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LA RETORICA DEL CREDERE

 

La questione connessa con il credere oggi sembra molto attuale, e la questione connessa con il credere è, prevalentemente, quella che rende conto degli effetti del credere. Ma intanto consideriamo questo che il... chiamiamolo così provvisoriamente, desiderio di credere, esiste da quando c'è traccia di umanità, sempre molto presente, molto forte, anzi forse una delle cose più forti che spingono gli umani. Come sapete il credere ha subito varie vicissitudini, dai fisici presocratici fino ad oggi, ci sono state grosso modo delle oscillazioni che hanno condotto da una parte a credere alla ragione e dall'altra alla religione, la struttura non è molto diversa ma se tenete conto soltanto degli ultimi secoli, fin che c'era l'Illuminismo la religione in qualche modo era posta in secondo piano, ma anche molto più recentemente, negli anni 60/70 ci fu una sorta di... non parliamo di declino, ma di assopimento della religione così come è comunemente intesa, a favore di un credo politico, per esempio, da almeno un po' di anni. Tutto questo, queste oscillazioni di cui vado parlando in effetti non sono così rilevanti, dal momento che la struttura del credere rimane esattamente la stessa. Come dire che credere nella legge della natura, credere nella Madonna che piange, credere nell'armonia universale o credere in un orientamento politico, per quanto ci riguarda è abbastanza marginale, ciò che a noi interessa è come avviene che si creda qualche cosa anziché no, per esempio. C'è come sapete una notevole differenza, almeno apparentemente, insegnano, tra sapere e credere, perché ciò che credo è generalmente ciò che non so, apposta per questo lo credo, mentre ciò che so non lo credo, proprio perché lo so e così nessuno crede di sapere come si chiama, o crede si sapere che per esempio 2 + 2 facciano 4, non lo crede perché lo sa, ma non sa se domani sarà una bella giornata oppure no, lo crede, crede che domani farà bello, poi magari piove; dunque ciò che distingue il sapere dal credere è essenzialmente questo: mentre il primo si fonda su un dato certo, acquisito, di cui può fare conto che non muterà, rispetto al secondo no, c'è l'eventualità che possa mutare. Che 2 + 2 facciano 4 rispetto ad una certa struttura non muta, cioè 2 + 2 faranno sempre 4, mentre la mutevolezza di ciò che riguarda il credere lo rende un non saputo, non ancora. Quando Aristotele dice che domani ci sarà oppure non ci sarà una battaglia navale, delle due l'una, posso credere oggi che domani ci sarà, ma domani non potrò credere che ci sia oppure no. C'è oppure non c'è, domani lo saprò, oggi lo credo. Il sapere dunque ha questa prerogativa di fondarsi su qualche cosa che (almeno lo si presume) non muti ma rimanga esattamente quello che è. Tuttavia il discorso occidentale è strutturato in un modo abbastanza bizzarro, perché questa distinzione fra sapere e credere potrebbe non essere del tutto propria, dal momento che, come gli umani hanno avvertito da sempre, lo stesso sapere, se indagato in modo sufficientemente approfondito non è dimostrabile; ora invece a quali condizioni io posso affermare di sapere qualcosa? La condizione è che ciò che so sia sottoponibile a un criterio dimostrativo, cioè sia provabile e perché questo avvenga occorre che ciò che è oggetto della prova non muti, ma sia quello che è, almeno per il tempo della prova. Dunque questo criterio di provabilità su cui si regge la nozione stessa di sapere è allo stesso tempo anche il tallone di Achille del sapere il quale, se può avvalersi di prove e dimostrazioni, tuttavia di queste prove e dimostrazioni non può dire nulla più che un "credo che sia così", voglio dire che il principio, gli assiomi da cui muove (già gli antichi l’avevano perfettamente inteso) non sono provabili né dimostrabili. Nella migliore delle ipotesi sono dati dall'esperienza, ma questo non ci porta molto lontani, nel senso che l'esperienza, per quanto possa essere utile nella vita quotidiana, e per certi motivi, nei confronti di una ricerca invece, di una elaborazione teorica si presenta di scarsissima utilità, e allora è come se dicessimo che il sapere per essere tale deve essere provato, ma possiamo dire che per definizione non può esserlo. In questo la nozione di sapere incomincia ad avvicinarsi a quella di credere, potremmo dirla così: so che 2 + 2 fanno 4 o credo che 2 + 2 fanno 4? Si tratta ovviamente di stabilire che cosa intendiamo con ‘sapere ‘e con ‘credere’, questo è il passo fondamentale, però attenendoci a ciò che generalmente si intende con questi termini posso dire soltanto questo, che all'interno di un certo gioco, se giocato secondo certe regole è prevedibile ciò che accadrà, questo per quanto riguarda il sapere, per quanto riguarda il credere lo stesso gioco di cui si avvale impedisce di potere prevedere ciò che potrà accadere. Sono due giochi