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3 novembre 2005

 

Libreria LegoLibri

 

Beatrice Dall’Ara

 

LA FOLLIA DELLA DEPRESSIONE

 

Ormai da qualche anno teniamo incontri qui alla libreria e questa nuova serie è cominciata giovedì scorso con Luciano Faioni, il titolo della conferenza: “Retorica: Il sublime potere della parola”. Il nome della nostra associazione è Scienza della Parola, ed è nata da un percorso di formazione analitica. Il titolo di questi incontri è La scommessa della Psicanalisi e infine il titolo della conferenza di questa sera è la Follia della depressione. Intendo con follia non un confuso pensare così come è immaginato dalla vulgata, il pensiero del folle, ma come sia folle, sia una sciocchezza rinunciare al pensiero perché la depressione è un modo tra tanti di pensare. Questa è la follia: rinunciare al pensiero, cioè rinunciare all’unica ricchezza che ciascuno di noi ha a sua disposizione, l’unica, non ce ne sono altre, la ricchezza dell’umano è il suo pensiero per cui quello che voglio dire questa sera, se mai di messaggio si può parlare, è proprio questo: la sciocchezza del proprio pensiero laddove indugia nella depressione, quel pensiero che non può distrarsi dalla depressione, è una folle perdita di tempo ed è anche l’affermazione di malessere che non ha nessuna necessità, questo intendo quando dico la follia della depressione, perché è folle considerare un modo di pensare, così come passa, come ormai è decretato che la depressione sia malattia. Il pensiero è le cose che si dicono, il modo che ha la persona di pensare, produzione di un corpo malato, qualcosa di fisico non è più qualcosa di psichico, non ha più nessuna velleità di pensiero eppure la depressione è un modo di pensare, è il modo in cui una persona si trova a dire delle cose. Ascoltavo qualche giorno fa una trasmissione un telegiornale in cui c’era un reportage sulla depressione, notizie che vengono date così, questo reportage parlava appunto della malattia della depressione, non è da adesso che si parla di malattia però sempre di più vengono diffuse queste notizie e in questa trasmissione, tra l’altro di Emilio Fede, si parlava di questa malattia che colpisce una persona su dieci, gli scienziati si sono dati da fare e hanno scoperto che la depressione è prodotta da un ormone che una parte del cervello secerne, non so quale parte, comunque un ormone produce la depressione, cioè un ormone produce un discorso, quel discorso che afferma la sua malinconia, il suo stare male, il suo malessere, cioè tutto ciò che sappiamo essere quelle affermazioni che per lo più ci fanno identificare il depresso. Un ormone ha la potenza di produrre un discorso, produce il pensiero. Avevo letto sulla Stampa che, sempre gli scienziati, avevano trovato che un’altra parte del cervello produce felicità, però non hanno ancora messo a punto questa produzione di felicità e per il momento si danno da fare per studiare, per fare funzionare l’industria farmaceutica per impinguire le casse, considerare un modo di pensare una malattia è il vantaggio immediato quello che si può così dedurre senza troppa fantasia: quello di rinforzare appunto le casse delle multinazionali. Si sa che gli psicofarmaci, la medicina della depressione, comportano dei rischi, comportano intanto la dipendenza e poi il pericolo di suicidio, questo si sa, ma questo non interessa molto, in effetti diceva quel reportage che sono molte le persone che sempre di più si ammalano di depressione e nel 2006 la depressione sarà al secondo posto nelle graduatorie dopo le malattie cardiovascolari, va bene! Non c’è nel mondo nessun rispetto per il pensiero, per il proprio pensiero né per il pensiero dell’altro, non si considera il pensiero dell’umano, che può fare qualsiasi cosa, costruisce la tragedia come costruisce la commedia, solo il pensiero lo può fare, solo il pensiero può concludere ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, solo il pensiero può compiere queste operazioni. D’altra parte nessuno si è mai curato di insegnare a pensare alle persone, ma le ha addestrate a credere tutta una serie di cose; del pensiero, di come si pensa non interessa, né si sa in effetti, interessa fornire lo psicofarmaco, fornire la droga, fornire a questo punto il bene, il rimedio, al quale colui che si trova a parlare e quindi a vedere un mondo brutto, a lagnarsi di un mondo, non potrà più rinunciare.  Perché il depresso si lagna, è il suo modo di imporre ciò che crede quindi ciò che il suo pensiero produce, è un lamento, lamenta ciò che subisce da un mondo esterno che lui può solo descrivere, un mondo esterno che in effetti non lo considera, non lo riconosce e allora cerca tutti i modi per essere considerato, perché il depresso vuole essere considerato in un modo o nell’altro, diceva Emilio Fede che queste persone lamentano l’amore, lui parlava del mondo dello spettacolo in cui ci sono molti malati famosi, cantanti e attori, e anche qualche regina, qualche re, il male oscuro così lo chiamava, Il male oscuro era il titolo di un libro che qualche anno fa ebbe molto successo, scritto da uno psichiatra, Cassano, il quale appunto raccontava le paure e le tragedie dei suoi pazienti ricchissimi e infelici. Persone che avevano tutto dalla vita, avevano successo, avevano l’amore, quell’amore che comunque denunciavano come assente, e sono molti e variegati gli aspetti dell’amore, i depressi si lamentano, il loro lamento è che in questo mondo non c’è amore, loro non sanno amare e di conseguenza non sono amati, o il contrario, siccome non sono amati allora non possono amare; insomma fantasie di questo genere, questo è ciò che fa la depressione e da qui il disinteresse per un mondo che non li diverte, e continuano a lagnarsi e lagnandosi non possono che denunciare malessere, non possono denunciare di stare bene, sarebbe una contraddizione, e anche se non lo fanno ovviamente, chi li ascolta ascolta il malessere, se lo fanno, invece, il lamento verte sul loro male, sulla loro malinconia, sulla loro tristezza fino a denunciare la mancanza di interesse per quel mondo che invece diverte gli altri. Sì, gli altri si divertono a parere del depresso, non sanno gli altri del pericolo, di tutto ciò che incombe, gli altri non sanno tutte quelle cose che invece i depressi sanno, i depressi sanno moltissime cose, è per questo che molte volte coloro che si premurano di aiutare il depresso dopo un po’ si stancano, perché i consigli o i modi per aiutare il depresso cadono nel vuoto, dopo un po’ il malinconico riporta il discorso là dove vuole se no non è più interessato, si esclude e non parla. Il lamento è per questa mancanza d’amore, è un eterno innamorato il depresso, innamorato intanto del suo discorso, non può accorgersi che è lui che pensa le cose che pensa e che costruisce ciò che costruisce, questo non lo può fare, non lo può fare perché è troppo impegnato a lamentarsi e quindi a subire e a descrivere quel mondo che lo opprime, del quale decreta non avere nessun interesse…

