LA POLITICA DI DIO
Il titolo che abbiamo dato questa sera annuncia, in effetti, la questione centrale per quanto riguarda questi ultimi due o tre interventi. Si tratta di affrontare due questioni, e essenziali. Una riguarda la nozione di dio, l'altra come questa idea funzioni, operi nel discorso di ciascuno e quali ne siano gli effetti, le implicazioni, le conseguenze. Questioni non marginali. La nozione di dio esiste da molto tempo, diciamo da quando ci sono tracce di un pensiero, sembra essersi data praticamente simultaneamente l'idea, il pensiero di dio o comunque un'idea simile. Perché? Da dove viene? Vi è stato insegnato molto probabilmente, se siete andati a scuola dai preti, dalle suore a seconda delle circostanze, che l'idea di dio è sempre stata e che è connaturata alla stessa essenza dell'uomo, anzi tutto questo viene utilizzato talvolta come uno dei modi per provare l'esistenza di dio: da quando esiste l'uomo esiste il pensiero divino, come un'idea connaturata alla sua essenza e pertanto irrinunciabile.
Si tratta di riflettere se è proprio necessariamente così oppure no. Tutto ciò che è stato detto per definirlo, questo dio, ha sempre condotto in una certa direzione, e vale a dire come ciò che configura una entità che è sopra l'umano e che governa l'umano, e rispetto al quale gli umani generalmente non possono nulla. Questo fino dall'antichità, però è possibile riflettere intorno a questo e cioè sul fatto, o meglio sulla necessità, di trovare qualche cosa che non sia, come direbbe Aristotele, corruttibile, e quindi abbia una esistenza che è fuori o differente da quella umana che, come è noto, è corruttibile. Tutto ciò che nasce si corrompe, dicevano gli antichi, quindi occorre che sia qualche cosa di non nato o di cui in ogni caso non è possibile stabilire l'origine. Qualcosa che può definirsi, ma solo fino ad un certo punto, oltre il quale il pensiero dell'uomo non può procedere. Ora qual è la domanda che non ha risposta? Domanda che gli umani si pongono, quella che riguarda il "da dove vengo" e poi di seguito "dove andiamo" e "perché l'una cosa e l'altra", in definitiva una domanda intorno all'origine, alla propria origine in attesa che la risposta a questa domanda possa finalmente dare un senso alle cose. Perché pare che sia l'unico modo per potere fornire ragionevolmente un senso alle cose, sapere da dove vengono e dove vanno. Supponete di rispondere alla domanda che chiede agli umani da dove vengano e dove vadano in questo modo: vengono da nessuna parte e vanno da nessuna parte.
Capite immediatamente, a questo punto, che risulta particolarmente arduo trovare un senso a qualunque cosa si faccia o non si faccia: Ma qualcuno potrebbe chiedere: e perché dare un senso? A che scopo? Una bella domanda. Il senso, potremmo dire così, nell'accezione più corrente, è una sorta di controllo sulle cose, se so che senso ha qualcosa so perché c'è, so qual è la sua funzione, so da dove viene, appunto, e dove va. Se non so questo non c'è più nulla di stabile, di fermo su cui fare conto in qualunque modo o controllare, controllare nell'idea che se riesco a controllare tutto ciò che mi circonda finalmente sono tranquillo.
Tuttavia la questione può porsi anche differentemente, vale a dire tutto ciò che ha consentito agli umani di porsi queste domande è propriamente ciò stesso che impedisce a queste domande di avere una risposta, per poco che ci riflettiate, vi accorgete che la domanda circa il da dove vengo, comporta immediatamente o quasi, la domanda "da dove viene questa domanda" e così via, e allora, dicevo, ciò stesso che consente questa domanda è ciò stesso che impedisce a tale domanda di trovare una risposta. Qui la questione si complica, perché occorrerebbe riflettere sulla nozione di domanda, la domanda ovviamente chiede qualcosa, avverte una mancanza. Una mancanza di che? Che cosa manca propriamente? Potremmo dire che la struttura che vi ho illustrata un istante fa, già di per sé costituisce la possibilità di pensare la mancanza, e cioè una struttura che mi consente di pormi delle domande ma non mi consente di trovare delle risposte. Allora l'unico modo per potere pensare un senso, un significato ultimo, come vorrebbe ogni teleologia, ogni discorso sui fini, necessita di un elemento che sia, per così dire, super partes, e cioè un qualche cosa che non sia coinvolto in questa mancanza, chiamiamola così provvisoriamente, o in questa sorta di paradosso strutturale, qualcosa cioè che sia fuori da questa struttura che comporta un paradosso insuperabile, e cioè di nuovo quello che mi consente di porre domande ma che, per la sua stessa struttura, mi impedisce di rispondere, nel senso che la risposta è un continuo rinvio della stessa domanda. Dunque occorre un elemento che sia fuori da questa struttura, e questa struttura è propriamente quella con cui parlo, cioè il linguaggio, e tutto ciò (questo lo capirono fin da subito gli umani) che è preso nel linguaggio, è inevitabilmente, inesorabilmente travolto da questa struttura, e questo aspetto è paradossale, cioè non consente di rispondere ma rinvia all'infinito sempre la stessa domanda.