differenti, nessuno dei due stabilisce nulla, ovviamente, nessuno dei due è in condizioni di stabilire nemmeno se stesso, però potremmo indicarle come regole per giocare giochi diversi, e qui di fatto non ci sarebbe nessun problema, il problema può sorgere laddove si supponga invece che il credere, contrariamente al sapere, non abbia un fondamento certo sicuro, stabile, attribuendo pertanto al sapere questa prerogativa che non ha, e allora cosa succede? Succede che mi trovo a pensare che ad esempio le cose che dico, che immagino o che vedo essendo le cose che so, siano necessarie e cioè corrispondano a qualche cosa di assolutamente certo, immutabile, di cui il mio dire sia soltanto l'espressione nella migliore delle ipotesi, e allora ovviamente, cosa accadrà? Accadrà che le cose che so saranno anche quelle che credo, ma qui sorge un altro problema, perché ponendo la questione in questi termini è come se ci fossimo chiesti: quando dico di sapere qualcosa, che cosa dico esattamente? In effetti dicendo che so che questo è un orologio, finché non attribuisco a questo elemento della frase un senso, non sto dicendo assolutamente niente, ma nel momento in cui attribuisco un senso a questi elementi, allora incomincio a fare qualcosa, e allora con sapere intendo il conoscere, il possedere o il disporre di elementi stabili, certi, sicuri. Naturalmente può accadere che ci si trovi nella condizione di cercare una prova, anche nei miei confronti, rispetto a quello che dico, un prova rispetto a ciò che so, domandandomi per esempio, come lo so o, direbbe Wittgenstein, come so di saperlo? Qui ovviamente inizio a essere preso in una serie di rinvii che mi conducono di fatto a una sorta di arresto, di arresto fino al punto in cui non posso più domandarmi oltre, dal momento che non ho più strumenti per farlo, come se, diceva Wittgenstein, chiedersi come so che questa è la mia mano? Non mi conduce da nessuna parte, perché se dubitassi di questo allora non avrei nessun referente, nessun elemento da cui partire per pensare ad esempio. Da qualcosa occorre che muova. E questo rende conto di come sia impossibile cessare di pensare, in ogni caso ciascuno parte sempre da qualche cosa, inesorabilmente, ma torniamo alla questione centrale di tutto ciò e cioè di credere, come avviene che si creda? Come avviene cioè che si dia il proprio assenso incondizionato, e questo è un secondo modo per intendere il credere, in accezione tertulliana del termine, il credo quia absurdum, cioè non so se è così ma credo che sia così e cioè esattamente come per il sapere, non so se è fondabile né se sia fondato ovviamente, tuttavia credo che sia così e cioè faccio come se fosse effettivamente così. A questo punto ciò che si instaura è una sorta di, chiamiamola certezza, se una persona crede per esempio in un dio, uno qualunque, se crede effettivamente non dubita della sua esistenza, di dio, ma la dà per certa, pur non potendo provarla, esattamente come avviene nel discorso scientifico o in qualunque altro, viene creduto, pur sapendo di non potere provarlo in nessun modo, cioè di non potere provare in nessun modo i principi e gli assiomi su cui si fonda, che sono altrettanto gratuiti delle conclusioni, però comunemente si distingue il credo quia absurdum, da una certezza relativa ad una legge della fisica, per esempio, e si distingue tutto sommato senza alcun motivo, alcun motivo legittimo per farlo. Ciò che risulta più considerevole in tutto questo è che proprio tale sorta di distinzione è foriera di una quantità notevolissima di... chiamiamoli fraintendimenti, o ingenuità nel pensare, in effetti ponendo la questione in questi termini, immaginare che una qualunque cosiddetta legge di natura o una religione abbiano fondamenti differenti, in quanto la prima è provabile, la seconda no, ecco, questo può apparire una ingenuità, ma che cosa comporterebbe una cosa del genere? E cioè il pensare che le cosiddette leggi della natura siano altrettanto legittimate o fondabili di un qualunque credo religioso? Innanzitutto un problema circa il referente, il referente di ciò che dico, se voi pensate a come ciascuno sia infastidito quando gli si dà torto per esempio, avete immediatamente la misura di come ciascuno parlando supponga di dire come stanno le cose, e cioè di esporre uno stato di fatto, le cose stanno così come dico io, né potrebbero essere altrimenti. Dunque questo fastidio che viene avvertito procede dal fatto che si mette in discussione o in dubbio qualcosa che in nessun modo si immagina che possa o debba essere messo in discussione, in quanto assolutamente certo, cioè io penso così non per un mio giudizio personale o per una mia fantasia particolare, ma perché le cose stanno così e in nessun altro modo, ma se le cose stanno così come può accadere che un’altra persona pensi differentemente da me? Perché sbaglia evidentemente, oppure non ha tutti gli elementi necessari per potere valutare