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Torino, 28 settembre 2010

 

Libreria LegoLibri

 

IL GIOCO DEL PENSIERO

 

Luciano Faioni

 

Per una psicanalisi sovversiva

 

 

La volta scorsa abbiamo parlato del controllo delle masse e ci siamo posti alcuni interrogativi, oltre a fare alcuni esempi di come funziona, di come avviene, e ci domandavamo perché controllare le masse, a che scopo, perché qualcuno dovrebbe volere controllare qualcun altro? A che scopo? La questione ci aveva condotti a considerare che da sempre, almeno da quando gli umani esistono, gli umani fanno di tutto per imporsi sull’altro, avere ragione dell’altro, mantenere il potere sull’altro, il controllo sull’altro, e questo appariva un fenomeno che alcuni considerano naturale, inevitabile, anche perché non si è mai evitato, vale a dire che da sempre avviene che gli umani cerchino di sopraffare altri umani. Non c’è propriamente una risposta a questa domanda come dicevamo la volta scorsa, dire che è sempre avvenuto così o è naturale che sia così significa niente, e allora ci eravamo proposti, questa sera, di rispondere a questa domanda: perché gli umani fanno questo anziché non farlo, visto che nessuno li obbliga, tecnicamente potrebbero anche non farlo. Se si considera che cosa fanno e stanno facendo le varie scienze umane per intendere questi fenomeni ci si accorge che in realtà non è molto, non è molto nel senso che tutto ruota intorno a una sorta di tentativo di adattamento alla realtà. Ci sono delle discipline abbastanza recenti, come la programmazione neuro linguistica, questa disciplina per esempio, si occupa di porre una persona nelle migliori condizioni per potere avere successo nei confronti di altri ovviamente, quindi avere ragione del prossimo direttamente o indirettamente e anche in questo caso nessuno si domanda perché qualcuno ha il desiderio, la velleità di avere successo su altri, perché? Tutte queste discipline che si interrogano sull’agire degli umani hanno in comune una sorta di desiderio di fare funzionare meglio la persona nei confronti della realtà. C’è stata a Torino la settimana scorsa credo, una manifestazione nota come Torino Spiritualità, in questa manifestazione sono intervenuti alcuni buddisti o studiosi del buddismo e per curiosità ho data un’occhiata ai loro interventi, anche in questo caso l’intendimento è sempre rivolto verso la realtà e cioè porre la persona nelle migliori condizioni per adattarsi alla realtà, per fare parte della realtà, addirittura qualcuno diceva che gli umani sono nati per vivere insieme e quindi la loro felicità consiste nell’essere altruisti. Questione antica, anche il cristianesimo lo dice e anche altre religioni, nulla di nuovo, però la questione, anche questa antica, è che questo non si verifica, ammesso e non concesso che questo comporti la felicità, anche perché qualcuno potrebbe essere felice anche per conto suo, per gli affari suoi, non è obbligato a essere altruista e cioè volere il bene del prossimo, sempre tenendo conto che in alcuni casi può essere non semplicissimo sapere qual è il bene del mio prossimo, non è così automatico anche perché ciò che per esempio può essere bene per me non è detto che lo sia anche per qualcun altro, talvolta occorre andarci cauti con queste manifestazioni anche perché talvolta si scivola verso una modalità che è quella di imporre il bene al prossimo. Comunque sia, tutte queste persone lanciavano un messaggio, un messaggio che è questo: occorre interrogare tutto. È un messaggio che possiamo accogliere tranquillamente e possiamo interrogare tutto, ma proprio tutto, non soltanto ciò che queste persone ci invitano a interrogare, ma se dobbiamo interrogare tutto dobbiamo interrogare anche il loro stesso invito, da dove procede? Su cosa si sostiene? Che cosa significa? Interrogare tutto può essere interessante e cioè fare quella specie di gioco che fanno i bambini, il gioco dei perché. Chiedersi perché continuamente, e a qualunque risposta rinviare un altro perché, che non è molto lontano da ciò che fa un analista nel proprio mestiere: continuare a interrogare, ed è proprio continuare a interrogare che definisce una ricerca teorica, ma interrogare effettivamente qualunque cosa oppure soltanto alcune? Anche questa è una questione, se effettivamente decidessimo di interrogare qualunque cosa allora ci troveremmo in un percorso che ci costringe a un rigore assoluto, cioè non c’è nessuna cosa che non debba essere interrogata, ma dove porta una cosa del genere? Forse molto aldilà di quanto queste stesse persone potessero immaginare, e invece noi andiamo avanti e proseguiamo l’interrogazione, fino a che punto, dicevo, si può interrogare? C’è la possibilità effettivamente di interrogare qualunque cosa oppure ci sono cose che non possono essere interrogate? La più parte delle persone propende per questa seconda ipotesi e cioè che ci siano cose che non possono essere interrogate, non è che forniscano motivi molto convincenti a questo riguardo, però è un’opinione abbastanza diffusa che il pensiero degli umani possa arrivare solo fino a un certo punto, senza specificare bene quale, come se rimanesse sempre un enigma, un mistero, un qualche cosa di insondabile che, se si ritiene essere insondabile, non si capisce neanche bene come si faccia a saperlo visto che non le si possono indagare. Eppure se prendiamo alla lettera questo invito all’interrogazione ci troviamo in una sorta di regresso all’infinito, e cioè cercando le cause, i motivi di qualunque cosa si arriva a un punto in cui non ci si può esimere dall’interrogare ciò stesso che consente di interrogare. Intendo dire questo: quando mi interrogo su qualcosa cosa sto facendo esattamente? Che