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La religione del luogo comune

 

3/11/98

 

Proseguendo il discorso della volta scorsa, questa stasera ci occuperemo di un aspetto particolare della retorica, il titolo che abbiamo dato è: "La religione del luogo comune". Abbiamo detto in varie circostanze del luogo comune e del suo utilizzo, nella retorica soprattutto. Almeno in quella antica, il luogo comune aveva una sua dignità come topos retorico cioè il luogo retorico da cui andare a reperire tutte quelle cose che occorre dire per sostenere qualcosa; il luogo dove andare a prendere le cose più opportune a seconda delle circostanze. Che cos’ha a che fare il luogo comune con il discorso religioso? Intanto occorre che definiamo il discorso religioso: intendiamo con discorso religioso, necessariamente, qualunque discorso che si fondi su un assioma particolare e la particolarità consiste nell’essere un atto di fede. Quali sono i discorsi che si fondano su un atto di fede? E innanzitutto, che cos’è un atto di fede? L’atto di fede è l’attribuzione del proprio assenso incondizionato ad una tesi che non può essere provata e ciascuna religione si fonda su questo, ma in che modo questo ci interessa rispetto al discorso che stiamo facendo?

Abbiamo considerato che non soltanto le cosiddette religioni, ce ne sono sparse nel pianeta un certo numero, tre monoteismi più vari politeismi; non soltanto dunque queste strutture hanno la prerogativa di muovere da un atto di fede, ma moltissimi altri discorsi che apparentemente dovrebbero muovere da altri assiomi. Tuttavia, occorre considerare che nel fare un discorso, qualunque discorso, ciascuno necessariamente muove da delle premesse; da queste premesse inferisce altri elementi dai quali trae una conclusione: un qualunque discorso funziona così o non funziona proprio. Il problema che molti incontrano e hanno incontrato è nello stabilire le premesse del discorso, dal momento che c’è una sorta di spada di Damocle che incombe, perché se le premesse sono false, allora anche le conclusioni seguiranno a ruota, dunque si costruirà un discorso falso, mentre invece gli umani preferiscono fare discorsi che almeno sembrino veri, poiché un discorso viene fatto per essere creduto generalmente e pertanto occorre che sia vero, perché non è possibile credere vera una cosa che si sa essere falsa, non riesce, per una questione grammaticale, e allora ciascuno costruisce un discorso in modo tale da giungere ad una conclusione che ritiene vera: da qui l’importanza delle premesse. Anche i discorsi religiosi hanno delle premesse che risultano verosimili, credibili, infatti sono creduti, pare che la più parte degli abitanti del pianeta creda in qualche cosa, quindi paiono credibili. Voi sapete che, adesso parlo del cattolicesimo visto che è la religione più frequentata almeno in Italia, sono state costruite delle prove quindi dei discorsi e questi discorsi hanno delle premesse, ma queste premesse non sono certe, sono fondate sul luogo comune e cioè ciò che è creduto per lo più, dai più. Intendo dire questo: che se i più credono che una certa cosa sia vera, allora è vera; questo è il massimo grado di certezza che un qualunque discorso è in condizioni di fornirvi e cioè che siccome è creduto così, allora è vero, allora è così, tutti credono così, quindi è così. Come vi dicevo non c’è nessun grado di maggiore certezza che si possa offrire da parte di un qualunque discorso che ascoltate. Potremmo dire anche di più e cioè che la premessa da cui muove ciascun discorso, non soltanto religioso, è necessariamente falsa; essendo la premessa necessariamente falsa, sarà necessariamente falsa anche la conclusione; qualcuno potrà chiedersi perché la premessa di un qualunque discorso è necessariamente falsa, qualunque discorso religioso, poi vedremo come ciascun discorso è strutturato in questo modo. Perché un qualunque discorso che miri a stabilire qualcosa, cioè ad affermare qualcosa (in definitiva una proposizione cioè una sequenza di significanti la cui conclusione è sottoponibile ad un criterio verofunzionale) è possibile affermare che è vero oppure che è falso; una frase no, come per esempio una frase musicale, può risultare arduo stabilire se sia vera o falsa, ma una proposizione sì, anche perché è costruita appositamente. Dunque, perché qualunque discorso che voi facciate o che vi accada di ascoltare ha in sé una premessa che è necessariamente falsa? Perché un qualunque discorso muove da una supposizione, questa supposizione consiste nell’inserire all’interno della proposizione un elemento che afferma che almeno un elemento in ciò che si dice è fuori dalla parola, o più propriamente ha un referente fuori dalla parola. Se il discorso non accogliesse questo elemento, allora necessariamente qualunque elemento e dunque qualunque conclusione non potrebbe in nessun modo esser fuori dalla parola, pertanto essendo una costruzione della parola anche il suo referente è al pari una costruzione della parola, come dire a questo punto che nulla sarebbe fuori dalla parola, in nessun modo e per nessun motivo, con tutto ciò che questo implica ovviamente. Potete immaginare quali possano essere le implicazione di una simile affermazione cioè quella che afferma che "Nulla è fuori dalla parola", facendo il verso a Gorgia: "Se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile e se fosse conoscibile non sarebbe trasmissibile", il che comporterebbe ancora l’affermare che qualunque cosa io faccia, pensi, dica, immagini, sogni, sarà comunque sempre e soltanto un atto di parola e nient’altro che questo; questo ovviamente se e soltanto se risultasse che l’assioma su cui si costruisce un qualunque discorso tenesse conto che nulla è fuori dalla parola, ma visto che questo generalmente non avviene, allora i più non hanno torto a credere che esista qualcosa fuori dalla parola e cioè che non tutto sia parola; questo è esattamente ciò che presuppone un qualunque discorso religioso che, muovendo da un atto di fede, necessariamente indica tra le sue premesse un qualche cosa che non può autogarantirsi e quindi per pensarsi vero deve pensare anche che un