con correttezza. Pur se ciascuno magari premette al suo discorso che questa è la sua opinione, a parer suo ecc., tutte formulazioni che funzionano come una sorta di captatio benevolentiæ, perché difficilmente uno dice: "le cose stanno proprio così"; cioè può anche farlo, però generalmente antepone a questo un "a me pare", "mi sembra", ecc.. Però provate a dirgli che non è affatto così, e che sta dicendo soltanto sciocchezze, se fosse soltanto che a lui "pare" così, la cosa non dovrebbe preoccuparlo più di tanto, gli sembra, ma così come è nell'uso del verbo sembrare, può sembrare una cosa o anche l'altra, e invece no, ciascuno afferma di non dire la verità, nessuno oggi ha tanto ardire, ciononostante provate ad andare a dire a Heidegger, no perché è morto, ma ad un altro presente, a Vattimo per esempio, che tutto ciò che scrive sono un sacco di sciocchezze, se ne avrà a male, e perché? O ciò che lui dice è vero, oppure non lo è, oppure è verosimile, ma perché sia verosimile occorre che ci sia da qualche parte un vero rispetto al quale sia simile, e dove lo troviamo? Oppure, cosa molto più semplice, si ritiene che quello che si dice sia vero. E perché crede che quello che dice sia vero? Uno potrà dire perché ha valutato, vagliato delle varie ipotesi, varie questioni, e scartando tutte quelle che gli sembrano clamorosamente false, restano queste. Questo è un modo, eppure dicendo che ciò che afferma è vero (ché se no non lo affermerebbe mai, però abbiamo visto che affermare il contrario nemmeno possiamo farlo) eppure affermando questo, cioè le cose che dice, dà ad intendere che le cose siano così, pur sapendo in un certo senso, e sta qui l'aspetto più curioso, sapendo in qualche modo che tutto ciò che dice di fatto non è né vero né falso, lo dice sapendolo, perché sicuramente ha gli strumenti, e allora che cos'è? Un racconto? Una fiaba? Una novella? Che cos’è? Che cosa ci sta dicendo (adesso parlo di Vattimo) raccontandoci delle sue teorie intorno per esempio al pensiero debole? Questa teoria intorno al pensiero debole è una sciocchezza oppure no? È una domanda che può porsi, legittima, è vera oppure no? Corrisponde a qualche cosa oppure no? Oppure, dicevamo, è una favola, una di quelle favole che si raccontano ai bambini per farli addormentare? È probabile che Vattimo ritenga ciò che lui ha elaborato sia più di una favola, dovrebbe almeno essere una sorta di descrizione di qualcosa che dovrebbe essere sostenibile, anche perché nel mondo accademico si punta molto su questo, e cioè rendere sostenibile le proprie affermazioni, uno che facesse delle affermazioni totalmente gratuite e in nessun modo sostenibili non verrebbe nemmeno preso in considerazione, quindi devono essere sostenibili, ma che cosa intendiamo qui con sostenibili? Dal momento che sappiamo perfettamente che tutti gli assiomi, i principi, su cui qualunque teoria pensabile possa reggersi sono assolutamente gratuiti, e allora? Ma allora cosa fa credere che ciò che scrivo sia vero, o sia più interessante della storia di Cappuccetto Rosso? Perché dovrebbe essere più interessante? Perché dovrebbe dire qualcosa di più? Vedete che la questione non è semplicissima, cioè non è semplicissimo il paradosso che incontra il sapere che pretende, per potere dirsi tale, un criterio di dimostrabilità che in nessun modo può dimostrare. Ora tutto questo avviene ovviamente in ciascun discorso, adesso i discorso accademici ci interessano molto poco, anche perché non sono un granché, ma il discorso quotidiano, quello che ciascuno fa con sé, con altri, quando descrive, vuole spiegarsi, vuole convincere, si arrabbia, gioisce eccetera, fa tutta una serie di cose, che fa quotidianamente, ebbene proprio in questi frangenti intervengono tutte queste cose, cioè l'impossibilità di stabilire dei criteri che fondino il sapere, anche se questo viene attribuito generalmente a una scarsa informazione o a incapacità personale, cioè non sono capace di andare oltre a un certo punto, non ci arrivo e belle e fatto, è una giustificazione molto banale, perché ciò che è in gioco è in effetti non tanto che cosa ciascuno pensa, questo interviene in seconda battuta, ma "come" ciascuno pensa, questione questa forse meno comunemente affrontata. Meno comunemente esplorato ma sicuramente più interessante è il modo in cui ciascuno pensa, fondato su questa sorta di superstizione (chiamiamola pure così) che afferma che ciò che so è necessariamente quello che è, da qui tutta una serie di conseguenze, dal momento che pensando costruisco una serie di ragionamenti secondo regole inferenziali ovviamente, deduzione e induzione, soprattutto, attraverso le quali giungo a una conclusione e tutto questo mi sembra assolutamente naturale, ovvio: se questo è così e quest'altro è cosà, è ovvio che quest'altro sarà necessariamente in quell'altro modo. Però di fatto nessuno mi ha mai assicurato che questi sistemi, che queste regole