cosa mi consente di compiere questa operazione? Perché la faccio? E nell’eventualità che io tragga una risposta, a quali condizioni considero un qualcosa una risposta, a quali condizioni la accolgo? Se dobbiamo interrogare tutto dobbiamo interrogare anche questo, vale a dire che prima di perdersi in fantasie più o meno bislacche occorre incominciare a stabilire qualche cosa che mi consenta di proseguire in modo rigoroso anziché perdermi dietro a fantasie assolutamente arbitrarie che magari giungono farmi affermare che la felicità consiste nell’essere altruisti, perché? Chi l’ha detto? Come sostenere una cosa del genere? Questo è un esempio di come si può giungere a compiere delle affermazioni che in effetti non hanno nessuna possibilità di essere provate e di conseguenza di essere accolte se non come atti di fede, tutti gli inviti alla realtà che vengono compiuti, anche da tutta la psicologia per esempio, sono inviti a considerare che le cose esistono, la realtà letteralmente sarebbe la coseità, la realtà res, e cioè ciascuna cosa è quello che è, e a questo riguardo come non pensare alle parole di Wittgenstein il quale invece affermava che l’affermare che qualcosa è, è la posizione del mistico, quindi del religioso, di colui che non interroga ma afferma e basta. Ma torniamo alla questione che ci interessa e cioè interrogare gli strumenti, i mezzi stessi che ci consentono di interrogare, perché in una ricerca teorica o si procede così o è meglio lasciar perdere e dedicarsi al giardinaggio. Sapere dunque che cosa si sta facendo, per quale motivo, e quali strumenti si stanno utilizzando per pensare, per ragionare, per trarre conclusioni. Chi ha mai pensato a una cosa del genere? Qualunque conclusione trarrò l’avrò tratta in seguito a delle argomentazioni cioè a delle valutazioni, avrò valutato che una cosa va bene e un’altra va male, ma in base a che cosa? A un criterio estetico, cioè mi piace questa cosa e quest’altra no? Oppure al ghiribizzo del momento? Ho tirato una monetina o che altro? E allora, quando si arriva a fine corsa e cioè si interroga, come suggeriva quel signore, di cui non ricordo assolutamente il nome, di interrogare tutto, si arriva a qualche cosa che è la condizione per interrogare qualcosa, e allora sorge a questo punto una domanda fatidica, e cioè gli umani come pensano? E con che cosa? Prima ancora di preoccuparci se esiste qualche cosa intorno a cui pensare è preferibile riflettere su come si pensa e che cosa lo consente, proprio per evitare queste trappole del mistico, come lo chiamava Wittgenstein, cioè del religioso, il quale considera che le cose esistono e basta, affermazione impegnativa, occorre provarla, sempre se si procede in ambito teorico. È una questione poco considerata, generalmente ci si occupa di quelle discipline che studiano la realtà, i dati, i fatti, ma ciò che ci consente di compiere queste operazioni, anche di pensare che ci siano dei dati e dei fatti, questo non viene molto considerato. È curioso se ci si pensate bene, qualcuno lo aveva considerato molti anni fa, come i sofisti per esempio, o alcuni altri, pochi dopo di loro, e poi bisogna fare un salto di quasi duemila anni per arrivare ad alcuni filosofi del linguaggio, logici, che hanno incominciato a porsi la questione, per esempio dicevano: quando stiamo parlando della realtà di cosa stiamo parlando esattamente? Parliamo di qualcosa o parliamo di niente? La realtà è considerata generalmente come ciò che cade sotto i sensi, perché la indichiamo così? Anziché in un altro modo? È un criterio, ma questo criterio come sappiamo che è necessario? Che è l’unico? Che è quello che fornisce la certezza? Per esempio tanti anni fa, parlo dei greci antichi, non avevano una grande opinione dell’esperienza, dell’empiria, soggettiva, instabile, tant’è che ciascuno vede le cose come gli pare. Perché per esempio in psicologia, nella psicanalisi esistono tante teorie? Perché si basano tutte sull’osservazione e l’osservazione dovrebbe essere l’osservazione della realtà quindi dovrebbe essere una e invece ciascuno osserva quello che gli pare, per esempio la realtà psichica è quella che definisce Freud o quella che definisce Jung? O quella che definisce Reik? O quella che definisce Bion o infiniti altri? Questa questione è importante, è straordinariamente importante. Stiamo parlando della realtà perché effettivamente incominciando a riflettere intorno al pensiero e a che cosa lo fa funzionare ci si rende conto che non è soltanto uno strumento per definire qualche cosa ma è molto di più, anche se non è facile accorgersene perché ciascuno è avvezzo fino da quando è stato addestrato a parlare, a considerare la realtà appunto come ciò che cade sotto i sensi. I sensi grosso modo funzionano e c’è una sorta di accordo, è come se fosse un gioco con delle regole, tutto ciò che io vedo, tocco, lo chiamo realtà, va bene, non c’è nessun problema a una cosa del genere, così come si stabilisce, per esempio, che se si gioca a poker quattro assi battono due sette, regole di un gioco. Il problema sorge quando ci si domanda se è qualcosa di più di una regola del gioco stabilire che la realtà è ciò che cade sotto i miei sensi, perché a questo punto o si stabilisce che l’osservazione è un dato assolutamente certo, l’osservazione ma anche il calcolo numerico naturalmente visto che per esempio nella fisica insieme con l’osservazione c’è il calcolo numerico, e cioè che questi due metodi sono assolutamente certi e se così è allora occorre provarlo, oppure li si considera effettivamente dei giochi, si stabilisce che chiamo così tutto ciò che produce una certa sensazione al tatto per esempio, posso farlo. Nel medioevo pensavano che le cose esistessero