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WITTGENSTEIN, LA RETORICA E IL SOFISTA

 

Ciò di cui non si può parlare non può non dirsi.

"Come mantenere il favore delle vedove e disporre dei loro beni.", se volete sapere come si fa, c'è qui pronto per voi un manuale di probabile mano gesuita, probabile, non è certo, è stato tradotto dal latino ed è un testo trovato per caso, ed è un manuale per diventare buoni gesuiti, e cioè per arricchirsi. Questa è la chiusa. È un testo straordinario e di grandissimo interesse, anche retorico, noi l'abbiamo tradotto e stampato e ve lo diamo, anziché farvelo pagare trenta milioni come occorrerebbe, a tremila lire, giusto il costo delle fotocopie. Ne abbiamo parlato tempo fa a proposito dei gesuiti, è una summa, non del pensiero dei gesuiti, ma della loro abilità. Questa sera abbiamo fatto una piccola variazione rispetto al titolo, ci sembrava più opportuno rispetto al discorso che stiamo svolgendo, il titolo che abbiamo dato è, come sapete: Wittgenstein, la retorica e il Sofista. Abbiamo citato varie volte Wittgenstein, che rimane un autore di notevole interesse, in particolare per il modo in cui pone le questioni, soprattutto le domande. È universalmente noto che aveva un caratteraccio, faceva i suoi seminari all'interno di una stanzetta dell'Università, con sei o sette persone, non di più, se qualcuno arrivava in ritardo di un minuto non gli rivolgeva la parola per una settimana, non tollerava nessuno che lo contraddicesse, un caratteraccio, ciò nonostante occorre leggerlo. E giusto per iniziare ho qualche proposizione tratta dal suo saggio Della Certezza, uno dei più interessanti:

-144 Il bambino impara a credere a un sacco di cose. Cioè impara, ad esempio, ad agire secondo questa credenza. Poco alla volta, con quello che crede, si costruisce un sistema e in questo sistema alcune cose sono ferme e incrollabili, altre sono più o meno mobili. Quello che è stabile, non è stabile perché sia in sé chiaro o di per sé evidente, ma perché è mantenuto tale da ciò che gli sta intorno.

-145 Si vuol dire: "Tutte le mie esperienze mostrano che è così". Ma come fanno? A sua volta, infatti, quella proposizione, che mostrano, fa parte di una loro particolare interpretazione.

-165 Un bambino potrebbe dire a un altro:" Io so che la Terra esiste già da molte centinaia di anni.", e questo vorrebbe dire: Io l'ho imparato.

-166 La difficoltà consiste nel riuscire a vedere l'infondatezza della nostra credenza.

-199 L'uso di vero/falso ha qualcosa di fuorviante, perché è come se si dicesse: Concorda o non concorda con i fatti, e il problema è, appunto, che cosa sia, qui, concordanza il problema centrale.

-203 Tutte quelle che consideriamo prove (Evidenz) indicano che la Terra esisteva già molto tempo prima che Io nascessi. L'ipotesi opposta non trova nessuna conferma, di nessun genere. Anche quando tutto parla in favore di un'ipotesi e nulla parla contro di essa l'ipotesi è oggettivamente sicura? Così la si può chiamare. Ma concorda incondizionatamente con il mondo dei dati di fatto? Nel migliore dei casi ci mostra che cosa voglia dire "concordare". Troviamo difficile immaginare che sia falsa, ma troviamo anche difficile farne un'applicazione. In che cosa consiste allora questa concordanza, se non in questo: che ciò che in questi giochi linguistici è una prova parla in favore della nostra proposizione?

-245 A chi, uno dice di sapere qualcosa? A se stesso o a un'altra persona? Se lo dice a se stesso, allora come si distingue quello che dice dalla dichiarazione (Feststellung) che lui è certo che le cose stanno così? Non c'è nessuna sicurezza soggettiva che io sappia qualcosa. Soggettiva è la certezza, ma non il sapere. Se dunque mi dico: "Io so di avere due mani", e quello che dico non deve soltanto dare espressione alla mia certezza soggettiva, allora devo potere convincermi di avere ragione. Ma se non posso farlo, allora che io abbia due mani non è meno certo prima d'aver guardato di quanto lo sia dopo. Però potrei dire: "Che io abbia due mani, è una certezza incrollabile". Questo esprimerebbe il fatto che, come prova contraria di questa proposizione, non sono pronto ad ammettere qualsiasi cosa.

-250 In circostanze normali, che io abbia due mani è tanto sicuro quanto qualsiasi altra cosa che potrei addurre come prova dell'avere due mani. Per questa ragione non sono nella posizione di considerare come prova di ciò il fatto che vedo la mia mano.

-253 A fondamento della credenza fondata sta la credenza infondata.

-306 "Io non so se questa è una mano". Ma sai che cosa significa la parola "mano"? E non dire: "So che cosa significa per me, in questo momento". E non è un dato di fatto empirico, che questa parola sia usata in questo modo?

-313 Così, dunque, è questo che ci fa credere una proposizione? Ebbene, appunto, la grammatica di "credere" è connessa con la grammatica della proposizione creduta.

-341 Vale a dire: le questioni che poniamo, e il nostro dubbio, riposano su questo: che certe proposizioni sono esenti da dubbio, come se fossero i perni sui quali si muovono quelle altre.

