da dire che questo percorso insegna a essere sufficientemente abili ad accorgersi che per una quantità sterminata di domande, compresa questa, è possibile costruire argomentazioni a sostegno, e cioè che l’esistenza ha un senso, e costruire argomentazioni che negano totalmente la possibilità che l’esistenza abbia un senso, con argomentazioni altrettanto forti e altrettanto persuasive ...
Intervento: e la sua esperienza personale?
Io non ho mai esperimentato propriamente il senso dell’esistenza, è una domanda che non ha di fatto un grandissimo interesse anche perché dipende appunto da che cosa io intendo con senso, dipende da che cosa intendo con esperienza e a seconda di ciò che intendo cambia tutto ovviamente, il mio percorso punta su questioni che non siano totalmente arbitrarie ma necessarie, per questo ho lavorato intorno alla struttura del linguaggio e cioè a ciò che è necessario, e con necessario intendo ciò che è e che non può non essere perché se non fosse allora non sarebbe né quella né nessun altra cosa: è il linguaggio che risponde a questa definizione, togliete il linguaggio e si cancella tutto, a questo punto non è che gli umani non esistono, più propriamente non sono mai esistiti, non potendo in nessun modo porsi la questione per nessuno che senso avrebbe chiedersi se le cose esisterebbero lo stesso oppure no? È una domanda che non ha nessuna risposta e quindi nessun interesse, per questo è importante incominciare a riflettere su quella cosa che ci consente di pensarci esseri umani per esempio, e in seguito a questo qualunque altra cosa. Se una persona ha l’opportunità di sapere come funziona il linguaggio allora sa come funziona necessariamente lei, sa perfettamente come funziona e sa che funziona così e non può funzionare in nessun altro modo ...
Intervento: mi scusi, questo modo di pensare ...
Potrebbe diventare un automatismo ...
Intervento: questo modo di pensare si fonda sulla razionalità dell’individuo ...
Su quanto ha di meglio, cioè la sua intelligenza ...
Intervento: però l’individuo è fatto non solo di razionalità ma anche di emozioni, come la colloca questa parte?
Consideri più attentamente la sua domanda, lei parla di razionalità e di emozioni, la ratio non è altro che la capacità di trarre da uno certo elemento considerato vero dei passaggi e una conclusione che non contraddica la premessa, questa è la ratio. A quali condizioni una persona si emoziona? E perché una persona si emoziona di una certa cosa e un’altra no? Come avviene questo fenomeno? Non sarà che per una certa persona una certa cosa ha un valore, e allora questo consente di emozionarsi? Se di fatto questa cosa non avesse nessun valore non ci sarebbe nessuna emozione, se io dicessi che due più due fa quattro, non è che si scateni chissà quale emozione, ora questa semplice considerazione potrebbe indurci a pensare che se per una persona una certa cosa ha un certo valore non è per caso: un valore procede da una serie di considerazioni, di conclusioni, di giudizi che conducono a pensare che una certa cosa sia importante, se non avesse fatte queste considerazioni ma altre, allora non più quella cosa ma un’altra sarebbe stata importante, e allora anche l’emozione in assenza di cose ritenute di valore non si produce, perché qualcosa abbia un valore occorrono dei giudizi, delle considerazioni e perché ci siano dei giudizi e delle considerazioni occorre il pensiero e perché ci sia il pensiero occorre il linguaggio, cioè la ratio. Giungere a delle conclusioni comporta avere fatte delle scelte: buono, cattivo o come fanno le macchine: zero, uno o falso, vero. È il sistema in cui funziona il pensiero di fatto, più propriamente il linguaggio. A scopo prettamente didascalico distinguo fra linguaggio e discorso, non sarebbe possibile ma è solo per fare intendere meglio: linguaggio è soltanto un sistema operativo che fa funzionare tutto, e in questo sistema operativo non è ammessa, per esempio, la contraddizione, mentre nel discorso sì, come sa benissimo in retorica la contraddizione si usa senza nessun problema. Dunque non ci si potrebbe emozionare in nessun modo se non ci fosse questa struttura che chiamiamo linguaggio, è ciò per cui ci sono anche queste cose che gli umani chiamano emozioni, certo, ciascuno le prova continuamente, ma la loro esistenza è debitrice anch’essa di quella struttura di pensiero che si chiama la ratio o ragione. Giungere al limite, al limite della pensabilità, al limite del pensiero, spingersi là al punto oltre il quale non è possibile andare e non è possibile andare perché non c’è uscita dal linguaggio, dal momento in cui si entra nel linguaggio non c’è più uscita, cioè spingersi oltre le colonne d’Ercole, spingersi aldilà dell’immaginabile e intendere di che cosa è fatto tutto, il tutto stesso, il concetto stesso di tutto: questo è ciò che offre intendere come funziona il linguaggio, per questo l’ho posto come quella cosa che gli umani cercano da quando esistono, e cioè il fondamento, lo hanno cercato a modo loro i fisici, i filosofi, i letterati anche i poeti, ciò che è a fondamento di tutto. Molti ci hanno messo dio, alla mala parata funziona anche quello, perché no? Basta crederci, o i marziani no, sono tutte questioni che ovviamente non possono essere né provate, né confutate, di fatto se io affermassi che io sono dio, non lo posso provare ma voi non lo potete confutare ...
Intervento: sì è vero ...