qualche altra cosa, dal di fuori, lo garantisca: Dio è la persona più indicata per fare questa operazione, da sempre. Però io ho affermato che qualunque discorso che muova da questo presupposto e cioè che esista qualcosa fuori dalla parola è necessariamente falso, quindi qualunque discorso. È un ragionamento molto semplice: supponiamo dunque che affermi che qualcosa è fuori dalla parola, allora come lo so? è una domanda legittima che talvolta può accadere di porsi; uno si chiede come lo so anziché affidarsi ciecamente all’atto di fede che afferma "lo so perché è così"; supponiamo che ci sia qualcuno che invece non è contento di questa risposta. Come lo so è una domanda che quando si inizia a pensare occorre porsi, prima di dire cose che non significano assolutamente niente; dunque una cosa del genere, e cioè che qualcosa è fuori dalla parola, lo so o perché è la conclusione di un ragionamento oppure lo so per esperienza diretta. Se lo so per un ragionamento allora la conclusione di questo ragionamento sarà la conclusione di una serie di inferenze, ma queste inferenze appartengono ad una struttura nota ai più come linguaggio che funziona così: se questo allora quest’altro, ma se quest’altro allora quest’altro, e così via. E dunque, affermare che so che qualcosa è fuori dalla parola per ragionamento è falso. Supponiamo invece che lo sappia per esperienza, allora ho esperienza di qualcosa che, essendo fuori dalla parola, non è dicibile, per definizione. Questo qualcosa di non dicibile rinvia a qualcosa oppure no? Se rinvia a qualcosa è l’antecedente di un conseguente e cioè inserito in quella struttura nota come linguaggio; se non rinvia a nulla allora non rinvia neppure all’esperienza, e pertanto affermare che so per esperienza che qualcosa è fuori dalla parola è necessariamente falso, dunque non mi resta che considerare, come dicevo parafrasando Gorgia, che " nulla è fuori dalla parola" e cominciare a riflettere eventualmente sulle implicazione di una simile cosa; questo ovviamente è l’effetto di una serie di inferenze molto semplici ma che conclude a una considerazione che è questa: o penso in questo modo, e cioè muovo il mio discorso, qualunque discorso, da questo assioma che considera, che afferma che nulla è fuori dalla parola o tutto ciò che dirò sarà sempre necessariamente, inesorabilmente falso. Se volete dirla in termini ancora più drastici: o penso così o non penso; non penso cioè giro a vuoto, giro in tondo, intorno a cose che non hanno nessun senso; possono avere un valore estetico, indubbiamente, ma altro è affermare qualcosa per il piacere di farlo, perché è bello, altro è considerare che ciò che dico è necessariamente vero e pertanto deve essere creduto: questa è una follia, forse la più antica ma sicuramente la più radicata. Allora a questo punto la connessione tra il discorso religioso e il luogo comune può cominciare ad essere più chiara oltre che più semplice, tenendo conto che il luogo comune oggi non è altro che ciò che è creduto dai più per lo più, e ciascun discorso religioso si fonda sull’assioma che ha questa cogenza: il fatto che è creduto da molti. Ma vi dicevo all’inizio che non soltanto le cosiddette religioni, cioè quelle organizzazioni combinate in un certo modo, hanno questa caratteristica, adesso possiamo considerare quello che generalmente è inteso come l’opposto del discorso religioso, fideistico, e cioè il discorso scientifico: vi ricordate di Aristotele e i suoi sillogismi; aveva immaginato un sillogismo che dovesse servire agli umani per costruire un pensiero che non fosse necessariamente un non senso, che non comportasse una costruzione che possa ammettere come vera sia una cosa che il suo contrario, e allora riflettendo bene sulla questione aveva inventato quello che è noto come "sillogismo scientifico" e cioè quello deduttivo che muove da una premessa necessaria. Il problema suo e poi di tutti quelli che lo hanno seguito si è posto immediatamente quando si è cercato o si è voluto stabilire quale fosse una premessa necessaria, perché semmai se ne fosse trovata una, allora saremmo stati salvi perché se la premessa è necessaria, anche tutto ciò che segue è necessario; in definitiva avremmo trovato quella cosa che gli umani inseguono da tre migliaia di anni e cioè quella cosa nota come verità: una sorta di svelamento, di non nascondimento come direbbe Heidegger. Dunque quale premessa risultasse necessaria, questo era il problema; quella che afferma che tutti gli animali sono mortali? No, come faccio a sapere che lo sono tutti, posso eventualmente avere la certezza, semmai, per quelli passati, quelli presenti no perché sono vivi, e quelli futuri? Se un simile ragionamento può soddisfare i più, i meno no, perché non si accontentano di un’induzione come premessa generale, perché non prova assolutamente niente. Se io vi dicessi di avere dei fagioli bianchi; questi fagioli sono bianchi, lì c’è una borsa di fagioli bianchi e allora vi affermo risolutamente che questi fagioli vengono da quella borsa: perché? Così funziona l’induzione, e l’affermazione che afferma che tutti gli animali sono mortali ha la stessa struttura: quella dell’induzione. Ecco perché il problema connesso con il reperimento di premesse necessarie rimane una questione e se non le troviamo allora non ci resta che l’atto di fede, il "credo quia absurdum" diceva Tertulliano, e più è assurdo e più lo credo. Ma se io invece trovassi una premessa necessaria? Allora avrei risolto il problema degli ultimi tremila anni e cioè avrei costruito un discorso assolutamente inconfutabile e innegabile ma soprattutto un qualche cosa di solido su cui costruire un pensiero, anziché costruirlo sul nulla come è sempre avvenuto. Costruzioni anche notevoli e in alcuni casi anche ben congegnate che poggiano sul nulla, assolutamente nulla. Dunque la posta in gioco è di trovare un qualche cosa che ci consenta di non essere religiosi: e se lo trovassimo? Considerate allora una premessa di un discorso, abbiamo detto che occorre che sia necessaria e non negabile in nessun modo: quale premessa soddisfa questo criterio? Nessuna di quelle che sono state trovate negli