Da qui l'idea che tutto ciò che compare su questo pianeta di visibile o pensabile sia difettoso per sua stessa natura. Tuttavia questa struttura attraverso cui faccio tutte queste riflessioni mi consente anche di pensare che esista qualche cosa che non è difettosa, che è assoluta, lo posso pensare, la trovo? No. Però lo posso pensare e se lo penso in qualche modo già esiste, per il fatto stesso che lo penso. Avevo utilizzato qualche cosa del genere per provare l'esistenza di dio, da qualche parte. Se lo penso, allora esiste per il fatto stesso che lo penso, se esiste intanto come pensiero, ma se lo faccio esistere soltanto come pensiero di nuovo sono vincolato a questa struttura che abbiamo visto che è paradossale, cioè non mi consente di rispondere alla domanda.
E allora ecco, sì lo penso, ma il fatto che lo pensi questo pensiero è perché è stato indotto per emanazione, per esempio, da qualche cosa che è fuori da questa struttura e in quanto tale non più paradossale, non più mancante di qualche cosa ma assolutamente autosufficiente. La prima formulazione e formalizzazione di un pensiero del genere avviene in Aristotele, come sapete nella Metafisica, l'affermazione che qualcosa per esistere non deve rendere conto ad altri della sua esistenza. Quale funzione ha il pensiero di dio, adesso lo chiamiamo dio perché generalmente viene chiamato così, potremmo chiamarlo in qualunque altro modo, per esempio come l'esistenza che non necessita di altra esistenza per esistere, ad esempio, è la stessa cosa, dunque dicevo questo pensiero, che come abbiamo detto all'inizio è molto antico, ha degli effetti tutt'altro che marginali nel pensiero dell'uomo, anzi direi che lo ha strutturato fin dall'inizio, pensare in questo modo, chiamiamolo religioso, ha delle implicazioni, dei risvolti tali per cui a distanza di alcune migliaia di anni continua ancora a pensare esattamente nello stesso modo, tranne alcune piccolissime e trascurabili varianti, varianti che sono pure intervenute ma il modo è quello di pensare che si dia necessariamente un'esistenza di qualche cosa che non necessita di altro per esistere, non necessita, per esempio del linguaggio. Perché se dovesse necessitare del linguaggio, allora avrebbe bisogno di altro e quindi non sarebbe più così autosufficiente, diciamola così. Quali le implicazioni? Infinite, una di queste è il modo di pensare del discorso occidentale, non è che quello orientale sia molto meglio intendiamoci, è fatto della stessa pasta per così dire, non è certamente meno religioso di quello occidentale. Dunque il linguaggio, che si è strutturato tenendo conto di questo pensiero, comporta che risulti difficile non soltanto pensare altrimenti, cosa che per lo più è impossibile, ma anche formulare un discorso che muova da altre premesse che non siano quelle che affermano l'esistenza necessaria di dio o di qualunque altra cosa che risponda ai requisiti di cui abbiamo detto prima.
