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LE FIGURE RETORICHE DEL DISAGIO: L’ANGOSCIA

 

28/4/1998

 

Possiamo iniziare dal titolo di questi quattro incontri che faremo, e cioè "Le figure retoriche del disagio". Già indicandole come figure retoriche diamo un’indicazione rispetto a ciò di cui si tratta, anziché malattie psichiche o organiche che si vogliano immaginare: questi quattro incontri verteranno intorno all’angoscia (questa sera), poi l’anoressia, l’ansia e la depressione; sono le figure attualmente più diffuse del disagio. Dunque l’angoscia, psicanalisi dell’angoscia: l’angoscia è una delle sensazioni più diffuse in questo ultimo secolo, ma non soltanto; sapete che in termini precisi ha cominciato tal Kierkegaard a parlarne, ponendo l’angoscia così come poi generalmente viene intesa, come quella sensazione che è prodotta dal fatto che ciascuno è preso in una continua possibilità, ma ciascuna di queste possibilità, per esempio di progetto, di fare, di qualunque cosa, non offre nessuna garanzia; qualunque decisione io prenderò, questa non ha nessuna garanzia di sortire gli effetti che mi auspico che sortiscano. Quindi un primo modo per approcciare la questione dell’angoscia intorno alla difficoltà che gli umani incontrano nel progettare o nel progettarsi, come dirà un po’ dopo Heidegger. Mentre Kierkegaard pone la questione dell’angoscia unicamente nei termini prettamente religiosi, alternativa che lui offre all’angoscia è da una parte il suicidio, dall’altra la fede; non è che offra molte possibilità, in effetti. Qualche tempo dopo Heidegger riprende la questione in termini leggermente differenti supponendo nell’angoscia una sorta di destino degli umani, il loro essere nel mondo non è altro che l’essere per la morte, in definitiva, ma essere per la morte qui non tanto da intendere come la paura e l’attesa della morte, quanto piuttosto la morte come ciò che rende l’esistenza impossibile: per cui di fatto cosa avviene? Che ciascuno progettandosi e progettando si trova ciascuna volta preso anche lui in infinite possibilità, ma di fatto poi ciascuna volta è preso in una decisione, e quella decisione renderà nulle tutte le altre possibilità. Secondo lui (Heidegger) è una chance l’angoscia, in quanto sbarazza o dovrebbe sbarazzare tutte le possibilità che di fronte alla decisione sono risultate nulle e consentire di prendere atto della decisione attuata e quindi trovarsi nell’attuale, in ciò che si è deciso; l’unica cosa degna di essere considerata. Poi, poco tempo dopo anche Sartre nell’Essere e il Nulla affronta la questione, ma la sua nozione di penuria non è molto lontana da quelle precedenti, in ciascun caso è sempre l’essere che manca a sé, in un modo o nell’altro. Lo stesso Freud affronta la questione dell’angoscia nei termini della castrazione; castrazione qui da intendersi come mancanza, perché lui distingue tra kastration e entmannung: in tedesco ci sono due modi, anche in italiano e cioè distingue tra castrazione ed evirazione. Nel primo caso si tratta di un aspetto strutturale, dice Freud, la castrazione come trovarsi sempre e comunque mancanti rispetto a qualche cosa, mentre l’evirazione è l’atto fisico dell’asportazione dei genitali maschili. Dunque sempre e comunque la questione della mancanza connessa con l’angoscia: qualcosa manca a sé, qualcosa non è raggiungibile. La soluzione che pone Kierkegaard è di fatto quella che poi è stata seguita dagli stoici, nel caso del suicidio e da tutti gli altri, nel caso della fede. Ma se pensate alla struttura di un qualunque discorso religioso, cogliete immediatamente che la religione supplisce soprattutto a questa mancanza di cui si tratta e di cui si parla; che cosa manca per esempio per Kierkegaard? Mancano le possibilità: ciascuna volta queste possibilità sono mancanti, non sono mai adeguate; per Heidegger manca la possibilità dell’esistenza, per Sartre l’essere non si realizza etc. Dunque varie forme di pensiero che potremmo indicare come religioso, cioè un pensiero che muove comunque della certezza che qualcosa manchi. In tutti i casi che ho elencati, che sono i più recenti o comunque i più significativi nella storia del pensiero, l’assioma fondamentale è che qualcosa manca e sembra che mai nessuno abbia mai messo in dubbio una tale affermazione. Mettere in dubbio questa affermazione comporta almeno una riflessione intorno alla nozione di