ultimi tremila anni, assolutamente nessuna. Però è possibile considerare che forse ciò che risulta innegabile, cioè assolutamente necessario è che ci sia un qualche cosa che costituisce la condizione perché io, per esempio, possa pormi queste questioni, possa domandarmi se esiste qualcosa di necessario oppure no. Che cosa è assolutamente necessario? Ciò che non può non essere, e cosa non può non essere se non ciò che vi consente di chiedervi se qualcosa può esserlo oppure no? Senza questa voi non potete domandarvi né questa né nessun altra cosa, né pensare nulla. Ora, questo elemento che risulta necessario e cioè che non può non essere, non è altro che quella struttura nota ai più come linguaggio; senza la quale gli umani non sarebbe tali perché non potrebbero dire di esserlo e pertanto non lo sarebbero. Non aveva torto Gorgia dicendo "nulla è", noi aggiungiamo "fuori dalla parola", facciamo questa modifica; se qualcosa fosse fuori dalla parola non sarebbe conoscibile: con che cosa lo sarebbe? E se anche fosse conoscibile con che cosa la comunico? Questa cosa è necessario che sia? Se non fosse? Se non fosse non sarebbe nulla, assolutamente nulla e gli umani, non che non esisterebbero più, ma non sarebbero mai esistiti. Ha la virtù di non essere negabile in nessun modo; in qualunque modo voi cerchiate di negare che il linguaggio è la condizione necessaria per qualunque cosa, lo farete attraverso il linguaggio, verbale o no e poco importante, sarà comunque una struttura organizzata, quella nota come linguaggio, quella inferenziale. Un’affermazione del genere non può essere negata in nessun modo, contrariamente a tutte quelle altre fatte negli ultimi tremila anni. Volete una definizione di verità che in nessun modo potrete mai confutare? "Nulla è fuori dalla parola": provatevi a confutarla. Ora, siccome la verità per tradizione, definizione e necessità d’uso è definita come ciò che necessariamente è, questo necessariamente è, e dunque è la verità, né più né meno. Non soltanto, ma abbiamo pensato che gli strumenti che possediamo potrebbero consentire di costruire la religione più potente che sia mai stata pensata perché sarebbe non confutabile; tuttavia rimarrebbe un piccolo dettaglio: sarebbe comunque negabile, ma non confutabile, mentre quelle esistenti non ce la fanno ad essere inconfutabili, non sono sufficientemente potenti, nonostante ottimi pensatori ci abbiano lavorato su parecchio. Si tratta allora, date queste premesse di porre della condizioni, visto che abbiamo rilevato che è possibile pensare in termini non religiosi e cioè possiamo costruire delle proposizioni che non richiedano un atto di fede, non dovendo più fare omaggio a nessuna fede allora è possibile muoversi, e le condizioni che abbiamo stabilite sono quelle, le uniche praticabili, le uniche possibili; non ce ne sono altre: le uniche possibili per pensare, essendo qualunque discorso che muova da qualunque altra premessa necessariamente falso. Ovviamente può farsi un discorso falso, ne vengono fatti molti miliardi ogni secondo, però se vengo a sapere che il discorso è falso io cesso di crederci, perché non posso credere vera una cosa che so essere falsa, almeno per una questione grammaticale. Questo ovviamente come la condizione per potere pensare in termini teoretici; è ovvio che tutto ciò che attiene alla retorica non è sottoponibile ad un criterio vero - funzionale; dicevo prima di una frase musicale, ma anche una poesia non potete sottoporla ad un criterio vero - funzionale e stabilire quali siano le possibilità che sia vera attribuendo alle sue variabili differenti criteri di verità, non lo potete fare perché non ha questa esigenza. Non ha l’esigenza di essere creduta vera, ma ha un’esigenza estetica; se ha esigenze educative allora cambia tutto, altrimenti no. è come un bel tramonto, o qualunque altra cosa che vi appare bella, non vi chiedete se è vera o falsa. Vero o falso ha un’importanza fondamentale nella buona parte della vostra giornata, ma non tutta; importa quando interviene, per esempio, una decisione da prendere, o quando pensate. Quando pensate raggiungete una conclusione e quando la raggiungete cercate di raggiungerla in modo tale che sia vera e non che sia falsa, perché? Una persona potrebbe accontentarsi di una conclusione falsissima, ma non lo fa, provate a chiedervi per quale motivo; troverete immediatamente che ciascun pensiero ha sempre come sfondo questa antica questione della verità. Abbiamo detto in varie circostanze come anche tutte le più moderne dottrine che hanno cercato di eliminarla, poi di fatto la mantengono necessariamente come sfondo; lo stesso Popper. Comunque fa sempre da sfondo questa nozione così bizzarra nota come verità: vero o falso, e Aristotele, anche lui non aveva tutti i torti nell’affermare che il suo principio di non contraddizione: una cosa o è vera o è falsa, perché se così non fosse il linguaggio si dissolverebbe. Perché vedete, se io contraddico ciò che affermo, per poterlo fare occorre che qualcosa che affermo sia fermo e cioè sia identico a sé, una sorta di procedura necessaria per il funzionamento di tutta la struttura; se un elemento non fosse identico a sé non potrei costruirne un altro differente: differente da che? Ci sono alcuni principi che non sono è morali, né ontologici, sono semplicemente grammaticali, sono quelli attraverso cui il linguaggio funziona e senza i quali cessa di funzionare. Per questo sono fondamentali, anche uno che costruisce una poesia si trova in questa struttura dalla quale non può uscire. Vi dicevo della retorica; la retorica costruisce qualunque discorso utilizzando delle procedure, utilizzando una struttura che è quella del linguaggio. Affermare la legge di gravità è una proposizione retorica, qualunque legge scientifica è una proposizione retorica cioè non necessaria se ci atteniamo al criterio di necessarietà che ho indicato e cioè come ciò che non può non essere; tutto ciò che il discorso scientifico afferma può non essere benissimo, cioè potrebbe essere altrimenti: ciò che io ho affermato no, in nessun modo. Abbiamo risolto il problema che da tremila anni affligge gli umani.

