Torino, 27 settembre 2011
Libreria LegoLibri
Luciano Faioni
Dalla psicanalisi alla scienza della parola: storia di un itinerario intellettuale
Primo incontro
Tra le varie cose che Freud considera lungo la sua opera ce ne è una sulla quale vorrei soffermare la vostra attenzione, la nozione di rimozione, che è uno dei capisaldi della teoria freudiana, cosa dice la rimozione? Che un termine, un elemento linguistico, un nome, può mostrarsi come un insieme, una costellazione di elementi, il significato di quel termine non è più soltanto quello classico, tradizionale di un dizionario ma diventa appunto una costellazione di elementi, di termini, di significati. Nel saggio Il diniego, Freud racconta di un tizio che parlando di un sogno che aveva fatto, dice a un certo punto che in questo sogno c’era una donna ma non era sua madre, così dice, ora tecnicamente questo enunciato direbbe che quella donna che ha sognato non era semplicemente sua madre, ma per Freud la cosa non era così semplice, intanto si è posto questo elemento, la madre intendo dire, si è posto ma negato, come dire che c’è questa madre ma non è la madre. Le considerazioni che fa Freud, fra le varie, sono queste: il significato di questo elemento “madre” in quel sogno non è più soltanto da intendersi come quella donna che ha generato un essere vivente eccetera ma il fatto che sia intervenuta e che abbia dovuto negarla comporta che insieme con questo elemento ne intervengono molti altri, e sono questi altri che hanno determinato poi la necessità di negare questo termine, perché per esempio comportava qualche problema all’interno di quella combinatoria, come dire che il significato, nel racconto di questo tizio della parola madre non è più soltanto il significato che offre un qualunque dizionario ma è fatto di una serie di altri significati che determinano il significato di quell’elemento e lo determinano in modo tale da dovere essere negato da quella persona. Quando quel tizio dice “ho sognato una donna, ma non era mia madre” questa madre è proprio soltanto la genitrice, colei che gli ha dato la vita? Evidentemente no, non ci sarebbe stato nessun motivo di negare una cosa del genere, ha dovuto negarlo perché il significato di quel significante “madre” andava molto al di là del suo significato tradizionale, come dicevo prima, una costellazione di significati, quindi cosa significa esattamente questa parola “madre” in quel contesto? Molte cose, tante che potrebbe diventare impossibile stabilire con esattezza, con certezza, quale sia il significato preciso di quel termine. In quegli stessi anni a Ginevra, un linguista ginevrino tale Ferdinand De Saussure stava considerando qualcosa di simile in relazione al significato delle parole, ma non tanto di una parola connessa con altre parole a costituire appunto una costellazione di significati ma la parola in quanto tale come un segno. Si considera De Saussure come l’iniziatore o uno degli iniziatori della semiotica, cioè della teoria dei segni, e questo segno di cui parla dice che è fatto di due parti: l’una è il significato, e fa l’esempio della parola “albero” uno quando sente la parola “albero” sa a che cosa ci si riferisce: vegetale d’alto fusto, con radici, una chioma, fronde rami e tutti gli aggeggi annessi e connessi, e dall’altra parte oltre al significato l’espressione, cioè la manifestazione fisica, il corpo di questa parola, l’aspetto sonoro, lui la chiama “immagine acustica” possiamo dire la forma del suono, il corpo di questa parola che chiama significante. Stabilito il segno in questo modo si accorge poco dopo che sorgono dei problemi, problemi relativi all’individuazione tanto del significato quanto del significante, come si stabilisce un significato, un concetto? Si definisce per differenza da tutti gli altri concetti possibili e pensabili, come dire che il significato ha una determinazione che è differenziale rispetto a tutti gli altri significati, è una differenza rispetto a un’infinità di significati e rileva che anche il significante è assolutamente arbitrario, tant’è che in italiano “albero” si dice albero, in inglese si dice tree, in francese arbre, e così via in infiniti altri modi quanti sono le lingue. Anche il significante di per sé non è individuabile se non come un elemento che è differenziale rispetto a tutti gli altri significanti, cioè tutte quelle altre immagini acustiche che costituiscono questo universo che lui chiama la “langue”, ora questo già di per sé potrebbe costituire un problema, cioè l’identificazione di un elemento, ma la questione non è soltanto questa, dice lui, il rapporto fra il significato e il significante è tale per cui di fatto perché possa dire “albero” occorre che questo suono, questo significante, abbia già un significato e cioè che io intenda dire qualche cosa con questo suono, non potrei dire “albero” se non ci fosse nessun significato connesso con questo significante e d’altra parte, dice anche, che non c’è un significato che non abbia un significante, cioè un concetto che non abbia un suono con cui si esprime. La questione rispetto al significato tanto in Freud quanto in De Saussure si fa complessa, non soltanto, ma un altro psicanalista che compare un po’ di anni dopo Freud in Francia, un tale J. Lacan, riprende il testo di Freud ma riprendendo l’elaborazione di De Saussure: capovolge