 

Intervento: sono persone che non riescono mai a camminare con le proprie gambe, non hanno iniziativa

 

Non hanno iniziativa perché non la vogliono avere se lo volessero l’avrebbero…

 

Intervento: stanno bene così, perché sono compatiti…

 

Mica tanto, adesso sono diventati dei malati e quindi sono giustificati finalmente ad ottenere dall’altro lo psicofarmaco, quindi quella felicità che sempre cercano ma mai non trovano, mai possono trovare, perché se no come farebbero a continuare a vivere? Non credono alla felicità o meglio credono troppo nella felicità, sono sempre in attesa di una felicità che deve arrivare ma sanno che non ci sarà mai… salvezza, speranza, per questo, per questo sono depressi… però questa è una forma di pensiero, è il modo di pensare religioso, è il modo in cui le persone si persuadono, dicono a sé delle cose e si persuadono che la realtà sia quella, loro credono, come ciascuno, che la realtà sia per ciascuno identica, che non ci sia differenza, che ciascuno la realtà la possa toccare, percepire e vanno avanti così come ciascuno d’altra parte, ma questo perché non possono considerare il pensiero, non possono considerare alcune cose che forse potrebbero… perché poi sono anche molto intelligenti, sappiamo che molti scrittori, molte persone di genio erano dei depressi e ci hanno lasciato la verità dei loro sentire… ma dicevo della tracotanza della depressione la quale non si lascia persuadere che dal proprio pensiero, cioè dalle cose in cui crede, dalle cose che gli servono a continuare a professare la loro fede e quindi la loro depressione. La depressione è arrogante perché sa, sa un sacco di cose e cerca di imporle con i suoi lamenti, cerca di persuadere gli altri che quel mondo che loro descrivono è proprio orribile, sanno un sacco di cose, il sapere del depresso è quello che infastidisce per questo forse è anche diventata una malattia, infastidisce e deve essere sedato e infatti così avviene, e in questo modo ottengono quell’interesse, quel riconoscimento che vogliono, ottengono quell’amore che chiedono, ottengono di essere amati rinunciando all’unica ricchezza: al proprio pensiero, rinunciando al pensiero a favore di un sapere che per loro è quella realtà che descrivono, loro sanno tutto. Ma se il depresso, la depressione potesse sapere qual è la condizione perché esista la depressione, la condizione perché esista il bisogno d’amore, la necessità di amare, la condizione perché esista la realtà, la condizione perché esista il pensiero, se potesse sapere che la condizione perché esista tutto questo e tutto quello che vogliamo o possiamo immaginare, è che esista il linguaggio, se sapesse questo continuerebbe in quella direzione? Allora la depressione non avrebbe bisogno di continuare a descrivere all’infinito quelli che sono i suoi sentire, non dando nessuna importanza al suo pensiero che è l’unico che può concludere e quindi affermare il proprio malessere, senza linguaggio non esiste il pensiero. Perché non esiste il pensiero senza linguaggio? Che cos’è il pensiero? Il pensiero non è nient’altro che il discorso che la persona fa ininterrottamente, le cose che ininterrottamente dice fra sé e sé quando si parla, quando argomenta, quando conclude, quando deplora, quando giudica, quando gode, perché questo è il suo pensiero: nient’altro che ciò che si dice, ciò che dice a sé in prima istanza e, ciò che dice a sé, allo stesso modo, lo dice alla sua amica, è la stessa struttura, con l’amica può mentire, ma abbiamo visto che utilizza sempre la menzogna anche quando parla tra sé e sé, quando si persuade di quella realtà che vuole, quando pensa, parla e non può non parlare nello stesso modo in cui parla con l’amica, può sembrare molto più veloce il pensiero e forse lo è, perché all’amica deve spiegare certe cose che a sé non deve spiegare, tutte le cose che si sanno non chiedono spiegazioni e infatti sono vere, se non potesse parlare fra sé e sé e quindi concludere quello che conclude che il mondo è bello o il mondo è brutto allora non potrebbe neanche parlare con l’amica perché se si può intendere che parlando con l’amica, perché lei capisca, occorre una stringa di proposizioni cioè elementi linguistici che solo il linguaggio può fornire. La questione più difficile è intendere che io stesso non posso, quando penso, non utilizzare il linguaggio, e che io sto parlando in prima istanza tra me e me, se no non avrei l’opportunità di intendere neppure io quello che mi dico, come non avrei l’opportunità di intendere quello che dice la mia amica che parla con me. Il linguaggio è la condizione del pensiero, e se il linguaggio non conclude, cioè non giudica vero l’ormone degli scienziati, quello che produce depressione, se questa non fosse la conclusione di un inferenza l’ormone e con l’ormone la depressione e la ricerca della felicità non esisterebbe. La condizione per cui io possa pensare e quindi decretare che sono depresso, produrre depressione, produrre il mio subire quel mondo che io costruisco, sono le mie considerazioni, le argomentazioni che avvengono mentre parlo fra me e me, se io non potessi concludere che sto male non lo potrei affermare perché non avrei concluso nulla. Se il depresso sapesse questo allora comincerebbe ad interessarsi al suo pensiero, alla sua parola, al suo discorso, a ciò che conclude e quindi a ciò che afferma in continuazione perché le sue conclusioni partono dalle sue affermazioni, ma ciò che afferma descrivendo il “suo” mondo, si accorge che lo sta fermando? “Tanto sono solo parole” un mezzo fra altri, ma si accorge che sta affermando solo per potere concludere, sempre, ciò che lui crede vero? Ma è vero? È necessario? No. Infatti è il discorso del depresso. Questa è la follia della depressione, non potere considerare che il linguaggio non è un mezzo fra gli altri per descrivere quelli che sono i “miei” sentire, ma è la condizione per cui possa pensarli e quindi costruire la mia depressione. Io sono l’artefice della mia depressione perché non ho la possibilità di considerare come penso e quindi come funziona il linguaggio che, molto banalmente, parte da una premessa e attraverso una serie di passaggi coerenti tra loro giunge a una conclusione vera, cioè mantiene quella premessa che per qualsiasi motivo ho accolto. Ci sarebbero forti vantaggi per il depresso a considerare e accorgersi che è lui che produce con ciò che crede essere vero, il suo malessere, potrebbe fare altro, potrebbe divertirsi, divertere il suo pensiero e chiedersi “come lo sa” che quella realtà che i suoi sensi percepiscono e che descrive nei più piccoli particolari sia proprio vera, come lo sa che è il reale? Bene, mi interessava parlare di questa follia del non potere considerare il linguaggio per quello che è e cioè la condizione per qualsiasi cosa, e che quindi il linguaggio non è un mezzo per esprimere le proprie sensazioni ma è ciò che costruisce le proprie sensazioni e quindi le proprie paure per esempio. Ho parlato abbastanza e forse è il caso che…

 