- Intervento: Vorrei confessare una mia profonda perplessità che riguarda una sua tesi che mi pare essere centrale. Lei sostiene che non vi possa essere alcuna certezza, alcuna affermazione che non possa essere negata, mi chiedo se questo non ci porti a delle conseguenza estremamente pericolose. Mi chiedo quale sia il rapporto di tale approccio con la storia. Portando a titolo esemplificativo ed alle estreme conseguenze questo approccio, questa affermazione ci porta a negare ad esempio il fatto che ci sia stato l’Olocausto, che ci siano stati i campi di concentramento, cioè questo approccio ci riporta a negare qualsiasi evidenza storica?

Non esattamente, però è vero che io ho affermato inizialmente che non c’è nei vari discorsi nessuna possibilità di stabilire nessuna certezza, però poi ho affermato invece, con assoluta certezza, l’esistenza di un’assoluta certezza e cioè, per esempio, mi riferivo alla proposizione che afferma che nulla è fuori dalla parola: questa l’ho affermata con assoluta certezza. Perché con assoluta certezza? Perché non può non essere, in nessun modo. Vede, rispetto a qualunque altra proposizione, comprese quelle storiche, scientifiche, è possibile fare un esercizio, tra l’altro anche interessante e che anche lei può fare e cioè: prima prova in modo assolutamente indubitabile che la sua tesi è vera, dopodiché prova in modo assolutamente indubitabile che la sua tesi è falsa: è un esercizio che si può fare e non è neanche difficile. Ma l’effetto che questo comporta è che, di fronte a moltissime proposizioni ci si pone in un modo differente; ci si trova non più presi nella necessità di compiere degli atti di fede; questo non significa che non si accolgano dei giochi, dei giochi linguistici. Affermare che l’Olocausto è esistito e che sono morti sei milioni di ebrei e che Stalin ne ha ammazzati altri venti e che tutt’oggi si continui l’opera, è vero all’interno di un gioco linguistico che mi permette di affermare che /.../, sono due giochi esattamente veri allo stesso modo. Se accetto queste regole allora è vero, se non le accetto, allora no, e nessuno al mondo potrà persuadermi, perché non ha argomentazioni, perché non c’è nulla di necessario, nell’accezione che indicavo prima, che possa dirmi. Necessario quindi di costrittivo: ciò che ho affermato sì che è costrittivo, perché è la condizione per potere affermare o negare qualunque cosa e fuori da questo modo di pensare potrei affermare che non si pensa, si gira in tondo ad un luogo comune, a qualcosa che è fondato sul nulla e che è negabile da chiunque e in qualunque momento e per qualunque motivo, altrettanto legittimamente di quanto sia affermabile. Ho risposto alla sua domanda?