Qualunque discorso venga fatto, per qualunque motivo in qualunque circostanza, appare come una sorta di corollario all'assioma fondamentale circa l'esistenza di dio, anche le proposizioni apparentemente più lontane e più comuni, se io per esempio credo di non essere considerato, di non essere amato, di non essere apprezzato, di non essere qualunque cosa mi piaccia, bene in questa affermazione io presuppongo necessariamente l'esistenza di dio, perché? Sembrerebbe non c'entrare niente e invece no, e invece ho enunciato una formulazione religiosa, che può formularsi se e soltanto se esiste una struttura religiosa. Fuori da una struttura religiosa questa formulazione può farsi evidentemente, ma non ha nessun senso. Non ha nessun senso in quanto il gioco in cui si trova a giocare questa affermazione, che dice che non sono amato, è considerato appunto come un gioco, così io posso anche dire: "nessuno mi ama", la cosa non va molto lontana dopo che l'ho detto, posso rifletterci ma non passerò una notte in bianco per questo. Allora proviamo a considerare questa questione, come cioè un'affermazione necessiti di un assioma che è quello dell'esistenza di dio. Prendiamo questa formulazione che afferma, per esempio, "nessuno mi ama", uno potrebbe dire: va bene, e allora? Ma spesso non avviene che uno si risponda così. Intanto dunque occorre un elemento importantissimo, e cioè che io creda una cosa del genere, perché se io lo dico senza crederci, allora diventa una battuta di spirito, un motto di spirito o qualunque altra cosa ma sicuramente non un'affermazione circa la mia esistenza e di portata più o meno drammatica che sia. Se io credo questa cosa, come la credo? Perché una formulazione del genere possa funzionare, cioè possa produrre gli effetti che produce in una persona che crede questa cosa, è necessario che si diano per acquisiti una serie di, Perelman le chiamerebbe di presunzioni, cioè cose che do come già acquisite, come ovvie, scontate, e sono queste che mi consentono di costruire questa preposizione. In questo caso dunque quali sono le cose che vengono date per acquisite? Riguardano il sapere, il sapere un certo numero di cose, prima di tutto che si dia in modo ipostatico una soggiacenza, necessariamente un io, che si diano degli altri, e che questi altri possano compiere questa operazione di amarmi, perché se questi altri non fanno questa operazione allora succede che, per esempio, sono abbandonato e quindi che si dia la possibilità di essere abbandonato, e quindi che esista questa stessa nozione di abbandono e così via. Una quantità sterminata di elementi che do per acquisiti, che hanno una funzione particolarissima: se io suppongo che io, in quanto tale, esisto e attribuisco a questa proposizione una sorta di verità così, sub specie æternitate e cioè inconfutabile, inalienabile e indistruttibile, già inauguro il primo passo nella direzione religiosa, oppure considero che questa proposizione che afferma che io esisto sia una proposizione, ma in quanto tale quali referenti ha? Altre proposizioni, e queste proposizioni che referenti hanno? Altre proposizioni. Posso giungere ad altro, cioè ad altre certezze? No, però ci posso credere, posso credere dunque che la proposizione che afferma che io esisto affermi qualcosa di assolutamente necessario, adesso dico questa proposizione per dire la cosa più ovvia, più banale e che quindi qualche cosa che io dico esista necessariamente ma qui, "esista", in accezione particolare, cioè questa esistenza è qualche cosa che non può, né deve, né ha alcun senso mettere in discussione, quindi è appunto qualcosa che si pone sub specie æternitate, è una verità assoluta, quasi una necessità ontologica ed è questo, esattamente questo, ciò su cui si è costruita in buona parte la struttura che noi chiamiamo linguaggio, ed è per questo motivo che è straordinariamente difficile accorgersene, non perché ciò che mi circonda me lo impedisca o perché le persone pensino come me, questo non significa niente, ma perché è la struttura del linguaggio in cui mi trovo che mi costringe a pensare così, perché è costruita in questo modo.
