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24-3-2012

 

collegio agli studi – libera universitas psicoanalitica

 

IL DISAGIO NON È UNA MALATTIA

 

Franco Quesito

 

Va bene, il quarto d’ora accademico ce lo siamo preso, diamo inizio alle lezioni, alle comunicazioni di questo pomeriggio. Il tema è nuovo, siamo passati dalla “Psicoanalisi è diritto” a una questione che forse ci è ancora più propria il “Disagio non è una malattia”. È un tema imponente, una questione fondamentale nella psicoanalisi così come nella storia della psicoanalisi “purtroppo”, metto tra virgolette, in Italia dove la svolta intorno a questo concetto della trasformazione del disagio in malattia non è neanche troppo moderno ma è abbastanza antico. Personalmente ricordo alcune storie che sono a carico del manicomio civico in cui andavano a finire anche solo i vagabondi che venivano internalizzati e non uscivano mai più, nel senso che incominciavano ad avere una storia clinica che ovviamente andava sempre più a decadere per quanto riguarda la loro integrità, il loro rapporto con la vita, e quindi è un tema solido, è una colonna portante della riflessione della psicoanalisi. Oggi ne parleranno prima Luciano Faioni e poi Gabriele Lodari, l’idea è di dare quaranta minuti per la loro comunicazione e poi finalmente aprire anche un dibattito non solamente veloce come ogni tanto ci capita, ma avere più tempo per ragionare insieme quindi vi invito, dalle comunicazioni dei nostri due relatori, a provare a mettere giù qualche pensiero, qualche domanda, qualche eventuale richiesta di delucidazione. La parola all’amico Luciano Faioni, la sua comunicazione ha per titolo “La fine della psicoterapia”.

 

Intervento di Luciano Faioni

 