- Intervento: Sì, ma continuano comunque a permanere queste perplessità.

Come fanno a permanere? Mi spieghi.

- Intervento: Il problema è che mi chiedo in quale sfera si possa mettere in discussione il fatto storico, se rinunciamo all’univocità di un qualsiasi fatto storico, ad esempio l'Olocausto. Io penso di aver colto quello che vuole dire; lei dice che se noi definissimo l’Olocausto secondo un’altra regola essere una marmellata, potremmo negarla, allora così non neghiamo la realtà del linguaggio?

Supponiamo che io neghi che sia esistito l’Olocausto; lei mi dice che c’è stato, io dico di no. Però badi bene che il gioco che iniziamo a fare è un gioco assolutamente rigoroso, di un rigore estremo, altrimenti va bene qualunque cosa. Dunque, io dico che non c’è stato, lei come può persuadermi di una cosa del genere? Mi porta testimoni? E se io non ci credo? Come può costringermi logicamente a credere, a pensare una cosa del genere se io continuo a negarlo, magari dicendo che i testimoni sono stati pagati da lei?

Intervento: Forse una visita ai campi di concentramento le farebbe cambiare idea.

Posso visitare anche i campi di concentramento costruiti a Hollywood: si può costruire qualunque cosa in dieci minuti e smantellarla in molto meno, e allora? Intendiamoci, il discorso che stavo facendo è prettamente logico e cioè intendevo porre questioni che costringono logicamente, poi riguardo alle credenze di ciascuno io posso fare molto poco. Ma ciò che a me interessa è porre le condizioni perché sia possibile pensare in un modo rigoroso; mi è stato detto che l’Olocausto c’è stato, non lo so; posso crederci oppure no e il fatto che ci creda magari è più probabile, ma questo non significa affatto che sia certo. Vede, quando si pensa in termini logici, tutto ciò che non è necessario non serve a niente, è opinabile, è inutile per costruire un pensiero, è utile per costruire le religioni, un sacco di religioni e di sette nascono anche su questo; qual è l’argomentazione più comune: "Ma come, di fronte tutta la bellezza dell’Universo tutto questo può essere nato per caso? No, ci deve essere stato qualcuno che lo ha inventato". Perché? è un’idea come un’altra, posso dire che l’ho costruito io e posso anche provarlo; qualcuno può provare il contrario, perché no. Laddove non si muova da premesse che risultino necessarie, è possibile indifferentemente affermare e negare qualunque cosa con altrettanta legittimità; è questo, seguendo il suo discorso, altamente pericoloso; perché io posso provare non solo che l’Olocausto c’è stato, ma che l’ariana è la razza superiore, e posso provarlo in modo inconfutabile e le persone che ci hanno creduto non sono sicuramente di meno, o che i comunisti sono un pericolo, o che gli africani sono inferiori: lei crede che non lo possa provare, questo come il suo contrario? Posso farlo benissimo, perché muovendo da premesse assolutamente gratuite, posso concludere qualunque cosa e il suo contrario, è sufficiente essere abbastanza abili e si può fare, come molti fanno e stanno facendo. Questa è un’operazione retorica: insinuare che qualcuno dubita dell’esistenza dell’Olocausto; no, l’Olocausto è esistito e noi affermiamo che è esistito perché noi siamo i portatori della verità e a fianco affermiamo anche quest’altra cosa, e se affermiamo che è vera l’una allora è vera anche l’altra: funziona così spesso, i retori lo sanno molto bene come si fa a persuadere chiunque di qualunque cosa: questo è altamente pericoloso.