- Intervento: ci sono molte questioni che sono state toccate che meritano di essere considerate. La depressione, questione antichissima, nota fin da Aristotele e sicuramente a altri prima di lui è sempre stata considerata uno stato d’animo, da alcuni considerato negativamente, altri invece lo hanno considerato in modo più benevolo, come quella situazione che consente a una persona, per esempio, di riflettere su di sé, un’occasione, una chance e così è sempre stata considerata. Anche la chiesa, riguardo agli accidiosi, coloro che non hanno più la fede, che dubitano di tutto, lo ha considerato uno stato d’animo, e uno stato d’animo che cos’è in realtà? È il modo in cui una persona pensa in un certo momento, se poi vogliamo dirla tutta non è altro che la conseguenza di una sequenza di considerazioni. Per esempio se oggi è una bella giornata faccio e una cosa che mi diverte il mio stato d’animo sarà buono, sarò di ottimo umore, allegro etc., se invece mi hanno rubato la macchina e incendiato la casa ecco che il mio stato d’animo si modifica, si modifica in base ad eventi ma in ogni caso al modo in cui io penso questi eventi, il modo in cui funzionano per me e cioè sono delle conclusioni di argomentazioni, ragionamenti, più o meno percepite, più o meno rapide questo non cambia niente. La depressione nel modo in cui è stata posta, e cioè come una chance, un’occasione può già essere interessante, in effetti non ci sono tantissime occasioni in cui una persona riflette su di sé, se non quando si accorge che qualcosa non va nel verso giusto, è l’unica occasione il più delle volte, però volgere uno stato d’animo in malattia è un’operazione quanto meno singolare. Un modo di pensare può essere considerato una malattia e diventa una malattia, ad un certo punto si stabilisce che lo è, e perché è una malattia? Perché l’ha detto la televisione. Beatrice si riferiva alla pericolosità di un’operazione del genere, in fondo si può considerare una malattia anche credere in un dio, perché no? E poi credere che sia una malattia anche il pensare che credere in un dio sia una malattia, e poi il pensare che il pensare che credere in un dio sia una malattia e così via all’infinito. Tutte queste operazioni che sono legittime, in fondo se si considera una forma di pensiero come una malattia allora ne segue inevitabilmente che anche il rivolgersi a dio sia una malattia, o per estensione diventa una malattia il soffrire, il dolore per la perdita di una persona cara o il gioire per una vincita al tressette. Sono tutte malattie? Perché no? Chiaramente può diventare una malattia anche il contrario, o il pensare che tutte queste cose siano una malattia. È un modo di pensare che ultimamente sta avendo un certo successo, gode di un certo credito, non trovo che abbia grande interesse però è una cosa con la quale occorre fare i conti: fare i conti con l’eventualità che qualunque cosa e il suo contrario possano diventare malattia. Cioè la depressione come la salmonellosi, depressione che tra un po’ diventerà anche contagiosa, se un depresso tossisce in vostra presenza diventate depressi anche voi, perché no? Si può dire tutto e anche dimostrare tutto se volete, dimostrare chiaramente in un certo senso, però come dicevamo prima è sufficiente che lo dica la televisione in fondo. Ma c’è un’altra questione importante che Beatrice ha appena sfiorata e che riguarda le neuroscienze che oggi hanno un grandissimo credito e molto seguito anche, le quali neuroscienze incappano ciascuna volta in cui si adoperano a pensare, o almeno a provarci, in un paradosso irresolubile, poiché l’intelligenza non sarebbe nient’altro che una serie di connessioni stabilite da neurotrasmettitori che localizzano a seconda del momento a sinistra o a destra, sopra o sotto non ha importanza questo quanto piuttosto il fatto che questi neurotrasmettitori sono fatti di cellule. Ma allora l’intelligenza è dentro alle cellule o dove esattamente? Cosa trasmettono queste cellule per essere così intelligenti? Ma le cellule sono fatte di elettroni, neutroni e protoni, e dov’è esattamente all’interno dell’elettrone l’intelligenza che viene trasmessa, la capacità di pensare? L’elettrone sicuramente può essere scomposto, si può scomporre talvolta fa un gran botto però in alcuni casi invece si scompone tranquillamente, ma lì dentro che cosa c’è? C’è l’intelligenza? Oppure no? E se non c’è allora perché ad un certo punto c’è nella cellula oppure nel neurotrasmettitore? C’è una sorta di abisso incolmabile, un salto che non è colmabile in nessun modo, prima l’intelligenza non c’è, e poi c’è,  perché? Da dove scappa fuori? Ed è la situazione di stallo in cui si trova la neuroscienza, da qui non c’è uscita, non c’è uscita perché l’unico elemento che consente di considerare ciò che comunemente si chiama l’intelligenza, cioè la capacità di considerare degli elementi, connetterli tra loro e trarre le conseguenze, poi non è altro che questo, se non tiene conto di ciò che effettivamente consente il pensiero e dicevo la possibilità, dato