Desidero iniziare dalla questione della cosiddetta scientificità della psicoanalisi. È una questione apparentemente risibile e di scarsissimo interesse, e in effetti è così, tuttavia riflettendo su questo è possibile trarre qualche considerazione di qualche interesse. Partiamo intanto dal criterio di demarcazione, quello che serve a distinguere ciò che è scientifico da ciò che non lo è. In questi ultimi tempi le teorie più accreditate intorno a ciò che debba chiamarsi scientifico oppure no sono il verificazionismo e il falsificazionismo, il verificazionismo procede dal Circolo di Vienna, ispirato da Wittgenstein, anche se poi prese le distanze, il quale considera che una teoria è scientifica se è possibile costruire una prova che verifichi tale teoria; il falsificazionismo che ha Popper come ideatore, considera che una teoria può chiamarsi scientifica se e soltanto se è possibile costruire un esperimento che la falsifica, in parte o in toto. Naturalmente ci sono anche altre posizioni intorno alla scienza che sono opposte a queste che ho menzionate, vi cito soltanto i nomi più famosi: Kuhn, Lakatos, Feyerabend. Feyerabend per esempio considera che una teoria scientifica viene decisa essere tale in base a questioni puramente estetiche, piace considerarla così, in base a ciò che una persona crede, suppone, immagina, in definitiva potremmo dire in base alle sue fantasie. Ora che cos’hanno in comune tutti questi criteri per valutare se una certa cosa è scientifica oppure no? Il fatto di essere questi criteri assolutamente arbitrari. Cosa significa che sono arbitrari? Che dipendono dall’arbitrio di chi se li è inventati, e cioè non c’è nulla in tutti questi criteri che costringa qualcuno a credere che le cose siano proprio così, essendo arbitrari questo indica che le premesse da cui partono non sono sostenibili se non con argomentazioni retoriche. Infatti Feyerabend sottolinea questo aspetto della retorica connessa con la scienza, e questo è un problema, sollevato già dal ‘900, un problema che riguarda l’impossibilità di stabilire con certezza che cosa sia vero. Una teoria scientifica ha come obiettivo reperire affermazioni vere, e questo è apparso impossibile da raggiungere. A questo punto per alcuni si è posta una questione gravissima, e cioè che tutto il sapere umano è infondato, cioè appoggia su asserti, su affermazioni totalmente arbitrari, e questo riguarda qualunque tipo di teoria, scientifica oppure no, e procedendo lungo questa via ci si è accorti che qualunque considerazione si faccia è fondata su elementi assolutamente gratuiti, arbitrari, e quindi non può pretendere in nessun modo di porsi come assolutamente vera, come necessaria. Si è cercato in tutti i modi di trovare qualche cosa che consentisse a queste teorie di potersi attestare su qualcosa, ci ha provato anche Peirce, lui cercava quello che chiamava “l’interpretante logico finale”, ma neanche Peirce è riuscito a ottenere questo risultato, e cioè trovare quell’elemento, quel segno, nel suo caso, l’ultimo segno che avrebbe dato un senso a tutta la catena: ogni catena segnica rimaneva come sospesa nel nulla, nella totale impossibilità di poggiare su qualcosa di solido. A quel punto è accaduta una cosa curiosa, come una sorta di caduta, di caduta libera nel tentativo di trovare un punto fermo, un punto di appoggio, questo punto di appoggio non si è trovato mai. Tuttavia è possibile invece a un certo punto trovare qualche cosa che fermi questa caduta, un punto oltre il quale non è possibile andare. Questo qualche cosa rappresenta ciò che consente di compiere tutte queste considerazioni, per esempio pensare al fatto che non c’è nessuna possibilità di trovare un elemento fisso, che consente di pensare che non c’è nessuna possibilità di arrestare questa caduta, di pensare qualunque cosa, di fare qualunque tipo di considerazione. Questa cosa, rappresentando la condizione per potere costruire qualunque pensiero è ciò oltre il quale non si può andare, andare fuori o aldilà di questa cosa significherebbe uscire o trovarsi al di fuori della possibilità stessa di pensare alcunché. Questa “cosa” ho deciso di chiamarla “linguaggio”, ho deciso di utilizzare questo sostantivo perché quello che più di altri mi appariva prossimo a ciò che intendevo dire. Tutto questo ci porta a considerare che ciò che ho deciso di chiamare linguaggio costituisce il limite oltre il quale non si può andare, che è come dire che non c’è uscita dal linguaggio, e questo si può intendere facilmente: come posso uscire dal linguaggio se non utilizzandolo, e cioè costruendo proposizioni, un sistema. Non c’è nessuna possibilità di uscita dal linguaggio, ogni tentativo di uscire incontra quel confine di cui parlava Kant ai suoi tempi, e cioè rimanda indietro, rimanda all’interno del linguaggio; per uscire devo costruire un sistema quindi delle proposizioni, quindi una serie di sequenze che appartengono al linguaggio ovviamente, e cioè paradossalmente per uscire dal linguaggio devo utilizzarlo. Il linguaggio è quella struttura che consente di pensare per esempio l’esistenza delle cose, che le cose esistono, di costruire delle frasi, dei pensieri, quindi dei desideri, quindi delle aspettative, consente di essere felici, tristi, arrabbiati, consente di fare qualunque cosa e il suo contrario. Potremmo inserire un corollario: l’esistenza, il concetto di esistenza non è nient’altro che l’appartenenza al linguaggio, la non esistenza, la non appartenenza al linguaggio. A questo punto siamo giunti a questa cosa che rappresenta il punto di arresto, oltre, come dicevo, non si può andare in nessun modo, potremmo dire che questa cosa che ho chiamato “linguaggio” potremmo indicarla come ciò che è necessario che ci sia, e dico anche che cosa intendo con necessario: ciò che non può non essere, perché se non fosse allora non sarebbe né quella cosa né nessun altra. A questa definizione soltanto il linguaggio risponde perfettamente, perché se non ci fosse allora non ci sarebbe né il linguaggio né nessun altra cosa. Ma giunti a questo punto, al punto in cui si è reperito ciò che è necessario che ci sia anche per reperire qualunque cosa, si tratta di compiere il percorso a ritroso, la discesa e la risalita prendetele come allegorie ovviamente, e cioè ricominciare a ricostruire tutto quanto a partire da qualche cosa che si è mostrato essere necessario, ineluttabile, incontrovertibile: l’esistenza del linguaggio appunto. Fra poco vi dirò anche che cosa intendo in modo più preciso con linguaggio. Per compiere questa operazione, e cioè per risalire da dove si è partiti, occorre fare qualche considerazione intorno a questa cosa che ho deciso di chiamare “linguaggio”, vale a dire intendere come funziona, come si struttura, cosa consente e cosa non consente e soprattutto come si trasmette, cosa che ci conduce a una domanda fondamentale: come si impara a parlare? Questione complicata, che molti hanno considerato insolubile perché si sono trovati di fronte a un paradosso, è una domanda antica per altro, se la poneva già Platone indirettamente nel Cratilo, Agostino direttamente nel De Magistro, fino ad arrivare a Wittgenstein e anche ai giorni nostri. Il paradosso che è apparso a molti insuperabile, consiste in questo: si suppone che il linguaggio si insegni attraverso una dimostrazione ostensiva, cioè indicando le cose e nominandole, ma per ricevere questo messaggio deve già sapere cosa l’altro sta facendo, e cioè che gli sta indicando qualche cosa e la sta nominando, se non sa questo non succede niente, come dire che deve già sapere che ciò che l’altro sta facendo, è un segno, e un segno rappresenta qualcosa per qualcuno, se non rappresenta niente non è più un segno, ma se quell’altro capisce e cioè intende che si tratta di un segno, è già nel linguaggio, e cioè è possibile insegnare a parlare se l’altra persona è già nel linguaggio, se no non c’è verso. Questa è l’ipotesi, la teoria più diffusa e condivisa anche da molti attualmente, tant’è che un personaggio a Milano, verso la fine degli anni ‘70 propose una soluzione alla domanda “come si impara a parlare?”, e rispose “parlando”. La risposta posta in questi termini sembra essere anche sensata, ma questa risposta tiene conto del fatto che ciascuno sa che gli umani parlano e non ha molte obiezioni a questo riguardo, per cui come dicevo appare sensata e invece se la considerate riferita per esempio a una macchina vi accorgete che c’è qualcosa che non funziona: come impara un calcolatore a calcolare? Se io rispondessi “calcolando” mi direste: “se sta calcolando qualcuno glielo ha insegnato”, se no non lo può fare e infetti l’obiezione è legittima. Molti altri si sono posti la questione senza andare da nessuna parte, finché alcuni personaggi si sono trovati nella necessità di rispondere a questa domanda, hanno dovuto rispondere. Sono quelle persone che hanno inventato e poi costruito i computer, i calcolatori. Si è trattato in quel caso non soltanto di ideare una macchina ma di costruirla letteralmente, fisicamente, e quindi si sono trovati di fronte a un pezzo di ferro che occorreva trasformare in qualcosa che pensasse, come si fa? Adesso vi dirò soltanto molto brevemente quali sono state le tappe fondamentali. La prima cosa da fare, che riguarda anche il modo in cui si insegna a parlare a un bambino, la stessa cosa con qualche variante, l’ha stabilita un certo Boole, che ha considerato che le proposizioni si dividono in due gruppi fondamentalmente: le proposizioni vere e quelle false. Ha chiamato quelle vere 1, quelle false 0. Poi ha dovuto trovare un modo perché il calcolo logico che utilizzano gli umani parlando, pensando, fosse eseguibile da una macchina, e quindi occorreva trasformare il calcolo logico in operazioni aritmetiche: qual è l’operazione aritmetica, per esempio, che consente di passare da un cosa vera, cioè da 1 a 0? La sottrazione: 1-1 = 0 / 1-0 = 1, che è l’operazione che applicata al vero rilascia il falso e viceversa, e il problema l’ha risolto. Dopo naturalmente occorreva costruirla questa macchina, ma come? Pensando a come funziona per gli umani, fili elettrici e interruttori, negli umani si chiamano nervi e neuroni, però un neurone è un interruttore come sapete bene, utilizzando fili elettrici e interruttori hanno riprodotto il modo in cui pensano gli umani. Si immette a un certo punto in una macchina un’informazione tale per cui è in grado di considerare che se inserisco un elemento vero e poi lo nego, la macchina “decide” che quell’elemento è falso, lo decide lei, perché ha gli strumenti per farlo. Ma al bambino come si insegna invece? Un bambino ovviamente non è provvisto di una tastiera per inserire un programma ma ha una porta di ingresso di informazioni: oi suo corpo. Il suo corpo è una porta anzi, è più porte che consentono il passaggio di informazioni, sono quelle cose che si chiamano i cinque sensi, sono porte di ingresso di informazioni che possono essere memorizzate dal sistema. Dunque gli si insegna, potremmo dire così, la logica più elementare, quella che è definita dagli operatori logici e cioè dalla negazione, dalla congiunzione, dalla disgiunzione. “Voglio fare questo” dice il bimbetto, “no” dice la mamma, cosa vuole dire? Che in quella direzione non può andare, quella direzione sembrava “vera” fra virgolette e diventa “falsa”, non può andare, poi la mamma gli dice “devi metterti la maglietta e le scarpe” questa è una congiunzione, entrambe le cose devono essere vere quindi deve fare entrambe le cose per soddisfare questa richiesta, e impara come funziona la congiunzione; “ti compero o il gelato o la macchinina”, una delle due sarà vera e impara come funziona la disgiunzione. Il bambino è già fornito di fili elettrici e di interruttori, quindi non c’è bisogno di metterglieli dentro, e questo semplifica il lavoro, però il meccanismo è esattamente lo stesso. È questo in effetti che rilevava Turing, l’inventore delle “macchine pensanti” come le chiamava lui, e cioè si addestra una macchina esattamente come si addestra un bambino, non c’è un altro modo: gli si forniscono informazioni e gli si dice come usarle, quindi istruzioni e procedure per poterle eseguire. Questo è l’addestramento di una macchina, o di un bambino, gli si dice cosa deve fare con le informazioni che gli si forniscono. Anche una macchina, se gli si mettono dentro soltanto delle informazioni ma non ha le istruzioni per poter eseguire tali informazioni non fa niente. Tutto questo che vi sto dicendo potrebbe essere abbastanza singolare, e potrebbe fare apparire che gli umani siano delle macchine, non lo sono, e fra poco vedremo perché. Pensare agli umani come qualche cosa che è mosso da un sistema che chiamiamo linguaggio, significa che tutto ciò che gli umani pensano segue delle istruzioni che sono quelle che sono state acquisite nei primi momenti, quando il linguaggio, per usare un termine informatico, si installa, a quel punto diventa operativo e cioè può incominciare ad acquisire elementi, connetterli fra loro, decidere se una certa connessione è vera o falsa, può incominciare a compiere una serie di operazioni. Vi faccio un esempio più semplice, forse si comprende meglio. Immaginate di dovere insegnare a un amico a giocare a poker. Incominciate a mostrargli le carte da gioco ovviamente, per esempio un re di fiori e dite: “questo è un re di fiori”. Ha acquisita un’informazione, però non basta dirgli che quello è un re di fiori, bisogna spiegargli come funziona all’interno di quel gioco cioè quali sono le possibili combinazioni, qual è il valore delle varie combinazioni. Per esempio se insieme a questo re ce ne sono altri tre, ha un certo valore, se insieme a questo re c’è un sette di picche, un dieci e un fante va poco lontano, quindi incomincia a sapere come funziona il re di fiori, qual è il modo in cui lo si gioca, letteralmente, ed è questo che un bambino impara con le prime informazioni, cioè come si giocano i vari termini. Il re di fiori ha una prerogativa, e cioè in tutte le partite che giocherà, con chiunque, quel re di fiori sarà sempre un re di fiori, non potrà a un certo punto in una partita essere un re di fiori, in un’altra il sette di picche, in un’altra ancora l’asso di cuori, non potrebbe giocare ovviamente, quindi deve essere sempre il re di fiori: ecco il principio di identità, il re di fiori in ogni partita, per potere essere giocato dovrà sempre essere il re di fiori, e non potrà essere altro per potere giocare, se no non si gioca più. Qui interviene un altro principio, principio antichissimo che Aristotele aveva colto, il principio di non contraddizione, quello che, per usare le parole di Aristotele, chiameremo la Bebaiotate Archè, principium omnium firmissimum, dicevano gli scolastici, e cioè quel principio che funziona come una sorta di interruttore: se una proposizione non è autocontraddittoria la fa passare, se si autocontraddice no. Perché è importante questo? Lo si intende meglio se si fa un’allegoria rispetto alle macchine: supponiamo che io debba dare un’istruzione a una macchina, gli dico di eseguire una certa operazione, e poi gli dico anche di non eseguirla, la macchina non farà niente, il sistema a questo punto si blocca, si arresta, non ha nessuna possibilità di eseguire alcunché, per dirla in termini più ampi il linguaggio si arresterebbe, non funzionerebbe e questo non può avvenire. Sto dicendo che questo è uno degli elementi che fanno funzionare il linguaggio e senza il quale il linguaggio non funzionerebbe. Ci si potrebbe dilungare di più però la facciamo breve. Ho illustrato grosso modo la questione centrale che mi interessava raccontarvi quest’oggi, in effetti non ho parlato della psicoterapia e chiedo scusa ai signori presenti, ma lo farò nel prossimo intervento dove farò un intervento politico sulla psicoterapia. Ma mi importava dire le cose che ho dette perché ritengo che tutto ciò, e cioè un’analisi precisa e rigorosa intorno a quella cosa che ho deciso di chiamare linguaggio, mi piace pensare, consentitemi la metafora, essere il cuore della psicoanalisi, il suo cuore pulsante, ciò senza cui non si va da nessuna parte. Vi dicevo anche che gli umani non sono come le macchine, c’è qualche cosa che li distingue in modo netto. Nel momento in cui si avvia il linguaggio nessuno dice al bambino che ciò che gli si trasmette sono soltanto istruzioni e procedure per eseguirle, nessuno glielo dice, primo perché nessuno lo sa, generalmente, secondo perché potrebbe in alcuni casi essere controproducente, sarebbe più difficile farlo obbedire, in terzo luogo c’è qualcuno che gli ha trasmesso il linguaggio, e questa persona che gli ha trasmesso il linguaggio gli ha mostrato l’universo intero, che prima non esisteva, perché è da quando si avvia il linguaggio che le cose incominciano a esistere, cioè vedo che c’è qualche cosa e questo qualche cosa è un bicchiere, se no non c’è niente, assolutamente niente. Questo comporta un inganno ovviamente anzi, più che un inganno una tragedia, e qui ci sarebbe da parafrasare Heidegger, che in un suo scritto, uno degli ultimi, del 1964, dice che gli umani hanno potuto pensare ciò che hanno pensato perché non hanno pensato ciò che era da pensare, qualcosa è rimasto impensato, ed è proprio perché qualcosa è rimasto impensato che hanno potuto pensare ciò che hanno pensato. Heidegger non diceva le cose che sto dicendo io ovviamente, ma ciò che è rimasto non pensato ed è da pensare, è che tutto ciò che gli umani si trasmettono l’un l’altro da quando c’è traccia di loro, sono soltanto istruzioni e procedure per eseguirle, questo indipendentemente da che cosa si faccia con queste istruzioni, uno può costruirci una dichiarazione d’amore, può costruirci una teoria scientifica, può costruire un ordigno nucleare, può fare quello che vuole, questo è irrilevante, però tutto ciò è consentito da quella cosa che chiamavo linguaggio e l’umano è il frutto di questo inganno, è questo che lo rende umano, il non sapere che è fatto di istruzioni e di procedure per eseguirle. E da qui, potremmo dire che incominciano i problemi. Perché se ritengo che qualche cosa esista di per sé, al di fuori di ciò che io dico, di queste informazioni che stanno operando, allora non posso fare niente, non posso che subire le cose, da qui incominciano le paure, gli affanni, le ansie, le nevrosi e tutte le varie cose di cui ci racconta Freud per esempio. Freud si è accorto che, tornando all’esempio del re di fiori, che il re di fiori non è soltanto il re di fiori, occorre che sia il re di fiori per potere giocare, ma non è soltanto quello perché l’amico guarda il re di fiori e gli viene in mente suo nonno, pensando a suo nonno gli viene in mente che andava a pescare lungo il fiume, ricordandosi questo si ricorda di quella volta che mangiò al ristorante dove c’era quella bella fanciulla, questo gli ricorda un periodo bellissimo della sua vita, questo gli fa venire in mente che invece adesso la sua vita è triste e così via all’infinito. Su questo ha lavorato Freud, cioè su come si combinano queste cose che chiamiamo proposizioni e che una persona sa, sa che sono proposizioni, così come sa che sta parlando perché ha imparato che compiere certe operazioni si chiama parlare, per questo sa che sta parlando.

