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IL ROMANZO DELLA PSICANALISI

 

28 maggio 1993

secondo incontro

 

 

Abbiamo incominciato a parlare del romanzo, la volta scorsa, prendendo le mosse da uno scritto di Freud, Il romanzo familiare dei nevrotici.

Abbiamo detto alcune cose intorno a cosa intendersi per romanzo lungo un itinerario analitico.

Si tratta di un romanzo particolare, un romanzo che si scrive lungo il racconto. Dire di questo romanzo è dire di ciò che avviene lungo un itinerario intellettuale. Itinerario che comporta anche la psicanalisi ma non soltanto. La psicanalisi come aspetto di questa esperienza, attiene più propriamente al romanzo storico, ciò che ciascuno incontra incominciando a raccontare ciò che ritiene la propria storia, la propria vicenda. Dico “ritiene” nel senso che ha l’occasione di verificare, di accorgersi che questa storia non è propria, non è appropriabile e che risulta impossibile definirla la mia storia, la propria storia.

È inappropriabile nel senso che non posso riconoscerla come mia, non c’è un soggetto che io possa stabilire di questa storia. Semmai, è riscontrabile del soggettuale, come effetto, si produca lungo il racconto di questa storia. Dunque, non c’è un soggetto che racconta la storia e che, quindi, sia l’artefice, l’autore, il padrone di questa storia, ma, piuttosto, del soggettuale.

Che storia è quella che si racconta?

C’è una storia che io racconto e c’è una storia che si scrive mentre io racconto. Si scrive man mano per cui il romanzo, nell’accezione che dicevo prima, non procede dal racconto in quanto tale ma da ciò che se ne scrive di questo racconto.

C’è una scrittura che indichiamo come pulsionale, cioè una scrittura che non può non scriversi parlando. Ciò che si scrive è ciò che la pulsione mantiene nella domanda che va continuamente formulando e che insiste in ciascun racconto, in ciascuna formulazione.

Ciò che in effetti ciascuno incontra lungo questo itinerario intellettuale non è tanto il racconto in quanto tale ma ciò che si scrive. Di questo resta traccia. Ed è di questo che c’è lettura: quando il romanzo da storico si fa politico. Vale a dire, quando c’è l’occasione di avvertire una sorta di inappropriabilità della storia. Ecco , lì c’è lettura, cessa l’esigenza di fermare il racconto, di dare un significato al racconto, di riportare il racconto a qualche altra cosa. Di cercare, cioè, attraverso una sorta di analogia, una spiegazione alla propria condotta, alla propria parola, al proprio pensiero.

Il romanzo storico dice che non c’è spiegazione possibile, che le cose non significano nulla, non hanno un senso prestabilito. L’attribuzione di un senso prestabilito al racconto è ciò che suggerisce il ricorso all’analogia.

L’analogia è una figura molto usata, che però comporta qualche problema.

L’analogia è un rapporto: a:b = c:d. Il secondo rapporto che è meno noto dovrebbe essere spiegato da quello precedente che è più noto. Cercare la spiegazione, nove volte su dieci, è cercare l’analogia, ciò che spiega, che toglie quindi la piega, che chiarisce.

La questione è che tra il foro e il tema, così i retori chiamano i due aspetti dell’analogia, il primo e il secondo rapporto, di fatto non c’è alcun rapporto: sono due racconti assolutamente differenti. È come se qualcuno cercasse di spiegare la vostra storia utilizzando la propria.

Che il racconto non abbia una spiegazione, che giunga all’insignificabile, è come dire altrimenti che non c’è possibile riconduzione di ciò che dico a qualche altra cosa. Se non posso ricondurre ciò che dico a un’altra cosa, qualunque essa sia, mi trovo di fronte all’opportunità di confrontarmi con ciò che sto dicendo. Non c’è un qualcosa che spieghi ciò che sto dicendo, che possa consentirmi di riportarlo a quest’altra cosa e che finalmente tolga la piega, l’equivoco, illumini.

Affrontare il romanzo storico lungo questo itinerario è un’esperienza straordinaria. Straordinario è avvertire, cogliere che il proprio racconto è assolutamente impersonale, che ciò che io racconto sta accadendo qui, adesso. Esattamente come il sogno che si avvale dei resti diurni, ma non per questo il sogno è riconducibile a questi resti diurni. I resti diurni sono il materiale che il sogno utilizza per costruire un suo racconto, né più né meno. Quindi, non lo spiegano proprio in nulla.