L'affermazione che afferma che io esisto sembra una delle principali formulazioni nel discorso occidentale, che io esista o che qualunque altra cosa esista, o che quello che sto dicendo esista. Abbiamo detto in varie occasioni della nozione di esistenza, in effetti non è così semplice pensare altrimenti, e cioè pensare che riflettere sulla nozione di esistenza non è altro che fare un altro gioco linguistico, con delle regole alle quali ci si può attenere oppure no, a piacere per così dire. Ora dunque se questa affermazione, che io esisto, è presa come una proposizione, allora ciò che ne segue già di per sé segue in modo differente, perché inesorabilmente anche le altre affermazioni risulteranno proposizioni, allora potremmo dire che dicendo "nessuno mi ama", dicendo questo e credendolo compio una serie di atti di fede che non sono necessari. Lo so rispetto a questo gioco linguistico che sto facendo, cioè quello di credere di non essere amato e di credere che io, che non sono amato e che gli altri che non mi amano ecc., che tutto questo abbia una sua esistenza, in quanto tale, fuori da ciò che io ne dico. Provate ad immaginare che questa proposizione che afferma che io esisto possa considerarsi una proposizione ma non "anche una proposizione", solo una proposizione, perché non c'è altro. Allora dunque mi trovo costretto a dovere fare una operazione che Freud, per altro ha incominciato a fare, e cioè incominciare a chiedermi: che cosa sto dicendo esattamente? Perché se affermo che nessuno mi ama, in qualche modo immagino di avere questa necessità, che qualcuno cioè faccia questa operazione nei miei confronti, che se no, che mi ami oppure no sarebbe assolutamente indifferente. Ma questo bisogno, questa necessità che avverto, a sua volta è sostenuta da altre preposizioni che vengono prese tutt'altro che come proposizioni, anche se magari uno non le considera, ma invece si tratta proprio di considerarle, perché? Difficile rispondere a questa domanda. Tuttavia potremmo dirla così, in modo rapido: se io affermo che nessuno mi ama e questo mi fa stare male (perché se lo affermo e poi non succede nulla posso affermare questo e qualunque altra cosa, non c'è nessun problema), allora accade che il sapere, che il venire a sapere che cosa sto dicendo affermando questo aggiunga degli altri elementi, cioè vengo a sapere più cose, che si aggiungono alla proposizione che afferma che nessuno mi ama, perché prima sapevo soltanto questo: che nessuno mi ama. E perché? Chi lo sa, avviene così. Deus vult. Talvolta non è difficile accorgersi della portata fantasmatica, altre volte risulta difficilissimo, a seconda della funzione che ha questa proposizione. Se per caso serve a mantenere una struttura religiosa, allora è difficilissimo sbarazzarsene, verrà mantenuta e consolidata contro ogni "evidenza". Freud se ne era accorto a proposito della malinconia, il melanconico è uno che si dà addosso continuamente, che si reputa la persona peggiore di questo mondo, potete darvi un bel daffare a spiegargli che non è così, che anzi è una persona gradevole, simpatica, intelligente, amabile ecc; la prima cosa che penserà è che lo stiate prendendo in giro, la seconda che se veramente pensate questo allora siete stupidi, perché non avete capito niente, perché se non capite che lui è un disgraziato allora non capite niente. Per cui non è di questo che si tratta in effetti, cioè di cercare di persuadere qualcuno del contrario di quello che pensa, anche perché è praticamente impossibile, ma di consentirgli di aggiungere qualche elemento qua e là. Non è facile, è difficilissimo, però può farsi. La cosa difficile è incominciare a interrogare ciò che si dice, a nessuno viene mai in mente di interrogare quello che dice, non nel senso di chiedersi perché ha fatto questo, se ha fatto bene o se ha fatto male, questo lo fa ciascuno continuamente, ma domandare che cosa sta dicendo, dicendo quello che dice? Che cosa sta mettendo in gioco? Quale gioco sta facendo? Quale gioco sta giocando, letteralmente? Questo è ciò che non può farsi, questo è ciò che il discorso religioso vieta di fare e finché permane la struttura religiosa, nell'accezione che indicavo prima, questo non può farsi in nessun modo. Per questo abbiamo insistito e insistiamo a tutt'oggi molto nell'analisi, nello svolgimento e nell'illustrazione della struttura religiosa, perché il modo in cui ciascuno si muove, pensa, si affanna, si arrabbia, gioisce ecc. tiene sempre necessariamente conto, come dicevo prima, dell'esistenza di dio, anzi tutto ciò che fa è un corollario di questo assioma. Ora intendiamoci bene, questo non è il male che stiamo denunciando, assolutamente no, soltanto ci stiamo interrogando su qualche cosa che avviene con una certa frequenza e che ci è parso difficile anche da individuare, tutto sommato, dal momento che il modo stesso in cui ciascuno pensa e parla va proprio in un'altra direzione, e quindi sembra strutturalmente impedire l'accesso a un altro modo di riflettere sulle cose o di interrogarle. Uno interroga per avere una risposta, per sapere come stanno le cose, se è così o se è cosà, se è si o se è no.