perché dio le faceva esistere, è un criterio anche quello né più né meno affidabile di altri, e quindi è valido anche quello oppure come pensano alcuni scrittori di fantascienza perché i marziani o qualche mente strana ha ideato il tutto e ce lo ha messo a disposizione, anche questa è una ipotesi, perché no? Come faccio ad affermare con assoluta certezza che l’unico criterio possibile per stabilire che cos’è la realtà è l’osservazione e quindi i sensi, chi lo garantisce? Quei personaggi, non tantissimi, che si sono occupati della cosa si sono trovati in difficoltà per cui per un verso abbandonata hanno la ricerca, per l’altro si sono adattati all’uso comune: i più pensano questo quindi va bene così, però non è un granché come criterio visto che dobbiamo prendere alla lettera questo “interrogare tutto”, e quando si arriva a fine corsa e ci si trova a interrogare anche queste cose, per avere dei riferimenti, se no si brancola nel nulla. Per esempio si potrebbe obiettare che le cose che si sentono sono reali? Il freddo per esempio, e cioè si reagisce a degli stimoli, propriamente delle variazioni di stato, però come dicevamo la volta scorsa, qualunque cosa reagisce a degli stimoli, anche un bicchiere, se lo faccio cadere si spacca, un termometro messo nel frigorifero reagisce anche lui, sentono oppure no? A questo punto potrei dire sì, si reagisce a degli stimoli, è possibile certo ma questo di fatto non ci autorizza ad affermare alcunché con certezza. Sto insistendo su questa questione perché è una delle roccaforti della religiosità del discorso occidentale, uno di quei punti che a fatica si lasciando dietro alle spalle anche perché apparentemente lasciano il vuoto, se la realtà non è qualche cosa di stabile, di fisso, di sicuro, una garanzia, come affermare qualcosa di vero se non c’è un riferimento che garantisca tutto quello che sto dicendo? Ci si affaccia di fronte a una sorta di baratro, di nulla, a meno che non si consideri invece più attentamente tutto ciò che ci consente di fare tutte queste considerazioni. Di fatto fino adesso cosa è avvenuto? Abbiamo costruite sequenze di proposizioni, non abbiamo fatto nient’altro che questo, e allora ciò che mi sta consentendo adesso, in questo istante, di parlare con voi è anche quella cosa che mi consente di pormi delle domande, di darmi delle risposte, quella cosa che costruisce le risposte così come costruisce domande, che mi consente di accogliere delle risposte, di scartarne altre, di non farmi certe domande ma di farne altre, che cos’è questa cosa? Che per altro è anche quella cosa che consente a chiunque di costruire un criterio di verifica, che può essere l’osservazione, il calcolo numerico, qualunque cosa, che cos’è dunque? Se trovassimo questo elemento allora forse effettivamente saremmo arrivati a fine corsa, oltre il quale punto non è possibile andare. Supponiamo per un istante che questo elemento io dica che è il linguaggio, ma naturalmente con linguaggio intendo non la verbalizzazione di qualche cosa o una cosa personale o chissà che cosa, ma semplicemente delle informazioni che servono a costruire proposizioni, nient’altro, per il momento fermiamoci lì. Il DNA per esempio, propriamente è costituito da informazioni per costruire proteine. Supponiamo che il linguaggio sia costituito soltanto dalle informazioni per costruire proposizioni, nient’altro che questo, naturalmente costruendo queste proposizioni costruisce discorsi, costruisce fantasie, costruisce qualunque cosa, tutto ciò che gli umani hanno detto, pensato, fatto e non fatto da quando esistono. Questa cosa che di fatto è una struttura è quella che consente agli umani, come dicevo prima di pensare, di trarre conclusioni, di dire le cose che stiamo dicendo, di pensare, per esempio, di essere umani, anche questa banalissima cosa senza linguaggio non potrei pensarla in effetti. Questa struttura è molto semplice e alcuni l’hanno inteso, per esempio i logici hanno inteso come funziona: deve procedere in un certo modo e deve concludere sempre con una proposizione che non contraddica quella da cui è partito, questa è una delle regole del gioco, deve concludere con una affermazione vera, che sia riconosciuta come vera all’interno del gioco che si sta svolgendo, questo è il motivo per cui gli umani per esempio cercano di evitare di dire cose false e anzi se sanno che una certa cosa è falsa la evitano, perché lo fanno? Perché sono costretti da ciò di cui sono fatti a muoversi così. Portare all’estreme conseguenze una qualunque interrogazione significa esattamente incominciare a interrogarsi sulle condizione per potere porre questa come qualunque altra interrogazione, o si fa questo o non si fa niente, si gira in tondo, cosa consente dunque di pensare? Questa cosa che indicavo prima con linguaggio, al quale molti incominciano ad avvicinarsi, è il punto di arrivo, oltre non si può andare: non si può uscire dal linguaggio, dal momento in cui una persona è presa nel linguaggio, da quel momento non può più uscirne, primo perché senza il linguaggio non gli verrebbe neanche in mente di uscire da alcunché, poi dovrebbe avere un motivo per farlo e questo motivo procede dai suoi pensieri e i pensieri procedono dal linguaggio, terzo, se uscisse fuori dal linguaggio, non essendoci linguaggio come lo saprebbe? In base a quali considerazioni? Per questo possiamo affermare che fuori dal linguaggio non c’è nulla, so che può apparire bizzarra la cosa tuttavia occorre rifletterci bene perché se fosse così allora non ci sarebbe nulla che non fosse linguaggio. Se affermassi che esiste qualche cosa che è fuori dal linguaggio, oltre ad affermarlo dovrei anche provarlo, se no è un atto di fede, però diventa complicato provare