mancanza, visto che è di questo che si tratta, però prima ancora occorre forse un accenno ai modi in cui generalmente viene avvertita questa mancanza, cioè l’angoscia. L’angoscia a differenza dell’ansia non è propriamente una certezza che le cose sono così, che la condizione degli umani è infausta e che quindi non c’è salvezza: l’angoscia è la sensazione di assenza di salvezza; apposta Kierkegaard proponeva il suicido, se la cosa viene assunta, oppure la fede se si cerca una soluzione. La logica con cui si muove l’angoscia è molto semplice in quanto stabilisce l’assioma fondamentale e cioè che gli umani mancano e che la vita degli umani è mancante oltre che manchevole, traendo questo da considerazione anche antiche; in ogni caso provando sempre e continuamente attraverso l’insoddisfazione che è possibile reperire negli umani, quelli presenti e quelli passasti, di questa sensazione di costante insoddisfazione, di inadeguatezza, di caducità, di provvisorietà, ma è soprattutto di irreversibilità di questo fenomeno. Dunque questo l’assioma fondamentale e confortato da queste prove e cioè che gli umani da sempre, almeno da quando c’è traccia di loro, avvertono questa sensazione. Dopodiché immediatamente l’angoscia cerca il rimedio; il più delle volte evita la soluzione del suicidio e abbraccia una fede. Perché abbraccia la fede? Perché effettivamente, posta in questi termini, non ha soluzione e se le cose stessero effettivamente, così Kierkegaard non avrebbe tutti i torti, l’alternativa è quella: o l’inutilità assoluta del tutto e la sua dolorosità, e quindi l’eliminazione della propria esistenza come assolutamente superflua oltreché fastidiosa, oppure una fede, cioè rivolgersi a qualcuno che non manca di nulla, qualcuno che sia l’assoluto, cioè Dio; il quale soltanto, non mancando di nulla fare in modo che anche altri seguano questa via. Posta in questi termini, effettivamente non ci sono altre soluzioni, o una cosa o l’altra: la conseguenza è inesorabile e nessuno, che io sappia, ha avuto il modo di andare oltre questa soluzione. Lo stesso Heidegger tutto sommato compie una sorta di escamotage che almeno in questo aspetto ricorda sinistramente Jung, la questione del destino, ciascuno è destinato in un certo modo. Dunque dicevo, che lo stesso Heidegger non va molto lontano evocando sinistramente attraverso la questione del destino le tesi di Jung; in definitiva l’unico passo che fa è quello di considerare che ogni decisione è degna di essere accolta ed è l’unico modo di praticare l’esistenza, senza stare a riflettere o a piangere su ciò che sarebbe potuto essere. Però, il nocciolo della questione verte proprio su questo e cioè sul considerare che le cose stiano esattamente e cioè che non ci sia altra soluzione; considerazione che muove dalla certezza che gli umani mancano di qualcosa, qualunque cosa sia non ha importanza. Perché soltanto muovendo da questa considerazione è possibile pensare tanto al riscatto quanto al ricatto; al ricatto prossimo alla tesi Kierkegaard del suicidio "mi avete cacciato nei guai, e adesso ci penso io"; l’altra il riscatto "è vero che siamo nei guai però c’è chi ci salverà". Come tutte le più forti e tenaci convinzioni e cioè come tutti i discorsi religiosi, non sono facili da scardinare, dal momento che se si accoglie l’assioma di partenza, tutto il resto segue necessariamente. Il problema è che non sempre è così automatico accogliere la premessa, in generale, e cioè che gli umani mancano; se voi riflettete, potete trovare un’infinità di prove a sostegno del fatto che gli umani mancano di qualche cosa, così come potete trovare un’infinità di prove a sostegno del fatto che gli umani non mancano di nulla; dipende soltanto da ciò che intendete con mancanza: accogliete un senso e proverete una certa cosa; accoglietene un altro e proverete esattamente il contrario dal momento che non c’è nulla al mondo che potrà esibire un criterio assoluto che possa stabilire in modo definitivo e irrevocabile che cosa si debba intendersi necessariamente con mancanza, per esempio. Ma a questo punto importa intendere quale sia il senso di questo significante "mancanza", dal momento che è possibile attribuire a questo significante una notevole serie di sensi; non c’è uno che sia necessariamente accoglibile, ciascuno può essere accolto, ma che cosa generalmente si intende con questo significante "mancanza"? La