Lo so, però questo non è un criterio sufficiente per stabilire alcunché. Portate invece la ricerca di qualunque cosa vi troviate a pensare alle estreme conseguenze, fino a dove neanche potevate immaginare di arrivare e lì troverete il fondamento e cioè quella cosa che è la condizione per cui voi possiate pensare, per la quale cioè potete porvi delle domande, per esempio; togliete il linguaggio, non c’è più nessuna possibilità di porsi domande, nessuna, e di conseguenza nessuna risposta ovviamente, è il fondamento oltre il quale non si va e dal quale per altro non si torna indietro, provate a pensare: come fare per uscire dal linguaggio? Con che cosa? Occorre costruire un sistema che lo permetta, come si costruisce? Lo si costruisce con il linguaggio ovviamente cioè con sequenze di proposizioni, dove a un certo punto si decide: questa direzione è vera, questa falsa, di qui sì di là no. Funziona così, è molto semplice in effetti la struttura, tutto ciò di cui vi ho parlato questa sera è straordinariamente semplice di una tale semplicità da risultare assolutamente incredibile, eppure è la cosa più potente che sia mai stata pensata perché non offre nessuna alternativa, quando si arriva lì non c’è più niente oltre, si è arrivati a ciò che fa funzionare tutto, compresa la possibilità di pensare che questa cosa fa funzionare tutto …
Intervento: io volevo chiedere ... le domande potrebbero essere davvero tante ...
Domani sera alle nove nella sede della nostra associazione ci incontriamo, tutti i mercoledì ci incontriamo per discutere di questioni teoriche, l’ingresso è libero a ciascuno, la partecipazione è gratuita, ciascuno se vuole venire è il ben venuto, sempre e comunque. Faccia la sua domanda ...
Intervento: le domande sarebbe molte non so se definirlo relativismo ...
No, non è relativismo ...
Intervento: beh comunque a me a dato questa idea di relativismo, ma al di là di questo, lei pensa che ci sia una verità assoluta?
Cosa dovrebbe essere una verità assoluta?
Intervento: se c’è una verità assoluta al di là del fatto che noi non la conosciamo ...
Se ci fosse come la riconosceremmo?
Intervento: non lo so, ma se lo chiedo è perché non lo so ... con verità assoluta intendo dire qualche cosa che potremmo non conoscere e probabilmente non conosciamo ed è quella ed è l’unica, ed esiste, non lo sappiamo lo sapremmo magari tra x anni o nell’infinito ...
Però per poterla riconoscere, adesso o fra mille anni, dovremmo pure sapere che cos’è, perché una questione posta in questi termini è un po’ “religiosa” tra virgolette “esiste una verità assoluta” si può rispondere di sì, di no, a seconda di cosa si intende con verità e cosa si intende con assoluto naturalmente. Abbiamo appena detto che per stabilire che cos’è la verità occorre un criterio e questo criterio occorre sapere se è vero o falso, ma come facciamo a sapere se il criterio è vero o falso se ancora non sappiamo che cos’è la verità? Questo già potrebbe essere un problema, e poi verità in quale accezione? In accezione greca, come disvelamento, alétheia, o quello di veritas latina, molto più forte, oppure la verità di cui parla la logica, o quella di cui parla la fisica o la verità di cui parla la religione, quale verità? Vuole sapere la verità assoluta? Visto che la sta cercando io gliela fornisco, considerato che tra l’altro ci ha anche detto che ama il gruppo, quindi anche me indirettamente, bene: qualunque cosa, qualunque cosa questa sia, questa cosa appartiene al linguaggio, questa è una verità assoluta, perché non è negabile in nessun modo ...
Intervento: nel caso di una sorta di astrazione del linguaggio in cui si cerca una sorta di nirvana quindi il tipo di linguaggio nostro viene escluso e tende a superare il linguaggio, è certo un’astrazione ...
Sì allora qual è la domanda?
Intervento: in questo caso si prescinde dal linguaggio si cerca di superarlo, di trovare ...
No, con linguaggio non intendo il lessico di una persona, ma un sistema operativo, la struttura che consente agli umani di pensare. Sbarazzarsi del linguaggio non è possibile, non è possibile in nessun modo, per uscire dal linguaggio occorre il linguaggio occorre una struttura che intanto consenta di pensare di volerlo fare e poi di costruire un modo per farlo, e tutto questo è possibile solo attraverso il linguaggio, in assenza non è neanche pensabile che venga in mente a qualcuno di uscire dal linguaggio, non gli può venire in mente perché non c’è, né ci sarà mai né questa intenzione, né nessun altra, quindi nessuna attesa, nessun futuro, nessuna aspettativa, nessun desiderio, niente. Sapere come funziona il linguaggio significa sapere come ciascuno funziona e come non può non funzionare, e ha tutte le risposte sottomano ...
Daniela Filippini
Per cui tornando a quello che diceva prima la signora a proposito delle aspettative o a proposito dei valori, non si tratta di rinunciare a tutto, a tutte le fantasie o le cose a cui siamo affezionati, si tratta di sapere di che cosa sono fatte perché abbiamo quelle fantasie e non altre e soprattutto di giocare senza esserne vittima cioè non subirle come un bisogno come può essere una paura che ci condiziona, che ci vincola proprio per il fatto di sapere di che cosa è fatta la si può vivere in un modo arbitrario questa è la differenza fondamentale non è affatto un dettaglio e non si può continuare a credere certe cose semplicemente sapendo che però sono una scelta, una scelta personale e non una necessità
Intervento: fare un percorso a ritroso della serata Ti amo ma ti tradisco a chi vi volevate riferire?
Non è riferita a una persona è riferito a uno dei tanti esempi che si possono fare rispetto a ciò che una persona crede assolutamente vero e che ha una serie di conseguenze molte concrete e che ciascuno può sperimentare: delusione, frustrazione di fronte a qualcosa che si attende fortemente e che poi non si verifica, qualcosa che si crede essere vero, e quindi ci si comporta di conseguenza.
Va bene. Vi do appuntamento domani sera alle nove in via Grassi n. 10.