una cosa del genere, straordinariamente complicato. Si potrebbe dire che il fatto che parli oppure no non toglie che il tavolo ci sia, si potrebbe dire anche una cosa del genere, cosa per altro straordinariamente ingenua, che altro si potrebbe dire? Che il linguaggio non è tutto, naturalmente qualcuno potrebbe chiedere come fa a saperlo che c’è qualcosa che non è linguaggio, come lo ha saputo? Se è fuori dal linguaggio, come lo conosce, come lo esperisce? Con cosa lo considera, insomma se si fa come suggeriva quel tale e cioè si interroga tutto ci si trova di fronte a delle questioni che da una parte sono straordinariamente semplici, dall’altra straordinariamente complesse: semplici perché il linguaggio di fatto è qualcosa che è da sempre sotto gli occhi di tutti, che tutti si trovano continuamente a praticare, poi che lo sappiano o no questo è un altro discorso, d’altra parte dicevo straordinariamente complesso perché in effetti ciascuno è stato addestrato fino da sempre a non occuparsi mai di ciò che lo fa esistere, anche perché il linguaggio funziona benissimo anche senza che nessuno si chieda come è fatto né come funziona. Eppure cosa accadrebbe Eleonora se non esistesse questa cosa che chiamiamo linguaggio? Naturalmente non possiamo saperlo in nessun modo visto che ci troviamo nel linguaggio però possiamo fare qualche congettura, qualche congettura che non possiamo sicuramente provare, ma succederebbe niente, assolutamente niente, tutto ciò che ciascuno pensa, ricorda, immagina, suppone, le sue decisioni, i suoi patemi d’animo, le sue speranze, i suoi progetti, le sue attese, tutto ciò non sarebbe mai esistito né nessuno potrebbe pensare di sé di essere un essere umano, né potrebbe mai domandarsi se esiste per esempio, a questo punto si potrebbe aggiungere ancora un elemento e cioè domandarsi se le cose comunque esisterebbero in assenza di linguaggio, ma questa domanda non ha nessun senso perché non ha nessuna risposta possibile, nessuna risposta provabile, e quindi si può rispondere qualsiasi cosa e il suo contrario. Dal momento in cui si incomincia a considerare questa struttura che è quella che fa pensare, che produce quelle sequenze che noi chiamiamo pensieri, chiamiamo speranze, chiamiamo progetti, chiamiamo affetti, qualunque cosa, e si incomincia a considerare attentamente il funzionamento di questa struttura allora c’è la possibilità di sapere sempre e perché gli umani pensano quello che pensano: se sono fatti di linguaggio e se si conosce perfettamente come funziona il linguaggio allora si sa come funzionano gli umani e perché pensano quello che pensano, e perché ciascuno pensa quello che pensa, sa anche perché per esempio desidera avere ragione dell’altro, a questo punto tutto diventa straordinariamente semplice perché è una struttura che funziona esattamente sempre allo stesso modo. Avere ragione dell’altro significa imporre quello che io penso, e perché devo imporlo? Perché lo penso vero ovviamente a meno che non menta ma anche in questo caso se mento so che cos’è la verità, imporre dunque qualcosa a qualcuno perché quello che penso è vero, perché altri devono certificare che quello che penso è vero tant’è che se invece dicono che è falso incomincio a innervosirmi. Sapere perché gli umani hanno la necessità di avere ragione dell’altro è sapere che il linguaggio deve comunque costruire proposizioni che concludano in un modo vero, e questo modo vero deve essere in qualche modo certificato da qualcuno, il più delle volte, e quindi c’è la necessità che altri mi diano ragione se no non me ne importerebbe assolutamente niente, e se altri mi danno ragione allora sono contento e più sono e meglio è, fino a dovere persuadere le folle o piegare nazioni intere o persuadere qualcuno, anche uno solo. Adesso diventa più semplice sapere perché si compiono tutte queste operazioni sapendo come funziona il linguaggio, che costruisce delle sequenze che muovono da una premessa che viene considerata vera all’interno del gioco e attraverso passaggi giunge alla conclusione che deve essere coerente e vera, cioè non deve contraddire la premessa da cui è partito, a questa condizione ciò che si pensa lo si considera vero. Una volta che si è considerato vero allora c’è la necessità che questo mio pensiero debba essere condiviso e non ci debba essere nessuno che lo metta in discussione, qualunque elemento sorga a metterlo in discussione minaccia la verità di questa proposizione e quindi costringe a rimettere in gioco tutto, cosa che gli umani preferiscono non fare. Questo è solo un esempio naturalmente, ma c’è a questo punto la possibilità di intendere sempre e comunque perché ciascuno e di conseguenza gli umani pensano quello che pensano, perché sono fatti di linguaggio, se si sa come funziona il linguaggio si sa come funzionano gli umani, questo comporta degli effetti collaterali ovviamente. La volta scorsa parlavamo della necessità di credere, credere in qualcosa, in qualcuno soprattutto, in questo modo questa necessità scompare, le persone non hanno più bisogno di credere in niente né di morire per quello in cui credono né di ammazzare persone che credono in un’altra cosa, come avviene talvolta, o di fare altri malanni in nome di qualcosa in cui credono, potremmo dire che non c’è niente di più pericoloso di una persona in buona fede, in un certo senso, perché è inarrestabile, è mossa dal fuoco della fede e morirà per la sua idea, come accade. La sovversione della psicanalisi consiste in questo, nel porre la persona nelle condizioni di non avere più bisogno di credere in niente e quindi se una persona non crede in niente non è ricattabile in nessun modo, né da qualcuno, né da un’istituzione, né da un ideale …