C’è una proposta in tutto ciò che ho detto, una proposta teorica che consiste nel riprendere la questione della psicoanalisi nel suo “cuore”, per usare la metafora di prima e farla diventare ciò che non solo può essere ma deve essere, e cioè la teoria, la cultura, il pensiero più straordinario che sia mai stato pensato. Bene, non mi resta che ringraziarvi per l’attenzione che mi avete concessa. Naturalmente molte cose ho dovuto abbreviarle, ho saltato circa un milione e mezzo di passaggi per cui se qualcuno vorrà avere delle spiegazioni o ha qualche perplessità sarò felice di rispondere a qualunque domanda vogliate pormi. Per il momento grazie a ciascuno di voi.

 

Franco Quesito: evocazioni interessanti devo dire che potremmo aprire un congresso sul come si impara a parlare forse ne verremo a capo di qualcosa non di granché quindi è una vistosa questione sulla quale conviene interrogarsi, continuiamo con l’amico Gabriele Lodari la sua comunicazione ha per titolo “L’inconscio non è malato”.

 

Intervento di Gabriele Lodari

 

Il primo filosofo dell'inconscio è Leibniz, il quale, opponendosi alle tesi di Cartesio e Locke che avevano identificato il pensare con la coscienza di pensare, sottolinea l'importanza delle "percezioni insensibili" o "piccole percezioni", non accompagnate dalla consapevolezza o dalla riflessione. Egli sostiene che lo spirito pensa sempre, in quanto ha sempre percezioni, ma queste non rientrano necessariamente nel campo della coscienza, come avviene anche nel sonno. Inoltre, egli distingue fra due tipi di inconsapevolezza, quella derivante da percezioni passate e dimenticate, e quella derivante da percezioni che non hanno mai raggiunto il livello della consapevolezza. La nozione di inconscio viene rielaborata dall'idealismo tedesco, che la eleva da un piano psicologico ad uno metafisico. Per Fichte, è inconscia l'attività infinita dell'Io che, delimitandosi, produce il non-Io. Proprio perché la creazione degli oggetti avviene in modo inconscio, questi appaiono esterni a noi. Fichte chiama tale attività immaginazione produttiva, ricollegandosi ad una nozione elaborata da Kant, ma in un senso radicalmente diverso. (Per Kant essa è la facoltà che determina a priori il tempo secondo gli schemi trascendentali).

In Schelling l'inconscio diventa un aspetto fondamentale dell'assoluto, che si configura come identità di Natura e Spirito, di consapevolezza e di inconsapevolezza. L'assoluto come realtà inconscia si identifica nella natura, considerata una forza creativa e produttrice "originariamente affine a quella conscia". Per Schelling, fra Natura e Spirito vi è una profonda unità, la prima è Spirito invisibile, il secondo Natura invisibile. Ciò spiega l'armonia prestabilita che regola i rapporti tra mondo oggettivo e soggettivo. Schelling può pertanto affermare che "la natura comincia in maniera inconscia e finisce coscientemente". Nel Sistema dell'idealismo trascendentale (1800), tale concetto è espresso nel modo seguente: "Non si può concepire come, in pari tempo, il mondo oggettivo si adatti alle nostre rappresentazioni, e le nostre rappresentazioni al mondo oggettivo, se tra i due mondi, l'ideale e il reale, non esiste un'armonia prestabilita. Ma quest'armonia prestabilita non è a sua volta neanche pensabile, se l'attività da cui è prodotto il mondo oggettivo non è originariamente identica con quella che si mantiene nel volere, e viceversa.

Ora, è senza dubbio un'attività produttiva quella che si manifesta nel volere: ogni agire libero è produttivo, ma produttivo con coscienza. Se ora si pone che, siccome le due attività devono essere nel principio una sola, quella medesima attività che nell'agire libero è produttiva con coscienza, nella produzione del mondo sia produttiva senza coscienza, allora quell'armonia prestabilita è reale e la contraddizione risolta".

Anche per Schopenhauer l'inconscio è l'aspetto fondamentale di una realtà metafisica. L'inconscio denota il carattere più originario della volontà, ossia dell'essenza noumenica del mondo. Esso è "un impulso misterioso ed oscuro" che non si identifica in alcun oggetto, la forza cieca che procede senza scopo, mentre la coscienza è un prodotto tardivo. All'origine la volontà, infatti, è "lontana da qualunque coscienza immediata"; successivamente, essa si oggettiva per gradi, dalle forze e le qualità elementari della materia, fino all'uomo. Solo quando emerge l'individualità umana, e cioè al suo livello più elevato, "sorge immediatamente il mondo come rappresentazione", che si configura come mera apparenza fenomenica, espressione di una cosa in sé, di una sostanza vera, che è, appunto, la volontà. Vi è, al proposito, una analogia con Schelling: per entrambi, il mondo umano e naturale sono espressione di una realtà metafisica; ma mentre per Schelling tale realtà guida teleologicamente lo sviluppo sia dell'uomo che della natura, in Schopenhauer essa si configura come azione cieca, che agisce senza alcun fine, se non quello dell'autoaffermazione. Per Schopenhauer, dunque la rappresentazione è subordinata alla volontà; ciò significa che la coscienza è "destinata in origine al servizio della volontà e alla realizzazione dei suoi disegni", ossia è al servizio dell'inconscio. È l'inconscio la causa vera del comportamento, mentre le motivazioni coscienti sono ridotte ad un ruolo subordinato sono razionalizzazioni che mascherano le reali cause dell'agire, che non appartengono al piano della coscienza. Un esempio: la sessualità, che per Schopenhauer è dettata dall'impulso di autorealizzazione della volontà, e, benché sia orientata verso la riproduzione della specie, tuttavia si ammanta di tutta una serie di motivi che tendono a nobilitarla e a spiritualizzarla. L'amore romantico è dunque una maschera, dietro la quale opera il freddo genio della specie. "Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell'istinto sessuale".

La distinzione tra un piano cosciente e uno inconscio nelle motivazioni del comportamento umano verrà riaffermata, prima che da Freud, da Nietzsche, diventando uno dei temi centrali della riflessione novecentesca.

Anche per E. von Hartmann (1842 - 1906, autore di una Filosofia dell'inconscio, 1869), allievo di Schopenhauer, l'inconscio è l'essenza della realtà, un principio universale, presente ed attivo ovunque, che si manifesta nella materia come nel pensiero, e viene definito come "la realtà collettiva di cui tutte le attività individuali sono non solo i prodotti, ma gli elementi integranti". Von Hartmann eleva l'inconscio al ruolo d'agente provvidenziale di natura antropomorfica, facendo di esso "un elemento ignoto che sceglie, che agisce con saggezza" e che "lavora secondo gli interessi del fine che perseguiamo". Dell'inconscio egli vuole fornire una sintesi, utilizzando sia nozioni filosofiche che dati scientifici, e realizzando - come sottolinea P. L. Assoun (Freud, la filosofia e i filosofi, 1976) - una singolare miscela metafisico-scientifica, in cui le considerazioni fisiologiche sono gli strumenti di una "induzione metafisica", che opera una sorta di trattamento metafisico dei fatti. Partendo dalle manifestazioni principali dell'inconscio nella "vita corporale", poi nello "spirito umano", egli intende risalire al cuore stesso dell'inconscio, al "fuoco centrale cui convergono come fossero raggi" le espressioni fenomeniche parziali.