In definitiva potete ridurre qualunque interrogazione a questo, a un'interrogazione verofunzionale. Difficilmente qualcuno interroga ciò che dice perché ciò che dice possa dire altro, e questo altro, altro e altro ancora. Primo perché non saprebbe cosa farsene, secondo perché avverte, per il suo stesso discorso, la necessità di qualche cosa che gli risponda in termini verofunzionali, cioè vero o falsi, si o no, come con il computer. Il computer è una macchina, è vero, ma pensate di ragionare altrimenti? No, anzi sono i calcolatori eventualmente che ragionano come gli umani, sono stati costruiti apposta, anche se in modo più limitato ma la struttura è la stessa, né sarebbe potuta essere altrimenti. A ciascuna domanda una sola risposta, si o no. Ho fatto bene o ho fatto male? E` meglio che faccia così o è meglio che faccia cosà? Si, no. Può apparire che ci sia una terza formulazione, si e no per esempio, ci sono alcune logiche che prevedono anche questo, ma ciascuna di queste logiche è comunque riconducibile e riducibile alla logica verofunzionale, ma perché è l'impianto della struttura del linguaggio, l'impianto religioso.
Potrebbe porsi in termini più radicali in questo modo: fuori dalla parola o nella parola? Se è nella parola è umano, se è fuori dalla parola è dio, molto semplicemente. E così per altro accade ma, dicevo, ciascuno si muove, pensa e fa tenendo conto di questo assioma, eccola finalmente la politica di dio, la politica come tutto ciò per cui ciascuno si muove e pensa e fa in un certo modo, per cui decide di fare in un certo modo, tutto ciò in definitiva che ha delle implicazioni nel suo muoversi, nel suo fare. La politica di dio è quella politica che esige che ciascuno si attenga rigorosamente e scrupolosamente a questa struttura, attraverso un certo numero di regole, e più è onnicomprensiva questa struttura, meglio funziona. Infatti le più recenti invenzioni, e cioè i monoteismi, il cristianesimo, l'ebraismo e l'islamismo, hanno questa portata, cioè questo pensiero diventa onnicomprensivo, non c'è nulla che non ne sia in qualche modo toccato. Che cosa impone la politica di dio? Impone questo, tenendo conto delle premesse che abbiamo fatte: se gli umani sono difettosi perché non sanno rispondere a domande fondamentali, allora già partono male, e quindi tutte le sofferenze che incontreranno saranno dovute a questo loro difetto, al male, male come distanza, distanza dal bene. E` sempre stato pensato così. Su questo si è costruito tutto il discorso occidentale, Freud ne ha intravisti alcuni aspetti, per esempio rispetto alla questione sessuale non aveva tutti i torti, se la sessualità non fosse stata repressa la civiltà non sarebbe mai nata. Forse, certo è difficile stabilirlo con tanta certezza, ma forse non si tratta soltanto di questo, di stabilirlo con tanta sicurezza, quanto di porre una questione. La gestione della sessualità è fondamentale in ciascun discorso, il cristianesimo è una delle religioni più raffinate, imponendo la sofferenza ha costruito un vero e proprio trattato di erotismo, "tu donna partorirai con dolore". Monopolizzando così una fantasia erotica piuttosto potente, e cioè che il dolore abbia, o sia complementare, al piacere. In effetti, leggete cosa tutto questo ha prodotto fino alle sue punte più estreme, come Masoch o De Sade, lì la questione religiosa è portata alle estreme conseguenze, il piacere lì è la sofferenza senza mezzi termini e senza timori, senza pudore. Ma si tratta di riflettere bene su una questione che è strutturale, o almeno così sembra, rispetto al linguaggio, nel senso che la religione pone le cose in modo tale per cui induce a pensare che senza sofferenza non ci sia piacere. Uno dei luoghi comuni più accreditati è che una cosa che si ottiene attraverso sforzo e sofferenza valga di più di quella che si ottiene senza fare niente, da qui tutta la dottrina dei valori. In buona parte la filosofia si è cimentata a dire di tutto a questo riguardo.
