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Dallo psicanalista al sofista:

il percorso senza ritorno di un itinerario intellettuale

 

Dallo psicanalista al sofista. Il percorso senza ritorno di un itinerario intellettuale. Questo è il tema di questa sera, e in effetti è questo di cui ci stiamo occupando, il passo dallo psicanalista al sofista. Abbiamo detto in varie occasioni ciò di cui si occupa lo psicanalista, abbiamo mosso anche delle obiezioni a ciò che comunemente è inteso come psicanalisi. Cosa comporta questo passo? Da quanto detto negli incontri precedenti risulta che lo psicanalista è colui che si occupa prevalentemente di intendere, attraverso una sorta di decodificazione un linguaggio, che veicolerebbe per dirla così, del disagio o comunque un discorso che occorrerebbe ricondurre a un altro più corretto, qualunque sia l'idea di correttezza del discorso, adesso non ci interessa questo aspetto. Dicevamo come ciascuna teoria psicanalitica muova da una struttura, da una teoria che si pone, in modo più o meno articolato, più o meno elaborato, come un modo di intendere le cose, per cui se interviene un certo discorso questo discorso va corretto con un altro che si ritiene evidentemente migliore. Abbiamo detto che tutto questo non è sostenibile, non è sostenibile fuori da una struttura religiosa, cioè una struttura in cui e per cui credo qualcosa senza che questo possa essere in nessun modo fondato o provato, ma abbiamo anche aggiunto che in effetti provare qualcosa risulta straordinariamente arduo se, naturalmente, si chiede di rendere conto del criterio di prova, se no, no. Stabilisco che la prova è questo, l'applico a quest'altro e basta. Ma la struttura del discorso occidentale è fatta in questo modo curioso per cui pur dicendo che qualcosa per essere creduto, per essere vero, occorre che sia provato, d'altra parte non può in nessun modo provare la prova, né esibire nulla che possa costituire un criterio definitivo di prova. Sapete che ciò che va dicendo ultimamente soprattutto il discorso intorno alla scienza considera che si, la prova non è definitiva, ma pure questa prova è sorretta da qualcosa di definitivo, e cioè l'esperienza, l'esperimento, dunque in definitiva i sensi. Se voi leggete per esempio Popper, trovate che ciò su cui si fonda è la certezza che i sensi non mentano. Qualcuno potrebbe addirittura chiedergli come lo sa e se può provare questa asserzione, e questo non può farlo. Ma allora se abbandoniamo tutto questo, abbandoniamo anche l'idea che qualcosa possa essere provabile, e abbandonando tutto ciò che non è provabile cosa rimane? Qualunque cosa in effetti rimane tale e quale, salvo che non può costringere nessuno ad essere creduta. Ciascuna prova, diciamola scientifica, nell'accezione più ampia di questo termine, immagina che laddove qualcosa sia provato questo debba necessariamente essere accolto da chi non sa opporre nulla a questa prova, cioè ha un valore costrittivo, qualunque persona dotata di ragione e di buon senso deve necessariamente accoglierla perché è vera, è stata provata vera. Potrebbe pensare altrimenti? Difficile dire, perché se pensasse altrimenti allora questo discorso sarebbe costretto ad ammettere l'eventualità che una qualunque prova, di fatto non prova nulla, salvo la correttezza della sua procedura, come dire se che uno sa giocare bene a scacchi, questo non significa che ciò che lui produce, sia qualcosa di assolutamente vero. Cosa c'entra? Nulla in effetti. E` sempre il discorso occidentale, cioè il discorso accreditato che, paradossalmente, impone a qualunque affermazione che voglia porsi come tale di essere provata, ma allo stesso tempo non può in nessun modo provare alcunché. Cioè questa prova diventa qualcosa che viene data in una procedura di controllo, all'interno di altre procedure stabilite, ma verificare il criterio di queste prove, questo non si da. Questo appena per dire come qualunque teoria psicanalitica si ponga come un'interpretazione dei fatti e dei discorsi