Nietzsche effettua la scoperta dell'inconscio in Aurora, e svilupperà tale tema nelle opere successive, nell'ottica di una destabilizzazione radicale della coscienza. La questione prende le mosse dal pensiero contenuto nell'aforisma 105 di Aurora (L'egoismo apparente), secondo cui gli uomini "non fanno nulla per il loro ego, bensì soltanto per il fantasma dell'ego". Il senso del brano è che gli uomini sono "sconosciuti a se stessi", poiché "vivono tutti insieme in una nebbia di opinioni impersonali e semipersonali". Nietzsche ne individua la ragione nella supremazia degli istinti inconsci sulla coscienza e sull'intelletto, che viene definito "cieco strumento" degli istinti nell'aforisma 109. Nell'aforisma 115 il filosofo afferma che il linguaggio non è in grado di conoscere i nostri sentimenti profondi. Ne deriva che "ciò che sembriamo essere, secondo gli stati per i quali soltanto abbiamo coscienza e parole, - e quindi lode e biasimo, - nessuno di noi lo è; stando a queste grossolane manifestazione, che sono le sole a farsi conoscere, noi mal ci conosciamo, ricaviamo una conclusione da un materiale in cui le eccezioni prevalgono sulla regola, erriamo nel leggere questa scrittura alfabetica del nostro sé apparentemente chiarissima". Nel brano successivo, il problema dell'inconoscibilità del nostro mondo interiore è trattato in relazione alla morale, in quanto la mancanza di conoscenza delle motivazioni di un'azione, confuta la responsabilità e la libertà del volere. L'aforisma 119 è il più importante della serie. In questo brano è trattato il tema del sogno, nel contesto del rapporto tra gli istinti inconsci e la vita cosciente. Tale rapporto viene assimilato a quello tra un testo e la sua interpretazione - secondo una metafora cara al filosofo, che negli ultimi scritti usa per designare l'aspetto problematico e prospettico del conoscere. Tuttavia gli istinti, di cui non conosciamo né il numero, né la forza, né le reciproche relazioni, non sono il testo, di cui la coscienza sarebbe l'interpretazione: gli istinti, in realtà sono già interpretazione. Sono loro infatti, nella continua ricerca di un soddisfacimento, a interpretare gli stimoli interni ed esterni, e a guidare così tutta la nostra vita psichica. Il soddisfacimento è opera del caso: l'esperienza quotidiana getterà "ora a questo ora a quell'istinto, una preda che viene subito avidamente afferrata". Ogni avvenimento della nostra vita è dunque interpretato da un istinto in funzione del suo appagamento. Queste dinamiche sono particolarmente evidenti nel sogno, che Nietzsche considera, vent'anni prima dell'Interpretazione dei sogni di Freud, il soddisfacimento allucinatorio di un istinto rimasto insaziato. Ne risulta del tutto destituita di fondamento la concezione della coscienza come istanza egemone e interpretante. Essa non è autonoma, ma è interpretazione di un'interpretazione orientata dagli istinti inconsci, "un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse inconoscibile, e tuttavia sentito". Mentre in Aurora la scoperta dell'inconscio rimane un fatto circoscritto a questa serie di aforismi (il filosofo si limita a farne un attacco alla morale, attraverso la negazione della libertà del volere), nelle opere successive questa concezione approda a importanti sviluppi. Nella Gaia scienza, Nietzsche attacca la posizione filosofica tradizionale che fa della coscienza "il nocciolo dell'essere umano: ciò che di esso è durevole, eterno, ultimo, assolutamente originario!" (af. 11). E nell'inconscio affonda le sue radici la stessa conoscenza. Nell'aforisma 333, criticando la conoscenza spassionata propria di Spinoza, egli afferma:

"Che cosa significa conoscere? Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere! - Dice Spinoza, con quella semplicità e sublimità che è nel suo carattere. Ciò nondimeno: che è in ultima analisi questo intelligere se non la forma in cui appunto ci diventano a un tratto avvertibili questi tre fatti? Un risultato dei tre diversi e tra loro contraddittori impulsi a voler schernire, compassionare, esecrare?" Nietzsche può quindi concludere che conoscere non è qualcosa di estraneo o di contrapposto agli istinti, ma bensì "soltanto un certo rapporto degli istinti fra loro".

In Al di là del bene e del male, la contestazione del modello conoscitivo tradizionale va di pari passo alla critica radicale del soggetto. La derivazione del pensiero filosofico dagli istinti è ribadita in numerosi aforismi della prima parte. "Che cosa in noi tende propriamente alla verità?" scrive nell'aforisma 1. E nell'aforisma 3 afferma: "Occorre ancora considerare la maggior parte del pensiero cosciente fra le attività dell'istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico". Infatti il pensiero di un filosofo "è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in determinati binari". Nell'aforisma 17 è approfondita la critica del cartesiano io penso. Nietzsche sostiene che "è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto "io" è la condizione del predicato "penso"" in quanto "un pensiero viene quando è lui a volerlo, e non quando 'io' lo voglio". Sicché sarebbe più corretto dire "esso pensa" se non fosse che "già questo "esso" contiene un'interpretazione del processo e non rientra nel processo stesso". Questo esso, "nel quale si è volatilizzato l'onesto vecchio "io"", non è altro che un residuo metafisico, analogo a quel "residuo terrestre" nel quale gli atomisti identificavano l'atomo. Il senso di questi rilievi è che le cosiddette certezze immediate, quali appunto l'"io penso" e l'"io voglio", in realtà sono tutt'altro che tali, in quanto riconducibili a processi complessi e problematici:

"Al posto di quella "certezza immediata", alla quale il popolo, nel caso in questione, può credere, il filosofo si ritrova in tal modo nella mani una serie di problemi della metafisica.." (af. 16).

I termini nei quali si articolava la conoscenza filosofica tradizionale, quali soggetto, coscienza e verità sono espressione della fede metafisica nel mondo vero, e in quanto tali segnati da un antivitalismo di fondo, derivante proprio dall'essere radicati in un mondo "diverso da quello della vita, della natura, della storia", come scrive nell'aforisma 344 di Noi senza paura, il quinto libro della Gaia scienza, aggiunto nel 1887. Nello stesso brano la volontà di verità è definita "un principio distruttore ostile alla vita" e "un'occulta volontà di morte". Tale concezione è sviluppata anche nella Genealogia della morale. Nella terza dissertazione (Che cosa significano gli ideali ascetici?) la volontà di verità è concepita come una volontà del nulla, implicante una rivolta "contro i presupposti fondamentalissimi della vita".

In questa fase, Nietzsche elabora un nuovo modello conoscitivo, in grado di interpretare la realtà dopo la morte della metafisica, e di evitare l'impasse della volontà di verità. Egli teorizza la conoscenza prospettica, che intende superare la concezione tradizionale, articolata nella rigida distinzione tra verità e illusione, mondo reale e apparente. Questa nuova forma di conoscenza non si lascia irretire dalle lusinghe della verità, ma non è neanche pura e semplice volontà di illusione e di apparenza. Essa si situa in una diversa dimensione, poiché se "il mondo vero è diventato favola" - come è detto nel Crepuscolo degli idoli - allora anche il mondo apparente cessa di esistere. Ma superare la rigida distinzione tra mondo vero e mondo apparente, comporta anche il superamento del soggetto. Si veda l'aforisma 34 di Al di là del bene e del male, in cui la conoscenza è risolta in una serie di "diversi gradi di illusorietà", di "ombre e tonalità complessive, più chiare e più oscure dell'apparenza"; e, nello stesso tempo, è contestata "l'invenzione grammaticale del soggetto":

"Non è forse permesso essere alla fine un po’ ironici verso il soggetto, come verso oggetto e predicato?"

Della conoscenza prospettica si parla anche nel brano 374 di Noi senza paura (Il nostro nuovo infinito), secondo il quale l'intelletto umano è strutturato secondo forme prospettiche, con le quali soltanto possiamo cogliere la realtà. L'uomo della conoscenza è quindi un Ecken-steher, ossia uno che sta nell'angolo. "Non possiamo girare con lo sguardo il nostro angolo" e chiederci come apparirebbero le cose ad altre specie di intelletto; d'altra parte sarebbe una "ridicola presunzione" decretare il nostro l'unico angolo visuale possibile:

"Il mondo è piuttosto divenuto per noi ancora una volta "infinito": in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite".

L'ultima filosofia nietzscheana approda così ad una concezione di una realtà che si dissolve in infiniti angoli di visuale, senza un centro e un soggetto unificante, che non è più testo, ma solo interpretazione.

L'inconscio freudiano non è il prodotto di una astratta speculazione, ma è elaborato soprattutto nella pratica clinica. L'interpretazione del sogno come desiderio permette di spiegare l'inconscio dell'individuo e dell'umanità, nonché fatti culturali come l'arte, il mito, il folclore, concepite anch’esse come espressioni mascherate di desiderio. Il desiderio, situato in una dimensione psichica dove si intersecano ontogenesi e filogenesi, infanzia dell'individuo e dell'umanità, rivela tutta una gamma di significati arcaici, comuni al mito, all'arte, alla religione.

La concezione freudiana rivoluziona pertanto le teorie psicologiche tradizionali, che fanno della coscienza la base dell'intera vita psichica. Di qui, l'accusa di coscienzialismo che Freud muove a tutti coloro, e in primo luogo ai filosofi, che, equiparando la psiche con la coscienza, ostacolano la comprensione dello psichismo inconscio. Una delle conseguenze più evidenti della rivoluzione psicoanalitica è il decentramento della coscienza. Nella complessa concezione della vita psichica elaborata da Freud, la coscienza non gode di una posizione privilegiata, è solo un’istanza fra le altre: l’essere cosciente viene ricondotto ad una possibilità dello psichismo. È forte il contrasto con la tradizione filosofica che fa della coscienza il centro della vita spirituale dell’uomo. Nel settimo capitolo della Interpretazione dei sogni, Freud nota che i filosofi, anche quando hanno parlato di inconscio, lo hanno inteso in un modo del tutto diverso da come lo concepisce la psicoanalisi. L’inconscio dei filosofi, infatti, "sembra definire semplicemente l'opposto del conscio"; mentre "è lo psichico reale nel vero senso della parola".