Tutto ciò, lungo l’itinerario intellettuale, ha un effetto. Vale a dire, che mentre racconto, se non ho la necessità, l’urgenza, la fretta di ricondurre ciò che dico a altro, posso lasciare che qualcosa si scriva. Se riconduco ciò che dico a altro non si scrive più niente, il racconto muore lì. Quindi, non c’è altro da dire.

Durante un’analisi, non accade mai che non ci sia più nulla da dire rispetto a una questione, qualunque essa sia. Non avviene mai che possa darsi l’ultima parola, quella che risolve la questione. Non c’è, dunque, la parola che risolve. Dicevamo di analisi, secondo l’etimo, analysis, senza soluzione.

Ecco, il romanzo storico dice che non c’è soluzione, che non c’è l’ultima parola, quella che chiude, quella che riesce a ricondurre il racconto, interamente, in un altro racconto.

Ma, dicevamo, raccontando qualcosa si scrive e mettevamo questo in connessione con la domanda, con la domanda pulsionale.

La pulsione è ciò a cui Freud attribuisce l’unico principio di costanza nelle varie istanze psichiche. È ciò che in nessun modo cessa di scriversi, la pulsione. Dunque, si scrive. Sta a ciascuno leggere ciò che sta scrivendo. In effetti, la lettura in questa accezione sta proprio sulla punta della scrittura. Coglie, cioè, l’unico, la qualità di ciò che si scrive, dal momento che ciò che si scrive, propriamente, è ciò che consente di intendere la logica in cui mi trovo e in cui il discorso si svolge e si articola, è ciò che consente di intendere che cosa sto dicendo.

Dicendo ciò che si scrive intendiamo ciò che il racconto comporta, ciò che il racconto avanza, le istanze, le pieghe, i risvolti, le questioni che il racconto propone. Ciascuno si trova a raccontare, in ciascun momento. Non c’è occasione in cui non si racconti, qualunque cosa, qualcosa che accade e che si è sentito o si è avvertito.

Ciò che ne è di questo racconto in una conversazione analitica è assolutamente differente da ciò che ne è in altre circostanze, dal momento che è lì in quella circostanza specifica della conversazione analitica in cui è possibile accorgersi di ciò che si sta scrivendo man mano che si parla, che si racconta.

L’analisi giunge all’interminabile proprio laddove ciascuno si pone come analista del proprio discorso, vale a dire, laddove non può non ascoltare, non può non ascoltare ciò che dice, in prima istanza, non può non ascoltare ciò che si scrive man a mano che racconta, i risvolti, le pieghe, le eco che il racconto rilascia.

Senza intendere questo non si intende nulla, nulla di ciò che si sta dicendo.

Freud ha incominciato con La psicopatologia della vita quotidiana a cogliere questo aspetto, lì nel modo più evidente, a cogliere quest’altra scena che avviene parlando. Da dove viene questa scrittura di cui parla? Viene dall’altra scena, la scena che è la stessa ma è altra da sé, altra perché non familiare, perché non gestibile, non riconducibile, non riconoscibile. In questo senso è altra, ciascuna volta altra. Le cose, dunque, si dicono, dicendosi si scrivono e scrivendosi si intendono. Le cose, cioè, le parole.

L’effetto che ciascuno incontra parlando in una conversazione analitica è una sorta di stranianza rispetto a ciò che sta dicendo, non rispetto a altro. È ciò che dice che non riconosce più come suo. Talvolta, è sufficiente sottolineare un aspetto, far notare una sfumatura, un dettaglio; ecco che tutto il discorso, la frase, cambia completamente, non è più la stessa. È sufficiente soffermarsi su un particolare perché tutto il discorso prenda assolutamente un’altra piega, perché non sia più riconducibile a qualche cosa che ci si era prefissato. E verificare che c’è un delirio in atto, che qualche cosa delira, che, cioè, esce dal solco. Non sta nel solco, c’è un’altra piega, ciascuna volta.