il segno e mette sopra la barra con la quale De Saussure aveva distinto il significato dal significante, pone sopra la barra il significate e sotto il significato, e aggiunge che di fatto per potere dire questo significato, cioè per potere dire il concetto che esprimo verbalmente mi trovo anziché a dire il significato a dire un altro significante, perché è il significante ciò che si dice, il significato non si dice, il significato rimane non detto comunque sotto il significante perché il concetto, per manifestarlo, per dirlo, devo dirlo e quindi usare un significante, dunque dicendo un significato, tentando di dire un significato, dico un altro significante il quale avrà un altro significato e così via all’infinito, in un processo che i semiotici chiamano di semiosi infinita cioè un processo inarrestabile, quindi come stabilire il significato? Diventa un problema, questo significato si allontana mano a mano che cerco di individuarlo, di stabilirlo, come dire che parlando le cose che vengono dette hanno un significato ma questo significato è, potremmo dire così, irraggiungibile, non individuabile. Questa questione è stata posta nella prima metà del ‘900, è una questione antica, antichissima, nasce nel momento stesso in cui nasce la filosofia e cioè quando gli umani incominciano a domandarsi che cosa è vero, ma domandarsi che cosa è vero non tanto per un ghiribizzo o un gioco, ma la verità deve avere un prerogativa per essere tale cioè deve essere indubitabile, deve essere incontrovertibile, come dire che il significato di una certa cosa deve essere quello che è. È stato Parmenide il primo a porre la questione; la filosofia non nasce gradualmente, la filosofia nasce di colpo ponendo subito quel problema che tutto il seguito del pensare filosofico ha tentato di risolvere: quando Parmenide afferma perentoriamente che l’Essere è, il non Essere non è, imponendo anche il divieto di pensare il non Essere, pone già la questione di cui si tratta e l’impossibilità di risolverla. Per Parmenide il problema, che poi è stato ripreso abbondantemente dai sofisti, riguarda il fatto che esiste un divenire: non è che le cose stanno immobili, eterne, immutabili, imperiture eccetera, ma esiste un divenire perché ciascuno lo esperisce, le cose sorgono, scompaiono, divengono, mutano, cambiano eccetera, e allora Parmenide dice “sì, anche il mutamento c’è, ma è un illusione, è sogno, però c’è”, cosa che non è sfuggita ai sofisti i quali hanno detto: beh allora se il mutamento, se il divenire c’è, anche il divenire è, e quindi abbiamo un “è” un Essere che è immutabile, ma che è anche un divenire, quindi il detto di Parmenide è autocontraddittorio. Da lì, e cioè esattamente dal momento in cui gli umani hanno posta la nozione stessa di verità o di Essere in molti casi, nel momento stesso in cui l’hanno posta, in quel preciso istante sono sorti i problemi e cioè l’impossibilità di provare, di dimostrare ciò che si stava affermando. I sofisti hanno avviato una critica del pensiero determinante e hanno trasformato, loro soprattutto, un pensare che era ancora legato al mito quindi un a pensare religioso, oracolare che non si interroga sulla verità ma espone delle cose, così lasciando poi alle persone la libertà di interpretarle, ha volto tutto questo in filosofia. In un certo senso, questo modo di pensare è rimasto per esempio nelle filosofie orientali, le filosofie orientali sono filosofie per alcuni aspetti ingenue, sono rimaste ancorate al mito, al detto oracolare, non c’è stato nessun pensiero che abbia messo in discussione, abbia dubitato di certe affermazioni come è avvenuto in occidente, nessuno che abbia chiesto perché deve essere così, chi lo dice? E se fosse il contrario? Domande legittime che il pensiero occidentale si è poste, dunque stabilire il significato o per altro verso stabilire qual è la verità di un enunciato non è una questione così irrilevante o adatta a persone che si divertono con astrazioni inverosimili. Ciascuno nel momento in cui deve decidere qualcosa che è importante per la sua vita, per la sua esistenza, per il progetto in cui si trova, deve sapere se ciò che sta pensando, ciò che sta considerando è vero oppure no, perché se è vero prosegue in quella direzione, se è falso no, la abbandona e quindi vuole sapere se una certa cosa è vera o è falsa, certo i filosofi si sono domandati che cosa è vero in assoluto, ci sono delle verità relative a qualche cosa ma ci deve essere un concetto, un qualche cosa che è vero in assoluto e tutta la filosofia ha cercato di stabilire questo, rimediando a quel problema che ha scatenato Parmenide e cioè il problema che sorge nel momento in cui si afferma con forza e con determinazione che le cose stanno così, ma le cose stanno così, come? Tutto questo ha portato soprattutto nel secolo scorso a una sorta di consapevolezza del fallimento del pensiero, il fallimento del pensiero che ha tentato per millenni, potremmo dire così, di stabilire con certezza qualche cosa senza riuscirci, ma questo ha portato anche alcune riflessioni come quelle per esempio di Paul Ricoeur, filosofo del ‘900 che ha immaginato una Scuola del sospetto, composta da tre personaggi: Nietzsche, Marx e Freud. Nietzsche ha mostrato la menzogna perpetrata dal potere nei confronti di chi non ha potere, Marx ha mostrato l’inganno relativo al