definizione, qualunque si voglia dare, rischia di essere una sorta di sinonimo o, nella migliore delle ipotesi, una tautologia: potremmo dire ciò che è assente, ciò che dovrebbe essere ma non è, e insomma tutta una serie di sinonimi. Ma generalmente con mancanza si considera qualcosa di negativo, vale a dire qualcosa che non è lì dove ci si aspetterebbe che fosse: questo generalmente si intende con mancanza. Generalmente nel senso che non accogliendo questo senso, difficilmente potrebbe ancora essere utilizzato questo significante, in quanto non significherebbe più niente, però comunque possiamo accogliere questo senso: ma tuttavia, nell’angoscia non si tratta solo di questo, il fatto che qualcosa dovrebbe essere in un certo posto e invece non c’è. Dunque non è soltanto questo; c’è un elemento in più che rende l’angoscia tale ed è l’irreversibilità di qualcosa che manca e che si ritiene necessario per la propria esistenza: questo è ciò che caratterizza l’angoscia. Manca questa prerogativa importantissima: qualcosa di irreversibile e che sia necessario per la propria esistenza, senza la quale, (cosa) la propria esistenza risulta insoddisfacente: questo generalmente si intende come angoscia, ed è proprio su questo che occorre riflettere; se effettivamente alla propria esistenza manca qualcosa di assolutamente necessario oppure no. Perché, se giungiamo a considerare che manchi qualcosa di necessario assolutamente, allora ha ragione Kierkegaard; in caso contrario ha torto e quindi non siamo costretti né al suicido, né alla religione: dunque vediamo se ha torto oppure ragione, attenendoci alle definizioni che abbiamo fornite grossomodo, visto che da qualche parte occorre pure partire. Abbiamo detto dunque di qualcosa che risulti necessario alla propria esistenza; proviamo a considerare molto attentamente la questione, anche perché è una questione tutt’altro che marginale, anzi rileva un certa portata dal momento che, posta in questi termini, è una sorta quasi di condanna per il genere umano. Dunque l’esistenza manca, ma quale esistenza? Per affermare dunque con assoluta certezza che l’esistenza manca di qualcosa o comunque è possibile, occorre che io sappia esattamene che cos’è l’esistenza oppure no? Intendo dire, quando parlo di esistenza occorre che abbia un riferimento, che sappia quello che sto dicendo, oppure no? Parrebbe di sì e dunque occorre che intanto stabilisca questo, che sappia di cosa sto parlando quando parlo di esistenza ad esempio; mi sembra la condizione fondamentale. Stiamo riflettendo in termini precisi, ma d’altra parte la questione, come direbbe qualcuno, è grave e quindi merita di esser riflettuta in termini precisi. Allora, se iniziassi a riflettere sull’esistenza, cosa potrei dire? Dovrei definirla per poterla utilizzare e qui di nuovo mi troverei preso in una difficoltà di definirla attraverso dei sinonimi, attraverso della tautologie e soprattutto cercherei di trovare quell’elemento che esiste necessariamente, in modo da poterlo utilizzare come parametro, poi per l’esistenza di altri; però di nuovo devo definire questa nozione. Proviamo a definirla nel modo più vago, per il momento, e cioè come ciò che io posso definire tale; io posso dire che qualcosa esiste a un condizione, come direbbero gli antichi "che cada sotto i miei sensi", perché se non cade allora risulta poi difficile, qualunque sia il senso compreso, in questo caso, anche l’intelletto, pur non essendo un senso. Tuttavia, questa domanda intorno all’esistenza si pone un ulteriore difficoltà che riguarda l’autoreferenzialità. Adesso vi sto ponendo il quesito fondamentale e cioè "l’esistenza esiste oppure no?" Potrebbe apparire una domanda oziosa, può darsi che in alcune circostanze lo sia; in questa no, non lo è affatto perché rinvia immediatamente a un’altra domanda che è questa "a quali condizioni io posso parlare di esistenza?" La risposta c’è già stata dal momento in cui ho detto "a quali condizioni posso parlarne", e le condizioni sono che esista una struttura tale che mi consenta di farlo: questa struttura è nota generalmente come linguaggio. E allora l’esistenza, questo significante, è qualcosa che esiste a una condizione e cioè che esista una struttura che ne consente l’esistenza e cioè il linguaggio. Intendo dire questo: che fuori dal linguaggi non è possibile parlare di esistenza né di qualunque altra cosa e questo può indurre