 

Intervento: senta come proteggersi da chi crede di possedere la verità e quindi deve imporla?

 

Non c’è la possibilità di fare intendere a sei miliardi di persone simultaneamente una cosa del genere, muovendo dalla considerazione ormai vetusta che le rivoluzioni non servono assolutamente a niente, si tratta di lavorare con quelle pochissime persone che avvertono l’esigenza di saperne qualcosa di più, ma per il momento direi di scordarsi le grandi folle e le masse, mi sembra piuttosto improbabile anche perché una persona che crede fortemente qualche cosa non recede, pensi a un fondamentalista islamico, chi gli fa abbandonare la sua fede? Nessuno …

 

Intervento: però nel frattempo lui sopprime chi pensa di non aver nulla da credere …

 

Anzi lo ritiene essere il suo dovere. Certo. Occorre muovere dalle singole persone che intendono fare questo, non c’è nessuna altra possibilità di imporre una cosa del genere che per altro la sua imposizione sarebbe già una contraddizione in termini; prendere atto di ciò che sta accadendo, sapere e non potere non sapere che cosa accade nei propri pensieri e se qualcuno lo chiede porre questa persona nelle condizioni di potere fare altrettanto, per il momento non possiamo fare di più, però è già molto considerando che di fatto è l’unica cosa che si possa fare …

 

Intervento: certo se ci fossero molte persone che si interrogano e si incuriosiscono al linguaggio …

 

Sarebbe più divertente, certo …

 

Intervento: sarebbe più divertente certo e man mano essendoci delle persone che si interrogano e fanno in modo che anche altri si interroghino su queste questioni, la questione del potere, dell’esercizio di potere man mano cesserebbe di avere tutta l’importanza che invece ha, solo che è molto difficile trovare persone che abbiamo questi interessi perché le persone sono abituate ad ascoltare non colui che parla del funzionamento del linguaggio ma colui che impone che cos’è che è, e allora su questo trovano la curiosità. Se parliamo invece del linguaggio e di ciò che fa, come funziona, ciò che costruisce, della sua struttura ovviamente ecco che non essendoci molte persone che parlano di questo se non l’addetto ai lavori o lo studioso ecco che l’interesse delle persone decresce, preferiscono andare a vedere la partita di calcio …

 