un certo elemento di passare ad altri e giungere ad una conclusione, allora non si intende assolutamente niente, perché è questa la struttura che consente di pensare, quella che comunemente si chiama linguaggio. Linguaggio che non è altro, potremmo definirlo così, in modo pittoresco, come ciò che consente a ciascuno di pensarsi essere umano e assieme con questo qualunque altra cosa, oppure in modo più preciso come una sequenza di istruzioni per costruire proposizioni, ma quali proposizioni? Qualsivoglia, comprese queste che sto dicendo in questo momento, in assenza di questa struttura, di queste istruzioni che consentono di costruire proposizioni e quindi di potere pensare, e cioè di giungere a delle conclusioni non c’è nessuna possibilità di intendere perché gli umani pensano, né perché pensano nel modo in cui pensano, assolutamente nessuna, il pensiero rimane così un’entità che viene ad un certo punto e nessuno sa bene né perché né da dove e come mai. Vedete, la questione è straordinariamente semplice, poiché questa struttura nota come linguaggio è semplicemente quella che consente di pensare e quindi di costruire qualunque cosa, compresa per esempio la considerazione che io in questo momento esisto. Questa affermazione che dice che io in questo momento esisto che cosa significa esattamente? Significa quello che gli fa significare il gioco in cui è inserito, cioè il fatto di avere acquisita tutta una serie di altre cose, ma al di fuori del linguaggio, se non esistesse il linguaggio questa formulazione che abbiamo fatta non solo non potrebbe essere formula ma non significherebbe assolutamente niente, così come qualunque cosa: dire che una certa cosa esiste oppure non esiste è assolutamente irrilevante non fa altro che mettere in moto, mettere in atto delle procedure linguistiche, costruire proposizioni. Che senso hanno? Quello che il gioco in quel momento gli impone, nient’altro che questo. Spesso faccio questo esempio: il fatto che due assi battano due jack ha un senso giocando a poker, fuori da quel gioco non significa assolutamente nulla, e così tutto ciò che gli umani dicono, fanno, pensano da quando c’è traccia di loro, e continuerà ad essere così perché non c’è modo di uscire, non c’è modo di uscire dal linguaggio, dal momento in cui una persona si trova nel linguaggio non può uscirne, si può considerare questo come l’unico limite, non ce ne sono altri perché il linguaggio consente la costruzione di tutto, tutto ciò che è stato fatto, pensato, immaginato, detestato, ammirato etc. è stato costruito da questa struttura. Da dove venga il linguaggio questa è una bella domanda, una domanda però che ci riconduce a ciò che dicevo un attimo fa, e cioè all’impossibilità di uscire dal linguaggio, per sapere da dove viene dovremmo uscirne o comunque trovare quell’elemento che, fuori dal linguaggio, lo costruisce, ma se siamo fuori dal linguaggio non abbiamo nulla per potere pensare alcunché e quindi il problema non può porsi in nessun modo e da nessuno mai. Per tornare alla questione della depressione, diceva giustamente Beatrice che è un modo di pensare, uno tra gli altri e che vale quanto qualunque altro, e che il depresso non ha nessuna intenzione di essere “aiutato” (metto le virgolette perché non si tratta di aiutare proprio nessuno), ma non il depresso in quanto tale, chiunque generalmente non accoglie l’eventualità di mettere in discussione quello che pensa, le cose in cui crede, le sue certezze, ciò in cui e per cui esiste tutto, ciò su cui ha fondato la sua esistenza, perché dovrebbe metterlo in discussione? A che scopo? Con che vantaggio? Nessuno. E in effetti non lo fa, sta benissimo così costruendo proposizioni ininterrottamente, e se qualcuno volesse potrebbe anche pensare al linguaggio come una sorta di sistema operativo, in fondo si può anche pensare così, in modo figurato, in cui unico motivo di esistere, il cui unico scopo è continuare se stesso, cioè proseguire a costruire proposizioni, perché? Per costruire altre proposizioni e così via all’infinito e che di fatto non vogliono dire nulla. Ma se è la persona che si trova in questa condizione che chiamiamo depressione che si rivolge a qualcuno perché è stufa di trovarsi in queste condizioni, allora in quel caso è possibile, è possibile intervenire così come è possibile intervenire in qualunque circostanza, ponendo le condizioni perché una persona compia questo passo, incominci ad accorgersi di ciò che sta avvenendo mentre parla, mentre racconta queste catastrofi che alla maniera di Cassandra prevede per l’umanità. Diceva giustamente Beatrice che il più delle volte non ha nessuna intenzione di uscire, ma come ciascuno non ha nessuna intenzione di uscire dalla struttura in cui si trova, e non ha nessuna intenzione perché suppone che le cose che pensa non siano nient’altro che la realtà delle cose e la realtà delle cose non può essere messa in discussione, e quindi quello che pensa non può né deve essere messo in discussione. E così si va avanti all’infinito almeno da 2500 anni…