capitale nei confronti della classe lavoratrice e Freud l’inganno delle parole, a questo punto l’inganno della parola stessa, la parola che vuole dire qualche cosa ma dicendo quella cosa ne dice infinite altre e in questo senso mente, è menzognera. Dunque stabilire la verità è importante anche per quanto riguarda le varie teorie, naturalmente una qualunque teoria tenta di porsi come discorso che dice il vero su qualche cosa, non muove dall’idea di dire soltanto sciocchezze, se no probabilmente non partirebbe neanche, dunque il pensiero si è trovato ad un certo punto con Freud, soprattutto con De Saussure e con la semiotica di fronte a una sorta, potremmo chiamarlo di baratro, determinato dal fatto che quello che si dice, le parole stesse non possono essere determinate in modo preciso, in modo stabile, univoco ma queste parole mutano, divengono, si trasformano, alludono a infinite altre cose nel momento stesso in cui si pongono, questo è uno dei messaggi di Freud, ma anche della semiotica. Il tentativo di reperire l’Essere da parte di alcuni pensatori, anche alcuni di rilievo, è fallito, l’Essere inteso molto sommariamente come è stato inteso per lo più da buona parte della filosofia come ciò che sta, come ciò che è, come ciò che necessariamente è quello che è e che non muta, questo concetto di Essere ha fallito il suo compito, non ha retto cioè, ma fin da subito, alla necessità di dimostrarsi essere quello che dice di essere, come se si chiedesse a una cosa di dimostrare, lei, di essere quello che è, e questo non lo può fare, necessita sempre di qualche cos’altro che intervenga a mostrare che è così o che non è così, la cosa stessa non lo può fare. A questo punto sorge un’altra questione: tutta questa problematica relativa al senso, al significato, alla verità, sapete che i greci avevano tre modi per dire la verità: alètheia come il disvelamento, come ciò che si manifesta, come ciò che esce dal buio e appare alla luce, orthotes, cioè la correttezza dell’enunciato, inteso poi dai medioevali come adæquatio rei et intellectus e l’episteme, cioè la verità della scienza, quella certezza argomentata e dimostrata, tuttavia come facciamo a sapere che queste nozioni, queste definizioni di verità sono corrette? E cioè ci dicono esattamente che cosa dobbiamo intendere con verità, perché la verità dovrebbe essere quello? Lo stesso “principium firmissimum” come chiamavano i medioevali il principio di non contraddizione di Aristotele, come sappiamo che è vero? Come sappiamo che è proprio così? Ci troviamo di fronte a un’altra questione irresolubile perché per dimostrare che è vero il principio di non contraddizione dobbiamo utilizzare il principio di non contraddizione. Giungere alla considerazione che le parole non hanno, perché non c’è, la possibilità di stabilire il loro significato, cioè dire che cosa vogliono veramente dire, non è una questione che riguarda soltanto le parole in generale, come se fossero degli enti a sé stanti, ma riguarda il discorso stesso che dice queste cose, io stesso che sto dicendo queste cose mi trovo preso in questa impossibilità, le parole che dico hanno un significato? Quale? Come faccio a stabilirlo? In base a ciò che abbiamo appena detto risulta arduo potere stabilire con certezza quale sia il significato delle parole che sto usando, e quindi che cosa sto veramente dicendo. A tutto ciò si è aggiunto, agli inizi del ‘900, quel momento storico noto come crisi dei fondamenti: anche la disciplina che pareva più sicura di sé, più inattaccabile, più certa, e cioè la matematica, è apparsa, dopo le considerazioni di Gödel, incapace di mostrare la propria coerenza interna, anche in questo caso il significato di qualche cosa è autocontraddittorio. Ogni cosa dunque si mostra per altro da quello che è, possiamo dire che ogni cosa è altro da quello che è. Questa è la conclusione inesorabile che produce quella sorta, dicevo prima, di abisso, di baratro, di voragine, una voragine che non ha un fondo, non ha un fondamento, non ha un “Grund” come dicono i tedeschi, cioè il fondamento dove qualche cosa si arresta, si ferma. Posta in questi termini la questione ci dice che qualunque asserzione, e qui utilizzo un’immagine poetica, tratta da un bellissimo film di Salvatores che forse alcuni di voi hanno visto Nirvana, ciascuna asserzione è esattamente come un fiocco di neve che non si posa da nessuna parte, non ha nessun fondamento, non trova nessun fondo, nessun “Grund” su cui appoggiarsi e su cui mostrare la propria necessità, ma si può andare ancora oltre in questa, in questa che potrebbe apparire una devastazione totale: come accade che di fatto invece le persone parlino continuamente, ininterrottamente? La condizione per potere “sapere” quello che dico è di non interrogare quello che dico, come diceva Agostino relativamente al tempo “finché nessuno mi chiede che cos’è il tempo, so che cos’è, ma nel momento in cui qualcuno me lo chiede non lo so più”, cioè per potere sapere quello che dico non devo interrogare quello che dico, ma letteralmente, se incomincio a interrogarlo allora non lo so più. Appare ineluttabile questa sorta di devastazione del pensiero, e cioè il pensiero si è mostrato, fin dal momento in cui è incominciato con Parmenide, possiamo dire lui ma insieme con altri, dal momento stesso in cui gli umani hanno posto qualche