Anche se alludeva a i cosiddetti addetti ai lavori, la quasi totalità di questi sono presi nelle pastoie della realtà e non escono fuori da lì, e finché non se ne esce non si va da nessuna parte, si continua a girare in tondo cioè si continua in quella direzione che Wittgenstein indicava in modo molto preciso come la posizione del mistico, e si continua a cercare un qualche cosa che non si troverà mai, così come è avvenuto per il pensiero occidentale in questi ultimi tremila anni, da quando esiste il pensiero fatto in un certo modo e cioè la ricerca che è stata fatta in buona parte della metafisica, della causa di tutto, chi ci ha messo dio, chi ci ha messo la natura, chi ci ha messo niente, il caos o quello che vuole, perché di fatto qualunque cosa va bene salvo invece dimenticarsi di quella cosa che si sta facendo mentre si cerca una cosa del genere, perché la si cerca, magari c’è qualche cosa, una struttura che costringe a cercare le cause, perché gli umani cercano le cause di tutto? A che scopo? Perché volere sapere qualcosa? Perché? Perché si sono ingegnati, anche menti piuttosto brillanti in questi ultimi tremila anni, che cosa li ha mossi a fare una cosa del genere? A volere sapere, sempre di più, perché? Naturalmente sapere cose vere, non cose finte o false, e perché si evitano quelle false? Cosa costringe a evitarle? Perché non è una decisione di qualcuno che decide “oggi accolgo le cose vere e invece domani che è giorno dispari accolgo quelle false” no, non funziona così, non funziona mai così …

 

Intervento: sì però cosa è vero per uno può essere falso per quell’altro …

 

Questo è totalmente irrilevante perché per la persona che ritiene vera una certa cosa quello che non è quello che pensa lui lo scarta e cerca anche di scartare quella persona che pensa in un modo diverso eventualmente …

 

Intervento: ma io ho sempre pensato, scusi, che l’elemento sovversivo della psicanalisi sia stato quello di risalire ai condizionamenti precoci, precocissimi dell’ambiente in cui siamo rinchiusi, perché è inutile star lì a chiederci se è a livello cosciente quando le nostre interrogazioni, le nostre risposte sono già in qualche maniera condizionate dai condizionamenti iniziali cioè mi sembra che sia quello l’elemento sovversivo della psicanalisi, individuare i determinismi del primo periodo della vita …

 

Il criterio di Freud è stato l’osservazione, lui osservava, considerava e traeva le sue conclusioni, ma la cosa fondamentale dell’opera di Freud è stata insegnare ad ascoltare e cioè a interrogare ciò che una persona dice, intendere che cosa la sostiene, le sue argomentazioni, perché le dice eccetera. Freud si è trovato a inventare un sistema, un sistema con alcuni capisaldi che siamo stati costretti a un certo punto a mettere in discussione, quello di inconscio per esempio, è uno dei pilastri di tutta la teoria di Freud, se si toglie la nozione di inconscio dalla teoria di Freud diventa un problema proseguire, ora in base alle acquisizioni che mano a mano siamo andati reperendo e considerando, ovviamente siamo stati costretti anche a interrogarci su questa nozione, curiosamente perché nessuno psicanalista lo fa. Ma per una sorta di onestà intellettuale non abbiamo potuto esimerci dall’interrogare questa nozione, e di conseguenza la teoria di Freud ovviamente. Dunque da dove viene questa nozione di inconscio? Quali sono i presupposti teorici che supportano una cosa del genere? Questa è la domanda che deve essere rivolta, e la risposta è: l’osservazione di Freud. Naturalmente non ho nulla contro Freud, però occorre anche considerare che questa teoria Freud l’ha costruita partendo da delle sue opinioni, da delle sue considerazioni, opinioni che per altro non aveva mai messo in discussione, come sapete Freud non ha mai fatto analisi, non c’erano psicanalisti prima di lui. Dunque l’osservazione, l’idea che esista un qualche cosa a fondamento o come causa di atti, di gesti, di comportamenti che altrimenti non riusciva a spiegare, da qui l’idea che ci sia stato un qualche cosa che li abbia motivati, naturalmente questa ipotesi può venire facilmente smentita, tant’è che molti per esempio si sono distaccati dalla teoria di Freud, hanno considerato altre cose mantenendo più o meno la nozione di inconscio che è utilissima, perché se eliminate la nozione di inconscio non si riesce più a spiegare niente e tutta la teoria psicanalitica crolla, quindi va mantenuta assolutamente e a qualunque costo, ed è stato fatto. Tuttavia a noi non interessava mantenerla a qualunque costo, Freud ha detto che esiste l’inconscio, e se non fosse così? Come essere assolutamente certi di una cosa del genere? E cioè che gli atti, i gesti di una persona, le sue parole siano dettati da qualcosa che risale a qualche altra cosa? È un’ipotesi, è possibile, non possiamo escludere che sia possibile ma da qui ad affermare con assoluta certezza che è così ce ne passa, e d’altra parte una costruzione teorica costruita su un’ipotesi che non può essere verificata …

 

Intervento: neanche con l’ipnosi? con le neuro scienze …

 