di qualunque cosa, vale quanto una dottrina religiosa, né più né meno, cioè ha la stessa legittimità: nessuna, vale a dire, unicamente quella che io decido di attribuirgli. Cioè credo che sia così perché mi va così e tanto basta. Posizione assolutamente legittima evidentemente, però riflettendo intorno ad alcune questioni, di cui una parte abbiamo dette, ci siamo accorti mano a mano che c'è una struttura in tutto questo che possiamo chiamare "credere", che ha una importanza e una portata immense. Faccio un esempio banalissimo: se io sto male, lo credo anche oppure no? Oppure sto male però non lo credo. Posso dire una cosa del genere? O c'è qualcosa che non funziona? Non posso dire di stare male ma di non crederlo affatto. E perché no? (Intervento: Perché lo sa) Si, potrebbe pensarsi questo, non lo crede perché lo sa, tuttavia che cosa sa? Ciò che sa è in effetti qualcosa che procede da una sensazione, almeno apparentemente, cioè sente che sta male, ma questo sentire, cioè questa sensazione se, come abbiamo detto non è un criterio sicuramente adottabile in una ricerca scientifica, tuttavia viene accolto in questo caso, se lo sente allora è così. Come si diceva tempo fa, non posso dubitare di ciò che sento, non posso dubitare, se sto male, di stare male. Questione bizzarra questa. E cosa mi impedisce di farlo, stando male dubitare di stare male? Parrebbe una questione senza senso, perché se sto male, so anche di stare male, ma posta in questi termini la questione ha una soluzione? Oppure occorre che troviamo un'altra soluzione, perché questa non ci conduce da nessuna parte, è una sorta di petizione di principio. Oppure lo so perché qualcosa mi consente di dire che lo so cioè c'è una struttura che mi consente di dire che sto male. Però, dice un tale, io mi accorgo lo stesso di stare male, anche se non lo dico, già, e come me ne accorgo? Perché se me ne accorgo, abbiamo detto, allora lo so, necessariamente, cioè non posso accorgermi e non saperlo. Ma questo sapere, di nuovo, ci costringe a immaginare che ciò sia organizzato in un modo tale da consentirmi di poterlo dire, che sento qualcosa, che poi lo dica o no questa è un'altra questione, il fatto è che c'è una struttura che mi consente di pensare che sento qualcosa. Se non esistesse questa struttura, allora non sentirei nulla? Una domanda legittima, no, non sentirei nulla. Assolutamente nulla. Ma non perché diventi insensibile o apatico, non per questo, perché se qualcosa non può dirsi, se non è inserito in una struttura organizzata tale per cui io possa dirlo allora non posso dire né che sento né che non sento, ma allora tutto questo esiste? Proviamo a riflettere bene sulla questione, che cosa dico quando dico che qualcosa esiste? Che cosa intendo esattamente? Dicendo in questo caso, per esempio, che il fatto che senta qualcosa esiste, esiste di per sé, e dicendo questo è come se pronunciassi una parola magica, appunto "esiste", tale per cui ciò per cui esiste, esiste necessariamente. Ma quando parlo di esistenza, cosa dico? E` una questione complessa, ma di straordinario interesse. Se voi ci riflettete un istante, avete immediatamente l'opportunità di accorgervi che se l'esistenza in quanto tale esistesse di per sé, allora sarebbe assolutamente indipendente, effettivamente, da me che la dico per esempio o, per dirla altrimenti, sarebbe fuori dalla parola, esisterebbe così, di per sé. Però a questo punto occorre considerare se un elemento fuori dalla parola possa dirsi, perché finché rimane fuori dalla parola, evidentemente non può dirsi perché è fuori dalla parola e dunque non si dice. Dunque per potere dirsi occorre che sia nella parola. Qualcuno può pensare, può essere fuori dalla parola e, quando lo dico, nella parola, ma se è fuori dalla parola come lo so? Attraverso che cosa potrò saperlo? Assolutamente nulla, come dicevamo prima, occorre che questo elemento sia inserito in una struttura organizzata che mi consenta di fare tutte queste operazioni, se no non posso nemmeno chiedermi se