L’intervento analitico sottolinea questo, coglie questo aspetto, l’altra piega. Perché, come dicevo prima, cogliendo un dettaglio, un particolare, può avvertirsi quest’altra piega che sta prendendo il discorso, il racconto di cui non ci si accorge. Stavo parlando di una certa cosa e, invece, mi accorgo che ce n’è un’altra che insiste. Per un dettaglio, una sfumatura, qualcosa si sposta. Allora, la scena che ritenevo gestibile, familiare, la scena che credevo di poter controllare si altera, diventa un’altra cosa. Trovo un’altra scena che, però, è anche la stessa scena.

C’è del teatro in ciascuna conversazione, del teatro come spostamento rispetto alle immagini. Spostamento che mi impedisce di situarmi come spettatore.

Io sto descrivendo qualche cosa che ho osservato, che suppongo di avere osservato o, semplicemente, suppongo di descrivere qualcosa. Mi accorgo, invece, che sto parlando di una questione che mi riguarda e che non sto descrivendo per nulla. Non sono un testimone che racconta un qualche cosa ma sto dicendo qualcosa di molto preciso che attiene al mio racconto, al racconto in cui mi trovo. Ho l’occasione di accorgermi di ciò che si sta scrivendo in ciò che sto raccontando.

Romanzo storico, dicevamo, è l’analisi, propriamente, cioè assenza di soluzione: non c’è l’ultima parola, le parole non finiscono.

Romanzo politico, laddove l’interminabilità del racconto giunge alla sua unicità: cogliere qualcosa di unico. Romanzo politico: le cose che si scrivono si dividono, dividendosi si mostrano differente da sé.

Questa divisione incolmabile, questa divisione che attiene alla parola, che non è localizzabile in nessuna divisione di classe, di razza o sociale, che non è rappresentabile in una divisione osservabile, questa divisione costituisce propriamente la questione politica che incontra l’itinerario intellettuale. Cioè, le cose non sono più misurabili, non sono più contenibili, non esiste più il più e il meno, maggiore e minore, più grande e più piccolo.

Già Galilei l’aveva avvertito, e anche Freud parlando del narcisismo delle piccole differenze, ponendolo in modo assolutamente distante dal narcisismo originario, strutturale. Il narcisismo delle piccole differenze è quello che coglie la differenza tra me e lui, tra questo e quest’altro, bianco e nero, il narcisismo che deve distinguersi, immaginando di poter osservare la differenza. Freud, invece, parla di un narcisismo originario.

Ricordate il mito di Narciso che si innamorò dell’ombra sua e si gettò nell’acqua nel tentativo di afferrarsi, di diventare causa sui in un certo senso, padrone di sé. Narcisismo originario è questo tragitto, che è irrinunciabile, che avvia l’identificazione del punto, l’identificazione di ciò che fa ostacolo parlando. Narciso incontra un ostacolo in questo riflesso che vede nell’acqua, che lo questiona. C’è come un tragitto verso questo riflesso, un tragitto che è interminabile. Mentre, nel mito, Narciso lo termina, il tragitto che invece Freud incomincia a avvertire risulta interminabile come se Narciso non raggiungesse mai lo specchio d’acqua in cui si riflette. È in questi termini che può intendersi la questione del narcisismo originario. Un tragitto, dunque, verso la cifra, potremo dire, verso l’unicum, l’unicità. Invece della diversità incontra l’unicità. Il tragitto di Narciso pone il narcisismo originario in questa accezione, mentre il narcisismo di cui si sente parlare comunemente è ciò che Freud chiamava il narcisismo delle piccole differenze: più, meno. Allora, bisogna livellare tutto ciò che affiora. Lama radente. Blade Runner, c’era un film con questo titolo. Un film interessante. C’è una scena che offre degli spunti.

Il film racconta di alcuni personaggi artificiali, i replicanti, che a un certo punto sfuggono al controllo e che devono venire eliminati. Uno di questi riesce a raggiungere l’ingegnere che li ha progettati. Cosa vuol sapere questo replicante, qual è la domanda che pone? Vuol sapere qual è la loro scadenza, cioè, quando muoiono. Infatti, loro sono programmati in modo tale che la loro esistenza termina a un certo punto. Loro sanno questo ma non sanno qual è la data.

Questo replicante, dunque, vuole sapere quando morirà. Ma, gli si dice, questa è una domanda che gli umani si pongono da moltissimo tempo e non c’è modo per nessuno di sapere. Il padre, quindi, perché il replicante chiama costui padre, gli dice: “Non puoi sapere questo, godi più che puoi!”.