-343 Ma qui le cose non stanno così: che appunto, non possiamo indagare tutto e per questo siamo costretti a essere appagati dell'assunzione. Se voglio che la porta si apra, i perni devono essere saldi.

-347 È come se non potessi regolare la mia mente (Geist) su nessun significato.

-361 Ma potrei anche dire: Che così è, mi è stato rivelato da dio. Dio mi ha insegnato che questo è il mio piede. E se poi accadesse qualcosa che sembra contraddire questa conoscenza, questo dovrei considerarlo un inganno. Forse c'è qualcosa che riguarda la decisione rispetto al sapere, ciò che so, ho anche deciso di saperlo?

-370 Ma per meglio dire: Il fatto che io usi senza alcun scrupolo la parola "mano" e tutte le restanti parole della mia proposizione; sì, il fatto che non appena volessi anche solo provarmi a dubitarne mi troverei di fronte al nulla, mostra che l'assenza del dubbio fa parte dell'essenza del gioco linguistico, che la domanda "Come faccio a sapere che..." tira per le lunghe il gioco linguistico, o addirittura lo toglie via.

-446 Perché sono così sicuro che questa è la mia mano? Su questa specie di sicurezza non riposa forse tutto quanto il gioco linguistico? Oppure: Questa "sicurezza", non è (già) presupposta nel gioco linguistico? Per il fatto, cioè, che chi non riconosce gli oggetti con sicurezza, non lo gioca, o lo gioca nel modo sbagliato. Perché sono così sicuro che questa è la mia mano?...modo sbagliato.

-457 Voglio dunque dire che la sicurezza risiede nell'essenza del gioco linguistico? Si, sicuramente si, la sicurezza che io ho, risiede nel gioco linguistico, è un aspetto di questo gioco, di questa grammatica. Che non c'è fuori di qui...

-459 Se il negoziante volesse analizzare ciascuna delle sue mele, senza nessuna ragione ma tanto per esserne ben sicuro, perché (allora) non dovrebbe indagare sulla sua stessa indagine? Ora, si può qui parlare di credenza (intendo, nel senso della credenza religiosa, non della congettura)? Qui tutte le parole psicologiche non fanno altro che allontanarci dalla cosa principale.

-461 Supponiamo che io fossi il medico, e un paziente venisse da me, mi mostrasse la sua mano, e dicesse : "Quella che qui sembra una mano, non è una eccezionale imitazione di una mano, ma è effettivamente una mano", e poi parlasse della sua ferita. La considererei come una vera e propria informazione, per quanto superflua? Non la considererei piuttosto un nonsenso, che pure ha la forma di un'informazione? Infatti, direi, se quest'informazione avesse veramente un senso, come potrebbe costui essere sicuro del fatto suo? Alla comunicazione manca lo sfondo. In altri termini se io dubito di ciò che dico manca lo sfondo, cioè manca il fondamento e non posso proseguire.

-471 È così difficile trovare l'inizio. O meglio: è difficile cominciare dall'inizio. E non tentare di andare ancor più indietro.

-473 Come quando, scrivendo, s'impara una determinata forma primitiva e poi, in seguito, la si varia, così si impara prima di tutto la stabilità delle cose, come norma che poi è soggetta a variazioni.

-477 Così, dunque, si deve sapere che esistono gli oggetti i cui nomi si insegnano ai bambini con una definizione ostensiva. Perché si deve saperlo? Non è sufficiente che in seguito l'esperienza non dimostri il contrario? Infatti, perché il gioco linguistico dovrebbe riposare su un sapere?

-501 Non sono sempre più vicino al dire che, in ultima analisi, la logica non si può descrivere? Devi prendere in considerazione la prassi del linguaggio: Allora la vedrai.

-559 Non devi dimenticare che il gioco linguistico è qualcosa di imprevedibile. Voglio dire: Non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì come la nostra vita.