 

 

La follia, la sciocchezza estrema di non potere per l’umano considerare la sua condizione e quindi di fronte alle sue affermazioni accorgersi che se continua a lamentarsi lo fa solo perché la struttura di cui è fatto deve costruire delle proposizioni… effettivamente può essere considerata folle e schiocca soddisfare senza potere chiedersi nulla quello che è l’obiettivo del linguaggio: costruire proposizioni.

 

- Intervento: quando si parla in francese o inglese non è tanto la traduzione ma quanto pensare in un altro linguaggio… l’esperienza anche di altri

 

Certo, indubbiamente, cos’è il linguaggio? Il linguaggio è una struttura, una serie di comandi che funziona e permette di trarre delle inferenze, è ovvio che in ciascuna parte del mondo ogni lingua ha le sue regole particolare, per cui ciò che per noi, per esempio, noi italiani è considerata una tragedia per gli africani che hanno un’altra cultura, potremmo dire un’altra esperienza, pensano non è che non pensano cioè il linguaggio, la loro intelligenza, il loro modo di pensare funziona come funziona il linguaggio parte da una premessa e attraverso una serie di conclusioni ricomincia però quello che utilizza per fare girare il sistema ha delle regole differenti in italiano il gioco della depressione è un certo gioco, non so se esiste la depressione per chi parla solo africano, questo non lo so forse no perché le regole dei giochi utilizzati dal linguaggio sono differenti…

 

 

-Intervento: questa è una questione interessante, il fatto che non esistano all’interno di una lingua certi vocaboli per esempio, che consentano la costruzione di certi concetti, questa è opinione di molti, anche filosofi della scienza come Alexandre Koyrè, ché i Greci hanno potuto costruire la tecnica che hanno costruita per via della grammatica di cui disponevano, soprattutto la nozione di essere, senza la quale grammatica non era possibile potere costruire un pensiero filosofico e quindi anche teorico e di conseguenza tecnico, tale come quello dei greci per cui potrebbe essere possibilissimo che in un paese una lingua che non preveda certi vocaboli e quindi non sia in condizione di costruire certi concetti, come per esempio quello di depressione. Appena per precisare che quando parlavo di linguaggio non intendevo la lingua nell’accezione di un sistema di suoni e di significati codificati, la lingua francese è diversa da quella inglese, ma potrebbe, senza andare lontana, stabilire che il piemontese che parla piemontese pensa in modo diverso dal lombardo che parla lombardo, o il torinese in modo diverso dall’astigiano, perché ci sono delle varianti, e quindi questo dovrebbe comportare un modo di pensare diverso e si può restringere ancora di più: nell’ambito di uno stesso condominio ci sono magari dei modi di parlare diversi e quindi le persone parlano e pensano in un modo diverso e la stessa persona, il singolo, impara a parlare e a un certo punto acquisisce degli elementi in più, il suo lessico si modifica, si arricchisce, e quindi dovrebbe pensare in modo diverso e arriva a pensare in modo diverso, come diceva già Cicerone: meglio si parla e meglio si pensa, perché si hanno più vocaboli e quindi maggiore possibilità di costruire nuovi concetti e metterli in discussione. Ma il linguaggio di cui parlavo è semplicemente una sequenza di istruzioni che consentono di costruire proposizioni, in qualunque lingua non ha importanza, perché in qualunque lingua del mondo e in qualunque mondo possibile ci sarà sempre e comunque questa necessità di muovere da un elemento, se si vuole chiamarla premessa se si vuole chiamarla in altro modo non ha nessuna importanza e, attraverso dei passaggi coerenti cioè non contraddittori giungere a concludere. Non è possibile pensare in un altro modo se non questo, qualunque sia la lingua in cui sia stia parlando.

 

Sandro Degasperi?

 