cosa che deve essere così, dal momento stesso in cui questo è accaduto, questo “è così”, si è mostrato indimostrabile, nel momento stesso in cui hanno posto le condizioni del pensare hanno posto l’impossibilità di pensare: la possibilità di sapere quello che sto dicendo mentre dico è che io non interroghi quello che dico, che potrebbe apparire una situazione alquanto bizzarra eppure tutto sommato è quello che diceva anche De Saussure in fondo. De Saussure non ha portato la cosa alle estreme conseguenze, ma il messaggio è questo: c’è un qualche cosa in ciò che si dice che insiste come ciò che, potremmo dirla così come alcuni hanno amato dire, che non può dirsi, se nulla può dirsi, può affermarsi, allora che cosa dire? È come se l’essenziale, e qui arriviamo a Derrida, fosse proprio qualche cosa che in realtà è un niente da dire, quella che lui chiama l’archi-traccia o l’archi-scrittura, un niente da dire che insiste, ma che tuttavia è la condizione perché qualcosa si dica. Tutto ciò che vi sto dicendo non è nulla di nuovo, è noto da sempre, io l’ho soltanto riassunto brevemente, sono questioni che sono state discusse nel corso dei millenni fino a Sartre, in fondo Sartre che con la sua “nausée de vivre”, la nausea del vivere ha indicato in questo, e soprattutto nel suo romanzo più noto quello che l’ha reso celebre, La nausea appunto, quella sensazione dell’uomo di fronte a tale abisso, perché questo abisso di cui si parla non ha letteralmente il fondo, per cui quel fiocco di neve continuerà a cadere in eterno senza nessuna possibilità di fermarsi su niente, ma questo fiocco di neve è una qualunque asserzione, una qualunque parola, un qualunque concetto. Tutto questo allude a un problema, un grosso problema che riguarda il pensiero occidentale, ma non solo, al punto in cui siamo potremmo dire che il discorso occidentale è il pensiero planetario, visto che ha dominato il mondo intero attraverso la tecnica, sì, in fondo le tesi di Heidegger poi approdano a questo: l’unico modo possibile per l’uomo è quello di manipolare l’ente senza chiedersi che cosa sta facendo, né che cos’è ciò che sta trattando, né quando manipola qualcosa, appunto gli enti, gli enti possono essere qualunque cosa: umani, atomi, parole, qualunque cosa, per questo dice Heidegger che la metafisica, che non è altro che il pensiero, qualsiasi pensiero iniziato con Parmenide, è giunto alla sua conclusione, la metafisica cioè la filosofia ha compiuto il suo percorso consegnandosi letteralmente alla tecnica, e cioè compiendo quell’operazione che da sempre il pensiero ha cercato di fare rispetto all’ente, da quando ha cominciato a domandarsi “ti to on”, che cos’è l’ente? E per sapere che cos’è bisogna sapere che cos’è effettivamente quindi l’Essere di questo ente, ma la tecnica è ciò che consente agli umani effettivamente di compiere tutto ciò che la metafisica ha tentato di fare vale a dire la conoscenza, la manipolazione, l’elaborazione dell’ente, cosa che oggi avviene correntemente attraverso l’informatica, anche la produzione dell’ente: cioè l’uomo si è messo al posto di dio, produce gli enti, li crea come e quando vuole, a che scopo tutto questo? Ce lo ha spiegato in modo mirabile Nietzsche: per la volontà di potenza, cioè controllare gli enti, controllare gli uomini, controllare le cose per averne il potere totale e assoluto, a questo serve in definitiva sapere, o almeno a questo è servito agli umani sapere che cos’è la verità, anche se, come dicevo prima, questa ricerca ha comportato non pochi problemi e a tutt’oggi non è affatto risolta; il gesto inaugurale di Parmenide è rimasto esattamente dove Parmenide l’ha lasciato, per cui gli umani in generale possono procedere a pensare, a fare, costruire, a fare tutte le cose che fanno a quella condizione di cui dicevo prima, e cioè non domandarsi che cos’è ciò che stanno facendo, questa questione ha una soluzione? Posta in questi termini no, cioè posta nei termini in cui l’ha posta Parmenide no, non ha nessuna soluzione, questo abisso non sarà mai colmato da niente e da nessuno, gli umani continueranno a muoversi senza sapere, senza soprattutto potere sapere che cosa stanno facendo: che cosa significa ciò che stanno facendo, che cosa significa ciò che stanno dicendo, ciò che stanno pensando, ciò che stanno affermando? Wittgenstein a proposito della dimostrazione si chiede: che cos’è la dimostrazione? Che cosa abbiamo fatto dopo che abbiamo compiuta una dimostrazione? La dimostrazione dovrebbe dimostrare che cosa è vero, questo è ciò che ci si attende generalmente, bene, dice lui, dopo che avremo compiuto la dimostrazione ciò che avremo fatto sarà stato di esserci attenuti scrupolosamente alle regole di tale dimostrazione, abbiamo messo in atto un algoritmo, l’abbiamo compiuto e siamo giunti alla conclusione, abbiamo fatto esattamente e soltanto questo, niente di più, letteralmente non c’è nient’altro che questo, cioè abbiamo svolto un gioco, questo gioco si è compiuto. Per questo parlavo della nausea, questa sensazione di totale, irreversibile impossibilità di appoggiare il piede su qualcosa di solido, di saldo, di definitivo, che è ciò che gli umani hanno cercato, un fondamento, qualcosa che dia sicurezza, non cercano forse la sicurezza gli umani? Il sogno di trovarla è svanito, è svanito nel momento stesso in cui si è posto.