Queste proposizioni che vi ho lette sono giusto per introdurre una questione, questione connessa con i giochi linguistici di cui parliamo spesso. Un gioco linguistico che cos'è propriamente? Potremmo dire con Wittgenstein che non è nient'altro che l'essere in atto del linguaggio, cioè potremmo chiederci: può darsi qualcosa che non sia un gioco linguistico? Se si, a quali condizioni? Ma se ciascuna proposizione che io pronuncio, di qualunque tipo, per qualunque motivo e in qualunque circostanza si pone come un gioco linguistico, allora che cosa sto dicendo esattamente con quella proposizione? Cosa affermo? Uno stato di cose? Come le cose stanno da qualche parte, come direbbero i logici in "qualche mondo possibile"? Posso pensarlo, e spesso avviene così, ma questa cosa non ha nessun fondamento, non più di quanto ne abbia una qualunque altra proposizione. Allora la questione si pone in questi termini: che cosa me ne faccio esattamente di una proposizione, qualunque sia? Come la utilizzo? Perché sta lì magari detta da me, mentre parlo, o confuto di avere detto certe cose, e cos'ho fatto? Qualcosa di più che emettere dei suoni, perché sono suoni organizzati in un certo modo, i fonemi si compongono a formare dei lessemi, la fonologia ne varia la forma, la sintassi li organizza in modo tale per cui si costruiscono delle frasi, delle proposizioni, dei discorsi ma, torniamo a dire, che cosa faccio esattamente dicendo qualcosa? Come sapete la questione fondamentale, e cioè perché gli umani parlano, non ha, né può avere nessuna risposta, ciascuno può dare una sua risposta evidentemente, ma tanto opinabile quanto qualunque altra. Alcuni sostenevano, per esempio, per trasmettere delle informazioni, è noto che la più parte di qualunque conversazione quotidiana non è affatto fatta per questo motivo, e se effettivamente fosse questo l'unico motivo probabilmente le persone parlerebbero per non più di pochi secondi al giorno, il che non avviene. C'è qualche altra cosa che è all'opera ma sia come sia, la questione dei giochi linguistici, cioè la considerazione che ciascun discorso, ciascuna frase, ciascuna riflessione si pone direi inesorabilmente come un gioco linguistico, pone in prima istanza la questione della retorica. Della retorica si possono dare infinite definizioni, ma non è questo che adesso ci interessa propriamente, quanto piuttosto sottolineare, con la retorica, che di fatto ciascuno si trova preso in una serie di figure, di argomentazioni che per il momento consideriamo non avere nessun'altra funzione se non quella di produrre altre proposizioni, attraverso le varie strutture. L'idea che la retorica, in questo caso più propriamente la stilistica, sia l'arte del "bello parlare e del bello scrivere", è un aspetto molto marginale, anche se ci faceva notare Cicerone che: chi parla meglio, pensa meglio. Non sappiamo se è proprio così, comunque lui sosteneva questo, ma in ogni caso parlare di giochi linguistici pone in prima istanza la questione della retorica. Commentavamo con gli amici tempo fa, uno scritto di alcuni linguisti francesi che si occupano di semantica e di teoria dell'argomentazione, tali Anscombre e Ducrot, che giungono a considerare in modo interessante che il discorso è fatto sì, certamente di luoghi retorici, ma questi luoghi retorici non sono delle variazioni, delle varianti degli scarti rispetto alle quali le varie teorie volevano trovare una sorta di grado zero, che sarebbe per esempio l'informazione. Dare una informazione si può decidere di farlo in tanti modi, per cui i modi in cui questo viene fatto, cioè i luoghi retorici, dovrebbero potersi sempre ricondurre a questo... chiamiamolo grado zero, per fare il verso a R. Barthes, che sarebbe l'informazione nuda e cruda, come fa Quenau. Quenau nel suo libro Esercizi di stile, prende un raccontino banalissimo: un tale scende dal tranvai, inciampa eccetera..., prende questo raccontino di mezza pagina, lo racconta in novantanove modi differenti, ora possono anche essere molti di più, ma intanto novantanove, ecco tutti questi dovrebbero potere ricondursi ad un unico racconto che è quello che informa, che dà l'informazione e basta. Anscombre e Ducrot giungono a considerare che è esattamente il contrario, e cioè che è il luogo retorico che produce l'informazione, non la riveste, la produce, come dire che è il modo in cui qualcosa si dice che dirà, che comporterà il significato di cosa si sta dicendo.

Allora ritorno alla questione del gioco linguistico e del sapere. Come sapete il discorso occidentale è buona parte fondato su questa nozione di sapere, abbiamo detto in varie occasioni come risulti imprescindibile nel discorso occidentale, dico discorso occidentale non in contrapposizione a quello orientale né a qualche altro, ma perché è comunque quello in cui ci troviamo e costituisce anche l'impianto di molti altri. Chi si è divertito a inseguire la filosofia greca si è accorto che già secoli prima di Cristo si è spinta molto lontana, considerando in questo potenti influssi platonici e anche neoplatonici nella filosofia orientale. lf Che sia così oppure no adesso ci importa poco. Ciò che ci interessa qui è che considerare il discorso come un gioco linguistico comporta immediatamente che questo discorso trovi come referente non un qualche cosa che il discorso descrive, per esempio, ma che troverà un referente in un altro discorso, per dirla più propriamente che i vari luoghi retorici hanno come referente altri luoghi retorici e non la cosa in sé, se volete, ma in ogni caso non la cosa che voleva essere detta o la cosa o l'oggetto che si sta descrivendo.

Questione notevole questa perché a questo punto rispondere alla domanda "di cosa sto parlando esattamente" diventa più arduo. Posso dire  , sì, ma "questo" è un altro luogo retorico che rinvia ad un altro ancora e così via. Allora che cosa metto in atto parlando di qualunque cosa, di qualunque persona, per qualunque motivo? Luoghi retorici in prima istanza. Ma se fosse così, qualcuno potrebbe obiettare, non ci sarebbe mai un motivo per soffrire, per stare male, per avere paura, angoscia, fobie, ansie di ogni sorta. È vero, in effetti chi potrebbe prendersela per un tópos retorico? Per un gioco linguistico? Sapendo che lo è ovviamente. E se non lo sa? Se non lo sa continua a pensarlo, a pensare cioè che ciò che dice sia l'emanazione delle cose, nell'ipotesi migliore, e quindi qualche cosa che risponde ad un'altra cosa che da qualche parte c'è, sofferenza compresa. È, dicevamo, la struttura del discorso religioso, quello che ha la necessità di credere una cosa, una qualunque cosa, non importa che cosa creda, è sufficiente che creda. Se credo questo allora su questo posso costruire tutto l'universo, può essere anche una cosa piccolissima, non ha importanza, l'essenziale è che ci sia qualche cosa che non sia un gioco linguistico, che cioè abbia un referente, fermo, unico e stabile.