- Intervento: Ma, mi scusi, forse parlare di credere, è questo che è fuorviante, perché non è che noi ci crediamo, lo sappiamo: sono due concetti diversi.

Infatti è quello che stavo affermando io; io non credo che gli africani siano una razza inferiore, io lo so? Va meglio così?

- Intervento: No, in un caso va bene ma nell’altro no, perché quello degli africani è un suo pensiero, è soggettivo, mentre l’altro è un dato di fatto. Anche prima si è affidato alla religione, dove c’è una credenza.

E se dicessi: io non credo che sia esistito l’Olocausto, io so che non è mai esistito, come la mettiamo? Vede, ci sono questioni che possono essere affermate e che sono necessarie e altre che non lo sono; affermare che l’Olocausto è esistito, affermare che io esisto non sono affermazioni necessarie.

- Intervento: Ma lei parte da certe premesse e le fa diventare come degli assiomi delle cose assolute; prima ha detto che non c’è nessuna cosa al di fuori della parola: chi lo dice questo, lo dice solo lei, non mi convince proprio.

Bene, allora supponiamo che qualcosa sia fuori dalla parola.

- Intervento: Il pensiero è fuori dalla parola.

E con che cosa pensa, come, attraverso che cosa, con quali strumenti, il suo pensiero come avviene cioè lei considera un elemento, da questo elemento passa ad un altro e poi ad un altro.

- Intervento: Ci sono dei bonzi che non parlano per decenni, non hanno bisogno della parola; non è vero che fuori dalla parola non c’è nulla, lei continua solamente a fare degli assiomi e basta.

No, io non faccio solo assiomi, io posso provare che è così; supponiamo che qualcosa sia fuori dalla parola. Se qualcosa è fuori dalla parola come dice lei, come lo sa? Lo sa attraverso un ragionamento, cioè qualcosa a cui lei è giunto, una sua riflessione oppure per esperienza diretta.

- Intervento: Ci sono anche i simboli, i segni.

Ma i segni sono qualche cosa per via di che, per via naturale o perché lei li traduce in qualche modo e quindi afferma che sono segni, perché li vede in un certo modo, sa che una certa cosa è un segno e quindi afferma che è un segno; è così o in altro modo? è così, bene quindi anche il segno insieme con la proposizione che afferma che qualcosa è fuori dalla parola la possiamo affermare o perché è un ragionamento a cui lei è giunto oppure per esperienza diretta, in qualche modo lo ha saputo; quale delle due preferisce, ne preferisce uno o nessuno? Con parola intendo non soltanto la verbalizzazione di qualche cosa, ma l’atto di parola cioè qualunque cosa che io mi trovi a pensare, in quanto è strutturato in un certo modo cioè è strutturato qualunque pensiero in un modo per cui c’è un antecedente, ci sono dei passaggi e c’è un conseguente; quando io giungo ad una conclusione, qualunque essa sia come ad esempio quella per stabilire che una certa cosa è un segno occorre che compia tutta una serie di operazioni e cioè: vedo una certa cosa; so che quella cosa è fatta in un certo modo; so che le cose fatte in un certo modo sono segni e allora affermo che è un segno cioè dico: "questa cosa è così allora è un segno". Ecco, tutto questo pensiero è all’interno della parola, del linguaggio, ma allora come so che qualcosa è fuori dalla parola, per ragionamento o per esperienza? Ciò che è possibile provare in modo assolutamente certo è ciò che in nessun modo può essere negato; logicamente lo posso fare benissimo e non c’è nessuna cosa che logicamente possa costringermi all’assenso, a dire "sì è così", perché io posso sempre negarla, ma non soltanto, posso costruire delle proposizioni che dimostrano esattamente il contrario e che sono fortemente credibili, perché costruite per essere tali. Mentre io ho affermato qualcosa che in nessun modo può essere negato, né da voi né da nessun altro, perché se lo fate utilizzate per farlo esattamente ciò stesso che dite di negare: per questo non lo potete fare. è chiaro che occorre un certo esercizio logico e retorico per potere divertirsi con questi aspetti, e cioè portare il pensiero alle estreme conseguenze, là fin dove può arrivare e oltre il quale punto non può andare. Possiamo dirla così: la proposizione che afferma che nulla è fuori dalla parola è una proposizione che non può essere negata perché in qualunque modo io cerchi di farlo dovrò utilizzare comunque esattamente ciò stesso che sto affermando che non esiste, e questo logicamente non si fa.