A questo punto, attenendosi scrupolosamente al testo di Freud intorno al parricidio, questo replicante lo uccide. E c’è una logica in tutto ciò: perché mai questo replicante, quando il padre gli dice “Godi!”, lo uccide immediatamente?

Come il padre devi essere, come il padre non ti è dato essere, dice Freud.

L’imperativo al godimento risulta impossibile, cioè, il godimento non è possibile, dice Freud, c’è un impossibile connesso al godimento. È impossibile, cioè, non può gestirsi, economizzarsi, controllarsi. Si dà come effetto nel sottrarsi nell’istante stesso in cui si offre.

E questa è la chance. Il godimento tutto, ultimo, possibile, è la morte. Se il godimento fosse possibile, sarebbe l’ultimo, quello totale, quello definitivo.

In effetti, era questo che il replicante chiedeva, chiedendo della morte: dimmi del godimento, del godimento tutto, se è possibile. Quello gli risponde di sì e, allora, il replicante lo realizza immediatamente, uccidendolo.

Il parricidio è una funzione nella parola che non è propriamente praticabile. Il godimento non è possibile. Se fosse possibile sarebbe una metafora riuscita, una condensazione senza spostamento: una parola, un significante che immediatamente non ne produce un altro.

Insomma, ha chiesto al padre: dimmi se è possibile l’ultimo significante. Se sì, questo è la morte.

L’ultimo significante è la morte, anche nella tradizione occidentale. Il padrone, hegelianamente, risulta la morte, il padrone assoluto, quello che dice l’ultima parola sulle cose. Il discorso di Hegel rende la morte possibile. Se la morte è possibile, allora, non c’è nessuna chance. La morte possibile, cioè, è possibile il godimento dove non ci sia più altro da attendersi. È il discorso della festa, in qualche modo.

Il discorso della festa dice che c’è un luogo del godimento, uno spazio, un tempo del godimento. Se c’è un luogo nello spazio preposto al godimento è inevitabile, già Leopardi l’aveva inteso, che ci sia “tristezza e noia”. Perché il godimento deve essere lì e se io lo localizzo, lo chiudo, tolgo il godimento che si produce come effetto, come effetto della rimozione, come effetto di un movimento.

Questo ci suggerisce il film Blade Runner, lama radente, quella che toglie via ogni differenza. Ecco, togliere la differenza è la necessità che insorge in ogni istituzione che si suppone egualitaria. Togliere la differenza, appunto, istituendo le piccole differenze in modo che siano gestibili, apparentemente gestibili da ciascuno. Che ciascuno possa gestirsi la propria piccola differenza.

 

Risposte lungo il dibattito.

 

C’è un’antica diatriba intorno al fatto che la psicanalisi sia o non sia una scienza. Diatriba che non ha alcun senso, evidentemente. L’accusa che veniva rivolta alla psicanalisi era di non essere dimostrabile. Soprattutto, che i risultati che può ottenere la psicanalisi non sono partecipabili a altri e non sono verificabili. La psicanalisi, quindi, non sarebbe una scienza, cioè, si potrebbe anche dire, dalle ipotesi non giunge alle tesi.

È una diatriba di nessun interesse perché si tratta di confrontarsi proprio con la nozione di scienza. Perché, forse, posta in questi termini, con questi criteri, compreso quello di Popper, a sua volta non è in nessun modo dimostrabile. Come alcuni sanno perfettamente: né dimostrabile né falsificabile. Di questo Popper non si è accorto perché lui usava tutta una serie di criteri per dire qual è la legge di falsificabilità. Solo che non s’avvede che tra i suoi criteri c’è un elemento che falsifica il suo criterio di falsificabilità. C’è un paradosso che, attenendosi strettamente alla logica, invaliderebbe totalmente il suo sistema.

 

Questione della connessione tra scienza e religione. Questione confusa, per così dire. Scienza, la nozione di scienza più comunemente seguita fa risalire l’etimo al latino scire, sapere. Il scio latino viene dall’indoeuropeo sak, taglio. Ora, che il sapere abbia a che fare con il taglio e la divisione è già interessante.

Scienza non come insieme, una successione organizzata di proposizioni che tendono, attraverso ipotesi e tesi, a dare spiegazioni, a tradurre qualcosa che si incontra in un codice partecipabile, una scienza come divisione. Divisione delle cose, delle parole. C’è una scienza, dunque, nella parola. Scienza della parola come divisione della parola. Le parole dicendosi si dividono e, quindi, si alterano. La divisione di cui parlo non è ricucibile, non è riconducibile a un’unità, non può togliersi in nessun modo. Per questo non c’è la parola tutta, la parola piena, definitiva, che sarebbe identica a sé. Senza la divisione la parola è identica a sé.