Provate a pensare a un discorso che non abbia nessun referente, salvo altri discorsi, all'infinito, cosa accade? Come dicevamo prima è difficile aversela a male per un luogo retorico, accade propriamente che diventa più difficile, per esempio, stare male. Dico stare male, perché è una cosa di cui spesso ci si lamenta, ma perché diventa difficile? Può anche diventare impensabile, ma intanto difficile. Faccio un esempio, una frase una qualunque:  , questa di per sé è una frase semplicissima, che in quanto tale non dice niente, ciò che fa di questa frase qualche cosa è il senso che le si attribuisce, ma questo senso non è sempre necessariamente lo stesso per chiunque ascolti una frase del genere. Sapete perfettamente che a seconda delle circostanze in cui viene detta da una persona, cambia moltissimo, in quanto evoca cose infinite. Ora vi trovate di fronte a questa frase "domani partirò" e allora? Prende atto di questa frase, poi prende atto anche del senso che per lui, che ascolta, produce questa frase. Può essere ai poli opposti, per esempio:  , oppure  .

In entrambi i casi si trova di fronte quindi a un'altra frase, a un'altra proposizione, per esempio "mi abbandona", e allora? Cosa succede a questo punto? Una cosa molto curiosa, che questa frase, questa ultima, quindi "mi abbandonerà" ha la stessa struttura del proverbio e cioè quella di essere assolutamente inaccessibile, inattaccabile a qualunque controdeduzione, a qualunque elemento che possa insinuarsi e inserire una variante in questa frase. Prendete i proverbi, hanno una struttura prevalentemente asindetica, cioè proposizioni dove sono tolte tutte le congiunzioni, le connessioni sintattiche, è una successione di elementi rapidissima, molto efficace retoricamente, il famoso "veni, vidi, vici" è un asindeto. Il proverbio dunque è fatto in modo molto compatto, chiuso sintatticamente come se questa compattezza avesse, e probabilmente ha, lo scopo di impedire l'inserzione di qualunque elemento che potrebbe mettere in difficoltà il proverbio. Come sapete i proverbi affermano a volte cose strampalate, talvolta contraddittorie, se fossero la saggezza popolare allora dovremmo dire che la saggezza popolare è autocontraddittoria. "La fortuna arride agli audaci" che invita all'audacia per esempio, e poi quell'altro che dice "la prudenza non è mai troppa" che gli si oppone, quasi tutti i proverbi hanno un proverbio che dice assolutamente il contrario. Ma ciascuno di questi proverbi, nonostante che quasi per ciascuno esista un proverbio contrario, rimane per la sua struttura sintattica e morfologica, inattaccabile, inaccessibile. Chiunque potrebbe dimostrare facilmente la falsità del proverbio e il proverbio rimarrebbe assolutamente tale e quale. Ora considerate, di fronte alla frase "domani partirò" esattamente il senso che si produce, per esempio  ; questo "ecco mi abbandona" funziona esattamente come il proverbio e cioè come la chiusura, il rinvio ultimo, rispetto al quale non ce ne sono altri, e che chiude la questione, chiude la questione e pertanto si pone come necessariamente vero.

Ma perché la sofferenza? Perché uno crede che sia esattamente così, ma non soltanto per questo, ciò che vi stavo dicendo adesso è che la sofferenza è una questione retorica, ha un andamento propriamente retorico e anche una funzione estetica. Come spesso accade, una persona che soffre si vede che soffre, l'esempio classico una persona che è triste, si guarda allo specchio, è tristissima, e diventa ancora più triste, e più si guarda allo specchio e più si dice che è triste, e diventa tristissima e non riesce più a risollevarsi, perché esercita un'attrazione la sofferenza, se non la esercitasse non avrebbe nessun motivo. Ora questa attrazione ha molto a che fare con la retorica. Ora retorica, o almeno una parte della retorica insegna, addestra a costruire discorsi particolarmente attraenti, seducenti (pensate all'oratoria in particolare), come commuovere il pubblico, come farlo ridere, come divertirlo, come annoiarlo, come farlo imbestialire, un sacco di cose. Questo è noto da tremila anni, anzi forse allora erano molto più abili, ma comunque sia, il discorso perché abbia un certo effetto deve essere costruito in un certo modo, se no, non ha nessun effetto, prendete una poesia di Leopardi, per esempio Il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia, ha pathos, come dicevano gli antichi, notevolissimo, parafrasatela e diventa una banalità, forse una cosa orribile. Edgard Allan Poe (abbiamo letto il suo Principio poetico, descrive esattamente il modo in cui poeticamente si costruisce una frase perché abbia un certo effetto, come per altro antichi oratori si dilettavano a fare. Lo stesso Aristotele scrive i Topici, che sono una serie di insegnamenti su come produrre cambiamento di umore, di disponibilità da parte dell'uditorio. Dunque si tratta di questo, una frase, una qualunque frase, ha un certo effetto se è costruita in un certo modo. Vi è mai capitato quando, ad esempio, siete afflitti da qualche cosa, arriva un amico, un conoscente vi dice la stessa cosa, ma in un altro modo, sovvertendone l'ordine, può accadere di scoppiare a ridere, come se all'improvviso, Freud affronta la questione nel Motto di Spirito, come se all'improvviso ci si accorgesse di una differente disposizione delle parole, e la differente disposizione delle parole produce tutt'altro effetto.