- Intervento: La mia domanda è questa: nulla esiste fuori dalla parola, e mi riallaccio a un discorso accennato la volta scorsa, dipende sempre dai linguaggi che si usano?

Se le proponessi questa definizione: che il linguaggio è quella struttura che mi consente di chiedermi che cos’è, per esempio. È una definizione la più ampia possibile, è la struttura che mi consente di domandarmi questo come qualunque altra cosa: quindi accogliamo questa provvisoriamente come definizione.

- Intervento: Ma se io provo dolore, anche se dentro di me posso esprimere diverse proposizioni, di per sé nessuna di quelle proposizioni è necessaria; io il dolore lo percepisco, come posso percepire qualunque altro stato d’animo senza doverci riflettere sopra , è qualcosa che può essere spontanea, però non essendo linguaggio, allora a quel

punto non dovrebbe esistere.

Vediamo l’emozione o la paura, il dolore, qualunque cosa. Supponiamo che lei sia fuori dalla parola, non ha accesso, non esiste; già a questo punto lei ha risolto il problema; ma andiamo più a fondo della questione. Lei parla del dolore, della gioia o di qualunque altra cosa; quando parla di queste cose lei attribuisce a queste sensazioni qualche cosa cioè il dolore per lei è un qualche cosa, non è nulla. Ma come lei ha attribuito a questo significante gioia, emozione, una serie di cose; tutta questa serie di cose che le danno l’idea immediata del suo dolore che le fanno capire che è dolore e non gioia, perché lei non si sbaglia a riconoscere le due cose, cioè lei sa quello che sta provando, e lo sta provando perché questi significanti sono inseriti in una combinatoria, in una catena linguistica: se non lo fossero la parla dolore non significherebbe assolutamente nulla, però lei continuerebbe a dire che prova dolore; e no, prova che cosa? Dà un altro nome, cambia nome e tutte le volte che prova quella "parola" prova quella sensazione. Voglio dire questo, ed è l’obiezione che generalmente viene fatta: ma gli animali cosa fanno? C’è un problema rispetto agli animali ed è che qualunque cosa noi diciamo degli animali, gliela attribuiamo noi: viene il sospetto che una cosa del genere non sia del tutto marginale, visto che qualunque cosa è sempre una nostra attribuzione, non ce l’hanno detto; io posso dire degli animali qualunque cosa, ma lo dico io, non loro. Per quanto riguarda i vari linguaggi, più che linguaggi io a questo punto intenderei la struttura non un linguaggio; cioè posta la definizione così come l’abbiamo data come la condizione perché io possa chiedermi che cos’è il linguaggio. A quali condizioni posso chiedermi che cos’è il linguaggio? Che ci sia una struttura che me lo consente senza la quale non posso fare niente; né chiedermi questo, né qualunque altra cosa, né se provo dolore, né se non lo provo e pertanto: fuori dalla parola il dolore non esiste. Non soltanto il dolore ma neanche l’esistenza esiste fuori dalla parola, perché lei può divertirsi a riflettere anche su questo: l’esistenza esiste di per sé o per altro? Se esiste di per sé, come? Se esiste per altro, chi è che la fa esistere? Il linguaggio perché la dice, allora può parlare di esistenza e dire che una cosa esiste, ma vi dirò ancora di più. Un giorno, supponiamo di fare un gioco di fantascienza, dicono i nostri amici astronomi, fisici, che un giorno tutto il sistema solare si schianterà contro la stella Vega, anzi siamo in rotta di collisione ad una velocità iperbolica entro qualche milione di anni; a quel punto ci sarà la collisione, l’impatto: da quel momento tutto si risolverà in un botto. Da quel momento, tutto ciò che è dell’umanità, della Terra con le loro storie, vicende, etc., non è che non esisterà più ma non sarà mai esistito che è molto diverso: perché qualcosa esista occorre che ci sia qualcuno che lo dica che esiste altrimenti non avrete nulla che vi consenta di affermare che esiste in nessun modo e soprattutto per nessun motivo.

- Intervento: Volevo tornare alla supposizione che qualcosa fosse fuori dalla parola, ma questa supposizione è comunque un atto linguistico, questo qualche cosa è comunque un soggetto di una proposizione, per cui questo qualche cosa per poter essere supposto deve essere già all’interno di una combinatoria linguistica, quindi una proposizione che suppone che un qualcosa sia fuori dalla parola è contraddittoria?