Il decentramento freudiano non è quindi un capovolgimento, mediante il quale i due concetti si scambiano rispettivamente i ruoli, e l’inconscio giunge ad occupare il posto riservato in precedenza alla coscienza, ma un’operazione più complessa. Affermare che l’inconscio è "lo psichico reale", significa farne la base, il fondamento della psiche; ne deriva che la coscienza acquisisce un ruolo preciso solo in relazione all’inconscio. Non sarebbe così se ci si limitasse ad invertire i ruoli. È quanto sostiene Freud, quando afferma che per i filosofi che si sono accorti dell'esistenza dell'inconscio è stato poi difficile attribuire una funzione alla coscienza. Come dire che i filosofi sbagliano sempre: sbagliata è la concezione coscienzialista, che fa della coscienza l'unico punto di riferimento della vita psichica; ma sbagliata è anche la posizione contraria, perché non è in grado di riconoscere alcuna funzione alla coscienza. Il pensiero filosofico sembra muoversi, secondo Freud, per contrapposizioni astratte: nell'ipotesi coscienzialista, non c'è posto per l'inconscio; nell'altra, è la coscienza ad essere messa fuori gioco, considerata pura e semplice apparenza. Mentre alla coscienza vengono riconosciute importanti funzioni: dirige gli investimenti dell'attenzione e funge da regolatore degli spostamenti dell'investimento energetico, sostituendosi al regolamento automatico del principio di piacere-dispiacere.

Tuttavia, nel termine di inconscio permane una certa ambiguità, poiché è mantenuto il riferimento alla coscienza: solo in relazione a questa una rappresentazione si definisce inconscia. Nella Metapsicologia (1915-17), in cui viene formalizzata la prima topica, vengono rielaborate e fissate le relazioni fra i sistemi psichici, tale ambiguità è superata; l'inconscio, la coscienza, e un terzo termine, il preconscio, vengono intesi come luoghi o sistemi e non come qualità di una rappresentazione.

Topos in greco significa luogo; e topica viene chiamata in psicoanalisi la concezione spaziale che descrive l’apparato psichico secondo sistemi, aventi ciascuno modalità di funzionamento propri. Generalmente si parla di due topiche freudiane; la prima descrive le tre istanze del conscio, preconscio e inconscio; e la seconda le strutture dell'Io, dell'Es e del Super-io.

Il primo tentativo di dare una spiegazione topica dello psichismo, viene effettuato da Freud nel settimo capitolo dell'Interpretazione dei sogni. In questo primo schema è tratteggiato un quadro dinamico e funzionale dell’apparato psichico, nel quale vengono individuate istanze diversificate, regolate da rapporti complessi. L’apparato psichico è visto come un telescopio, composto da vari sistemi di lenti, fra i quali occupano una posizione particolare i sistemi Inc (inconscio) e Prec (preconscio), situati all’estremità motoria dell’apparato, e separati da una censura che impedisce alle impressioni di diventare coscienti.

Freud rielabora questo schema negli scritti di Metapsicologia, in cui descrive i tre sistemi del C, del Prec e dell’Inc. Il sistema C è assimilato ad un sistema percettivo, e, come tale, è senza memoria: esso non gode di una posizione privilegiata, è un’istanza fra le altre; l’essere cosciente è soltanto una delle possibilità dello psichismo. Le rappresentazioni che non sono presenti alla coscienza possono essere definite inconsce secondo due significati; in senso puramente descrittivo, e in questo senso sono quindi preconsce, e appartenenti al sistema Prec; e in senso proprio, ossia permanentemente tali, e in questo caso appartengono al sistema Inc, che è separato dalla coscienza dalla rimozione. I due concetti di inconscio e di rimozione sono così strettamente correlati, che è impossibile riferirsi all’uno prescindendo dall’altro. La rimozione non solo presuppone l’inconscio, ma lo costituisce. Un determinato contenuto può sfuggire alla rimozione solo al prezzo di una certa deformazione, che riesce ad accedere alla coscienza mediante un compromesso con le istanze difensive.

L'Inc ha anche un modo di funzionamento proprio, diverso e più primitivo rispetto ai sistemi Prec e C. Freud ha parlato di processo primario e di principio di piacere, in cui le tensioni pulsionali vengono scaricate immediatamente, o soddisfatte in modo allucinatorio. Nel sistema secondario, invece, proprio dei sistemi Prec e C, governato dal principio di realtà, sono possibili operazioni mentali complesse, e la stabilizzazione dell’energia pulsionale permette di differire la gratificazione. Nell'inconscio, inoltre, non vige il principio di non-contraddizione. Scrive Freud:

"Non esiste negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto solo dal lavoro della censura fra l'Inc e il Prec".

Allo stesso modo, non vi è successione temporale, non esiste il tempo. Queste caratteristiche le possiamo osservare nei sogni, dove gli opposti vi possono comparire l’uno per l’altro, episodi della prima infanzia coesistono con avvenimenti del giorno precedente.

Nel 1922, con L'Io e l'Es, Freud introduce una nuova classificazione, basata sulle istanze, o strutture, dell'Es, dell'Io e del Super-io.

La nuova classificazione non si limita a identificare altre province psichiche e a stabilire diversi rapporti tra la coscienza e l’inconscio, ma coglie soprattutto l’aspetto genetico dello psichismo, evidenzia come le varie istanze si differenzino gradualmente le une dalle altre. L'Es che è il polo pulsionale, il "grande serbatoio" della libido e delle pulsioni in genere, non è descritto soltanto secondo i contenuti e le modalità del sistema Inc, è visto anche in un prospettiva genetica, in quanto anche le altre istanze sono immerse in esso. Per quanto riguarda l'Io, nella seconda topica esso assomma diverse funzioni, attribuite precedentemente ai sistemi Prec e C: controllo della motilità e della percezione, deposito delle tracce mnestiche, pensiero razionale, ecc. Ma in quanto in gran parte inconscio può essere assimilato anche all'Inc. Esso, afferma Freud, "si comporta precisamente alla maniera del rimosso". Questa parte inconscia dell'Io "esercita potenti effetti" senza mai diventare cosciente, nelle difese, nelle resistenze, mediante le quali l'Io cerca, di volta in volta, di conciliare o di occultare i conflitti con l'Es, il Super-io, la realtà.

La terza istanza è quella del Super-io che si identifica nella coscienza morale: un’istanza critica che si contrappone all'Io. Nell'Io e l'Es, il Super-io viene spiegato come una alterazione dell'Io, ascrivibile all’erigersi nell'Io dell'oggetto edipico. Sono infatti le identificazioni con i genitori che sostituiscono scelte edipiche che da un lato creano il Super-io, dall’altro concludono la fase edipica. La formazione del Super-io è correlata al divieto della sessualità edipica, questo spiega l’aspetto critico e punitivo di questa istanza. "Il Super-io conserverà il carattere del padre, e quanto più forte è stato il complesso edipico, quanto più rapidamente (sotto l’influenza dell’autorità, dell’insegnamento religioso, dell’istruzione, della lettura) si è compiuta la sua rimozione, tanto più severo si farà in seguito il Super-io nell’esercitare il suo dominio sull'Io sotto forma di coscienza morale, forse di inconscio senso di colpa".

Che la parola nei suoi rivolgimenti possa guarire oppure ferire anche mortalmente, non occorreva Freud per scoprirlo. Basta che leggiamo i sofisti, Gorgia in particolare.

La domanda che un analizzante inquieto può rivolgere è appunto quella di sapere quale parola sia efficace. Esiste un’interpretazione sbagliata? Una domanda del genere presuppone che vi possa essere un inconscio, magari collettivo, quale serbatoio di pulsioni malate. Il timore di impazzire, venendo a sapere qualcosa di sé o del proprio inconscio. L’inconscio non è malato è un’annotazione di Freud. Come intendere il concetto di malattia in psicoanalisi? L’interpretazione è sempre sbagliata perché suppone come originario il testo da interpretare.

Possiamo far coincidere il concetto di malattia con i contraccolpi del fantasma materno, ma il fantasma materno è il modo con il quale ognuno si rappresenta l’Altro. Dato che morire è impossibile, impazzire risulta il modo provvisorio di morire, ovvero una parodia dell’Altro. Se l’Altro interviene nessuna costrizione a impazzire. Se l’Altro interviene come parola autentica, espressione dell’idioma particolare a ciascuno, la follia rivela l’abbaglio su cui si fonda la pazzia, vale a dire, appunto, di essere rappresentazione dell’Altro.

 

L’inconscio non è concepibile al di fuori della rimozione, ci insegna Freud. Al di fuori della rimozione l’inconscio si riduce a una gamma di osservazioni confuse e puramente descrittive. L’inconscio descrittivo è anche l’inconscio dei filosofi o l’inconscio dei romantici. La grandezza di Freud sta nell’avere messo in questione il concetto di sostanza, compresa la sostanza supposta tale che fonderebbe l’inconscio. Portando l’attenzione esclusivamente sull’inconscio collegato alla rimozione, Freud consentiva di pensare diversamente la questione topica e dinamica dei fenomeni psichici riconducendoli a fenomeni linguistici.

 

Esportare l’Altro? Già così enunciata, una tale proposta appare bizzarra se non assurda. L’Altro resta radicalmente altro, se non è rappresentabile in alcun modo. E se l’Altro viene prima, anche nel senso che lo abbiamo in qualche modo introiettato, come suol dirsi, ovvero si è incarnato; se l’Altro corrisponde anche al sistema simbolico, culturale, ideologico nel quale più o meno consapevolmente siamo immersi, che si riflette non solo nei nostri sintomi ma anche negli atteggiamenti e nei comportamenti, nel modo di agire e pensare, nel modo di stare insieme agli altri, nelle nostre abitudini e nei rituali (che forse non sono altro che strategie per incontrare l’oggetto) ecc.; se l’Altro precede e permea tutto questo, allora come pensare di esportarlo? Con il termine Altro noi indichiamo l’inconscio freudiano, che abbiamo poi appreso a definire in qualche modo riducendolo al linguaggio, e il linguaggio è l’espressione che adoperiamo anche per indicare la riduzione operata sull’elenco di cui sopra, e a sua volta il linguaggio non è, se non per ulteriore riduzione, la grammatica o la sintassi di una lingua. Certo, con il linguaggio possiamo intendere la logica del dire, e richiamando alla mente la diatriba che opponeva Lacan ad alcuni suoi allievi, possiamo richiamare la correzione apportata alla loro definizione dell’inconscio quale condizione del linguaggio. Con fermezza Lacan opponeva la tesi contraria per cui è il linguaggio la condizione dell’inconscio.