sento qualcosa oppure no, la questione non può porsi in nessun modo e pertanto non "sento" letteralmente nulla. Posso pensare che accada comunque qualcosa, posso pensare questo e qualunque altra cosa, nessuno me la vieta, ma non è di questo che ci stiamo occupando. Ma, ecco, qui comincia a delinearsi la questione del sofista, e cioè di ciò che non possiamo non dire, e non di ciò che potremmo dire se credessimo che le cose stessero così. Questione che interessa poco, perché potrei dire così o potrei dire cosà, potrei dire in qualunque altro modo, in modo altrettanto legittimo ma, dicevo, non è questo che interessa. Perché non ci interessa? Diciamo, non immediatamente, perché da principio ciò che interessa non è tanto ciò che si crede, propriamente, ciò che si crede in quanto tale è marginale, è secondario, ma invece, che cosa consente di potere credere una qualunque cosa. A quali condizioni è possibile credere qualcosa? Di questo esattamente si occupa colui che abbiamo indicato come il sofista, non pertanto, come è avvenuto rispetto alla psicanalisi in buona parte, di ciò che si crede, in quanto foriero di malanni oppure errato oppure da riassettare. Come dire che uno creda, come dicevamo forse l'altra volta, creda in dio, creda alla legge di gravitazione universale, creda alla madonna che piange o creda di esistere, per questo riguardo sono esattamente la stessa cosa. Non cambia nulla, semplicemente ciò che interessa a questo punto è l'esistenza, che si constata in atto, di una struttura che consente di credere, non importa ancora che cosa. Dunque, il passo che abbiamo compiuto in questo istante, è quello dallo psicanalista a colui invece che si occupa non di ciò che si crede, in quanto tale, immaginandolo giusto o sbagliato o qualunque altro attributo gli si voglia apporre, ma considera la struttura che consente di credere, torno a dire, qualunque cosa sia. Si, perché il credere non è, come talvolta può accadere di pensare una cosa naturale o innata, non più di quanto lo sia essere tifosi della Roma o del Torino, tutta la questione dell'innatismo è piuttosto curiosa, una fantasia legittima come qualunque altra. Ciò che si coglie in tutto questo è appunto l'assoluta arbitrarietà del credere, anche se evidentemente la credenza, la sua struttura, è tale per cui ciò che credo molto difficilmente viene pensato come qualche cosa che credo, viene pensato, esattamente, come la realtà. Cosa distingue ciò che credo dalla realtà che mi circonda? Nulla. Assolutamente nulla. Quale criterio dovrei adottare per distinguerli? Quale criterio che non comporti, già da sé, non soltanto una credenza qualunque, ma la struttura che rende il credere necessario, inevitabile. Qual è la struttura che rende il credere inevitabile? Quella che afferma di sé di essere fuori dalla parola e pertanto autogarantita, cioè è così perché è così, assolutamente intoccabile, inamovibile. Le cosiddette leggi della natura sono tali perché si immagina una legge a cui tutte, o rispetto alla quale, tutte sono provvisorie, approssimate. Ma come so che sono approssimate se non so qual è la direzione? Non lo saprò mai, non so se sto andando in un verso o nel verso opposto, non so se sto progredendo o regredendo, anzi non so più nemmeno cosa sia progredire o regredire a questo punto, non avendo riferimenti. Occorre che ci sia un riferimento, quale? Quello che decido che sia tale. Visto che non ho nessun altro strumento per poterlo stabilire è una mia decisione, cioè io stabilisco che è così, posso farlo, nessuno me lo impedisce. Posso incontrare qualche problema laddove qualcuno mi chieda di rendere conto di ciò che ho stabilito, allora mi trovo in difficoltà perché se potrò provare ciò che ho fatto, non potrò mostrare ciò che prova il criterio che ho utilizzato per provare ciò che ho fatto. Stiamo dicendo questo in definitiva, che portando il discorso scientifico, che è oggi il discorso occidentale, alle sue estreme conseguenze, questo si dissolve. Si dissolve necessariamente, ma questa