a considerare in modo che non risulta negabile, che fuori dal linguaggio l’esistenza non c’è, né l’esistenza, né qualunque altra cosa. Detto questo abbiamo posto un elemento almeno su cui possiamo fare affidamento e cioè la condizione che ci consente di parlare di esistenza. A questo punto però le cose anziché semplificarsi si complicano, perché se io dico che l’esistenza manca di qualcosa, che cosa sto dicendo esattamente, visto che l’esistenza non è altro che un significante a cui io posso attribuire dei significati ovviamente, ma nessuno in modo assoluto, visto che è un elemento linguistico e, essendo tale, ha una prerogativa e cioè quella di potervisi attribuire una quantità notevolissima di elementi o di significati. Dunque parlare di mancanza dell’esistenza, potrebbe risultare non semplicissimo, perché io posso intendere l’esistenza in modi differenti ed intendendola in modi differenti, questa proposizione che afferma che l’esistenza manca di qualcosa cambia assolutamente di significato. Allora prendere questa proposizione come assioma su cui costruire tutto un discorso, tipo quello occidentale, è quantomeno azzardato, dal momento che affermare con assoluta certezza che l’esistenza manca di qualcosa può soltanto essere creduto, ma non può essere provato, in nessun modo e da nessuno. Non può essere provato in modo definitivo; posso crederlo, ma se lo faccio occorre che me ne assuma l’assoluta responsabilità, vale a dire che, io decido che l’esistenza manca di qualcosa per motivi personali, e allora va bene. Ma come dicevo, mi assumo la totale responsabilità sapendo esattamente che non è così e non è neanche in un altro modo ma che questa affermazione non ha nessun referente al di fuori di ciò che io sto affermando e cioè non significa assolutamente niente salvo ciò che io, personalmente, intendo significare. Ora, posta di nuovo la questione in questi termini, da difficilissima, ecco che diventa semplicissima; tornando a ciò che si diceva all’inizio, l’angoscia come sensazione della mancanza dell’essere, abbiamo visto in termini molto generali, non offre più soltanto le due possibilità che voleva Kierkegaard, ma anche una terza possibilità, e cioè l’assunzione della responsabilità di questa affermazione e cioè quella che afferma che l’angoscia è la sensazione della mancanza della propria esistenza o dell’essere o di qualunque altra cosa, dal momento che abbiamo visto che affermare che qualcosa manchi è assolutamente gratuito, non è cioè necessario; non essendo necessario posso farlo, ma facendolo mi assumo la totale responsabilità. Tempo fa si parlava dell’etica nella psicanalisi; questione che va ancora affrontata ma che potrebbe muovere da questi elementi e cioè dall’assoluta certezza che qualunque cosa io affermi, non potendo provarsi in nessun modo, è una mia decisione. Se io affermo e credo che l’esistenza è mancante, che la condizione degli umani sia mancante, non affermo questo per una certezza o per sentito dire o perché le cose stanno così, ma perché io decido che le cose stanno così: è una mia decisione. Però potrebbe non essere semplicissimo giungere a considerare la questione in questi termini, e in effetti non lo è; non lo è perché la soluzione religiosa o il suicidio, che poi possiamo intenderlo anche in altri modi, in effetti è una variante anche questa, comunque della posizione religiosa. Apparentemente Kierkegaard, offre una scelta, perché una scelta propriamente non è: in entrambe i casi è comunque una struttura, che prima indicavo come religiosa e cioè che crede che l’assioma da cui muove sia necessariamente così, cioè che l’affermazione che afferma che la natura degli umani sia assolutamente mancante, sia un’affermazione assoluta, necessaria, inequivocabile, indubitabile, inconfutabile, il ché non è: è soltanto qualche cosa che può credersi. L’angoscia, questa particolare sensazione, così come ciascuna altra questione che interviene, per esempio lungo una psicanalisi, non può essere affrontata cercando, per esempio, di intendere quali sono i motivi dell’angoscia e cercando di persuadere la persona che questi motivi non sono sufficienti: in questo modo è come accogliere l’assioma fondamentale, quello che afferma che la condizione degli umani è precaria. Se viene accolto l’assioma fondamentale e cioè in definitiva un modo di pensare, la psicanalisi può offrire, al pari di Kierkegaard soltanto