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Torino, 23 novembre 2006

 

Libreria LegoLibri

 

LA FELICITÀ MANCATA

 

Intervento di Daniela Filippini

 

 

L’argomento di questa sera è dunque la felicità.

Qualcosa che ciascuno rincorre da sempre e che talvolta ha incontrato lungo la sua vita.

Vale la pena allora interrogarsi sul significato di questa parola, per capire qualcosa di più proprio a partire dall’etimo.

Felicità = condizione che deriva dal raggiungimento di qualcosa di fortemente desiderato, soddisfazione di un desiderio intenso

Il nostro ambito è la coppia, quindi la felicità nella coppia.

Vorrei riflettere sulla felicità, o meglio sul desiderio di raggiungere la felicità, che spinge qualcuno quando decide di unirsi in coppia con qualcun altro.

La coppia rappresenta nel luogo comune la situazione ideale di felicità, quasi la condizione naturale nella quale una donna possa sentirsi pienamente donna – anche perché nella coppia la donna può diventare madre – e un uomo possa essere definito pienamente un uomo.

Il pensiero comune richiama spesso alla condizione di coppia, intendendo la famiglia. E frasi come “è tempo di mettere la testa a posto”, “sistemarsi”, “trovare la donna/l’uomo giusto… sono spesso nei discorsi delle persone.

C’è un sottinteso in queste frasi ed è ciò che dicevamo prima, cioè il richiamo alla coppia come luogo ideale, naturale, sicuro e definitivo della felicità.

Tutto ciò non è detto apertamente, è implicito nel tono di valore massimo che viene attribuito a questa condizione. È naturale rallegrarsi per un matrimonio in vista o per una decisione di convivenza: la coppia che decide di diventare ufficiale, stabile e quindi certa, dà in qualche modo la conferma che quelle persone sono felici e lo saranno ancor di più proprio grazie a questa stabilità.

In realtà ciascuno sa – per propria esperienza o indirettamente – che le cose non stanno esattamente così.

Eppure anche chi ha provato l’esperienza negativa di una coppia che non funziona, non cessa di desiderare un nuovo lui o una nuova lei con cui ricominciare la ricerca della felicità.

Si attribuisce il fallimento alla persona: “non era colui che immaginavo”, “è cambiato da quando l’ho conosciuto e mi sono innamorata di lui”…

Resta intatta l’idea della felicità, cioè l’idea della possibilità di giungere a questa condizione di massimo benessere, di totale soddisfazione per aver raggiunto ciò che si desiderava.

Anche in questo caso l’esperienza ci costringe ad ammettere che la soddisfazione per il desiderio realizzato è di breve durata e talvolta di debole intensità; spesso si sentono frasi del tipo: “non era come immaginavo”, “la felicità è durata solo un attimo e poi è tornata la quotidianità”…

La felicità sembra fuggire continuamente, talvolta pare avvicinarsi quando subito interviene qualche elemento di disturbo, un contrattempo, un’incertezza che le cose possano andare come si desidera.

Talvolta però il miracolo accade, si desidera fortemente, ci si dà da fare, e finalmente l’oggetto – o il soggetto – desiderato viene raggiunto: ecco quella sensazione di appagamento, di euforia, di vittoria. HO TROVATO LA FELICITÀ, SONO FELICE.

È certamente un momento, come si dice, di grazia, ma proprio per l’intensità delle emozioni che si provano sembra non permanere; è una scintilla che tende ad affievolirsi e diventando “normale” cessa di esistere.

Proprio così, la felicità è uno stato transitorio, costringe a cercare un nuovo obiettivo da perseguire, si sposta continuamente verso un’altra direzione anche quando raggiunge la mèta.

Allora forse è giunto il momento di chiedersi quali sono le condizioni a cui gli umani sono soddisfatti? Oppure, cosa realmente si desidera?

Certamente esiste un obiettivo ben identificato: per esempio un figlio, un lavoro che permetta una certa disponibilità economica, una vincita al lotto…

Esiste però la possibilità che – al di là di questo obiettivo specifico – il desiderio sia quello di poter condurre il gioco, di avere in mano la partita e poter decidere ciò che mi interessa.