Intervento: le parole, ogni termine, ogni significante richiama altri significanti mi pare che dicesse.
Sì non può dirsi il significato, sì, ha capito benissimo, è la stessa cosa che dice Heidegger solo in modo più pomposo, da bravo filosofo tedesco …
Intervento: è come se il significato non fosse accessibile e quindi questo Essere cui si riferiva prima da Parmenide ad Heidegger, come se questo Essere non fosse accessibile e che dell’esistenza rimanesse soltanto la forma ma non si potesse accedere alla sostanza … dove stanno i pensieri? Dove sta questo significato se non è esprimibile? Se non delle forme …
Dove sta il significato? Bella domanda …
Intervento: le parole che si dicono sono quelle che si pensano … non c’è modo di arrivare all’Essere, all’ente?
All’ente sì, però senza cogliere l’Essere, appunto l’Essere dell’ente. La sua posizione non è molto lontana da quella di Heidegger, in effetti l’Essere non può dirsi, ciascuna volta si dice solo l’ente, l’Essere si manifesta in un abbaglio, in un momento di illuminazione per svanire immediatamente. Lei pensi a qualche cosa, utilizza delle parole per pensare ed elabora un concetto, si chiede se questo concetto è vero, cosa si chiede nel momento in cui si chiede se è vero, si chiede qual è il suo principio e qual è la sua causa “archè” e “aition”, dicevano gli antichi, principio e causa, per potere sapere che quello che dice è vero, può quindi proseguire a pensare quella cosa oppure se sta pensando una stupidata, e quindi abbandonare tutto e rivolgersi da un’altra parte, il suo pensiero funziona così quando pensa, quando non pensa no, ma quando pensa funziona così, cioè pone delle interrogazioni o riflette su qualche cosa che muove da un elemento che potremmo indicare come premessa, compie dei passaggi e giunge a una conclusione, dopodiché questa conclusione deve essere verificata, deve essere vera per potere proseguire, perché se no non prosegue. Tutta la ricerca del pensiero si è rivolta a questo: a cercare qualche cosa che possa garantire le parole, il fare stesso degli umani, garantirlo per essere sicuri che è così e che non è come taluni hanno ingenuamente immaginato tutta un’illusione, è un’affermazione che di per sé non significa niente …
Intervento: e quindi questo Essere si ricollega all’insieme di significati, a quella costellazione cui faceva riferimento prima parlando del “non è mia madre” da tutto questo insieme di significati che uno attribuisce a un determinato significante deriva il suo Essere? Ma non esiste un Essere univoco per tutti, potrebbe anche non esistere tanto non è accessibile …
Questo è uno dei tentativi di soluzione al problema: intendere la verità non più come qualche cosa di stabile, certo, sicuro e inamovibile ma come una rete di relazioni fra elementi, di connessioni fra elementi, ma il problema si ripropone all’infinito: ciò che sto dicendo adesso è vero? Questo mi interessa saperlo per proseguire lungo questa via, per esempio quella che dice che la verità è unicamente una rete di connessioni fra elementi e di relazioni fra loro, quello che sto dicendo è vero? In qualunque modo la questione ritorna sempre, parafrasando Freud “ciò che si caccia dalla porta rientra dalla finestra” e direi immediatamente, perché tutto ciò è sempre applicabile, così come si fa generalmente per zittire gli scettici quando affermano che non c’è nessuna verità, e quindi anche questa affermazione non è vera, non è possibile certificarla. Ora questa operazione è possibile compierla anche rispetto a tutto ciò che abbiamo detto, a tutto ciò che è stato detto dalla semiotica, dalla psicanalisi, dalla filosofia, quindi se ciascun significato non è altro che una rete di relazioni, se dico questo allora non posso non tenere conto che anche il dire questo è preso in una rete di relazioni che attende comunque qualche cosa o qualcuno che dica “sì è così”, e quindi puoi andare avanti, puoi proseguire, se no, no …
Intervento: la verifica che viene dall’esterno …
All’inizio si è sperato che fosse la cosa stessa, lo stesso Husserl immaginava che le cose stesse si mostrassero “se uno le sa guardare bene e si sbarazza di tutti i condizionamenti, di tutti i mascheramenti, vede finalmente la cosa stessa così come si mostra” è molto problematico, che cosa vede? Ma se consideriamo il colore “rosso”, vedo il rosso, cioè l’essenza del rosso? Ma il rosso come essenza non si da mai senza un supporto, un ente, un qualche cosa, una maglia rossa, senza il supporto di una maglia, di un vestito, ha sempre bisogno di qualche cos’altro che lo supporti, per questo Heidegger oscilla un po’ e poi dice che l’Essere può esserci anche senza l’ente altre volte dice che non c’è l’Essere senza l’ente. Sono considerazioni che lasciano il tempo che trovano e