un’altra forma di religione, e in questo non è che non abbia effetti, però si tratta invece, e forse questo è un modo più interessante, di non accogliere l’assioma fondamentale. Il problema è che questo assioma fondamentale di cui dicevo, non è un assioma personale, è uno degli assiomi su cui è fondato il pensiero occidentale; da qui qualche difficoltà. Su questo assioma fondamentale è stato possibile costruire ciascuna forma di religione, ciascuna forma di istituzione, di stato. Non sarebbe possibile, questo già Platone l’aveva inteso perfettamente, governare se i cittadini non credessero di essere mancanti di qualche cosa; non sarebbe possibile, e pertanto è necessario, per l’esistenza della società, delle istituzioni, che ciascuno continui a pensarsi mancante: se cessasse di farlo potrebbero sorgere dei problemi. È molto difficile che questo si verifichi; molto difficile perché tutto ciò che è costruito, che è pensato, che è detto, va in questa direzione, cioè di fare supporre che comunque, la condizione degli umani è mancante, senza mai fornire nessuna prova ad una cosa del genere, e non la fornisce per il semplice fatto che non lo può fare. Detto questo, tutto ciò potrebbe costituire soltanto una premessa al discorso intorno all’angoscia dal momento che il tema è "la psicanalisi dell’angoscia" e forse la maggior parte delle persone si aspettava forse una serie di metodi per sbarazzarsi dell’angoscia. Purtroppo, dico purtroppo perché costituisce un’operazione non semplicissima, c’è un solo modo per sbarazzarsi dell’angoscia che consiste nel cessare di credere che sia necessaria, così come illustri predecessori hanno sostenuto, da Kierkegaard fino a Sartre. La necessità di questo pensiero è ciò che consente, o meglio è la condizione dell’angoscia; l’angoscia, così come ciascun altra sensazione, ha delle condizioni per potere esistere: la condizione è che si creda che ciò che sarebbe necessario all’esistenza è inesorabilmente e irreversibilmente mancante. Ponendo questo come condizione per l’angoscia, allora ecco che la questione comincia a delinearsi in termini un po’ precisi; Qualcuno potrebbe domandarsi perché ritiene una cosa del genere necessaria, a che scopo, visto che sappiamo che non è così; a questo punto dovrei necessariamente domandarmi perché credo un cosa del genere: perché ci credo anziché no, dal momento che non credo a qualunque cosa mi venga detta, non credo più, ad esempio, alle favole, per quale motivo, perché so che non è così? Potrebbe essere un elemento, anche in questo caso potrei dire la stessa cosa "so che non è così", eppure ci credo lo stesso, che è una notevolissima prova di fede esattamente quella che ciascun discorso religioso chiede; come Tertulliano andava dicendo "credo qui absurdum" e più è assurdo e più lo credo. Per un tornaconto, il più delle volte, nel senso che facendo così c’è l’eventualità che, a seconda poi delle religioni, io possa eliminare una volta per tutte questa mancanza a cui tuttavia credo, continuo a credere. E se invece gli umani non mancassero di nulla strutturalmente e fosse soltanto un’affermazione retorica, così come si dice continuamente ad esempio quando una persona rimpiange i tempi passati "quand’ero giovane le cose andavano meglio". Difficilmente qualcuno prenderebbe questa affermazione come una certezza assoluta, ma ha la funzione, la più parte delle volte, di una figura retorica, un modo di dire qualche cosa, in questo caso, di rimpiangere una condizione in cui si stava molto meglio. Una figura retorica perché se io non posso in nessun modo avere la certezza che sia così, l’uso di questa proposizione ha una funzione retorica; esattamente come quando affermo che, insieme al nostro amico Manzoni che " Don Abbondio non aveva certo un cuor di leone"; la prendo come una figura retorica, e cioè non chiedo se era effettivamente così, se qualcuno effettivamente, facendo un’autopsia di Don Abbondio ha trovato nel suo petto un cuore di un mammifero fatto in un certo modo; e perché no? Perché si considera una figura retorica e quindi qualcosa che non costringe all’assenso, che non si impone come necessariamente vera, esattamente così come la proposizione che afferma che la condizione degli umani è precaria e nefanda, esattamente allo stesso modo; così come la frase che afferma che Don Abbondio non aveva un cuor di leone. Però presa in questi termini cosa