In questo modo l’idea di felicità viene associata al fatto che le cose vadano come voglio: se tutto procede secondo i miei piani, se lui o lei si comporta come io desidero, allora posso dirmi felice, realizzato. Quello che si chiama esercizio di potere.

La fanciulla che presenta alle amiche il SUO fidanzato, la madre che parla di SUA figlia; nel momento dell’estasi amorosa, si sottolinea il godimento dicendo “SONO TUA / TUO, TI APPARTENGO”…

Ecco che le parole di tutti i giorni forse svelano ciò che spinge le persone più di ogni altra motivazione: conoscere i pensieri di qualcuno, poterli influenzare, poter intervenire nella vita di un’altra persona.

Una frase che normalmente si pronuncia “ti voglio bene”, implicitamente significa che io conosco quale sia realmente il tuo bene, lo so io e quindi tu stesso non lo sai; io so cosa sia meglio per te… io sono al di sopra dei tuoi pensieri perché tu stesso non sei consapevole di cosa sia il tuo bene… e quindi, se io sono sopra i tuoi pensieri, in qualche modo ti posseggo o – detto in altre parole – ti domino.

Qualche tempo fa riflettevo su come, all’inizio di una relazione sentimentale i due innamorati provino un impulso quasi irresistibile di conoscere tutto dell’altro: dall’infanzia, i tempi della scuola, le precedenti esperienze amorose e naturalmente le idee politiche, gli ideali, i desideri che vorrebbero realizzare nella loro vita. C’è un’ansia di conoscenza della vita dell’altro che porta a telefonargli 10 volte al giorno o a vedersi tutte le sere, a tempestarlo di messaggini, a voler essere presente anche a distanza…

Credo che questo bisogno di entrare nei pensieri e nella vita di un’altra persona, non sia casuale e che vada proprio nella direzione di cui parlavamo prima: conoscere i pensieri significa prevederli, poterli influenzare come si desidera.

D’altra parte ciascuno si è trovato a dire o a fare qualcosa solo per far piacere a qualcun altro, che a sua volta desiderava talmente tanto quella cosa o quelle parole da essere disposto ad accettare anche una menzogna.

E la bellezza dell’essere innamorati? Le travolgenti emozioni? Lo stomaco serrato e le palpitazioni?

Sono gli scenari delle nostre fantasie, i film che abbiamo costruito nel corso della vita immaginando i modi, i suoni, i volti, le parole che avrebbero realizzato il sogno della felicità assoluta.

Proprio quella che in una relazione di coppia rappresenta il desiderio di aver ragione di un altro.

In questo senso la coppia è realmente una condizione ideale di felicità, cioè un luogo in cui può svolgersi il gioco del potere tra le parti.

Non è necessario – né utile – scandalizzarsi di questo, stiamo parlando di potere senza necessariamente dovergli attribuire una connotazione morale e, soprattutto, stiamo parlando di un gioco. Esattamente, UN GIOCO dei quali entrambi conoscono le regole e al quale entrambi decidono di giocare, promettendosi implicitamente lealtà e fedeltà alle regole che quel gioco comporta.

Ciascuno dei due cercherà di conoscere i pensieri dell’altro e dominarli; ciascuno dei due vorrà portare il desiderio dell’altro dove egli desidera; ciascuno sarà assolutamente convinto di volere il bene dell’altro. È un equilibrio precario, ma finché funziona garantisce quella quota di felicità che si continua a rincorrere – chiamandola con il nome di un nuovo partner – anche quando la storia finisce.

Forse ciò che rende MANCATA la felicità è proprio il credere che si tratti di qualcosa che non appartiene alle decisioni della persona, che sta da un’altra parte, che non può essere modificato perché non dipende dalla persona stessa.

La felicità appartiene all’umano, non è esterna; è il frutto di pensieri umani e i pensieri sono parole, sono elementi linguistici..

Come dire che la felicità appartiene al linguaggio, è prodotta dal linguaggio nella forma e nella misura che i pensieri desiderano darle.