Il piacere dunque, Freud come sapete ha posta una connessione tra la sessualità e il piacere, non è che occorresse lui per fare una cosa del genere, ma anche lui nota, come hanno fatto tutti, la prossimità tra la punta del piacere sessuale, o erotico, con il dolore, la sofferenza o addirittura la morte. Amore e morte, è uno dei luoghi comuni più diffusi e più accreditati. E cioè quando (direbbe Lacan) la consapevolezza della propria, come la chiamava lui, manque à être, nel rapporto sessuale viene portata all'esasperazione, proprio lì, al momento stesso in cui ciascuno potrebbe supporre di sentirsi completato, proprio lì, dice sempre lui, avviene una caduta, una sorta di abisso, di vuoto. Ma perché questo avvenga occorre una struttura religiosa, se no tutto ciò non si dà, e cioè occorre la consapevolezza della propria mancanza, del proprio difetto o del dolore dell'esistenza, occorre in altri termini che ciascuno si senta (e la religione concorre a fare questo) bisognoso di qualche cosa e cioè di un completamento, di un complemento, di qualcosa che lo integri perché manca, e perché manca? Perché non sa rispondere. Allora ecco dio, la risposta alle domande sull'esistenza, l'atto sessuale come risposta alla domanda intorno al piacere, il suicidio come risposta alla domanda intorno alla morte, poi ciascuno può metterci tutto quello che gli passa per la mente.
E` la consapevolezza di non poter rispondere a sostenere, sostentare il discorso religioso con tutto ciò che è annesso e connesso, ma non perché si possa rispondere a questa domanda, è che la questione posta in questi termini non ha nessun senso. Cosa vuol dire rispondere a una domanda? Cosa mi sto chiedendo chiedendomi una cosa del genere? O, più semplicemente, a quali condizioni posso fare tutto questo? Incontro altre domande indubbiamente, ma non sono più nella posizione di dovere rispondere, e cioè di immaginare di potere chiudere il gioco, come se fosse l'ultima partita, quella definitiva, che per definizione è il duello, un affrontamento dove uno dei due muore, spesso la domanda è posta in questi termini, anche se non c'è la morte di qualcuno, ma ci sono due persone oppure una persona con la sua questione (per esempio la natura per uno scienziato), uno dei due soccombe quando l'altro vince e cioè uno trova la risposta. In effetti le metafore che vengono utilizzate anche dalla scienza sono emblematiche: abbiamo vinto la polmonite, abbiamo vinto il cancro, abbiamo vinto l'AIDS. Sono termini guerreschi per cui uno dei due è dovuto soccombere e l'altro vive.
Tutto questo riguarda la struttura del discorso religioso o la politica di dio in questa accezione, e cioè di tutto ciò che per potere credersi necessita di questo assioma fondamentale circa l'esistenza di dio, cioè l'esistenza di un elemento fuori dalla parola, se volte dirla tutta.
Solo a questa condizione posso credere, disperarmi, affannarmi e fare tutta una serie di operazioni, se non credo, no. Perché è impossibile credere qualche cosa che so essere necessariamente falso, perché non ci posso credere? Allo stesso modo diventa impossibile credere, cioè so che non è fuori dalla parola, so che è una proposizione inserita in un gioco linguistico, posso conoscere le regole di questo gioco linguistico oppure no, ma in ogni caso non posso credere, proprio in nessun modo che non si tratti di un gioco linguistico esattamente, torno a ripetere, così come non posso credere ciò che so essere assolutamente falso, è vietato dalla struttura del linguaggio, non lo posso fare.
- Intervento:...la nascita del linguaggio.
No, parlavo della nascita del pensiero religioso in relazione al linguaggio.
- Intervento...
Rispetto a come nasce il linguaggio possiamo dire qualunque cosa e il suo contrario, in modo assolutamente legittimo e anche dimostrarlo. Ciò su cui stiamo riflettendo è questo, cioè la struttura del discorso religioso. Effettivamente è una struttura tale per cui occorre che si dia necessariamente un elemento fuori dalla parola, e quindi necessariamente immutabile e identico a sé, e quindi sia fuori da un gioco linguistico, sia fuori da ogni possibile variazione, trasformazione. Questo elemento che è pensato fuori dalla parola è dio, o comunque l'idea che si può fare di questo, e la necessità di potere stabilire qualcosa che sia fermo, stabile, è ciò che indicavo come la produzione del pensiero religioso, cioè al necessità che almeno un elemento si dia e sia autosufficiente e sia garantito, garantisca di sé, non sia, cioè non dipenda da ciò che io penso di lui, con questo non sto dicendo che la religione nasce in questo modo, sto dicendo soltanto che cosa la sostiene, che cosa consente al pensiero religioso di esistere. Quando sia nata la religione, perché sia nata la religione, non c'ero, non lo posso dire.
- Intervento: ciò che postula invece il buddismo...