inferenziali siano così attendibili, diano risultati così certi, ciononostante vengono continuamente utilizzate come se fossero strumenti assolutamente infallibili. Per esempio ciascuno compiendo queste inferenze suppone, o meglio crede in questo caso, nella correttezza del proprio ragionamento, se il proprio ragionamento gli pare corretto non vede alcun motivo per non crederci, per non credere che sia così, e gli pare corretto quando a suo modo di pensare tale pensiero ha seguito una certa serie di successioni, di deduzioni o induzioni per cui la conclusione sembra quasi implicita nelle premesse. Con questo di fatto non si è raggiunto nulla, salvo l'applicazione più o meno corretta di alcuni procedimenti, eppure il credere, così come è inteso comunemente si forma proprio così, e cioè muove da alcuni elementi cercando di reperire tutti quegli elementi che gli paiono impliciti nella premessa, per potere concludere nel modo migliore. Il problema sta in questo, che utilizzando questo criterio la conclusione a cui giunge, qualunque essa sia, non dirà null'altro se non che ha utilizzato nella migliore delle ipotesi dei criteri di inferenza, così come affermare che 2+2 fa 4 non è affermare una legge naturale né è una formulazione divina, è semplicemente l'enunciazione di una regola aritmetica, niente di più di questo, e così qualunque risultato si ottenga, anche nella fisica, dice in prima istanza e niente più di questo, che è soltanto la corretta applicazione di un sistema numerico. E così tutte le conclusioni a cui giungo quotidianamente per affermare questo o quell'altro, per potere dire che sono sicuro o insicuro di certe cose, non sono altro che una applicazione di un sistema inferenziale, il quale conclude, certo, con una proposizione che generalmente si chiama conclusione, ma che di fatto non dice assolutamente niente, nulla, nel senso che ciò a cui conclude non è né certo, né sicuro, né stabilito, né necessario, rimane assolutamente gratuito, nel senso che dalle stesso premesse, abbiamo detto varie volte, posso giungere a conclusioni diametralmente opposte, utilizzando criteri altrettanto legittimi, altrettanto rigorosi. Se noi continuassimo a chiedere a qualcuno che scrive testi che ritiene saggi, diciamo, se le cose potrebbero essere esattamente il contrario da come lui pensa che siano, bene, probabilmente ci risponderebbe di no, non pensa che le cose possano essere esattamente il contrario, ma perché no? Cosa glielo impedisce? Se non il fatto di credere che la sua conclusione sia qualcosa di necessario, che se così non fosse in effetti nulla gli impedirebbe di affermare che le cose potrebbero essere esattamente il contrario di quello che afferma che siano, e cioè in definitiva si troverebbe di fronte alla prospettiva di non avere scritto assolutamente nulla, in un certo senso, oppure di avere scritto qualche cosa che non ha nessun valore verofunzionale, esattamente come una favola, un gioco, soltanto un gioco. In effetti ciò che ho proposto, vado proponendo da tempo, non è mai stato nulla che abbia a che fare, come spesso avviene, con proclami salvifici, oppure con un "fate così e vi troverete bene", no, ciò che ho fatto in questi anni è soltanto proporre di giocare, di giocare con il proprio discorso, con le parole, giocare vale qui a considerare che tutto ciò che ho scritto non è nient'altro che un gioco, che di per sé non vale né più né meno di qualunque altro. Può essere giocato oppure no, questo gioco che vado divertendomi a costruire mano a mano, è fatto così, muovendo dal più semplice, anziché dal più complicato. Che cosa c'è di più semplice (più semplice è ciò che nessuno in nessun modo può evitare di incontrare, necessariamente) e che cosa non si può evitare di incontrare? Nel formulare questa domanda, intanto mi sono domandato che cosa mi consente di formulare questa domanda, e allora inesorabilmente sono stato condotto a pensare che ciò che mi consente di formulare questa domanda è una struttura, una struttura organizzata in un certo modo, potremmo dire organizzata sintatticamente, grammaticalmente, frasticamente in un modo tale per cui posso dire che quello che sto dicendo sia un discorso, posso dire che mi chiamo Luciano Faioni, posso dire che oggi è martedì, posso dire un sacco di cose, posso dire che sto dicendo, posso anche negare che sto dicendo, posso cioè fare un'infinità di cose, e che cosa mi consente di fare tutte queste belle cose? Appunto questa struttura organizzata in un certo modo, senza la quale non potrei affermare né che faccio, né che non faccio, non potrei affermare, semplicemente. Dunque non potrei pormi nessuna di queste questioni, assolutamente nessuna perché non avrei nessuno strumento per pormela e allora ecco, la proposta che feci qualche tempo fa agli amici era questa, provare a giocare un gioco che muovesse soltanto da ciò che non posso non considerare proprio perché sto parlando, perché