Non cambia niente, , come sappiamo che una persona sotto ipnosi sta dicendo qualche cosa di interessante? O ci atteniamo all’antico adagio “in vino veritas”, allora lo ubriachiamo e poi lo interpelliamo, ma anche in quel caso che ne sappiamo di quello che dirà? Sicuramente dirà cose che lo riguardano, che provengono dai suoi pensieri, questa è l’unica certezza che abbiamo, ma aldilà di questo nulla e nessuno ci autorizza a pensare che stia parlando delle cause dei suoi disagi. Poi anche la questione del disagio sarebbe da considerare in tutt’altri termini, ma sicuramente non lo faremo questa sera. Ecco, quindi si tratta di riconsiderare tutta la psicanalisi che di fatto non ha nessun fondamento, e invece trovare alla psicanalisi un fondamento, il più solido che sia possibile immaginare cioè quel fondamento senza il quale non solo non esisterebbe la psicanalisi ma non esisterebbero nemmeno gli umani, tant’è che un giorno giungemmo a dire questo: il linguaggio è il fondamento, è ciò che gli umani hanno sempre cercato, il fondamento di tutto, quello che è la condizione di qualunque cosa, del concetto stesso di esistenza, e senza quello in effetti è come se non fossimo mai esistiti. Qualcuno rammentava che fra qualche milione di anni, adesso mi sfugge il numero esatto, tutto il sistema solare impatterà contro una stella che si chiama Vega, in questi impatto si dissolverà tutto in una gran fiammata, dopodiché non è che gli umani con tutti i loro affanni, le loro storie, le loro cose non esisteranno più, da quel momento non saranno mai esistiti, e non aveva torto anzi potremmo dire che aveva ragione …

 

Intervento: sì volevo chiedere qualcosa sul linguaggio … ho capito poco, una delle domande è la diversità fra persona e persona, innanzi tutto se le persone si assomigliano … il linguaggio ha una struttura comune fra tutte le persone o è qualcosa di diverso? Poi l’altro aspetto: pensiero e linguaggio è la stessa cosa? o sono cose diverse?

 

Non ci sarebbe nessun pensiero in assenza di linguaggio, qualunque cosa capiti di pensare occorre che sia organizzato perché sia un pensiero. Il pensiero funziona ovviamente esattamente come il linguaggio, cioè muove da un elemento e attraverso dei passaggi giunge a una conclusione e il linguaggio non è una cosa personale. Eleonora, cosa dice Wittgenstein nelle ricerche logiche? Dice che il linguaggio è una cosa pubblica, non esiste un linguaggio personale, esiste un modo di parlare ma non ha nulla a che fare con il linguaggio, il linguaggio è la struttura che consente di parlare, che consente di pensare. Per esempio per tutti gli umani vige l’obbligo di concludere con qualcosa che non neghi la premessa, cioè vige l’obbligo di non autocontraddirsi, questo è un obbligo che nessuno ha imposto, non c’è una legge scritta nel codice civile o penale, non c’è, anzi se il codice civile o penale si sono potuti scrivere è perché vige questa legge, e questa legge è inderogabile, nessun può autocontraddirsi in nessun modo e per nessun motivo, così come nessuno di fatto può credere vero ciò che sa essere falso. Certo, è possibile mentire, ma se una persona mente è perché sa che qualcosa è vero, se non lo sapesse non potrebbe neanche mentire. Ci sono delle regole che sono comuni necessariamente a qualunque essere parlante, qualunque, se è parlante è proprio perché si attiene a queste regole, e queste regole di cui dicevo sono esattamente ciò che intendevo con linguaggio, che quindi non è personale, non è una mia decisione personale quella di non contraddirmi quando parlo, non posso non farlo, non posso decidere di non farlo anche perché una decisione per potere essere presa deve attenersi a queste regole cioè non deve essere autocontraddittoria, se no non posso decidere niente …

 

Intervento: la questione “psicanalisi sovversiva” pensavo questo cioè la soluzione della psicanalisi è quella della responsabilità, perché all’inizio lei parlava del controllo delle masse, Le Bon per esempio parlava di istinto gregario, questa necessità del padrone e quindi queste delega di responsabilità che è proprio tipica della struttura religiosa ed è una struttura religiosa il discorso della realtà, la realtà è al di fuori di me e quindi io non ne sono assolutamente responsabile, la subisco, ora la questione della psicanalisi ponendo la centralità del linguaggio e quindi per ciascuno il suo discorso fa sì che la persona possa ad un certo punto, questo avviene lungo una psicanalisi, possa accogliere la responsabilità dei suoi pensieri, accorgersi di cosa il suo discorso sta costruendo, quella che per lui stesso è la realtà è la produzione del suo discorso, quando si dice “ma uno la vede in una maniera e l’altro la vede in un’altra” che cosa vuol dire questo? vuol dire che il suo discorso attraverso i suoi pensieri, le sue fantasie, i suoi valori, tutto questo ha costruito quello che per lui è qualche cosa che ritiene essere vera, reale ma ritiene reale ma nello stesso tempo è qualche cosa che non lo riguarda in un certo senso e rispetto al quale non può fare assolutamente nulla ecco che allora la responsabilità, appunto accorgersi che per esempio di essere gli artefici di questa realtà pone anche delle condizioni differenti cioè non potere più subirla questa realtà ma accorgersi proprio di essere artefici …

 

Sì questa è una questione importante …

 

Intervento: in qualche modo poter seguire le proprie direzioni anziché star lì ed aspettare che arrivi una sorta di messia, attraverso qualunque veste questo messia si possa immaginare, a mettere a posto le cose …

 