dissoluzione non è poi un gran guaio, anzi, c'è l'eventualità che questa dissoluzione comporti la possibilità di potere accorgersi di ciò che si fa parlando, e cioè di accogliere la responsabilità di ciò che si dice. Vi faccio un esempio, se io racconto qualcosa o dico qualcosa o esprimo un giudizio, qualunque sia non ha importanza, allora posso pensare che le cose che dico rappresentino uno stato di fatto che è fuori dalle cose che dico evidentemente, le mie parole cioè sono soltanto, nemmeno come voleva Aristotele "segni dell'affezione dell'anima", ma segni delle cose come, retrocedendo rispetto ad Aristotele, voleva Peirce. Segni delle cose dunque, cioè mostrano le cose, che è sempre stata la cosa posta come necessaria per garantire che la parola non vaghi sospesa nel nulla. Che cos'è "la cosa"? Adesso non è che ci mettiamo a fare un excursus su tutto ciò che è stato detto su questo, una letteratura sterminata, la sola cosa che ci interessa qui è cogliere come ciascuna riflessione intorno alla cosa appunto, abbia data questa per acquisita, come fuori dalla parola. Cosa intendo dicendo fuori dalla parola? Intendo dire questo, che la parola non la modifica, non la trasforma, può dirla, può enunciarla, può dirla bene, può dirla male ma non può toglierla, perché esiste di per sé. Ciò che inincominciamo a considerare è l'eventualità che non sia affatto così e cioè non tanto che la cosa non esista proprio fuori dalla parola, non soltanto questo, ma che fuori dalla parola non potrei neppure chiedermi se esista oppure no, la questione non potrebbe porsi in nessun modo e allora? Posso dire che esiste lo stesso? E come, e con che cosa? Cosa sto dicendo a questo punto dicendo che esiste? Ho detto varie volte agli amici questa affermazione, che sembra quasi una battuta ma non lo è, di un amico, un certo Sini che diceva: "un giorno, dicono gli astronomi, tutto il sistema solare precipiterà dentro la stella Vega e scomparirà per sempre, bene, da quel momento il pianeta, la terra con tutte le sue storie, gli uomini con tutte le loro vicende, le loro sofferenze ecc., non è che non esisterà più, da quel momento non sarà mai esistita". Che è differente. Potrebbe dirsi: va bene, ma c'è stato prima. Che cosa sto dicendo con questo? Che qualcosa esiste di per sé? Torniamo al punto di partenza. L'esistenza esiste di per sé oppure no? Cosa dico dicendo che qualcosa esiste? Come vedete ci stiamo sempre più approcciando alla questione del sofista, però qui si aggiunge il percorso senza ritorno di un itinerario intellettuale, e alcuni hanno ravvisato una minaccia in tutto questo, per cui direbbe: se è senza ritorno, prima ci riflettiamo, un modo per indicare che le cose che vi ho appena accennate, in un molto rapido molto sommario mi rendo conto, sono questioni che occorre considerare con ben altra precisione ma, giusto per darvi un idea del percorso che andiamo facendo. Ebbene tutto questo se conduce, o può condurre all'impossibilità strutturale di credere, allora in questo senso il percorso è senza ritorno, cioè non ci saranno più né si daranno più le condizioni perché io possa credere una qualunque cosa o il suo contrario. Che non ci siano più queste condizioni non è cosa da poco, perché indica non tanto, come dicevo, che non crederò più a questo o a quest'altro, ma non potrò credere. Perché tornare indietro varrebbe qui la possibilità di credere qualcosa, ma come posso credere qualche cosa se colgo, quindi constato immediatamente e inevitabilmente che questa cosa non è provabile, non può dirsi né darsi come vera, e quindi rimane assolutamente opinabile, è qualcosa che dico, che posso accogliere, che posso considerare, che posso intendere, posso ascoltare, posso svolgere, interrogare, ma non credere. Questo è proprio barrato. Però come vedete posso fare un sacco di altre cose. Tutto questo avviene attraverso una via, che è simultaneamente difficilissima e semplicissima. incominciamo dalla parte semplice, così magari ci accorgiamo che quella difficile non era