faccio queste considerazioni, e dunque muovere dal fatto che parlo. È una considerazione banale ma, come abbiamo detto varie volte, non negabile perché per negarla occorre pure che parli, e quindi mi è proibita la negazione di questa proposizione, dunque muovere solo da questo e provare a vedere che cosa implica, cosa comporta attenersi a questo criterio. Questo è stato un po' il gioco che ci ha mossi in questi ultimi anni. Certo che ha avuto degli effetti, effetti notevoli, chiunque si sia mosso lungo questa direzione, passo dopo passo si è trovato in una sorta di punto di non ritorno, che questo sia positivo oppure no, questo è un altro discorso, di non ritorno nel senso che questo gioco, essendo la condizione per potere giocare qualunque gioco, instaura una sorta di... chiamiamola "consapevolezza" tra virgolette, finché troviamo un termine migliore, la "consapevolezza" di trovarsi di fronte, mano a mano, rispetto a ciò che si dice, a qualcosa che non è asseribile come necessario e pertanto rimane assolutamente gratuito. Cosa vuol dire questo? Che qualunque cosa io affermi, per qualunque motivo, in qualunque circostanza, questa cosa che vado affermando non ha, al di fuori di sé e della struttura che la consente, nessun altro referente. Che cosa garantisce quello che dico? Quello che dico. Non ho altre garanzie, nel senso che non ho altri supporti, non ho nessun altro supporto fuori da questa struttura dalla quale per altro non posso uscire, come potrei? E con quali strumenti, se non attraverso questa stessa struttura. Dicevo di una sorta di punto di non ritorno che si instaura in questo modo: se voi acquisite le regole di cui è fatto il linguaggio, non potete più in nessun modo fare come se non le aveste mai acquisite. Per una questione linguistica potremmo dire, quasi grammaticale: perché non posso credere vera una cosa che so essere falsa, per esempio, cosa me lo impedisce? Una struttura grammaticale, solo questo, non posso affermare e negare simultaneamente la stessa cosa, o la affermo o la nego, il principio del terzo escluso me lo vieta. Ma questo non per questioni metafisiche o ontologiche, ma squisitamente ed esclusivamente grammaticali. Nel senso che io posso dire che una cosa è vera ed è falsa, ma questo non mi porta da nessuna parte e il discorso si arresta, non dico niente. Ora il discorso, qualunque esso sia, non si arresta, fra le varie prerogative ha anche questa, che non si arresta mai e non si arresta per un motivo molto semplice, che ciascun elemento di questa struttura è tale perché esiste all'interno di tale struttura. Possiamo dirla in modo più semplice: ciascun elemento del linguaggio è tale perché è un elemento del linguaggio, se fosse isolato allora non sarebbe più nel linguaggio, ma se non fosse nel linguaggio come lo conoscerei? Attraverso che cosa? Pertanto ciascun elemento è un elemento del linguaggio. Potete prendere questo come un sofisma, e in effetti questo è un gioco fatto di sofismi. Abbiamo notevolmente rivalutato i sofismi, che hanno goduto di pessima fama negli ultimi secoli, come ragionamenti falsi, capziosi, tendenziosi e miranti a sviare gli uditori dalla retta via che è quella che conduce invece alla ricerca della verità. Ecco, abbiamo abbandonato la ricerca della verità, intendendo la verità come significante, niente più di questo, nella migliore delle ipotesi come operatore, operatore deittico. Ma dunque dicevo che questi sofismi di fatto non sono altro che argomentazioni che utilizzano unicamente le procedure linguistiche, non occupandosi minimamente della verità, e cioè non occupandosi minimamente di nulla che abbia qualcosa a che fare con l'ideologia, e cioè con il credere che si dia un elemento che sia fuori dalla struttura che consente di fare tutte queste riflessioni, tale struttura potremmo chiamarla linguaggio se volete, visto che comunemente si chiama così. E in effetti intendiamo qui con "linguaggio" esattamente questo: l'insieme delle procedure e delle regole che consentono di potere dire qualunque cosa e il suo contrario. Dunque il sofisma non è altro che, dicevo, questa sorta di ragionamento, di sequenza di proposizioni che si avvalgono unicamente delle procedure e delle regole del linguaggio, nient'altro che questo, e in effetti questo gioco che stiamo compiendo si avvale unicamente di questo, non si supporta su nessun atto di fede, non dà per acquisito nulla che non sia necessario accogliere per il solo fatto che si sta parlando. Però dicevamo poc'anzi del credere, come sia possibile credere qualcosa, e a questo punto possiamo indicare con "credere" il pensare che ci sia almeno un elemento che non sia all'interno di questa struttura, e che pertanto dall'esterno di questa struttura possa garantire (in quanto immobile, immutabile) la possibilità stessa di raggiungere la verità, qualunque essa sia non ha importanza. Ora che il linguaggio sia cosa assai mutevole è cosa