succede? Che se la dico, dicendola non esprimo una realtà delle cose a cui tutti occorre che si conformino, in prima istanza; faccio un’affermazione di cui mi assumo la totale responsabilità cioè è una mia decisione affermare questo e nient’altro che questo. Ma a questo punto tutto ciò che viene costruito a partire d questa certezza, cessa di essere certo, perché se gli umani sono mancanti, sono deficienti, (nell’accezione letterale del termine), allora non posso che soffrire e lamentarmi di questa condizione e cercare qualche cosa che mi sollevi da questa condizione. Così come avviene in moltissimi casi la sofferenza segue a questa certezza: se io sono mancante non potrò mai essere soddisfatto, per definizione, e quindi non mi resta che rassegnarmi o soffrire: se voi pensate a qualunque forma religiosa impone quasi la sofferenza. Se non è così, allora a qualcuno potrebbe venire in mente, domandarsi perché soffra, visto che non c’è motivo per farlo; intendiamoci bene che chi vuole farlo può farlo, non è proibito, ma non è necessario e soprattutto non è obbligatorio anche se appare come tale e appare come tale, cioè necessario, fino al punto in cui questa struttura data per inesorabile; allora sì non posso fare niente: come dicevamo all’inizio, se si da questo assioma per acquisito come voleva Kierkegaard, cioè che la natura umana è necessariamente mancante, allora non rimane che, o il suicidio o la fede. Ma è vero che gli schemi concettuali di un giapponese sono diversi da quelli di un tedesco, per cui riuscire a sovrapporli è molto difficile oppure no? Il sistema concettuale, per esempio di un giapponese è assolutamente differente da quello di un occidentale; ciascuna volta in cui, un insieme di elementi viene descritto da altri significanti, variando il significante e quindi il suono, la sua morfologia etc.. varia anche il senso; il problema è che se si traduce un testo giapponese in italiano, avviene che a ciascuno di questi significanti che si incontrano, si da un senso che è riferito al significante italiano, poi il giapponese può dare una mano in questa operazione; c’è l’eventualità che anche lui si incappi in questa difficoltà e cioè continuerà a pensare ad un senso giapponese che non potrà rendere in italiano in nessun modo, perché ciascuna volta ci sarà sempre una empasse, il modo in cui pensa è quello del giapponese, il senso che da è il suo; lui potrà anche usare un significante comune, per esempio in inglese, che per un verso semplifica e per l’altro complica perché aggiunge un ulteriore senso della lingua inglese. Ma la traduzione assoluta sarà sempre impossibile, per cui possiamo affermare con assoluta certezza che il sistema concettuale del giapponese è assolutamente differente e non potrà mai essere uguale a quello, per esempio, di un italiano. Ma è comunque concettuale? Sì. Ma Heidegger in alcuni punti pensava che non fosse di natura concettuale cioè che avesse un modo di rapportarsi al linguaggio diverso. Sì certo, perché come giustamente come lui teneva conto, i concetti procedono da un senso e quindi il problema è lo stesso e quindi non ci sarà mai la possibilità di potere stabilire con assoluta certezza che in senso dato da un giapponese a un qualche cosa sia lo stesso che viene utilizzato da un italiano. Possiamo andare anche oltre: supponiamo che io parli il piemontese e un’altra persona parli il napoletano: il senso che viene fornito, che produce un significante detto in un certo modo, quindi con un suono, una morfologia, una struttura che è diversa, sarà lo stesso oppure no? Se è sì come faccio a saperlo? Come faccio a sapere che il senso che pensa un napoletano dicendo una certa parola in napoletano è esattamente quello penso io, dicendo la stessa parola in piemontese? Ma inoltre vorrei aggiungere che ciascuna volta che una persona parla, non sa qual è stato il senso che ha utilizzato la volta prima, non solo non lo sa, ma non potrà mai saperlo perché ciascuna volta penserà a questa cosa nel modo in cui pensa in quel momento, ma non c’è nulla che gli potrà assicurare che la volta precedente ha usato lo stesso senso: lo può credere ma non lo può provare. Quindi, anche senza andare in Giappone, la questione si può porre allo stesso modo e cioè provando in modo irrefutabile che non c’è nessuna possibilità di stabilire che il senso sia lo stesso; è ovvio che si può provare anche il contrario. Provare