che interessano molto poco, ciò che ci interessa è che tutto ciò che abbiamo rilevato, che hanno rilevato molti pensatori anche di rilievo può essere applicato, cosa che pochi hanno fatto, alle cose stesse che stanno dicendo, proprio così come si fa per zittire gli scettici “non c’è la verità, qualunque affermazione non può essere stabilita essere vera” e quindi nemmeno questa, quindi tutto ciò che ho detto, tutte le cose che abbiamo stabilite, tentato di stabilire questa sera rispetto all’impossibilità di stabilire il significato, anche queste cose, queste parole stesse non possono essere stabilite. D’altra parte se ci pensate bene come possiamo indicare la verità, definire la verità? Con quali parole la definiremo, la descriveremo, la diremo, se queste parole mentono, ciascuna di loro? Cioè per definire la verità useremo parole che mentono e siamo mal messi, partiamo malissimo …
Intervento: non bisogna più dire, oppure …
Questo è ciò che dice Derrida, “il niente da dire”, come se effettivamente non ci fosse più niente da dire; “niente da dire”, cioè il pensiero arrivando all’apice della sua corsa sfrenata arriva a non avere niente da dire, al nulla, al nulla che è nient’altro che questo baratro, questa voragine senza fondo, che non ha letteralmente nessun fondo …
Intervento: in venticinque anni di lavoro che abbiamo fatto alla Scienza della parola, proprio considerando le cose che sta dicendo …
Venticinque anni sono nulla rispetto ai duemila e cinquecento anni da che esiste questa questione …
Intervento: possiamo incominciare ad affermare delle cose che hanno la necessità di essere affermate per non cadere nella malia degli scettici …
Per uscire da una questione del genere occorre porre la questione in tutt’altro modo e cioè intendere che cosa è avvenuto nel momento in cui Parmenide ha compiuto quel gesto devastante, che ha segnato la fine, nel momento stesso in cui aveva inizio, ha segnato la fine del pensiero stesso. Una direzione ha cominciato a porla Wittgenstein, che è forse uno degli autori recenti più interessanti, pone questioni interessanti intendo dire, e cioè il significato come uso: cos’è il significato di qualcosa? L’uso che ne faccio, quando imparo un significato significa che imparo a usarlo, a usare una parola, qual è l’uso di una parola? Quello che grosso modo fornisce il dizionario, potete immaginare il dizionario con tutte le sue parole come un libretto delle istruzioni, dà delle istruzioni su come si usa ciascun termine, ciascun elemento che appartiene a una certa lingua, in questo modo la questione del significato, dell’Essere della cosa perde di senso, e forse non ha tutti i torti Wittgenstein a considerare che in realtà tutti i problemi filosofici di fatto sono problemi logici, così come quello di Parmenide, affermare che qualche cosa è quello che è senza avere nessuna possibilità di affermarlo, di garantirlo, di certificarlo, di verificarlo è un problema naturalmente, ma come posso attendermi da qualche cosa che mostri di sé di essere necessariamente vero? Come fa? E allora questo qualche cosa o esiste di per sé, come è stato sempre pensato, che è poi il pensare metafisico, oppure non esiste di per sé, ma se è considerato come un qualche cosa che esiste di per sé, questo significato per esempio che deve essere lì, da cercare, da trovare, un po’ come diceva Galilei “la natura è scritta con leggi matematiche” bisogna solo trovare queste leggi che la definiscono, ponendo già una questione comunque curiosa e cioè che la differenza tra dio e gli umani non è qualitativa ma è quantitativa, sta nel fatto che dio le conosce tutte queste formule matematiche, gli umani solo una piccola parte, però quando le avranno scoperte tutte ecco che… Ma dicevo che si immagina che qualche cosa esista di per sé, fuori da ciò che di fatto l’ha costruito, ciò che di fatto l’ha prodotto. Per approcciare opportunamente questa nuova questione occorre considerare molto attentamente un altro aspetto, che possiamo riassumere così: come si impara a parlare? Parmenide ha potuto fare quello che ha fatto, questo gesto a un tempo inaugurale e devastante perché stava parlando, perché aveva la parola, perché poteva esprimere, poteva pensare, una scolopendra non avrebbe potuto compiere tutte queste operazioni, come si parla dunque? Però prima vorrei che fosse molto chiaro quello che è stato detto fino a questo punto, non vorrei che ci fossero dei dubbi ancora, perché se è assolutamente chiara questa impossibilità e cioè questa totale e irreversibile assenza di significato delle cose, allora ci si può disporre effettivamente verso un qualche cosa che apre a un’altra via totalmente differente, perché lungo quella strada che gli umani hanno percorso da Parmenide ad Heidegger, tanto per dare un