Questo non ci porta forse a dire: a ciascuna lingua, a ciascun popolo, a ciascuna cultura, l’inconscio che le è proprio? Però, cosa rimane a questo punto di trasmissibile dell’inconscio, se non una cesura invisibile, un semplice taglio; appunto un paradosso?

 

Il nome per funzionare, come equivoco, richiede l’invenzione dell’Altro. L’Altro come invenzione. Che cos’è allora l’Altro se non la critica e il movimento introdotto nel sistema del discorsi, delle credenze, delle ideologie di una cultura e di una lingua? Non vi è alcuna lingua, alcun corpo, alcun elemento fisso esportabile, alcun sistema di valori che preceda l’Altro. Persino un corpo non precede l’Altro. L’inconscio, quello freudiano, non quello filosofico o romantico dei suoi predecessori, non può esistere prima del dispositivo che lo fa apparire, che letteralmente lo inventa. Impossibile reperire nella lingua di un popolo o nella cultura, o nella religione, ancor meno nell’ideologia, l’inconscio. Tanto meno, ovviamente, individuare un inconscio collettivo. Se l’ideologia sta funzionando, se funziona a puntino (altrimenti non sarebbe ideologia), allora vuol dire che un corpo non è separato dal discorso, è impastato, fa tutt’uno con il discorso. Non ci sono i cinesi da una parte e la loro ideologia dall’altra. La lingua di un popolo non può che comprendere i rituali, le abitudini, i comportamenti sociali e individuali di quel popolo. Quando i cinesi cominciano a parlare l’inglese non sono più cinesi.

 

Anche il percorso che caratterizza l’invenzione freudiana può essere letto come un modo di articolazione di questo processo. Il progresso speculativo che contrassegna la differenza fra la prima e la seconda topica può essere identificato a partire da una tale emergenza progressiva del sembiante. L’inconscio si precisa soltanto nel riferimento all’oggetto nella parola e, viceversa: emergendo l’oggetto in quanto oggetto nella parola, è l’Altro che si delinea con maggior precisione.

Cosa vuol dire che l’inconscio si precisa, se non il fatto che non può essere inteso con precisione se non riconducendolo all’originario della parola, ovvero a ciò che risulta fondarsi a partire dal non originario; ossia riconducendolo semplicemente alla rimozione?

Che qualcosa si precisi non vuol dire che si riduce. Il limite, se originario, coinvolge comprendendoli anche l’inconscio dei precursori e dei filosofi (Schopenhauer e Von Hartmann, in particolare), l’inconscio di Jung (anche quello collettivo), ammesso che possa chiamarsi ancora inconscio, persino il grund, ovvero quel sostrato in cui s’inabissa la ragione con i romantici, l’Altro oscuro che dimorerebbe nei recessi dell’Io, la teoria del sosia e così via. Le acque scure del fiume e persino l’oceano dimorano nella parola. L’Es (il qualcosa) freudiano, corrisponde proprio a una sorta di redenzione (o se vogliamo, di riabilitazione, rispetto all’ideale romantico) della cosa, ovvero la cosa che rinviene la traccia per elevarsi all’oggetto nella parola, all’omphalos. L’Es in Freud è la traccia della parola originaria. E in questa direzione possiamo anche intendere la celebre formula freudiana Wo es var soll ich werden (là dove es era Io debbo avvenire). In questa formula è anzitutto evidente che l’Io non è originario e che, come il Tu o il Lui, rinvia soltanto alla funzione dell’oggetto, risultando infine idea dell’Io. Risulta infine abbozzata la questione della logica temporale, il paradosso del tempo Altro.

Anzi, senza la logica della nominazione e senza il sembiante la seconda topica risulta incomprensibile.

A cosa ci rinvia allora la paura dell’inconscio, come fosse la paura infantile dell’uomo nero? Semplicemente alla rappresentazione dell’Altro. L’Altro rappresentato è un modo per esorcizzare il fatto che nessuno è padrone di se stesso, che l’Io non è padrone in casa propria, che non c’è alcuna alternativa originaria fra il bene e il male, perché il bene e il male non stanno dinnanzi, essendo ossimoro della parola.

L’Altro è la condizione a cui non possiamo mancare di riferirci allorché vogliamo affrontare qualsiasi questione, compresa quella della sua stessa esistenza. Dell’esistenza dell’inconscio. L’Altro è la condizione della questione. Poiché parlando qualcosa resta ancora da dire, poiché parlando non posso che proseguire nel dire, ecco l’inconscio che si formula in modo diverso e singolare per ciascuno, e ciascuna volta. È l’inconscio che ci fa dire che la vita è un compito e un compito al quale non possiamo sottrarci. Non ci possiamo sottrarre alla rimozione originaria e il compito di vivere coincide pertanto con il compito di articolare la rimozione originaria, vivere nel gerundio della parola, facendo. Il nostro compito consiste anche nel disfare, ovvero nell’introdurre l’equivoco nella parola e nel rilevare la menzogna che necessariamente essa veicola nel momento in cui si arresta in una rappresentazione della vita o dell’Altro. Disfare è ancora fare, se siamo nella parola. Prima del fare nessuna distinzione possibile fra bene e male, fra salute e malattia.

La parola è innocente, non nuoce e non è malata perché coincide con l’atto e pertanto prosegue, come l’atto, in cui si sostiene e che sostiene. Agire è già parlare, questo se vogliamo il teorema dell’inconscio. La parola prosegue, non si arresta e non ha dunque una fine. La parola si conclude nell’interminabile.

Il fantasma materno (il male creduto davanti a noi) evita la conclusione della parola e dell’inconscio nell’infinito. Evita il pragma, evita l’agire e l’osare. Non c’è come evitare il registro pragmatico della parola per produrre la cosiddetta malattia, il ripiegamento della parola nel fantasma materno. L’inconscio esiste soltanto fino a quando non agiamo, è l’istanza della prosecuzione della parola, all’inseguimento dell’atto. Istanza dell’equivoco e della differenza. In atto troviamo non più l’inconscio, ma il sintomo. Il sintomo come istanza dell’atto.

Il male è piuttosto la coscienza, la rappresentazione di sé e del mondo.

Dovremmo avere lo stesso ardire di Freud che incessantemente ha formulato diversamente l’inconscio.

La parola originaria è la parola pragmatica, è la parola dell’inconscio ed è in quanto pragmatica che non può nuocere. A nuocere è il fantasma ovvero la parola fissata in un concetto, in un enunciato universale, congelata in un fondamento.

La parola autentica è quella che prosegue: è già autentica per il fatto di proseguire. L’inconscio è la relazione in quanto in atto ciascuna volta differentemente e per il fatto che si sta parlando.

Ciascun elemento fa per sé, ciascun elemento è libero, integro, arbitrario, stavo per dire sano, ma equivarrebbe a contrapporlo ad altri elementi malati, equivarrebbe a contrapporlo agli altri elementi del linguaggio, a renderlo appunto corrotto e dunque già malato. Ciascun elemento, se considerato in relazione a un insieme già dato, diventa ogni elemento dell’insieme, quest’ultimo preso come un tutto. L’atto di parola caratterizza ciascun elemento che non si contrappone a un linguaggio considerato come già esistente. Senza tale elemento, integro e autonomo, ciò che comunemente intendiamo per linguaggio diviene la parola catturata nel fantasma materno. Il linguaggio così inteso non è che la parola presa nel fantasma materno, nella versione unica, nel tutto. Quella di dedurre la parola a partire dal linguaggio, è precisamente l’operazione gnostica e ideologica che caratterizza l’epistemologia e la strategia delle cosiddette scienze umane, linguistica, logica e semiotica comprese. È questa inoltre l’operazione che conduce alla medicalizzazione della vita che è anch’essa vita nella parola. Non c’è la vita prima della parola, prima della parola non vale la dicotomia sanità malattia. Per questo la vita è un compito, un compito anzi di assoluzione, redenzione, resurrezione nella parola che non finisce.

Il principio saussuriano dell’arbitrarietà del segno presuppone la contrapposizione fra il segno e la cosa, presuppone la cosa che fa segno. Arbitrario non è il segno rispetto a una cosa già esistente fuori da esso. La parola è arbitraria, nel senso che l’arbitrio è una sua proprietà, e non in riferimento a una cosa esterna a essa. Le cose non fanno segno, i segni così intesi sono già presi nella dicotomia buon segno, cattivo segno. L’alternativa fra buono e cattivo, sano e malato, rimedio e veleno, elimina l’ossimoro originario della parola, la vita nella parola. L’alternativa è di per sé già la proprietà del fantasma materno o fantasma di padronanza, che possiamo anche intendere come fantasma concettuale, mentre ciascuna parola precede il concetto, è inconcettuale. La vita è affrancata dall’alternativa fra sanità e malattia. L’alternativa introduce il dualismo che esclude la funzione aritmetica e temporale del due originario, chiude la possibilità dell’oggetto triale. La trialità è una proprietà dell’oggetto nella parola, proprietà pragmatica. Quando diciamo registro pragmatico della parola, non possiamo che intendere, appunto, apertura all’oggetto triale nella parola, che esclude ogni rappresentazione dell’intervallo, ogni spazialismo del concetto, ogni dualismo istituito. Possiamo allora dire: le parole fanno bene? Sarebbe concepire nello stesso tempo anche l’ipotesi contraria che esse possano far male. Se per bene intendiamo il linguaggio che prosegue e si rinnova nella parola, allora certo possiamo dirlo, ma è una metafora. Come possiamo dire, certamente: la metafora fa bene. Il bene si tramuta anche nel male quando è preso nell’alternativa, come avviene nell’altruismo: cioè quando l’Altro è rappresentato.