Ecco, le dottrine orientali, al contrario di quelle occidentali, sono strutture religiose che muovono da due concetti fondamentali, primo che l'uomo è imperfetto, secondo che può (e poi, qui sul "può" cambiano le varie dottrine) diventare perfetto. Questi sono i due cardini e sono per definizione la base di ogni pensare religioso. La filosofia orientale non ha, di per sé, nessun interesse, non più di quanto ne abbia il cattolicesimo, che per altro è molto più sofisticato, il buddismo, come l'islamismo, come religione, come pensiero è piuttosto rozzo, molto semplice. Ciascuno fa delle cose e viene punito, se sono cattive, attraverso incarnazioni poco piacevoli, viene premiato altrimenti, fino alla liberazione in cui si ricongiunge con l'armonia universale. Uno può credere questo come qualunque altra cosa, non è né meglio né peggio, possiamo dire che è molto ingenua, possiamo dire insomma quello che vogliamo, ma ciò che ci interessa è cogliere gli aspetti essenziali di ciascun pensare religioso, e quelli a cui Lei ha accennato sono effettivamente i cardini di ciascun pensiero religioso, quelli che suppongono che l'uomo sia deficiente, nell'accezione letterale del termine, cioè mancante di qualche cosa, e che occorra pertanto che diventi altro attraverso, ecco, ci sono varie vie, molte...
- Intervento:...
Se io affermo che ciascuna cosa che si dice non è fuori dalla parola, questo esclude per definizione la possibilità stessa del pensiero religioso il quale, se posto in questi termini, non esiste in alcun modo, né il buddismo né altre religioni, e quindi dissolve ogni pensiero, ogni idea di mancanza o di armonia da raggiungere, tutto ciò non ha nessun senso, nessuna portata, nessun interesse. C'è invece la religione occidentale che sembra quella più a portata di mano, forse la meno considerata, che invece ha un certo interesse. Ciò che hanno scritto i Padri della Chiesa è di interesse straordinario, proprio come elaborazione teorica, come riflessione, che va al di là dei luoghi comuni, anche se ovviamente muove da luoghi comuni, che sono gli stessi di ciascuno, da Mao a Gesù Cristo a Budda a Confucio a Maometto non fa differenza... poi questa idea della reincarnazione, ma sia come sia, stiamo riflettendo sulle condizioni del discorso religioso ma non tanto per stabilire da dove venga il discorso religioso, non ci interessa minimamente, ma reperire gli aspetti del proprio discorso, questo può consentire invece di potere disporre di un maggior numero di elementi.
- Intervento:...
Dio come cosmo, perché no? O come qualunque altra cosa, perché proprio come cosmo?
-Intervento...
Il senso? Questo sposta solo la questione, quale senso? Lei ne ha uno definitivo? No. E allora dipende da quale senso diamo a questa cosa e allora rispetto a un certo senso la sua proposizione...
- Intervento...
Noi salviamo tutto,(...) qualunque affermazione è distruggibile, per la sua stessa struttura, che afferma una cosa oppure il suo contrario. Lei dice che nessuna parola può essere detta in modo perfetto e cosa vuol dire questo? Niente, a meno che non sappia già perfettamente che cosa è una parola, che cosa significa, che cosa vuol dire "dire" e che cosa sia "perfetto", solo a questa condizione lei può formulare questa proposizione, cioè facendo un certo gioco linguistico...(...) però in un altro gioco linguistico...(...) sì, però rispetto a che? (a se stessa) e quindi occorre che ci sia un "se stesso" che è identico a se per poter dire che è imperfetto e quindi se esiste questo "se stesso" questo "se stesso" occorre che sia identico a se, se no non potrebbe dire che qualcosa è differente da lui...(...) e allora come fa a sapere che è se stesso? E' soltanto un sintagma e allora perché io devo dire che è lo stesso anziché dire che è identico oppure che è differente, sarebbe la stessa cosa...(...) allora perché lei afferma che la cosa è imperfetta anziché affermare che è perfetta se sono la stessa cosa? (...) ho capito, ma perché dovrebbe essere impreciso il parlare, può darsi che lo sia dipende qual è il gioco linguistico in cui questa proposizione è inserita se no di per sé questa proposizione non significa assolutamente niente...(...) si certo occorre leggere, anch'io da piccolo mi dilettavo con la filosofia zen, però ecco, il prossimo incontro al 10 maggio, parleremo della psicanalisi in modo esplicito. Bene, grazie a tutti e buona notte.