poi così difficile. C'è questa eventualità: immaginate di trovarvi di fronte ad una affermazione, una qualunque, bene, a questo punto la posizione che si assume generalmente è quella di domandarsi: "è così o non è così?", "credo o non credo?" Dicendo che cosa con questo? Do il mio assenso oppure no? Se lo do allora confermo che è così, che è vero, se non lo è, se non lo do, allora dico che non è vero, posso anche trovarmi nel dubbio naturalmente ma non mi porterebbe molto lontano, perché il dubbio cosa mi dice? Semplicemente stabilire quale delle due sia vera oppure no, ma muove, comunque, dalla necessità che una delle due lo sia necessariamente, oppure nessuna, e quindi un'altra sia vera da qualche parte, che cioè, comunque, ce ne sia una vera, non importa dove né perché, perché se no non posso dubitare, infatti dubiterei di che? Ora che io dia il mio assenso o che non lo dia cambia poco, rispetto alla struttura che andiamo considerando, in entrambi i casi muovo da un'idea e anche da un criterio che mi dice che do il mio assenso a qualcosa che ritengo vera e quindi da quel momento è così, esiste in questo modo ed è il modo più potente. Supponiamo, invece, che io non solo non dia il mio assenso ma neanche che non lo dia, nel senso che non mi si pone affatto la questione di sapere se questa cosa sia così oppure no, se ciò che mi viene detto costituisce una prova oppure no, se cioè devo necessariamente credere questa cosa oppure no, perché se è provata vera e riconosco la validità di questa prova allora non posso non dire che è vera. Perché non possa è un'altra questione. Allora dunque, questa cosa che viene affermata non mi chiede più il consenso o il dissenso, semplicemente si pone come un elemento che interrogo, non per sapere se è vero o falso, perché so già che non potrà provare né l'una né l'altra cosa, lo interrogo per sapere che cosa ha da dire, che cos'altro può aggiungere. Provare che una cosa è vera in un certo senso, è pensare di avere trovata l'ultima parola. E poco importa che questa sia provvisoria. Perché provvisoria? Perché si immagina che ad un certo punto possa darsi quella ultima, effettivamente ultima. Come dicevo all'inizio a noi interessa la struttura, non ciò che dice, propriamente, o ciò che crede. Dunque interrogare un elemento e lasciare che questo elemento si inserisca nella parola e, inserendosi nella parola, cosa fa? Produce altre parole, produce altri significanti, produce una catena di significanti. Se immagino che sia vera allora è così, ma una volta che ho stabilito che è così la questione è chiusa, una volta cioè che ho creduto questo; ma non mi giova a nulla sapere se è così o se è il contrario. Posso invece trarre moltissimi elementi da questa cosa lasciandola dire, in quanto la inserisco nel discorso che mi riguarda e la considero. Cosa produce allora? Quali altre questioni apre? Dove mi porta? A questo punto non ho nessun timore di essere portato dalle parole anzi, posso constatare che forse è la cosa migliore che possa fare, in un certo senso, in quanto è quella che produce maggiori effetti, maggiori rinvii, maggiori rilanci della questione. Potremmo dirla in termini molto spicci in questo modo, io crederei, visto che la struttura del discorso occidentale sembra imporlo, a condizione che questa cosa possa provare sé stessa. Ma come fa? Non può, e allora non ha nessun senso, allora credo una qualunque altra cosa, oppure appunto non credo affatto. La questione dell'itinerario senza ritorno allora si configura qui come il percorrere questa serie di connessioni, di rinvii, che qualunque cosa che io trovi nel mio discorso, da lì mi interroga, mi si impone. Perché se non è né vera né falsa questa cosa, né può essere né l'una né l'altra, allora che cos'è? E` un significante in prima istanza, un elemento linguistico, che in quanto tale dice, dice provocando un rinvio, provocando altri significanti e cioè costringendomi a proseguire a dire. Ed è esattamente questo che segna, per così dire, l'itinerario, il