Dunque variare la disposizione delle parole, variazione sintattica prevalentemente, le figure retoriche sono spesso figure sintattiche, una qualunque frase roboante, importante, detta in un altro modo, può sortire tutt'altro effetto, non è più la stessa cosa. La questione che interroga è questa: avviene la stessa cosa ad una persona che soffre, o gioisce? Ci sono persone che ridono per la stessa barzelletta tutte le volte, anzi gli basta la prima parola, cominciano a ridere e non si fermano più ed è curioso, in effetti avviene qualcosa di bizzarro, perché se poi la raccontate in un altro modo non ridono più, perde tutto anche, se l'aneddoto diciamo l'"informazione", (a questo punto risulta arduo parlare di informazione) ma anche se l'informazione fosse la stessa non ride più, e perché non ride più, di fatto è uguale? Perché è proprio la disposizione, la dispositio che era una delle parti della retorica, insieme con l'inventio, l'elocutio e la memoria, la dispositio cioè il modo in cui si dispongono le cose. Cicerone prima delle sue arringhe passava le notti sul suo testo, non per reperire delle prove, le aveva già reperite, oppure non le aveva affatto, ma per costruire il discorso in modo tale che le prove emergessero anche laddove le prove non c'erano, e questo riusciva a farlo, come sapete. Era sicuramente uno dei più abili oratori dell'antichità, i suoi scritti rimangono il pilastro della retorica soprattutto il De Oratore e La retorica a Erennio, occorre leggerli se volete diventare ottimi oratori.

Dire, come dice Wittgenstein che il sapere non è fondato, non è fondabile, comporta giungere a queste considerazioni ma non perché manchi il fondamento o non si riesca a trovarlo, ma perché la stessa ricerca e la domanda intorno al fondamento sono un altro gioco linguistico, e cioè occorrerebbe, direbbe Wittgenstein, chiedersi esattamente che cosa si cerca, cercando un fondamento, che cosa si sta facendo. Allora, dicevamo, parlare di giochi linguistici è porre in prima istanza la questione retorica. L'uso, diceva Wittgenstein, è propriamente il significato. Qual è il significato di una cosa? L'uso che ne faccio. Se lo uso in un certo modo, significa una certa cosa, se lo uso in un altro, allora significa un'altra. Non è un caso che prende o che muove da una cosa così banale o così assurda come la domanda che si pone circa il fatto che quella che vede lì, attaccata al suo braccio sia la sua mano oppure no, non è che fosse completamente scemo a porsi una domanda del genere, è che effettivamente, accorgendosi che qualunque risposta a questa domanda non fa altro che spostare la questione, incontra che il sapere stesso non è fondabile. Ma allora che cos'è, si chiede? Un gioco linguistico. Giochiamo il gioco del sapere? Bene, il gioco del sapere ha delle regole, per esempio se è un gioco scientifico si attiene a un certo criterio, a certe regole che sono grosso modo quelle del calcolo numerico o qualcosa di simile. Oppure facciamo un altro gioco, quello dell'amore, e allora ci sono altre regole che non sono più quelle del calcolo numerico, ma che riguardano altri aspetti, regole ben precise ecc. Giochi linguistici.

Ma un gioco può anche essere divertente tutto sommato, anzi è preferibile che lo sia, e quando è divertente o è piacevole, diciamo così? Innanzi tutto quando so che è un gioco. Vittorio Mathieu ha scritto un libro molto interessante su questa questione e che vi suggerisco, edito da Spirali, si chiama Gioco e lavoro (è uno dei pochissimi che affronti la questione in un modo acuto, preciso, senza le solite banali distinzioni, il lavoro feriale, festivo ecc.). Dunque è preferibile che sia piacevole e, dicevamo, a quale condizione un gioco è piacevole? Che si sappia che è un gioco. Cosa vuol dire che si sappia che è un gioco? Che ciò che si sta facendo non è terroristico, che non è agganciato a qualcosa che necessariamente deve essere così per un decreto divino o ministeriale. È così rispetto alle regole, è così perché le regole dicono che deve essere così, esattamente come quando giocate a poker alla sera con gli amici oppure a scacchi, vi attenete alle regole di questi giochi, non potete arrivare lì con la scacchiera, adesso giochiamo a poker, con la scacchiera, e come? Non si può, è un altro gioco che ha altre regole, quindi è un'altra cosa, non è possibile. Ecco, potremmo dirla così, che uno dei motivi di disorientamento è il non rendersi conto che giochi differenti hanno regole differenti. Facevo prima l'esempio di due giochi, l'amore e la scienza, dicevo che sono giochi differenti e con regole molto differenti. Per esempio una prova d'amore è differente da una prova matematica, ha altre regole. Quando uno chiede:  , l'altro molto difficilmente tira fuori carta, penna, regolo calcolatore, la tavola dei logaritmi ecc. No, sarebbe sorprendente se facesse una cosa del genere, perché non la fa? È stata chiesta una prova, la prova ha un certo criterio, è vero, ma dipende da qual è il gioco in cui è inserito. Paul Feyerabend, di abbiamo detto tempo fa, è interessante fino ad un certo punto, constatava che la dimostrazione che può dare lo sciamano quando balla e dopo piove, oppure il colonnello Bernacca, tutto sommato hanno la stessa validità, soltanto si attengono a regole del gioco differenti. Per chi crede allo sciamano è assolutamente molto più indubitabile e molto più affidabile lo sciamano del colonnello Bernacca. Esiste ancora? È morto? Così, a mia insaputa? Morto anche lo sciamano? È un'ecatombe. Dicevo che quello che crede allo sciamano, fa un certo gioco, con certe regole, e quindi si atterrà a questo.