nota fin dagli antichi, da qui la necessità di trovare un qualche cosa che potesse consentire di controllare il linguaggio e cioè che desse al linguaggio una solida base, ma dove andare a cercarla? Ciò che deve assolvere a questo compito occorre non solo che sia fuori dal linguaggio, ma sia anche reperibile, e qui sono sorti problemi di proporzioni bibliche per tutti quelli che con questa questione si sono confrontati, dal momento che qualunque cosa che è, qualunque cosa sia, deve necessariamente, per essere conosciuta, essere detta, come fare? Eccoci, allora il linguaggio l'ha inventato dio. Quale migliore escamotage, è lui l'artefice, in principio era il verbo, essendo lui l'artefice del linguaggio ovviamente ne ha il controllo, e soltanto lui può garantire che il linguaggio sia qualche cosa che ha un'esistenza che va al di fuori di sé. Ora naturalmente, tutto questo può non essere creduto, o non essere creduto affatto, eppure funziona, funziona straordinariamente bene, tanto che non sembra, almeno da quanto siamo venuti a saper fino ad oggi, che sia mai esistita una civiltà senza una religione, di qualunque forma fosse, e cioè senza un qualche cosa che non fosse creduto. Perché? Questa è una bella questione dal momento che ci risulta non essere così necessario, eppure... possiamo fare una congettura, muovendo dalle cose che abbiamo dette, se io dico qualcosa, qualunque cosa, per esempio questo che sto dicendo io lo sento, è lì sotto forma di suono, intanto, ed è un qualcosa. Potremmo dire che dicendo, intanto faccio qualcosa, e questo qualche cosa rimane lì, impalpabile, inafferrabile, ma c'è. Come lo so che c'è? Bisognerà pure domandarcelo, lo so perché ciò che c'è e cioè il mio discorso è esattamente ciò che costruisce delle proposizioni che mi consentono di dire che esiste, che c'è. A questo punto ho di fronte qualche cosa di cui posso dire che c'è, e cioè in altri termini posso dire che esiste, e in effetti incomincia ad esistere dal momento in cui lo posso dire, da quel momento esiste, inesorabilmente. Dunque esiste qualche cosa necessariamente, perché parlando lo produco, però manca ancora un elemento perché io creda qualcosa, e cioè il fatto che producendo qualcosa parlando, trovandomi di fronte alla mia produzione, io accolgo ciò che ho prodotto come qualcosa che esiste necessariamente e allora, ecco, a questo punto posso credere che qualcosa ci sia, anzi posso saperlo. Ma non soltanto, non è sufficiente neanche questo, occorre un altro elemento ancora perché io creda, occorre questo:  che ciò che produco dicendo abbia un'esistenza indipendente da me, da me che l'ho prodotta. Voglio dire questo, io produco qualche cosa, per esempio adesso che sto parlando produco dei suoni, dei significanti, questi esistono indipendentemente da me oppure no? Verrebbe da rispondersi che una volta detti, questi esistono, dicendosi esistono indipendentemente da me. Ma non è così, senza di me che mi pongo queste domande, senza di me che mi pongo queste risposte tutto ciò non esiste. Ma intendendo con esistenza non un qualche cosa che sia fuori dalla parola, che esista di per sé, abbiamo detto varie volte con gli amici, la stessa esistenza non si vede perché debba esistere di per sé, ma esiste per qualcuno, per qualcuno che sia in condizioni di pensare e quindi di dire che esiste, allora esiste, se no niente, anzi non è neanche questo perché lo stiamo dicendo. Tutto questo che è molto semplice, comporta però un contraccolpo violentissimo e questo è l'aspetto, chiamiamolo, "pratico" fra virgolette. Il contraccolpo consiste in questo che è un po', almeno per il primo aspetto, una posizione scettica o nichilista addirittura: nulla è fondabile, nulla è fondato, e allora muoia Sansone con tutti i Filistei! Non importa più di niente, tanto nulla ha un senso, ecco questa è una posizione che potremmo chiamare ingenua, in quanto considera quanto detto fino adesso come una sorta di regola di vita, o di dogma o di nuova religione e quindi deve essere seguita, se questo dice così allora è così. No, io non ho detto propriamente nulla, sto soltanto facendo un gioco, ho detto mille volte agli amici: le cose non stanno così come vi sto dicendo, non stanno proprio, e quindi neanche così, è un gioco che può farsi, insieme con molti altri, né migliore, dicevamo prima, né peggiore di qualunque altro, né più né meno legittimato di qualunque altro. Perché ci interessa allora questo gioco più di altri? Facciamo questo gioco, anziché giocare a briscola, perché questo gioco perché conduce il pensiero, e quindi il discorso, fino alle estreme conseguenze, e cosa succede portando il discorso alle estreme conseguenze? Succede che tutto ciò che io penso lo accolgo in quanto gratuito, arbitrario, qualcosa che procede da altri elementi altrettanto arbitrari e non mi consente mai di credere che le cose stiano così o in qualunque altro modo, perché immediatamente mi troverei