- Intervento: diciamo che l’aspetto… Faioni ha toccato quello delle neuroscienze che è l’aspetto che mi interessa di più e in effetti rispetto alla depressione si tratta di interrogare quello che è il discorso dominante, il discorso comune intorno alla depressione, dico dominante perché è entrato ormai nel luogo comune, la depressione come malattia ma soprattutto mi interroga non tanto la questione della depressione come malattia ma mi interroga più che altro la questione del come accade che ci sia questa necessità di patologizzare praticamente tutto, che ne so? Il fumatore alla televisione… qualche volta accade che anche il fumatore sentivo un medico, c’è stata un po’ la questione… e c’era proprio il medico che diceva “bisogna arrivare a capire che il fumatore è un soggetto malato” detto proprio con molta tracotanza, come si diceva prima e con molta anche sicumera e allora a questo punto che mi interroga ma che ritengo sia anche necessaria e noi attraverso il lavoro che stiamo facendo stiamo proprio di trovare il modo di far giungere questo messaggio, cercare di interrogare a fondo questa questione e intendere qual è, proprio come diceva prima Faioni, intendere qual è la premessa o le premesse di questo discorso, discorso che ha così tanta necessità di patologizzare… pensavo alla creazione del nemico per esempio, la malattia in effetti è una soluzione di comodo perché impedisce come talvolta appunto funziona il nemico, impedisce di interrogare il pensiero quindi la malattia è tutto ciò che allontana un po’ sulla falsariga di ciò che diceva Agostino, la malattia è tutto ciò che si allontana dal pensare comune che è quello che è ritenuto essere poi corretto, quindi il pensare comune o comunque il pensare che prevede la scienza, quelle che sono ritenute le idee della scienza ecco tutto ciò che si allontana da questo diventa automaticamente malattia, diventa malattia qualunque cosa giocare ai videopoker, tutto ciò che si allontana da quella che è ritenuta essere una regola del convivere comune questo viene immediatamente patologizzato, la questione poi si riallaccia al tema delle neuroscienze di cui dicevamo prima… Faioni l’ha espressa molto bene, questo rapporto fra corpo e mente che interroga moltissimo le neuroscienze… adesso non si parla più di corpo e mente ma di corpo e coscienza cioè cercare di localizzare da qualche parte la coscienza e quindi si creano tutta una serie di ipotesi anche le più strampalate ultimante sentivo addirittura si parla di neuroeconomia, si parlava di esperimenti fatti attraverso la risonanza magnetica che avrebbero localizzato la parte emotiva della persona nella zona posteriore del cervello e quella razionale nella parte anteriore… ci sono delle cose che effettivamente hanno quasi del fantascientifico… fantascientifico perché si tratta di intendere quali sono i presupposti teorici per poter intraprendere un percorso di questo genere…ovviamente sono anche informazioni queste che giungono in un certo modo anche al largo pubblico il quale è disposto anche ad accoglierle per tutta una serie di motivi. Quindi noi abbiamo articolato il discorso della depressione per quanto riguarda il funzionamento del linguaggio e quindi collegando il discorso della depressione al funzionamento del linguaggio… la condizione è il linguaggio stesso però prima ancora di giungere a questo, una cosa sulla quale mi sto interrogando da tempo è proprio riuscire ad intendere il discorso comune della depressione come malattia qual è il gioco quali sono le regole di questo gioco, per potere in qualche modo modificarle e far intendere effettivamente che è il linguaggio che costruisce la depressione, è il linguaggio che ne è la condizione, laddove il linguaggio, come ricordava Beatrice, è inteso semplicemente come l’espressione del pensiero come ciò che in qualche modo deve descrivere…

 