Necessariamente, non c’è via d’uscita, in nessun modo, da qualunque parte la si consideri, per quanto vi sforziate. L’errore che fate di continuo consiste nel supporre che i discorsi che fate siano necessariamente veri, che affermino qualcosa che è così, mentre potreste con gli strumenti che avete provare esattamente il contrario. Tutto è una costruzione, anche tutto ciò che vi ho detto è una costruzione, cioè sono affermazioni retoriche, confutabili alcune, negabili alcune altre, alcune non negabili né confutabili, quelle che vi ho indicate come tali. Tutto ciò che ho fatto questa sera è soltanto indicare che i discorsi che vengono fatti, tutti i discorsi tranne alcune proposizioni che vi ho affermato che non sono negabili, tutti gli altri sono negabili: questo non vuol dire che non siano piacevoli, interessanti, piacevoli, ho soltanto detto che sono negabili, confutabili; non sono necessariamente veri, sono veri all’interno di un gioco linguistico.

- Intervento: Lei prima affermava che gli animali esistono in quanto noi ne parliamo, e così?

Si è esattamente così: supponiamo che nessuno potesse mai dire che esistono gli animali, allora cosa esisterebbe; supponiamo che nessuno potesse dire che esistono gli animali, allora che cosa esisterebbe, chi esisterebbe se nessuno lo può fare, se nessuno lo può dire ? E quindi, affermare che esistono è assolutamente improprio; possiamo dire che esistono, posiamo dire che esiste qualunque cosa e il suo contrario. Questa è una questione antica, per esempio ad un certo punto gli umani hanno cominciato a considerare che l’esperienza fosse più importante, più attendibile delle deduzione logica; come sapete per i Greci l’esperienza era considerata spregevolmente, soltanto il ragionamento logico aveva dignità di giungere alla conclusione di qualche interesse, l’esperienza nessuna; poi con Bacone e altri si è cominciato a pensare che l’esperienza avesse un fondamento; il problema è che in nessuno dei due casi è possibile giungere ad affermazioni necessarie: posso affermare che gli animali esistono, posso affermare che non esistono, ma tutto questo non significa assolutamente niente, nel senso che non è necessario, è negabile, è confutabile, è un’operazione retorica, è una poesia; dire che gli animali esistono, dire che la forza di gravità esiste, che il sistema solare viaggia a velocità folle verso una catastrofe, è comunque una poesia, un’affermazione retorica, come dire che è un bellissimo tramonto: ha la stessa struttura e soprattutto la stessa validità.

- Intervento: Come spiega il fatto che siamo andati sulla Luna?

Ci sono taluni che affermano che questo viaggio non è mai avvenuto e che è stato costruito negli studi cinematografici, però non c’è la certezza, così non c’è la certezza che Kennedy sia stato ucciso da …..

Intervento : Però c’è la certezza che è stato ucciso.

Certo c’è la certezza che è stato ucciso, all’interno di un gioco linguistico fatto in un certo modo seguito dai più, allo stesso modo in cui c’è la certezza che sia esistito l’Olocausto.

- Intervento: In quale modo si può uscire da questi giochi linguistici?

No, non è possibile uscire dai giochi linguistici, è possibile accorgersi che lo sono, e questo cambia molto. Non è possibile non fare dei giochi linguistici perché il linguaggio per funzionare necessita di una struttura che potremmo indicare come una specie hardware che lo fa girare e poi un software che è tutto ciò che questa struttura costruisce: emozioni, affermazioni, negazioni, affermazioni, rabbie, palpitazioni; sono tutti giochi linguistici che hanno delle regole come tutti i giochi in quanto un gioco senza regole cessa di essere tale e allora la più parte di giochi linguistici utilizzati dai più prevedono tutta una serie di cose. Fuori da un certo gioco con delle regole, tutto quello che dico non significa assolutamente nulla; occorrono delle regole per fare funzionare il tutto, senza quelle regole non funziona nulla.

- Intervento: Prima ha detto che tutte le religioni muovono da premesse che sono confutabili a meno che ce ne sia una fortissima che non possa essere confutata, come si pone un ateo davanti a questa situazione? Un ateo ci pensa a confutare o non confuta e decisamente dice che non crede a nulla, c’è ateo e ateo o c’è solo un tipo di ateo?

Certo, io ho generalizzato la questione del discorso religioso come un qualunque discorso che muova da un atto di fede quindi non soltanto i discorsi che vengono svolti all’interno di istituzioni di un certo tipo note come religioni. La più parte delle istituzioni, in qualunque Stato, funziona in modo religioso e ciascun cittadino viene addestrato a credere, a credere in qualunque cosa; perché più crede e più lo stato funziona, se dovessero cessare di credere, sarebbe un problema perché molte delle cose che vengono dette, non essendo più credibili creerebbero molti problemi.

Quindi due cose vi ho dette stasera: una che non c’è uscita dal linguaggio e l’altra che qualunque cosa si dica, questa qualunque cosa è retta da regole di quel gioco che si sta facendo: giochi diversi, regole diverse.