inizio e una fine, tutto questo percorso è stato fallimentare. La fisica stessa, anche la fisica atomica non è mai uscita dalla metafisica, mai. Dicevo che vorrei che fosse tutto molto chiaro per cui se c’è qualche dubbio, qualche perplessità, qualche controindicazione vorrei che fosse manifestata in modo da potere chiarire meglio tutto ciò che abbiamo detto, per intendere bene come il pensiero stesso, proprio per il modo in cui è iniziato, proprio per questo motivo preciso non poteva che fallire, questa è la questione centrale: se è iniziato così, se questi sono stati i presupposti non poteva che fallire, come dire non poteva trovare in alcun modo alcunché che lo sorreggesse, non poteva in nessun modo trovare, come di fatto è accaduto, nessun Grund, nessun fondamento, se le cose stanno così, quel fiocco di neve è condannato a cadere all’infinito senza arrestarsi mai …
Intervento: perplessità tante … sono chiaramente legate alle questioni che altri si sono posti in realtà mi è passato per la mente un pensiero: che cosa c’è prima della nausea? Come se la nausea fosse l’ultimo stadio e la pre nausea fosse momenti che si esperimentano nella vita in cui sembra di riuscire in qualche modo a raggiungere un piccolo tassello di significato che però poi sfugge prima che diventi forma, io condivido quello che diceva lei prima ma lo condivido al contrario ovvero mi sembra che il mio pensiero sia più … che esista una sostanza senza che ci sia una forma per descriverla anziché partire dalla forma per arrivare alla sostanza e che probabilmente la sostanza di per sé noi non abbiamo la forma per descriverla e ovviamente questo è il circolo al contrario e mi sa che questo tipo di pensiero, di logica non ha soluzione …
Certo che no, ma pone un ulteriore problema in effetti lei dice: sostanza senza forma, beh questa sostanza è una forma, con qualche modifica al platonismo, la sostanza sta in un ultra sensibile, in un iperuranio ed è da lì che garantisce quelle forme, quelle cose con cui noi abbiamo a che fare tutti i giorni, delle forme, dei profili di cose, di enti no, la sostanza è lassù e garantisce il tutto. Questa sostanza ha avuto varie forme, ma quella principale è quella connessa con un mito post filosofico, esistono miti pre filosofici e post filosofici, i miti post filosofici sono il cristianesimo e l’islamismo, ora lei dice: cosa c’è prima della nausea? Prima della nausea, ripercorrendo anche in parte il corso della filosofia, c’è la speranza, la speranza di trovare finalmente qualche cosa, poi c’è stata la soluzione, la soluzione è quella che dice: la sostanza c’è ma non si può conoscere, non si può percepire ma c’è ed è dio, è stata una soluzione, chiaramente anche in quel caso in ambito di pensiero ci si aspetta che un’asserzione possa essere dimostrata, non basta che uno dica una certa cosa come un oracolo, il mito dice gli uomini nascono dalla testa di Giove, sarà così, non sarà così? È dubitabile una cosa del genere, ciò che ha tentato di fare il pensiero invece è di argomentare in modo tale da giungere a una conclusione che fosse indubitabile, incontrovertibile, questo è stato il progetto fallito, però questa era l’idea, e allora ecco la sostanza che sta lì immobile, eterna, cioè dio che garantisce ogni cosa, che garantisce che le forme abbiano una sostanza. Se non ci fosse questa sostanza tutte queste forme svanirebbero, e succederebbe tutto quello che succede quando arriva la nausea: queste forme non hanno più sostanza, non sono più niente, si dissolvono nel nulla e si prova appunto quella sensazione di cui parlava Sartre, però è un punto di arrivo che ha già considerato, ha già pensato tutte le possibilità, se Platone divide la sostanza dalla forma per Aristotele per esempio già non è più così, forma e sostanza si compongono, non ce n’è uno senza l’altro, che è il modo tra l’altro più comune di pensare tutte queste cose, come dire che se si accoglie la premessa da cui parte Platone, tutte queste considerazioni, queste conclusioni sono ineluttabili, non c’è nessuna possibilità di venirne fuori, ci hanno pensato, sono duemila e cinquecento anni che si è cercato di rimediare a questo problema, tranne i sofisti che invece ci sono andati a nozze con questa storia e anzi l’hanno portata alle estreme conseguenze, ma tutti gli altri, da Platone in poi, hanno fatto questo, compresa la costruzione dei questi miti post filosofici, cristianesimo e islamismo che hanno dato questa soluzione, qualcuno ha deciso che le cose stanno così, Lui è la sostanza, Lui è l’Essere che governa tutti gli enti, però razionalmente non è molto sostenibile una cosa del genere, presuppone appunto la fede: “credo che sia così” …
Intervento: la domanda successiva, alla luce di questo, lei come definirebbe la fede?