Io penso che millenni di metafisica, millenni di un pensiero che ha dovuto costruire un dio per esistere non abbia potuto dare forza al pensiero, come dire? Perché il pensiero sa che può costruire, per esempio, nel caso della depressione le sue fantasie e distrarsi, può descriverle ma non sa il pensiero, cioè non l’ha mai saputo nessuno glielo ha mai insegnato come invece succede per ogni sapere, che può pensare se stesso e quindi può a quel punto sapendo di che cosa è fatto, può e solo a quel punto, agire, può solo a quel punto è ovvio che se ciascuno è abituato a pensare che il linguaggio sia soltanto un mezzo che consente una descrizione delle cose, della realtà così come è data fuori da una struttura è ovvio che non ha nessuna pretesa di potere fare qualche cosa, cioè il pensiero non è considerato è qualche cosa che non è importante nasce da un corpo, nasce da un cervello

 

- Intervento: se non si intende questo si rischia di inseguire questo mito della sostanza della depressione quindi andare alla ricerca di questa sostanza, come se effettivamente questa sostanza fosse da qualche parte

 

Questo serve solo a parlare, serve solo a costruire delle proposizioni vere come nei millenni

 

- Intervento: certo consente anche di proseguire questo inganno

 

È per questo che noi continuiamo a dire qual è la condizione per cui possa esistere la depressione, lo diciamo però è talmente una cosa inconsueta nessuno ci ha mai pensato eppure è semplice trarre queste conclusioni logicamente, è una costrizione logica alla quale assolutamente non si può sfuggire però… così come a un fondamentalista islamico, questo è un esempio che noi facciamo spesso, è pericoloso andare a spiegare che Allah è una favola alla quale crede… e lui ti sgozza, ti uccide prima e poi? Il linguaggio è ciò che costruisce qualsiasi cosa e soprattutto costruisce la possibilità che ha l’umano di orientarsi cioè di sapere dove andare, cosa fare non ha mai considerato questa questione, non può e quindi è ovvio che è abbastanza difficile far intendere la portata del pensiero e la responsabilità che ha ciascuno del proprio pensiero perché quello che avviene in una psicanalisi il lavoro più arduo è quello che di far intendere a colui che pone una domanda di analisi cioè che ha interesse di mettere in gioco quello che crede, è quello di far assumere la propria responsabilità cioè cosa vuol dire? Far tenere conto alla persona che quello che lui dice, quello che lui crede e perciò procura il suo disagio è lui che lo sta producendo, potrebbe parlare d’altro, potrebbe fare altro ma questa è effettivamente la cosa più difficile perché immagina invece che le cose esistano di per sé fuori da una struttura che le produce. Questo è estremamente difficile però questa è anche la scommessa e man mano cercheremo di affinare anche la nostra argomentazione perché le persone possano accedere e tenere conto anche di questo e abbiano l’assoluta responsabilità di quello che vanno dicendo perché se la persona si accorge che è lui che produce il suo star male beh allora comincia ad interrogarsi e dice “ma come avviene?” perché dico le cose che dico? Cioè perché penso le cose che penso e di qui comincia e prosegue ovviamente da una parte il racconto della propria vita e dall’altra l’assunzione della propria responsabilità e quindi l’interesse per quel gioco che è il gioco che gli permette di affermare le cose che producono il suo disagio, ma questa è la chance tutto sommato di poter interrogare il proprio pensiero ed accorgersi della follia del proprio disagio, del proprio star male