Ora però la questione che a noi interessa riguarda un disorientamento che interviene quando, di fronte a un qualche cosa che si svolge secondo certe regole, e quindi secondo un certo gioco, si risponde facendo un altro gioco. Facciano il gioco dell'amore, uno dei due dice a all'altro, o a all'altra:  , mai successo? Allora l'altra dice:  . Ma, come dire, risponde facendo un gioco differente che afferma che se una cosa non è più sopportabile, cioè non si può più sostenere, allora la deve abbandonare. Secondo questo criterio quindi invita l'altro a compiere questa operazione, ma l'altro non aveva nessuna intenzione di fare una cosa del genere, cioè questa frase era inserita in gioco differente, dove "non ti sopporto più" o qualunque altra cosa ha tutt'altra accezione, e non è sottoponibile a quell'altro criterio.

E allora, quando per esempio avviene un disagio, uno smarrimento e si cerca la ragione di questo smarrimento, accade talvolta di trovarsi a cercare di inserire o di fare funzionare un gioco in un altro, esattamente come se si volesse giocare a poker usando la scacchiera. Crea qualche problema, perché è fatta per giocare un'altra cosa, così come quando uno cerca un motivo razionale a un suo pensiero, se cerca un motivo razionale allora fa il gioco della razionalità, che ha le sue regole ben precise, se no, ne fa un altro. Questa sovrapposizione che avviene molto spesso è ciò che smarrisce. Che, come si diceva all'inizio, se non si accorge che sono giochi linguistici, allora nulla è un gioco linguistico, tutto è reale, e allora una cosa deve funzionare insieme con l'altra, tutto deve essere razionale, nell'accezione più comune del termine. Ciascuno è razionale nel modo in cui pensa lui evidentemente, secondo il suo modello di razionalità, e d'altra parte non c'è altri, e quindi qualunque altro pensiero o forma di pensiero devono inevitabilmente adattarsi alla sua. Allora continua tutta la vita a chiedersi perché questo fa quest'altro, perché questo fa così con me, perché questo mi perseguita ecc. Senza per altro mai trovare una risposta. Diventa importante allora potere ricondurre un altro gioco al proprio, cioè fare un gioco che non è più un gioco ma è la realtà dei fatti. La realtà dei fatti sarebbe l'assenza di gioco, le parole, i discorsi non sono più giochi linguistici ma sono una manifestazione, una rappresentazione della realtà dei fatti, la realtà dei fatti sarebbe l'assenza di gioco. Le parole, i discorsi allora non sono più giochi linguistici ma una manifestazione o una rappresentazione di un dato di fatto. "Dato di fatto" come una delle cose più terroristiche che gli umani abbiano inventate, a meno che non sia inserito in un gioco. Giochiamo ai "dati di fatto" va bene, allora ci atteniamo a queste regole, così come giochiamo a boccette.

Dunque la retorica ci ha condotti alla sofistica, quella che indichiamo come seconda, la prima c'è già stata circa duemilacinquecento anni fa. Sofista potremmo definirlo così, questa sera, come chi non può non tenere conto che ciascuna cosa, ciascun atto, e quindi ciascun discorso, è un gioco linguistico, non può non tenerne conto e quindi si muove di conseguenza. La sofistica si è avvalsa, si è avvalsa già ai suoi tempi, della retorica ma soprattutto dell'eristica. Abbiamo detto l'altra volta dell'eristica? L'abbiamo definita in modo un po' giocoso, ma neanche poi tanto, come l'arte di vincere un agone dialettico, qualunque agone, in assoluta malafede, cioè senza alcun riferimento a qualcosa di extra linguistico che sia fuori dal gioco. Con malafede intendo questo: prendere atto che ciascuna cosa si pone come gioco linguistico, e quindi ciascuna verità è sostenibile, per il sofista, nell'ambito di quel gioco, con quelle regole, cioè per questo gioco che stiamo facendo la verità è questo, come dire: nel gioco che si sta facendo la donna di cuori prende tutto, va bene, è una regola del gioco e l'accogliamo per giocare, ma nulla più di questo.