l’angoscia è generalmente fastidioso proprio per il suo carattere di irreversibilità cioè mostra le cose in modo irreversibile e dice che sono così e non potranno essere altrimenti che così: a questo punto c’è l’angoscia che non è altro che una delle componenti della depressione di cui parleremo poi in là. Ma che differenza passa tra angoscia e con ansia generalizzata? Generalmente si intende questo con ansia e cioè l’attesa di un pericolo, un’attesa non giustificata di un pericolo che il più delle volte è immaginato: se io sto in ansia perché una persona che mi è cara e in giro e immagino che morirà sicuramente, questo pensiero non è giustificato da nulla. Può essere che sia l’ansia che l’angoscia comunque esistano, perché se c’è un fondamento di angoscia, allora l’ansia diventa insopportabile cioè diventa l’attesa di qualcosa che sarà di sicuro; però generalmente si distingue in questo modo: l’angoscia come la sensazione di una mancanza irreversibile, di qualcosa che è ritenuto necessario; mentre l’ansia, l’attesa di un pericolo non giustificato; c’è sempre il pericolo che incombe, mentre nell’angoscia no, il terribile è già avvenuto, e non c’è più soluzione, non c’è più salvezza. Dialogano con il linguaggio, tenendo presente che l’inconscio è strutturato come il linguaggio, è possibile che attraverso le immagini corporee si possa avere una maggiore comunicazione con gesti e movimenti del corpo? Sì, è possibile, in alcuni casi anzi, i gesti sono molto più rapidi e più efficaci di tutto un discorso in moltissime occasioni per cui rispetto alla verbalizzazione di un ordine, può essere più efficace un gesto, ma anche in qualunque altra circostanza; pensi alla manifestazione e disponibilità a un rapporto sessuale da parte di un uomo e di una donna, generalmente avviene attraverso appunto quella cosiddetta gestualità, difficilmente si esplicita un trattato in cui si precisano i punti. Certo che in ogni caso ciascuno di questo gesti per essere tale, per essere un segno per l’altro, occorre che sia interpretato, altrimenti non c’è comprensione. Quindi non è fuori dalla parola propriamente, parola intesa come linguaggio più propriamente, in quanto comunque costringe ad una decodificazione; anche uno sguardo deve essere decodificato altrimenti non succede nulla; per farlo serve una struttura: questa struttura è ciò che generalmente si chiama linguaggio. Quindi comunicare attraverso il corpo è anche simbolico? In una certa accezione potremmo dire di sì, ma se fosse così non cambierebbe nulla, e un gesto verrebbe preso come simbolo cioè quell’elemento che deve richiamare o che, per una serie di elementi stabiliti richiama un’altra cosa per via di condensazione: come la bandiera è un simbolo, l’Italia non è né bianca, né verde, né rossa, ma si conviene che un certo segno abbia la prerogativa di indicare in alcuni casi anche in modo molto preciso un altro elemento. Quindi tra segno e simbolo c’è una diversità? Sì certo, a seconda delle teorie che vengono seguite, a seconda dei vari semiotici si trovano delle differenze notevoli, comunque per segno generalmente si intende ciò che rappresenta qualcosa per qualcuno: se non fosse questo, cesserebbe di essere segno. Ma si prova angoscia perché si prende coscienza della morte e quindi della vulnerabilità? Su questo ci sarebbe da aprire un lunghissimo discorso però è un’opinione molto diffusa, poiché da quando Aristotele ha stabilito che tutti gli animali sono mortali, l’uomo è un animale e quindi è mortale, da allora gli umani hanno cominciato ad esser mortali. Siccome non si è mai verificato a memoria d’uomo che qualcuno sia stato immortale, si considera per induzione, che per altro non rappresenta nessuna certezza scientifica, si considera che gli umani siano mortali, e quindi ciascuna cosa che viene fatta, progettata, costruita, risulta anche questa mortale: tutto ciò che vive perisce, tutto ciò che vive è corruttibile, sempre Aristotele che ha posto dei limiti, potremmo dire anche tutto ciò che esiste e quindi è la condizione stessa dell’esistenza la non esistenza. Si tratta di stabilire se è un condizione grammaticale o ontologica per esempio, cosa che fa una certa differenza. Nel primo caso è soltanto un aspetto linguistico, cioè prendere atto che sono delle produzioni del linguaggio, il secondo è una maledizione di Dio. C’è un’unica differenza che distingue le due: la prima