nell'occorrenza di chiedere conto di quale sia il criterio per potere stabilire che le cose stanno in questo modo. Utilizzando il pensiero in questi termini si possiedono immediatamente gli strumenti per potere dissolvere qualunque discorso o proposizione che affermi di sé di essere vera, quindi necessaria. Che cosa rimane a questo punto? Rimane una sorta di estrema libertà, libertà di affrontare qualunque cosa senza dovere limitarsi credendo a questa o a quell'altra cosa. Perché se io credo una certa cosa a quel punto il discorso è arrestato, è fermo perché è così e se è così non può essere altrimenti. Se io so che è così e anche altrimenti, e altrimenti ancora, come mi disporrò nei confronti di questa cosa? Per esempio, questo gioco che sto facendo, come mi dispongo nei confronti di questo gioco dunque? Se non come un gioco, un gioco che cerco di rendere più divertente, più interessante aggiungendo altri elementi, intendendo altre implicazioni e altre connessioni. Ma ci si potrebbe domandare: non c'è nulla al di fuori di un gioco? Questa è una bella domanda, dal momento che qualunque risposta tenti sarà sempre all'interno di un gioco, però questo non è grave, anzi è una chance, una chance per affrontare qualunque cosa in modo non ingenuo, cogliere immediatamente tutti i possibili risvolti, la connessioni, le implicazioni, contraddizioni, antinomie, per dirla in una parola, l'assoluta insostenibilità di qualunque cosa io stesso mi trovi, per un motivo o per l'altro, a sostenere. Non è che non possa sostenere nulla, lo posso fare benissimo, ma non posso non sapere che ciò che sto sostenendo è un gioco, è un gioco da cui non c'è uscita, non c’è uscita dal giocare, diciamola pure così. È chiaro che ciò che può trarsi da una cosa del genere è molto, tenendo conto delle implicazioni di tutto ciò, fino a pensare che se un discorso come questo potesse essere allargato a qualcosa di più che a quattro o cinque amici con cui chiacchiero, si dissolverebbe tutta la civiltà occidentale, così com'è strutturata ovviamente, perché è strutturata sulla credenza, sulla superstizione, su varie forme di religione senza le quali si dissolverebbe inesorabilmente, così come si dissolve inesorabilmente, mano a mano che si procede lungo questa elaborazione, tutto ciò in cui si crede. Non si tratta di perdere i valori, come dal suo verone diceva il Papa l'altro giorno, o del vuoto o del pieno, ma soltanto di domandarsi che cosa si stia dicendo, dicendo una cosa del genere, dicendo per esempio che non ci sono valori. Cosa sto dicendo esattamente? A questo punto mi do una risposta, ma quante posso darmene? Nel momento in cui questo processo diventa infinito, cioè di fronte a questa semplicissima domanda "che cosa sto dicendo, dicendo che non ci sono i valori?" quando mi accorgo che le risposte sono infinite ci si incammina lungo una serie di rinvii di cui non è possibile in nessun modo decidere l'ultimo. Ecco che a questo punto la domanda assume un'altra connotazione, e cioè non me la pongo più per avere una risposta, che so perfettamente non avere nessun senso, però la domanda me la pongo lo stesso cioè "cosa sto dicendo dicendo questo?" e allora ciò che mi rispondo è altro, e cioè per esempio, perché mi sto facendo questa domanda? Perché mi sto chiedendo qualcosa intorno ai valori? Posso rispondermi: "perché sto pensando una certa cosa", ma questo "perché" è da intendere in modo un po' particolare in effetti, poiché se come dicevo prima non si aspetta nessuna risposta, nessuna risposta che chiuda la questione, allora è come se aprisse la porta a innumerevoli altri pensieri, che possono essere accolti, e questi pensieri ad altri ancora... come in una sorta di caleidoscopio. La libertà di cui dicevo consiste anche in questo, soprattutto nell'avere a disposizione, per così dire, una quantità sterminata di rinvii, poi chiaramente ne utilizzo uno eventualmente, sapendo perfettamente che non è necessario, sapendo che lo accolgo per una questione, chiamiamola così, estetica o più propriamente, posso anche non sapere perché quello, non so da dove venga il linguaggio, non so perché penso certe cose anziché altre, però posso accoglierle anziché bloccarle sul nascere, pensando che le cose stiano così. "Quella persona" per esempio, dice il tale "è uno sciagurato, perché ha fatto così" potrei pensare che le cose potrebbero essere in tutt'altro modo? Magari in quel momento no, se potessi farlo la stessa proposizione magari verrebbe detta, ma anziché con tragica certezza con ironia, per gioco... È tardissimo, Roberto, una questione. No? Aspettiamo un momento.

- Intervento: la poesia può permettersi di dire: "quella rosa è rossa". Allora mi chiedevo se questo filo conduttore "gioco" non sia in stretto rapporto proprio con il linguaggio poetico, che si serve del linguaggio proprio per contestarne le stesse convenzioni, lei parlava del principio del terzo escluso....