 

- Intervento: mi verrebbe da pensare alla depressione come una sorta di cortocircuito… un eccesso di pensiero… e allora l’analisi regolamento questo pensiero…

 

In che senso regolamenta?

 

 - Intervento: aiuta a pensare meglio attraverso l’uso della parola, attraverso l’uso della parola a raccontare i sensi nel rapporto con l’analista, come dire in tempo di guerra quando ci sono priorità diverse e non c’è questo eccesso di pensiero la depressione non c’è

 

Diceva Luciano Faioni prima che quando uno ha delle incombenze da svolgere non è depresso…

 

- Intervento: quindi per quanto mi riguarda viviamo in una società del benessere dove si pensa troppo ma dove non si è abituati a pensare in modo corretto a sviluppare il proprio pensiero in modo che si vada da qualche parte perché invece si torna sempre allo stesso punto…

 

In effetti è un circolo vizioso e solo appunto in un percorso analitico c’è la possibilità di cogliere, di accorgersi di questo circolo vizioso che compie il proprio pensiero laddove non è abituato ad interrogare ciò che costruisce, ciò che crede vero… è ovvio che l’intervento dell’analista punta a fare in modo che quelle premesse che sostengono tutto quel modo di pensare e che lo fanno girare in tondo anche se lui non se ne accorge, l’intervento punta a farlo esplodere questo circolo di fare accogliere alla persona che intanto è lei che sta costruendo queste cose che sta dicendo dopo di che a questo punto incomincia l’analisi vera e propria del proprio pensiero che non è semplice e occorre saperlo fare, intanto occorre sapere inserire quegli elementi che rendano curioso ciò che si dice ma se l’analista crede a ciò che l’analizzante propone non va molto lontano ci crede e il gioco dell’analizzante è quello di mantenere la sua credenza, invece l’analista deve fare in modo che l’analizzante incominci effettivamente a pensare quindi ad uscire da quel circolo vizioso che è dato dalla premessa che sostiene tutto quel discorso e attraverso una serie di passaggi che non contraddicano la premessa conclude e di lì riprende e va avanti all’infinito senza potersi fermare questo è il compito dell’analista.

 

- Intervento: ma è interessante la questione che la depressione scompare di fronte a drammi come già Freud aveva rilevato, in tempo di guerra la persona depressa, se è occupata a salvare la propria pelle tutto il giorno non ha modo né tempo di deprimersi, ha cose molto più importanti da fare, e verrebbe da considerare a questo punto che se la depressione è una malattia, allora la terapia è la guerra…

Intervento: non una guerra mantenersi continuamente impegnati occupati e non affrontare il problema… avere la possibilità di giungere a conclusioni diverse, sempre accorgersi che è possibile arrivare altrove non sempre necessariamente lì alla constatazione della catastrofe o che il mondo va male…

 

- Intervento: anche il sentimento d’amore è una costruzione del linguaggio?

 

Certo, anche l’amore… uno immagina che l’amore sia qualcosa che avviene così, improvvisamente, per esempio, il famoso colpo di fulmine uno non può accorgersi dell’assoluta responsabilità di chi si ama, di chi si vuole

 

- Intervento: mi veniva in mente l’amore dell’animale per i propri cuccioli, sempre linguaggio, no?

 

L’amore dell’animale per i propri cuccioli, questa è una metafora dell’amore materno, noi dell’amore degli animali possiamo solo osservare, descrivere ma in effetti… nessuno si innamora di chiunque ma in un modo particolare che si connette al quel discorso e quindi anche se non in modo consapevole chiaramente trova il modo di collegarsi, di connettersi ad un certo discorso…

 

Bene direi che è l’ora di andare… l’appuntamento è con Cesare Miorin giovedì prossimo con “ La felicità dentro di sé”, grazie a tutti e buona notte.