In un modo che non è molto differente da quello degli antichi, come il “credo quia absurdum”, non mi interessa se tutto ciò non nessun fondamento, io ci voglio credere, quindi per me è così, e tanto basta, come dire che rinuncio alla facoltà di pensare, rinuncio alla mia possibilità di interrogare ciò che dico, rinuncio volontariamente, con fredda e lucida determinazione, stabilisco che le cose stanno così, naturalmente perché le cose possano stare così occorre, come ho detto all’inizio, che io non le interroghi mai, solo a questa condizione posso continuare a pensare che sia proprio così, ma la fede è fatta di questo, è una delle soluzioni possibili, una soluzione avviata dal mito del cristianesimo che ha trovato questa soluzione “tu non chiederti più niente, c’è qualcuno che ha già stabilito tutto, è tutto a posto e tutto sistemato, devi soltanto darci la tua fede, dal momento in cui ce la dai sarai anche salvo”, perché c’è tutta una serie di annessi e connessi …
Intervento: una serie di vantaggi poi …
Sì, beh non potevano non offrire qualche optional, ci sono i gadget, la vita eterna, la verità dell’anima, la verità assoluta “io sono la via, la verità, la vita”. Questa dicevo è stata una delle soluzioni che ha avuto un certo successo per altro, nessuno glielo nega, a tutt’oggi funziona, non è da poco, e su questo ci sarebbe da parlare molto a lungo sul perché abbia ottenuto tutto questo successo, mentre per esempio il pensiero dei sofisti non ha avuto tanto successo, neanche quello degli scettici, neanche quello di Parmenide tutto sommato e ogni pensiero filosofico, ogni pensare ha avuto il suo momento Platone, Aristotele, poi la patristica adesso saltando tutto arrivando a Kant, Cartesio eccetera fino ad arrivare ad Heidegger, hanno avuto il loro momento ma nessuno ha avuto quella potenza, sono duemila anni che c’è, è la domanda che si poneva Nietzsche: duemila anni e nessun nuovo dio, come mai? Non siamo riusciti a inventare qualche cosa di più divertente, è sempre lo stesso, perché è rimasta? Come dicevo qui ci sarebbe da avviare una discussione piuttosto lunga, anche interessante, però ciò che mi interessa è incominciare a porre il modo in cui gli umani imparano a parlare, se riuscissimo a intendere esattamente che cosa succede quando gli umani incominciano a parlare e come si fa a insegnare a parlare, ammesso che sia possibile, per alcuni non lo è per esempio, per cui questo è un altro problema irresolubile, per insegnare a parlare occorre che la persona sia già nel linguaggio, perché io non posso dire a qualcuno “questo è un registratore” e insegnargli che questo è un registratore se questo non è già nel linguaggio, cioè non sappia già una serie sterminata di cose per potere capire quello che gli dico, è un’obiezione certo, però ci sono degli aspetti che sono intervenuti in questi ultimi anni e che hanno dato da pensare, non solo i fisici, i matematici ma anche i filosofi, delle questioni che sono state poste dalle macchine, come la chiamava Turing “la macchina pensante”. Nei primi anni del ‘900 si è posta una riflessione intorno alla possibilità di costruire delle macchine pensanti, l’origine del computer per dirla così, l’origine molto antica incomincia nel 1200 con Lullo che voleva costruire la sua macchinetta che serviva per dedurre certe cose fino a Leibniz e la sua Characteristica Universalis e poi una serie di passaggi di cui parleremo la volta prossima che hanno portato alla costruzione delle macchine pensanti, ma ciò che a noi interessa è che cosa ha consentito questa costruzione o più ancora o prima ancora il pensare la possibilità di costruire una macchina pensante. Una macchina pensante è quella che deve riprodurre il modo in cui pensano gli umani, anche perché gli umani pensano in questo modo e quindi non è che possono inventarsene altri, quello è, però tutto questo che oggi si chiama comunemente informatica ha posto delle questioni interessanti proprio riguardo al modo in cui si impara a parlare, o se preferite il modo in cui si insegna a una macchina a pensare. Se prendete una macchina di per sé, anche un computer, se non avesse dei circuiti logici e non avesse un sistema operativo per esempio, sarebbe un pezzo di ferro totalmente inutile, non avrebbe nessuna funzione, un sistema operativo cioè qualche cosa che fa funzionare la macchina, c’è qualche cosa di simile nei confronti degli umani? C’è un programma che fa funzionare gli umani? Potrebbe essere il linguaggio? Prendete il cervello di qualcuno, toglietegli il sistema operativo, cioè il linguaggio, cioè la possibilità di pensare, a cosa serve questo cervello? Va bene per farci la frittura, ma non ha nessun altro utilizzo, è dal momento in cui si instaura un sistema che consente di pensare che è possibile da quel momento incominciare a parlare e quindi a pensare e quindi fare tutte le serie di operazioni, ma il modo in cui si è costruito, si è pensato più propriamente di costruire una macchina pensante è indicativo anche perché per costruirla hanno dovuto pensare a come funziona per gli umani, per poterla riprodurre, giungendo a delle considerazioni sorprendenti e queste considerazioni sono quelle che hanno bypassato totalmente tutto il problema di cui abbiamo parlato questa sera e, oltre che bypassarlo, lo rendono inesistente, come se non fosse mai avvenuto, perché la questione non era quella che ha posta Parmenide dall’inizio, non era quella. Parmenide non ha potuto vedere altro ma c’era qualche cos’altro che andava vista, qualcosa che forse avrebbe potuto vedere ma non ha vista, non avendola vista ha creato il marasma che ha accompagnato il pensiero degli umani fino a Heidegger. Apre a una questione notevole, immensa, che riguarda il modo in cui funziona il pensiero, e una volta che avremo inteso molto bene come funziona il pensiero degli umani a questo punto potremo ritornare alla questione da cui siamo partiti, e cioè a Freud, per porre le cose in modo totalmente differente, anche se rimane la questione clinica da lui posta, però i presupposti da cui muove non saranno più gli stessi, saranno totalmente differenti.