Sì, certo, però ciò che ho indicato prima prendendolo da Aristotele, il principio del terzo escluso, ponendolo come procedura non lo pongo tanto come convenzione, per cui potrebbe anche non essere. È una delle procedure di cui è fatto il linguaggio, e non può togliersi salvo la dissoluzione del linguaggio. Il discorso poetico, dicendo che la rosa non è rossa, compie una figura retorica, che per potere farsi deve sapere che la rosa è rossa. Così come per esempio, l'ossimoro, l'accostamento di due termini opposti "un bianco nerissimo" è possibile (cioè ha una funzione retorica) perché esiste una procedura per cui bianco è una cosa e nero è un'altra, se no questa stessa, chiamiamola "trasgressione" tra virgolette retorica cesserebbe. La stessa metafora non potrebbe farsi in nessun modo, occorre che la metafora venga intesa, e attraverso che cosa viene intesa? Attraverso delle procedure, cioè io so che una cosa è quella, che il significante bianco ha un significato, e il significato è quello per cui se dico bianco, bianco è quello che è, non è nero, cioè esclude ciò che non è. Formulando i suoi tre famosi principi, Aristotele ha individuato qualcosa di molto potente, e cioè in effetti ha individuato (almeno in buona parte) ciò che costituisce il funzionamento stesso del linguaggio, senza queste procedure il linguaggio cesserebbe, perché allora dicendo bianco direi anche nero, rosso, cane, mucca ecc.. direi tutto e quindi non direi niente, e quindi non potrebbe darsi in nessun modo il linguaggio poetico, che invece gioca proprio su questo, cioè su queste varianti. Ma le varianti occorre che varino rispetto a qualche cosa, se no non sono colte come varianti, la metafora non è colta come metafora ecc. Ecco, è di queste invarianti che ci siamo occupati, cioè che cosa effettivamente funziona come procedura nel linguaggio, che cosa non può variare salvo la dissoluzione stessa del linguaggio. Come direbbero gli informatici: qual è l'hardware del linguaggio, cioè che cosa consente al linguaggio di funzionare così come funziona.

- Intervento: la credenza come bisogno degli umani...

Però questo ci sposta soltanto la questione, perché dovrebbe credere una cosa del genere?...(...) sì immagina che questo bisogno ci sia di per sé, ciascuno ha bisogno di credere Lei dice, però questo viene posto come una sorta di principio. "Io avverto il bisogno di credere" che cosa sto dicendo con questo? Da dove viene questa cosa, che cosa mi dice? In effetti è questa è la questione centrale, se io credo, generalmente è perché avverto questo bisogno, il più delle volte è così, però è proprio ciò che Lei chiama "bisogno" che a noi interessa intendere, come si struttura, come si configura. Ho provato a dire qualche cosa a proposito di come avviene che si creda, si avverta il bisogno di credere che qualche cosa sia assolutamente immobile, stabile, ferma. Da qui la necessità di trovare questo elemento, che è stato chiamato dio, poi uno può chiamarlo come gli pare, però dio ha questa prerogativa di essere identico a sé.

- Intervento:...

Sì certo, e questo rende conto della difficoltà di accogliere un argomento come questo che andiamo svolgendo...

- Intervento:...

Sì, dargli un significato, come dire "sto male per questo". Non ricordo più il nome, ma qualcuno faceva un discorso di un certo interesse rispetta alla caduta del comunismo, i due blocchi non sono più due, ma si frammentano, non c’è più un nemico individuato come tale del quale dire che se non ci fosse tutto sarebbe più facile e tutti staremmo meglio, cioè non posso più trovare un motivo, una causa a un disagio che avverto, e allora questo disagio mi ripiomba addosso e allora proprio nel momento in cui io ho tutto quello che ho sempre desiderato, la pace, la sicurezza, la serenità e tante altre belle cose, proprio allora avviene una catastrofe psichica. Freud scrisse un saggio dal titolo Coloro che soccombono al successo, ad un certo punto uno ottiene tutto quello che vuole dalla vita, e adesso ? E adesso si accorge che ciò che ha ottenuto non lo soddisfa, manca ancora qualche cose ma non sa che cosa. Ora è molto difficile stabilire che cosa sia questa altra cosa, ecco, naturalmente il Papa insinua che sia il bisogno di religiosità: con il nostro dio starete tutti bene, sarete appagati. Sì, finché si crede grosso modo è così, però in effetti c'è qualche altra cosa che sta funzionando, che forse funziona e che non soltanto impedisce questo contraccolpo, ma lo utilizza. Siamo andati ipotizzando che la cosa che possa arginare questo contraccolpo, questa catastrofe psichica sia, Roberto, proprio la teoresi, la ricerca teoretica. Sa perché? Perché è quella che... quando ci si è trovati di fronte alla... chiamiamola così, la vanità di qualunque discorso, di qualunque pensiero, ciò che continua a interrogare è la struttura di ciò che mi consente di fare queste operazioni. Ridotta all'osso la questione, ci si trova faccia a faccia esattamente con questo, ed è a quel punto che il processo diventa irreversibile, non può tornare indietro perché qualunque altra cosa, a quel punto, è assolutamente marginale, inutilizzabile... posso farne tutto quello che voglio ma non è questo che mi interessa, non è questo, non è sufficiente, non basta più. Ci vuole altro. Che cosa? Qualcosa che si mostri la condizione di qualunque altra e allora non si può non vertere, inesorabilmente direi, su questo. Inesorabilmente dicevo, perché qualunque altra cosa mostra la corda, non basta più, per lo stesso motivo per cui una persona adulta si stufa a giocare a birilli, come faceva da bambino. Perché? Perché non gli basta più giocare così, dopo tre secondi si è annoiato. Che cosa non annoia (e non può farlo) se non l’inarrestabile, l’ineludibile?