non è negabile, la seconda sì. Mi rendo conto di tagliare molto corto sulla questione, ma d’altra parte occorrerebbe stare qui alcuni mesi per potere affrontare la questione in termini soddisfacenti, però, mano a mano anche negli incontri successivi intorno all’anoressia, all’ansia, alla depressione, affronteremo comunque questioni vicine a quelle che abbiamo dette questa sera, dal momento che hanno non pochi tratti in comune, anche se sono sensazioni, o condizioni differenti; vedremo per esempio che cosa può spingere una persona a cessare di mangiare, di nutrirsi, come accade; non è soltanto l’emulazione a spingere a una cosa del genere. Ma rispetto al discorso fatto prima cioè che nella società occidentale è una condizione importantissima quella della castrazione, della mancanza, per cui questo consente un certo tipo di organizzazione; ma dov’è che questo non accade e se questo non accade, che cosa accade? Anche perché la questione della castrazione è poi legata al piacere, perciò se non funziona così, come e dove funziona altrimenti? Anche il discorso religioso fa riferimento ad un indice di perfezione, a Dio, quindi il sistema si ripropone ovunque oppure no? Non è una questione connessa soltanto con l’occidente, ovunque si trovi un discorso religioso e quindi dappertutto si impone questa struttura dove la mancanza viene istituita e istituzionalizzata e resa necessaria, perché di per sé non è niente; io posso dire che manca qualcosa, che non è perfetto, ma non succede assolutamente niente. Il problema sorge laddove si immagina che ciò che manca sia assolutamente necessario per il compimento della propria esistenza: allora lì sorgono i problemi e sorge l’angoscia. Dove un pensiero del genere non esita, penso che non esista nessun luogo dove non si dia una struttura del genere. Che cosa accadrebbe se una struttura del genere cessasse di operare, non posso saperlo, è un’ipotesi piuttosto remota, difficilmente si modificherà una cosa del genere, per questo la psicanalisi non ha nessun influenza sul cosiddetto sociale, perché non propone un’altra religione ma soltanto può, rispetto al singolo incominciare ad incrinare qualche certezza; operazione lunghissima e difficilissima ma che è di quanto di meglio si possa fare in questo momento, se non si intende sostituire una religione con un’altra. Ma ha parlato prima dell’angoscia eventualmente accennata per la morte, però non si è parlato dell’angoscia alla nascita: diceva Freud che c’è la prima angoscia, inconscia, che è quella che si ha nascendo, ma allora come diventiamo consci di un’angoscia, se in quel momento non siamo consci di averla, e come si produce invece una non-angoscia? Come si possa angosciarsi nel primo istante di vita, questo soltanto Freud potrebbe dirlo: all’inizio diceva così, poi iniziò a scivolare verso la mancanza; infatti poi ci fu Rank che rimase fisso a questa idea e iniziò a ipotizzare il trauma della nascita "tutti quanti nascendo subiscono un trauma" che costituirà il modello fondamentale di tutti i traumi successivi e poi si è risaliti anche prima, all’oceano; altri ancora vedono nel feto degli stimoli particolari e immaginano che ci sia già angoscia, alcuni ancora prima negli spermatozoi, altri ancora prima, fino ad arrivare al Big Bang: quello è stato il fondamento dell’angoscia, (posso sostenere qualunque sciocchezza). Quindi l’unico modo per eliminare l’angoscia è convincerci che sia necessaria, ma c’è una terapia per sbarazzarsi dell’angoscia? Ci si dovrebbe aiutare a vedere che questa cosa che ci manca non è poi così importante o trovare qualcosa di molto più importante, anche se non succedaneo, ma che nello stesso tempo nel nostro inconscio ci faccia spostare l’attenzione su di essa? Sì in molti casi ci si muove in un modo simile; forse la cosa più interessante da farsi è eliminare le condizioni dell’esistenza dell’angoscia e quindi le condizioni per cui qualcuno possa credere una qualunque cosa; tolte queste condizioni è ovvio che l’angoscia non può in nessun modo strutturarsi; altrimenti sì, c’è questo sistema di sviare l’attenzione: ciascuno poi trova, così come viene descritto anche da Freud, nel lavoro del lutto, il modo per superare una mancanza: una persona cara muore e al primo impatto è una situazione dolorosa, poi questo lutto viene elaborato e cioè altri elementi prenderanno il posto, in qualche modo, di questa mancanza.