Il linguaggio non è luogo di contaminazione, non è la sentina del demonio. Non contiene nel suo ventre il male. La semiotica, la linguistica, ma anche la logica non hanno fatto altro che tentare di esorcizzare il linguaggio, purificarlo dal male che esso conterrebbe, ovvero immobilizzarlo nel fantasma materno. Strano capovolgimento quello per cui la proprietà dell’integrità e arbitrarietà della parola è stata fatta diventare la sua malattia!

Valeria Ferrero: per riprendere l’aspetto dell’analisi interminabile credo che sia in relazione rispetto al ritrovare l’oggetto nella parola, in qualche modo credo che per sfuggire alla condizione melanconica in cui l’oggetto manca, è perduto, occorre proprio porsi in questa condizione nella quale l’oggetto fa da ostacolo e l’oggetto non è mai quello quindi non soltanto attenzione sull’oggetto ma anche la relazione con l’oggetto che sfugge sempre, quindi dire che l’analisi è interminabile secondo me si apre a una serie di ambiguità infinite, a cosa si fa riferimento? Come mai l’analisi è interminabile?

 

Gabriele Lodari: l’analisi in quanto tale si conclude …

 

Valeria Ferrero: sì, si conclude magari il dispositivo, si conclude probabilmente l’incontro con l’analista, quel dispositivo lì però interminabile in quanto questo ritrovare l’oggetto nella parola fin che c’è vita c’è questa condizione credo o no?

 

Franco Quesito: tra l’altro una traduzione del libro Analisi terminabile interminabile in realtà verte e cambia la cosa in analisi finita e infinita nel senso che buttava lì Gabriele che l’analisi con l’analista finisce ma c’è un’analisi che può anche non finire è infinita però non voglio esaurire io la risposta lasciamo la cosa così. C’è Giovanni Callegari che vuole intervenire …

 

Giovanni Callegari: volevo ringraziare i colleghi che hanno dato una serie infinita di stimoli, il tempo è sempre troppo poco perché qualsiasi delle cose di cui diceva Faioni avrebbe bisogno di un approfondimento, di un tempo altro che forse … che ci impegni un poco a proseguire così come anche Lodari anzi, volevo offrirgli altra fase del vangelo che è sottoscritta da Freud “non di solo pane vive l’uomo”, questa è un’altra questione che riguarda non solo l’oggetto ma la pulsione puoi avere il pane che vuoi ma se non hai la voglia di mangiare … tutte queste cose qua a parte la cristianità … è un po’ questo che ci sono tali e tanti argomenti che vengono seminati che meriterebbe anche una sorta di riflessione non solo qui e ora ma anche nel tempo. Alcune situazioni sui protocolli, protocollo per cui qualsiasi persona che venga messa lì svolge queste funzioni con sequenzialmente raggiungerebbe un risultato, non certo quello di tradurre il re di fiori, non so se vi è mai capitato? Con un mazzo di carte doveva mancava una carta, al solito se ne prendeva una e si diceva questa diventa l’otto di quadri, no? E questo penso che un calcolatore in effetti, non so magari quelli evoluti ci dirà poi più avanti Faioni. Volevo solo sottolineare questa mole di stimoli, di semi che arrivano e che sarebbe bene non disperdere, mi auguro che ci siano i testi, quello di Lodari, sì, ha scritto, ma quello di Faioni sarà sbobinato penso. Grazie.

 

Stefania Guido: volevo mettere lì un pensiero forse più che fare una domanda che in questo momento mi diventa difficile formulare, pensavo che unendo questi due grandi stimoli che sono arrivati mi è venuto in mente il testo di Freud “Costruzioni in analisi” nel senso che in quello mi sembra di trovare tutto il discorso intorno a una pretesa di fissazione, diciamo in una scientificità supposta e dall’altro una fissazione in un pensiero che non riesce più a narrarsi perché sta chiuso, diciamo, in un’ipostatizzazione teorica, allora mi sembra importante dal punto di vista della clinica di rimetterlo in gioco questo discorso intorno al fatto che, come dire? A me sembra che in qualche modo il paradosso che ci arriva da quello che l’analisi ci ha fatto vedere cioè da un lato essere completamente privi di teorie in fondo non è possibile, perché forse anche questo dobbiamo dire, perché come facciamo ad essere senza teoria? Ciascuno di noi mentre vive si fa una teoria perché se fosse senza teoria non potrebbe vivere, non solo per un problema di angoscia ma perché non riuscirebbe a decifrare il mondo quindi a me sembra che rispetto alla clinica questo possa essere un orientamento cioè il fatto che se questa teoria che uno si costruisce diventa un’ipostatizzazione estremamente rigida, diventa una gabbia che non gli consente più nessun tipo di relazione, nel senso in cui dicevi tu, ma nello stesso tempo anche di interrogazione sul fatto che comunque una qualche teoria cioè la gente che viene da me in analisi, incomincia a intravedere la luce dal tunnel nel momento in cui quando si creano degli effetti di spiegazione teorica, c’è il piacere della parola ma c’è anche l’effetto della spiegazione teorica perché lei sarà completamente immersa in una situazione senza riuscire diciamo a “tirarne le fila” in termini intellettuali, è un’esperienza assolutamente devastante, ecco allora mi sembra che gli stimoli che avete dato voi possano ricondursi alla clinica in questo senso …

 

Beatrice Dall’Ara: io ascoltavo quello che diceva Stefania dell’apporto teorico in un’analisi, l’analisi deve per forza essere supportata da una teoria perché se no non sarebbe possibile procedere e far giungere la persona là dove la persona vuole giungere, per esempio nella teoria che considera e ha considerato negli anni e tiene conto di ciò che è necessario che sia cioè il linguaggio per l’esistenza dell’esistenza stessa e quindi l’esistenza di qualsiasi cosa, come procede l’analista nel racconto di quella persona che si trova a fare domanda di analisi, che cosa conta per quella persona, per quell’analista? Per esempio in una semplice fobia cioè una persona ha paura, non importa di che cosa, ma vive di paura beh certamente facendola raccontare e quindi facendola raccontare e continuando a raccontare questo indubbiamente, ma questo mirato a far in modo che la persona si ascolti e “lei” si accorga di ciò che dice, delle connessioni e delle relazioni che intesse il suo racconto, in quel racconto che man mano lei va facendo, su questo Freud era insuperabile nell’Interpretazione dei sogni per esempio, quando parla delle connessioni e delle relazioni nel discorso delle persone che lui ascoltava e questa è la cosa più interessante e forse più importante nel discorso di Freud, non aveva gli strumenti per intendere quello che noi abbiamo inteso ma comunque tornando alla questione di una semplice paura che la persona non può sopportare e che va in analisi per svolgerla, per capire, beh qui Freud ci parlava di quella sorta di compromesso cui il pensiero della persona è giunta, che ne so? Per esempio un ambasciatore deve incontrare ad un ricevimento due esponenti di nazioni che potrebbero essere in lotta tra loro, non vuole problemi e si da per ammalato e quindi non va al ricevimento, un compromesso ed è quel compromesso che avviene nel discorso della persona che non può accogliere due cose che crede assolutamente vere, due verità che vanno in conflitto tra loro ma ecco quello che mi interessa è come giunge l’analista del discorso, della parola a svolgere questa questione? Beh se non avesse chiara qual è la questione nel linguaggio e quindi nei giochi linguistici che continuamente fanno funzionare quel pensiero, frammenti di ricordo, di sensazioni, frammenti cioè di elementi linguistici, di stringhe vanno in conflitto fra loro, ecco che potrebbe credere e fermarsi a qualsiasi stupidaggine che la persona racconta però se sono giochi linguistici costruiti dal pensiero della stessa persona che vanno in conflitto fra di loro sarà molto più semplice per la persona affrontare quelle questioni, per lei importantissime, che per nessuna cosa al mondo vuole affrontare ma che le sbarrano la strada continuamente e la riportano sempre alla solita “realtà” frutto in fondo di quel compromesso che il suo pensiero ha costruito, ecco che se la persona continuando l’analisi e accorgendosi del fatto che è parlante e che costruisce giochi, giochi linguistici che accoglie e impara dagli altri parlanti e gioca questi giochi, può cominciare ad entrare in quello che è il suo gioco, perché se è un gioco che accolgo e che fanno milioni di altre persone perché mai devo averne paura? Ed ecco che qui si aprono delle brecce, delle possibilità per l’analista che sa che si tratta di linguaggio, per un altro analista, per uno psicanalista che invece non sa nulla di ciò che è necessario e non tiene conto di come sono fatti gli umani, non so che cosa possa dire o come possa intervenire con l’analizzante, se non raccontare delle favole, che va benissimo però per l’analista penso non sia facile ad un certo momento accondiscendere a qualche cosa che per lui stesso è qualcosa di assolutamente ignoto … certamente la persona continua a parlare, prosegue, sposta la questione ma la questione resta in un continuo spostamento … come dire che l’analista a quel punto che funzione ha? Quello dello psicoterapeuta? Se non sa che sono giochi linguistici che altra funzione può avere questo analista?