In questo senso malafede, in quando non crede, che non crede più che si dia da qualche parte la verità ipostatizzata, comunque, qualunque sistema filosofico, scientifico, etico, estetico e quant'altro vi paia in opportune forme, come riferimento ultimo, come zenit rispetto a cui misurare la propria direzione per sapere se sta andando nel verso giusto. Il verso giusto del sofista è quello che persegue l'obiettivo stabilito in quel momento da quel gioco, nient'altro che questo. Il testo di Wittgenstein (ho letto due o tre proposizioni dal suo saggio Della Certezza e che vi suggerisco per altro), è sempre stimolante per il modo in cui si pone le questioni, dicevamo all'inizio, con grandissima curiosità e cercando di sbarazzarsi di ciascuna limitazione. Che cos'è una limitazione: è qualcosa che credo, questa è una limitazione, perché ha la struttura, dicevamo prima, del proverbio che dice che è così. "L'erba del vicino è sempre più verde" perché, dicevano in modo interessante Anscombre e Ducrot, i proverbi hanno questa prerogativa di non potere essere né interrogati né negati. Voi potete chiedere: perché? Perché è così. Cioè una eventuale illustrazione o spiegazione o giustificazione lo dissolverebbe, per questo dicevo che ad un certo punto ciascun proverbio, e in molti casi anche cose che apparentemente non lo sono, si pone come un asindeto, una struttura asidentica, cioè particolarmente compatta, rapida, chiusa in se stessa. Sentiamo intanto se ci sono delle questioni.

- Intervento: Che differenza c'è per esempio tra un proverbio e quello che lei dice

Il proverbio ha una struttura tale da impedire che altri elementi possano aggiungersi, perché aggiungendosi lo dissolverebbero e quindi è come una credenza religiosa, che deve mantenersi tale e quale e quindi come ciascuna religione non può, non deve per nessun motivo al mondo porre in dubbio il suo fondamento. Per esempio, forse dicevamo tempo fa, nessuno che creda, per esempio il cristianesimo visto che è la religione più vicina, può dubitare dell'esistenza di dio, è un dogma fondamentale, per questo dicevo questa forma, questa formulazione della questione è tale per cui il proverbio si struttura, come qualcosa che non può, proprio per la struttura, essere messo in discussione.

- Intervento:...

Sì, solo che il proverbio ha una portata, o ciò che comunemente indichiamo come proverbio, una portata universalizzante, cioè deve sempre essere vero, se no, non avrebbe nessuna portata.

- Intervento:...

Non è né vero né falso, è una testimonianza di un percorso quello che stiamo facendo, una riflessione intorno al linguaggio, alla sua struttura, alle sue prerogative. Alcune cose abbiamo individuate e che ci risulta particolarmente arduo negare, non confutare badi bene, non abbiamo mai parlato di strutture inconfutabili o dimostrabili, ma non negabili. Che cosa abbiamo reperito come molto difficilmente negabile? Che gli umani, in quanto parlanti, parlano. E questo perché? Perché qualunque operazione che possa farsi per negare questa asserzione inevitabilmente farà esattamente ciò stesso che nega. Ma questo di per sé l'abbiamo posto come una regola per giocare questo gioco, cioè accogliere soltanto ciò che non è negabile salvo negare l'esistenza stessa del linguaggio, e questo risulterebbe paradossale. Ora io posso dire "nego l'esistenza del linguaggio", bene, però in questo gioco che stiamo facendo, abbiamo accolto questa regola per cui la formulazione paradossale non ci interessa in quanto arresta il percorso, oppure, riprendendo Aristotele, alcuni dei suoi principi come quello di identità, ciascuna cosa si pone così com'è, ed è quella che è, se io dico una certa cosa ho detto quella, non ne ho detta un'altra. Questa è la condizione, una delle procedure perché il linguaggio si dia, se ciascun elemento fosse equivalente a qualunque altro, il linguaggio così come si dà si dissolverebbe, cioè non esisterebbe nessuna possibilità di dire alcunché. E allora quindi accogliere soltanto ciò che non possiamo non accogliere, constatando l'esistenza del linguaggio in cui ci troviamo.

- Intervento: è un proverbio solo molto articolato.

Io ho dato una definizione di proverbio differente, intendendo con proverbio ciò che punta, per la sua stessa struttura, a impedire che qualunque altra cosa intervenga a confutarlo. Ma ciò che è interessante nella struttura del proverbio che, come dicevo prima, è che si dispone in modo tale da essere sintatticamente chiuso in sé stesso. Con questo non è che stiamo dicendo che il proverbio è una cattiva cosa, non ce ne importa assolutamente niente dei proverbi in quanto tali, ci interessa soltanto intendere, perché talvolta siamo richiesti in questo senso, intendere che cosa costringe qualcuno, per esempio, a credere a un proverbio, cioè a una struttura in cui si trova. Questo, insieme con altre cose, ci ha condotti a riflettere sulla struttura del proverbio, allargando la nozione di proverbio a qualcosa che in effetti è molto prossimo alla struttura religiosa, e cioè muove da qualche cosa che, per potere dirsi, deve essere creduta, cioè comporta un atto di fede, il "credo che sia così". Va bene, però non è esattamente quello che in questo momento ci interessa, solo questo.

Abbiamo parlato molto spesso del discorso religioso, magari può essere sembrato che l'abbiamo posto in termini negativi, ma negativi rispetto alla possibilità di giocare ulteriormente, perché se qualcosa si pone come atto di fede, allora oltre quel punto non posso andare, perché se no si dissolve tutto, invece si tratta qui di cercare di costruire qualche cosa che consenta di potere proseguire, senza arrestarsi su nulla, solo questo.

- Intervento: come la scienza pone la sua verità su dati empirici, sull'esperienza, lei pone la verità della proposizione nelle regole e procedure...sembra un altro modo di idolatrare in questo caso le regole di un gioco linguistico...