È importante quello che ha detto, la questione della responsabilità, in effetti occorre portarla alle estreme conseguenze: ciascuno è responsabile di qualunque cosa compreso il fatto di volere vivere per esempio, anche di questo, il fatto di volere vivere porta a giocare un certo gioco con delle regole, per esempio evitare di morire, regola fondamentale se si vuole vivere, ma è un gioco che ciascuna persona può accogliere come un gioco di cui è responsabile: se continuo a vivere è perché voglio farlo e quindi naturalmente mi attengo a tutte le regole che mi consentono di compiere questo gioco. Si tratta di giochi linguistici, compresa la vita, non è affatto detto che uno voglia assolutamente vivere per esempio, se vuole vivere va bene, ma è una sua decisione ed essendo una sua decisione si attiene a tutte le regole di questo gioco naturalmente, quindi non c’è cosa di cui non sia responsabile, uno può anche chiedersi: perché voglio vivere? Perché? Anche se è una domanda strana posta così, ma uno può avere dei suoi buoni motivi, nessuno glieli contesta …

 

Intervento: per gli Stoici era addirittura possibile non aver più voglia di vivere …

 

Sì, ma anche per molti fondamentalisti. È una questione che è rimasta ancora oggi e che procede dal pensiero gnostico, l’idea che il corpo costituisca un peso dal quale occorra liberarsi, prendendo le distanze dai beni materiali e dalle incombenza materiali, ci sono ancora alcune forme di religione che lo sostengono, come se il corpo fosse un impiccio, un impedimento, ognuno pensa quello che vuole. Il pensiero gnostico considerava questo: occorre un percorso che liberi del corpo, che lo sollevi da questo impedimento, da questo impiccio per avvicinarlo alla spiritualità, per avvicinarlo quindi a dio, e sta in questo la felicità, sono tesi che ancora molte religioni oggi accolgono …

 

Intervento: la cosa fondamentale mi pare che sia un passaggio dalla condizione di dipendenza alla condizione di libertà …

 

Anche, è uno degli effetti collaterali, sì certo non c’è più dipendenza, non c’è più nessuna necessità di dipendere da qualcuno …

 

Intervento: credere in qualcosa è una condizione di dipendenza?

 

Brava, esattamente, per questo parlavo non tanto di cessare di credere, ma cessare di avere bisogno di credere, in qualunque cosa, in qualunque persona …

 

Intervento: è una condizione come quella di un bambino con un genitore cioè nel senso aver bisogno, essere in una condizione di inferiorità, quindi essere in una condizione di inferiorità significa non essere liberi …

 

Intervento: noi siamo abituati a delegare tutto, nella vita deleghiamo tutto agli altri …

 

Generalmente sì, generalmente avviene così …

 

Intervento: dipendiamo nel mangiare, dipendiamo nella salute, dipendiamo nel muoversi …

 

Per esempio molte fanciulline dipendono dall’innamorato, anche dell’amore abbiamo detto …

 

Intervento: quando nasciamo siamo dipendenti …

 

Gli umani hanno questa prerogativa, se abbandonati a se stessi appena nati muoiono rapidamente …

 

Intervento: dipendere dall’innamorato non significa amarlo secondo me … accettare di proporsi non è avere bisogno, no?

 

Proporsi? Non è mica un colloquio di lavoro …

 

Intervento: nel senso di dire continuare con la persona positiva sotto tanti aspetti senza averne bisogno cioè è come la condizione di dipendenza di cui parlavo prima …

 

Sì, per cui se la lascia è assolutamente indifferente …

 

Intervento: nel senso se c’è la condizione di dipendenza significa che senza quella persona non si può stare …

 

Se invece non ci fosse nessuna dipendenza?

 

Intervento: si sta male però si accetta …

 

Perché?

 

Intervento: si sta male perché ci manca …

 

Ecco, appunto. Abbiamo fatte infinite conferenze sull’amore, magari trova qualche elemento interessante ...

 

Intervento: io vorrei dire che la perfetta, se vogliamo usare questo termine, libertà sta nella completa autosufficienza quindi non soltanto per quanto riguarda dipendenze ma non avere bisogno di nessuno …

 

Non si tratta di fare gli eremiti, si tratta di sapere che si stanno compiendo dei giochi linguistici, è chiaro che se la macchina finisce la benzina allora dovrò trovare un benzinaio perché, non sono in condizioni di estrarre petrolio, raffinarlo, e quindi ho “necessità” tra virgolette delle compagnie petrolifere che mi vengono incontro in questo caso. Si tratta di una sorta di consapevolezza, costante, continua, consapevolezza che non può non esserci in ciascun istante in ciò che si sta facendo, e cioè che si stanno facendo giochi linguistici, che sono in atto e che io ho deciso di farli e so anche magari perché, in questo modo ho sempre la possibilità di intendere cosa sta succedendo nei miei pensieri. Ciò che andiamo dicendo non è un qualcosa di profetico che aspiri alla perfezione, non ci interessa né la perfezione né salvare il mondo, ci interessa soltanto come funzionano le cose, tutto qui, però ci siamo accorti che sapendo come funziona, e cioè come si combinano i giochi linguistici, cosa avviene quando si pensa, quando si parla, ci sono degli effetti collaterali di qualche interesse. Bene, grazie a ciascuno di voi e buona serata.