 

Franco Quesito: se non ci sono altre questioni io darei la parola ai nostri due simpatici relatori che pazientemente sono stati ad ascoltarci per due interventi che in qualche modo cerchino un po’ di decifrare quello che è venuto fuori …

 

Il signore in prima fila rivolto a Luciano Faioni: se poteva specificare il passaggio in cui ha detto che non ci sono fatti ma c’è solo regole e procedure …

 

La signorina in terza fila: anche io avrei una domanda diceva che il bambino sviluppa il linguaggio attraverso delle porte che lei ha chiamato i cinque sensi, la domanda che mi pongo è come è possibile che dei bambini che non hanno difficoltà sensoriali non parlano /…/ i sordomuti non hanno difficoltà a comunicare e poi noi alla scuola lavoriamo sul gusto così i bambini imparano a degustare un cibo piuttosto che un altro … il linguaggio come si pone con i sensi?

 

Luciano Faioni: la questione è semplice in realtà, quando si definiscono queste cose si forniscono delle sequenze che verranno utilizzate in un certo modo. Per esempio una definizione non è nient’altro che una sequenza che ogni volta che interviene quella certa parola verrà utilizzata, per esempio io posso stabilire che intendo con necessario una certa cosa, questo significa che ogni volta che compare il termine “necessario” io intenderò quello che ho stabilito, questo modo di stabilire è arbitrario ovviamente, non c’è nulla al mondo che mi costringa a farlo, però questo porta a delle questioni di straordinario interesse perché non soltanto questo termine “necessario” in quanto definito in un certo modo viene utilizzato così, ma perché è stata presa una decisione di utilizzarlo così. Qualunque termine funziona così, qualunque, e cioè segue a una istruzione. Prima facevo l’esempio del re di fiori, perché un re di fiori è un re di fiori? Per tre mila anni gli umani, e i filosofi in particolare hanno continuato a interrogare il re di fiori chiedendogli: “perché sei un re di fiori? Perché sei esattamente quello che sei anziché essere altro?”. Da tre mila anni interrogano il re di fiori e il re di fiori non ha mai risposto, ora il fatto che il re di fiori sia quello che è, è soltanto un’istruzione per potere giocare con quell’elemento, per potere letteralmente metterlo in gioco, metterlo in gioco significa metterlo in relazione con altri, perché da solo il re di fiori non fa niente, se fosse l’unico elemento dell’universo non farebbe molto, deve essere in relazione con altri. Queste relazioni combinano altre sequenze, combinano altri modi di mettere in relazione le cose. Lei dice “i fatti”, anche i fatti è difficile stabilire che cosa siano possiamo definirli certo, dare una definizione, possiamo definire quello che ci pare, ma una volta che abbiamo definito qualcosa che cosa abbiamo fatto esattamente? Questa è la domanda fondamentale, abbiamo stabilito che cosa è quella certa cosa, come se quella certa cosa fosse fuori da tutto in una sorta di empireo e si trattasse soltanto di carpire a questa cosa tutte le proprietà che gli appartengono, oppure è un elemento linguistico e come tale è quello che è in base a una connessione, a una rete di connessioni per cui anche il fatto io possa definirlo come mi pare, sarà sempre una definizione arbitraria, così come dicevo all’inizio avviene per la scienza: si dà una definizione di scienza e quindi di scientifico in base a un criterio, a un arbitrio che è assolutamente personale, soggettivo “a me piace pensare che la scienza sia questo”, va bene. Ma il problema che molti hanno rilevato è che non c’è un altro modo in cui definirla, può essere più o meno utile certo, può andare più o meno contro le opinioni comuni, questo è un altro discorso, ma rimane comunque sempre una questione arbitraria, piace pensare che sia così. Feyerabend aveva colto, almeno in parte questo aspetto, e questa è la prerogativa di ciò che all’inizio avevo chiamato linguaggio, che costruisce delle sequenze che costituiscono poi quello che gli umani chiamano vita generalmente, delle sequenze che consentono agli umani di svolgere certe operazioni, queste operazioni gli umani le chiamano pensieri, le chiamano la loro esistenza, le loro aspettative, i loro desideri e qualunque cosa, questo è irrilevante, però il “fatto” in quanto tale, oltre a essere un participio passato di “fare”, è poco altro, così per esempio indicare “che cos’è l’esistenza?” intanto è un sostantivo, femminile, singolare, che è già qualcosa, dopodiché possiamo appiccicarci quello che vogliamo, anche perché non esiste un’esistenza che sia fuori da qualunque cosa, come dicevo prima, immobile ed eterna della quale dobbiamo carpire le proprietà specifiche, non c’è, è soltanto una parola, cioè un significante come si direbbe, questo significante ha un significato? Non ha un significato? Anche questo possiamo deciderlo, decidiamo che ha un significato? Benissimo, da questo momento sappiamo che ha questo significato e lo usiamo in questo modo, decidiamo che non ha un significato? Allora ci comporremo in quest’altro modo. Sono decisioni, decisioni che vengono prese rispetto a qualunque termine, a meno che non si pensi che un elemento linguistico corrisponda a un quid, molto platonicamente situato da qualche parte immobile, identico a sé che si tratta di individuare, ma non è così, e quindi non rimane, come si è detto varie volte questa sera, una rete di connessioni interminabile, letteralmente senza fine. Ma le parole hanno una fine, per esempio un qualunque dizionario ha 150 /160.000 parole, tecnicamente sarebbe un insieme finito, ma quante sono le combinazioni possibili? Difficile a dirsi, magari sono finite, non lo so, questo solo una macchina potrebbe stabilirlo con rapidità e certezza, ma in ogni caso anche se le combinazioni sono finite queste combinazioni possono aumentare, inventando termini nuovi, aggiungendo altre cose, senza fine. È la maledizione che ha incontrata Peirce quando cercava appunto l’interpretante logico finale, cioè l’ultimo elemento della catena segnica, ma non c’è. Come fanno i bambini quando giocano: “io ho cinque cose” “ e io più una” “io allora ne ho sette” “io più una”, e vanno avanti così e possono diventare vecchi a questa maniera, poi trovano di meglio da fare ovviamente per cui interrompono l’operazione. Qui si aprirebbe una serie di altre questioni che naturalmente per il momento lasciamo in sospeso, insieme a tutte le altre.

 

Stefania Guido: posso fare una domanda per capire meglio, ritorniamo che cos’è all’asso di picche?

Tutto questo discorso che, se seguiamo Freud, diciamo, nel sogno troviamo la rappresentazione della cosa e invece nella vita dobbiamo trovare la rappresentazione della cosa con la parola, tutto questo discorso, voglio capire, come lo mettiamo in riferimento a questo?

 

Luciano Faioni: che problema c’è? Dici che il problema è la rappresentazione di qualche cosa?

 

Franco Quesito: c’era un’altra domanda …

 

Luciano Faioni: Il discorso che ho fatto che punta a reperire qualcosa che è alla base del funzionamento di un sistema, un sistema che è molto semplice, funziona con poche istruzioni, questo sistema l’ho chiamato “linguaggio”. Questo sistema è quello che consente la costruzione di qualunque pensiero: è quello che ha consentito per esempio a Freud di inventarsi la psicoanalisi e a chiunque altro di inventarsi qualunque altra cosa, senza questo sistema non è possibile inventare niente perché non c’è niente, è questo che ho cercato di dire in quel poco tempo che quesito mi ha concesso. Patrizia, certo sì, i bambini apprendono i dati di base, cioè quelle istruzioni che consentono loro di incominciare a funzionare, dopodiché la questione si complica, diventa di una complessità inimmaginabile, così com’è per una persona adulta, cioè le interrelazioni tra elementi diventano complicatissime e possono giungere per esempio a stabilire la necessità di non parlare di fronte a una certa situazione, perché evidentemente questa situazione entrata in conflitto con altre situazioni, e allora occorre trovare un compromesso, un compromesso che consenta al sistema di potere proseguire. Come avviene spesso: per esempio si evita di dire a una persona che è antipaticissima, se no poi succedono dei problemi. Lei riprendeva questo elemento: il corpo come una serie di porte di ingresso di informazioni, certo, è attraverso il corpo che gli umani ricevono informazioni, prevalentemente visive, gli umani hanno un orientamento prevalentemente visivo e acustico e quindi sono queste le porte più praticate per ricevere informazioni, poi che cosa fanno di queste informazioni questo è un altro discorso, cioè come si combinano queste cose, le possibilità di combinatorie sono praticamente illimitate, e naturalmente queste combinatorie possono costruire un discorso che giunge alla conclusione che: “con questa persona non devo parlare, è meglio non parlare” per esempio, e quindi tacerà. Qui non possiamo elencare tutti i possibili motivi, però il funzionamento di base è straordinariamente semplice: senza questi elementi non succede assolutamente niente, dopodiché incominciano a costruirsi sequenze sempre più complesse che possono arrivare a costruire qualunque cosa, dalla teoria dei quanti, alla lista della spesa, alla dichiarazione d’amore e qualunque cosa. È chiaro che la questione è molto complessa e l’affronteremo ancora. Colgo tra l’altro l’invito più o meno esplicito di Callegari a muoverci in una certa direzione, e cioè costituire nel prosieguo degli incontri teorici dove tutte queste questioni che sono state affrontate in termini molto rapidi e molto sommari possano invece essere articolate, svolte nei dettagli, mostrandone tutta la ricchezza. Per cui sicuramente nei prossimi incontri che faremo metteremo anche questo all’ordine del giorno: incontrarci per proseguire a discutere, proseguire tutte quelle cose che sono state poste qui e che per una serie di circostanze rimangono in sospeso.