trovarsi a proseguire a dire lungo questo percorso. Ma diceva quel tale, perché ce l'abbiamo tanto con il credere qualcosa? Non è che ce l'abbiamo con il credere, è che non ci importa assolutamente nulla, ciascuno può credere quello che gli pare, la cosa che ci interessa è la struttura, come avviene, come possa darsi, solo questo. Considerando eventualmente che per la sua stessa struttura tutto questo comporta un arresto. Se credo che una cosa sia così, cesso di interrogarla, se credo che un criterio di verifica sia quello necessario, questo criterio sarà creduto per esempio, e quindi, tutto ciò che crederò continuerà a confermare questo criterio e verificare qualunque cosa intorno a lui. Altro è ovviamente considerare questo criterio come una procedura, una procedura linguistica, ma allora questa procedura non sarà più ciò che mi consente di raggiungere la verità o di orientarmi in quella direzione, non può farlo, non può farlo perché esclude la possibilità che possa darsi la possibilità che possa darsi la verità, letteralmente, nell'accezione comune del termine, ma unicamente mi dice che è una procedura perché io prosegua a parlare, fatta soltanto perché il discorso non si fermi, questo solo possiamo dire, tutto il resto è totalmente arbitrario cioè possiamo crederlo oppure no, a piacere. Dunque cosa fa il discorso a questo punto? Continua a prodursi, a produrre sé stesso, ma fa soltanto questo? O fa altro, più nobile e più degno? Possiamo dire che intanto mi consente di farmi questa domanda, che non è poco, tutto considerato. E consentendomi di fare questa domanda che altro mi consente? Mi consente di aggiungere altri elementi, sembra non soltanto che consenta questo, ma imponga questo, in quanto ciascun elemento necessariamente rinvia ad un altro. E dico necessariamente, non arbitrariamente, se non rinviasse a nessun altro, sarebbe isolato. Sarebbe isolato dalla struttura del linguaggio, sarebbe fuori dalla parola, se fosse fuori dalla parola non sarebbe un elemento del linguaggio e pertanto la questione non potrebbe porsi. Però si tratta di considerare allora che lungo questo itinerario, che cosa avviene? Itinerario che è anche una ricerca, perché no? Un andare intorno, letteralmente, a ciò che il discorso mano a mano impone. Qui occorre fare una precisazione perché potrebbe obiettarsi, ma allora qualunque cosa va bene. No, non qualunque cosa, che cosa non va bene, cioè non interessa lungo questo itinerario? Ciò che pone se stesso come fuori dalla parola, cioè ciò che pone se stesso come elemento senza rinvii, come il rinvio ultimo, quindi un elemento fuori dalla parola, altrimenti qualunque altro elemento è immediatamente agganciato ad altri, cioè mostra come e per quali vie giunge a imporsi nella parola, è messo alla prova, ma non per sapere se è vero oppure no, ma soltanto per esibire la sua struttura, per mostrarla, e non posso, dunque, dire qualunque cosa. Se porto alle estreme conseguenze la struttura del linguaggio constato che non soltanto non posso dire qualunque cosa, ma tutto sommato non sono tantissime le cose che posso affermare. Posso dire chiaramente quello che voglio, lo dico continuamente infatti ma, le cose che posso affermare, cioè fermare effettivamente, quali sono, quali sono le cose che non posso non affermare? Quelle che non posso non dire, quelle che necessariamente sono costretto a dire per il fatto stesso che sto parlando, e non posso non farlo dal momento che sto parlando nel chiedermi queste cose. Dunque ciò che non posso non dire, non ciò che posso provare o dimostrare, ma ciò che non posso non ammettere, non accogliere necessariamente perché non ammetterlo comporterebbe non accogliere il fatto stesso che sto facendo queste considerazioni, sarebbe non accogliere il fatto che sto parlando. In questo senso il principio di non contraddizione non è una maledizione accaduta agli umani, come buona parte dei logici hanno pensato. Il mostro, chiamano i logici inglesi il paradosso, infatti il sistema per eliminare i