Allora diciamo questo: qualcosa mi ha mosso ad un certo punto a prendere una certa direzione intorno al linguaggio, una ricerca, o un gioco, certo. Allora mi sono chiesto: qualunque ricerca occorre che parte da qualche cosa, occorre che parta da qualche cosa in quanto c'è una serie di informazioni, di elementi che ciascuno ha e come tali operano, ma c'è un qualche cosa da cui potere muovere? Oppure qualunque cosa va bene? È una questione. Io posso supporre che questo bicchiere corrisponda all'armonia universale per esempio, e da qui fare tutta una serie di deduzioni infinite, anche corrette, muovendo da questo assioma. C'è un qualche cosa che io possa accogliere e che non mi costringa per accoglierlo a un atto di fede? Questo è il quesito che mi sono posto. Ora perché non mi costringa ad un atto di fede deve essere qualcosa che per il fatto stesso di domandarmi qualcosa sia già implicito in questo stesso domandare, e allora, mi sono chiesto, attraverso che cosa mi chiedo qualcosa? Esiste una struttura che mi consente di organizzare degli elementi in modo tale da potere formularsi una domanda? Esiste, ed è quella che sto utilizzando per fare queste riflessioni, ed è il linguaggio. Allora, seconda questione, tenendo conto che è il linguaggio che consente di fare queste cose, ma potrebbe tuttavia non essere la sola cosa. Allora potrei fare queste cose senza il linguaggio? Come? Altrimenti detta è la domanda se ci sia uscita dal linguaggio. Se sì, come? Mi sono trovato di fronte alla difficoltà che questa domanda comportava, qualunque via che io potessi immaginare potere prendere, necessariamente mi rinviava al linguaggio come strumento per potere fare questa cosa, e cioè per uscire dal linguaggio. Uscire dl linguaggio comporta una struttura organizzata in un certo modo, quale? Quella del linguaggio, e cioè con un certo andamento, quello linguistico, e allora a questo punto, terza questione, c'è qualche cosa, tenendo conto delle prime due, che io necessariamente sia costretto ad ammettere dal momento che mi sto ponendo queste questioni? Sì, il fatto che parlo, che in quanto parlante parlo e che non ho nessun altro modo per definirmi se non parlando, anche se penso. E allora che cosa non può non accogliersi nel linguaggio?

Lungo questa via si è configurato ciò che mano a mano vi sto raccontando, ma tutto ciò che vi dico non corrisponde a nulla, a nessuno stato di cose e a nessun dato di fatto. Se volete dirla così, dietro a tutte le cose che vi dico non c'è assolutamente nulla. Il fatto di accogliere soltanto ciò che non può negarsi di per sé è niente, è lo stabilire una direzione che tiene conto dell'esistenza del linguaggio come elemento che mi costituisce e di cui in nessun modo posso sbarazzarmi. Wittgenstein dice questa cosa a un certo punto: "potessi liberarmi del linguaggio" e quindi giungere... a che cosa? Alla sostanza delle cose? Alla verità definitiva? Però non si capisce attraverso che cosa potrebbe, o dovrebbe avvenire questa liberazione, e poi perché, perché liberarsi di qualche cosa? Non si tratta di liberarsi di nulla. Se uno parte dall'idea di doversi liberare di qualche cosa, già parte malissimo, in quanto ha già ipostatizzato il male in quanto tale e lì rimarrà agganciato fin che campa, inesorabilmente, perché costruisce il male, lo costruisce per potersene liberare, ma questa è un'altra questione. Lei diceva delle regole, idolatrare le regole. Perché idolatrare le regole? A che scopo? Intanto questo, potrei non accogliere delle regole del linguaggio? Non accogliendole, il linguaggio si dissolverebbe.

- Intervento:...

No, questa è tutta un'altra questione, con regole del linguaggio intendo ben altro. Per esempio il principio del terzo escluso, lei potrebbe parlare in assenza del principio del terzo escluso? (No) Già, ciascuna cosa che dice sarebbe simultaneamente altra, ma questo discorso, questa parola che sto dicendo non potrebbero essere dette se ciascun elemento fosse simultaneamente un altro, cioè se ciascun elemento, ciascuno di questi tre lessemi, fosse simultaneamente un altro, questa frase non potrebbe mai dirsi, non si potrebbe parlare in nessun modo. In questo senso parlo di regole del linguaggio, non quelle che il nostro amico Carlo Marx chiamava sovrastrutture.

- Intervento:...

Certamente, il principio del terzo escluso non ha mai ammazzato nessuno, indubbiamente, è vero quello che lei dice, la questione è: queste cose che, come lei dice, fanno stare male, seguono delle regole e sono costruite in modo tale da essere credute reali, proprio nel modo in cui diceva prima, cioè di una realtà esterna. Cominciare a riflettere su questi elementi del linguaggio ci ha condotti alle considerazioni che vi ho esposte questa sere, cioè anche della sofferenza come luogo retorico. Non che io ci tenga particolarmente alle regole del linguaggio, non mi importa assolutamente nulla, ho considerato ciò che però non posso togliere dal linguaggio perché togliendolo cesserebbe di esistere, si dissolverebbe, e quindi io non potrei fare nulla. Né parlare né pensare, niente. Bene, qual è l'aspetto più pratico di tutto ciò? È esattamente l'aspetto politico, il gesto politico e la psicanalisi, che è esattamente ciò di cui parliamo venerdì 7 giugno. Va bene, grazie a tutti voi e buona notte.