La psicanalisi già con Freud coglie la vanità dell’idea di giungere a questa parola. E, anzi, parlando, risulta impossibile trovare qualunque identità.

La scienza, invece, così come si pone da Galilei in poi, poiché viene attribuita a lui l’invenzione della scienza moderna o quanto meno del metodo della scienza moderna, ha proseguito il progetto, il disegno di Galilei, cioè, la traducibilità in linguaggio dei segni dell’universo. Dire i segni dell’universo comporta dire che non è l’universo in quanto tale ma sono i segni, quindi, è già un linguaggio. Tradurre un linguaggio in un altro linguaggio: questo è il sogno di Galilei ma non soltanto il suo.

La scienza, lungo questo arco di tempo fino a oggi, salvo qualche eccezione, ha inseguito questo miraggio di un metalinguaggio che potesse tradurre questi segni dell’universo.

Dicevamo tanti anni fa a proposito di Galilei - lungo una lettura di Galilei - che ciò che trova nel suo calcolo intorno alle leggi che man a mano elabora, rende conto o traduce che cosa? Uno stato di fatto presente nell’universo, oppure, semplicemente, l’unica cosa che può trovare, la correttezza del suo calcolo, correttezza rispetto a un certo criterio, che è quello in uso nel calcolo numerico.

Questione tutt’altro che semplice. Che cosa dice una legge della fisica? Cosa mostra? Cosa espone? Cosa ci racconta?

La stessa questione può rilevarsi rispetto al discorso religioso. Nel discorso scientifico la verità è data come possibile, come reperibile, come ipotesi. Ma resta comunque sempre un criterio, un parametro di valutazione. Che qualcosa è più o meno vera di un’altra, oppure che risulta vera o falsa.

Nella religione la questione della verità è risolta altrimenti, è già data, già formulata. La verità come l’essere delle cose. La verità è stata rivelata, non può consentire che non sia così. La religione si fonda su questo.

La verità non rivelata ma da rivelare è il discorso scientifico. In effetti, è solo a un certo punto che la scienza, così come è pensata oggi, prende le distanze dalla religione. Com’è noto, fino a prima di Galilei, spesso c’era incertezza nello stabilirne i rispettivi confini perché entrambe si occupano dello stesso problema, cioè, di stabilire la verità. Solo che poi è intervenuta, già con Bacone e lo sperimentalismo, la necessità di sperimentare. Cioè, non ci si può più basare soltanto sul ragionamento deduttivo, come voleva Aristotele, ma sull’esperimento.

Altri dicevano che basarsi sull’esperimento voleva dire basarsi sui propri sensi, che sono inattendibili. E la disputa prosegue tutt’oggi.

La questione va forse affrontata in tutt’altro modo, cioè interrogandosi sulle nozioni di verità e di essere, che sono comunque imprescindibili, sia nel discorso religioso che nel discorso scientifico.

Entrambe, la religione e la scienza, hanno necessità di un vero e di un falso. Dio vero è l’essere, la verità. Dio falso è il non essere, quindi, la menzogna, l’inganno e perciò va perseguito.

C’è tutta una questione morale connessa alla scienza, tutt’altro che marginale rispetto alla sua storia. Intendo dire che un’elaborazione, una riflessione, una ricerca intorno al discorso religioso comporta per moltissimi aspetti anche il confrontarsi con il discorso scientifico. Ci sono molti elementi in comune.

Il discorso scientifico è stato più funzionale al discorso occidentale nell’ultimo secolo. In effetti, la religiosità e la scienza vanno sempre di pari passo, non avviene esattamente che laddove la scienza si imponga la religiosità scompaia. Proprio per nulla. È noto che nell’illuminismo sono fioriti i maggiori gruppi esoterici e magici. Laddove tutto deve essere spiegato, tutto si deve chiarire, proprio lì il buio, l’ombra, che fanno sempre da contrappasso a questa grande luminosità, si impongono. Ecco, allora, invocati i limiti della scienza. La scienza non può spiegare tutto. Ma perché mai dovrebbe fare un’operazione del genere?