paradossi e le antinomie dalla logica lo chiamano "monster barring" barrare il mostro, impedirgli il passaggio, l'accesso. Ma potrei parlare senza il principio di non contraddizione? No, non potrei. Non potrei in quanto nessun elemento potrebbe porsi nella parola producendo un effetto, in quanto non esisterebbe, non potrebbe essere colto in nessun modo. Faccio un esempio, se io dico che nessun elemento potrebbe essere colto in nessun modo, non sto dicendo che nessun elemento non potrebbe essere accolto, non posso dirle entrambe, simultaneamente, o l'una o l'altra. Se potessi dirle entrambe simultaneamente la cosa si annullerebbe, non direi niente, non direi niente in quanto il mio discorso non prenderebbe nessuna direzione, si arresterebbe. Il principio di non contraddizione impedisce che il discorso si arresti, non posso affermare un elemento nello stesso istante in cui lo nego. E questa è una procedura linguistica, non è un problema del pensiero. Impedisce soltanto che la parola possa escludere se stessa dicendosi. Cosa mi impedisce di fare il principio di non contraddizione? Affermare che non sto parlando. Come posso affermarlo se non sto parlando? Tutti i paradossi inventati hanno questa struttura, da quello del mentitore fino al paradosso degli insiemi di Russell hanno questa struttura, c'è un elemento che nega se stesso mentre, per negarsi, deve affermarsi. Dal primo, quello di Epimenide cretese che dice che tutti i cretesi mentono, ecc... Il non ritorno, se volete metterla così, è la struttura del principio di non contraddizione. In questo senso che ciò che andiamo dicendo e facendo ultimamente, conduce inevitabilmente a una struttura tale che impedisce il credere, esattamente così come il principio di non contraddizione esclude che io possa negare ciò che sto affermando. Allora una credenza o una superstizione, hanno questa struttura, cioè affermano qualcosa che di per sé stesso si nega? C'è questa eventualità. In effetti che cosa fa esattamente? Afferma di sé di essere assolutamente vera senza avere nessuna possibilità di fornire alcun criterio per poterlo affermare. E` una struttura paradossale. Afferma una cosa con assoluta certezza impedendo assolutamente di potere provare questa certezza attraverso gli stessi criteri con i quali ho detto che è assolutamente certa. Abbiamo provato anche l'esistenza di dio, con questo sistema, non c'era signorina la volta scorsa? Si è persa la prova dell'esistenza di dio. In effetti alcuni, con molto umorismo, mi dicevano di stare attento a provare in modo inconfutabile l'esistenza di dio, perché se riusciamo in questa operazione, poi ci dobbiamo credere per forza, se la proviamo in modo inconfutabile. Il non ritorno è dunque questo o ha questa struttura, certamente quella del principio di non contraddizione così come ve l'ho esposto e cioè ciò che mi impedisce di affermare che, per esempio, non sto parlando. Ora, posso dirlo evidentemente, tant'è che l'ho detto, ma il fatto che lo dica che cosa mi induce a pensare se non che ciò che ho detta è una variante, una metalessi, cioè una variazione semantica. In effetti dire che non sto dicendo non potrebbe dirsi, però si dice, si dice a condizione che non possa dirlo e che pertanto, non potendo dirlo, il dirlo costituisca una variante rispetto a questa impossibilità, tant'è che viene colta, come tutte le figure retoriche, appunto come una variante. Se non si desse un'invariante non potrei stabilire una variante, varierebbe rispetto a che? E` un'altra procedura linguistica, certamente, come quella che mi costringe, dicendo "dopo", ad accogliere l'esistenza di un "prima", se no è dopo che cosa? Dopo qualcosa che viene prima, se no, "dopo" non significa niente, non mi dice nulla, cioè non posso farne nulla, quindi è nulla. Naturalmente qui si apre un discorso immenso intorno alla questione retorica, che in qualche modo abbiamo accennata in altre occasioni, chiaramente buona parte del lavoro resta da farsi. Intanto sentiamo se ci sono delle questioni...