La felicità è realmente mancata quando non si conosce il funzionamento dei pensieri che stanno a monte, le premesse dalle quali procede, e passaggi per i quali – di desiderio in desiderio, di proposizione in proposizione – giungerà a concludere da qualche parte, non una qualunque, quella in cui tutti i passaggi e tutte le proposizioni precedenti saranno stati confermati come veri.

Gli elementi e i pensieri che non avranno trovato conferma, saranno stati eliminati, come una regola essenziale di questo gioco: vero/falso, se è vero, procedo; se è falso, mi fermo o vado in un’altra direzione.

La felicità allora procede nella direzione della verità, intesa come la conclusione vera di passaggi coerenti tra loro, a partire da una premessa a sua volta affermata come vera.

La felicità umana, così effimera e caduca, è tale perché continuamente alla ricerca della verità, di reperire una conclusione vera.

In altre parole, la felicità non è nient’altro che REPERIRE CONCLUSIONI VERE.

E il linguaggio è la CONDIZIONE di qualunque felicità.

Ma ancora, all’interno del gioco del linguaggio, la felicità è continuare a parlare, proseguire di proposizione in proposizione, in un rimando infinito verso nuove conclusioni.

Parlare, pensare, provare emozioni, immaginare… sono tutti elementi di questo gioco che è la condizione di qualsiasi gioco, così come di qualsiasi parola, pensiero, emozione o immagine.

Uscire dal linguaggio è impossibile, e cessare di utilizzarlo significa morire, non esistere.

La felicità è mancata perché si rincorre una felicità assoluta, ultima, cercandola in felicità relative, particolari a situazioni definite e circoscritte.

È come uno sguardo miope che puntando verso un orizzonte lontano, è costretto dal difetto visivo a fermarsi sulla linea in cui i contorni sono ancora riconoscibili, confondendoli con il paesaggio più lontano.

Il belvedere si arresta al di là del balcone, mentre ci si illude che ciò che si sta ammirando sia un orizzonte libero e ampio.

Oltre a ciò, non si può non considerare che – per quanto bellissimo – si stia contemplando soltanto il giardino sotto casa.

Scenografia a parte, sembra esserci un equivoco di fondo tra quella che si ritiene essere la felicità assoluta e che risulterà essere una illusione di felicità quando, presto o tardi, mostrerà il suo carattere specifico, relativo al gioco particolare che l’ha costruita.

Fino a quando non si impara a considerare ogni gioco, ogni discorso, per ciò che è: una sequenza logica di proposizioni coerenti tra loro, sarà inevitabile la disillusione della fantasia della felicità assoluta.

Allo stesso modo, la verità assoluta non è quella che conclude il discorso, anzi i tanti discorsi di ciascuno. Discorsi che anch’essi sono circoscritti a qualcosa di specifico, mentre vorrebbero giungere ad una verità definitiva e inconfutabile.

Forse, considerare che l’unico elemento irrinunciabile a univoco è il linguaggio, può aprire alla possibilità di una felicità più grande o, per ritornare alla metafora di prima, ad un orizzonte più ampio.

Da un lato, ciò che è particolare e si crede assoluto verrebbe riportato alle sue dimensioni effettive, ridotto ai minimi termini, cioè alla sua struttura di elemento linguistico al pari di tutti gli altri.

Ma dall’altra parte, si creerebbe lo spazio intellettuale per considerare ciò che non può non essere, ciò che determina il procedere di ogni discorso e cioè una struttura dal respiro infinito, regola e strumento per creare la totalità di ciò che esiste.

Qualcosa che realmente ha il potere di far esistere i pensieri, nel senso che lo stesso concetto di esistenza appartiene al linguaggio, è un elemento linguistico: ciò che può essere detto, pensato, considerato, non può non esistere.

Nemmeno se si sta negando l’esistenza: cioè mentre nego che qualcosa esiste, lo sto affermando come elemento linguistico (cioè come parte del linguaggio) e per questo solo aspetto, questo qualcosa esiste.

La non esistenza è qualcosa che non appartiene al linguaggio e poiché gli umani sono fatti di linguaggio, è qualcosa di non considerabile, di non umano.

Posso affermare che qualcosa non esiste come elemento linguistico, cioè è fuori del linguaggio, soltanto giungendo al paradosso di dover utilizzare ciò stesso che sto negando.

Con che cosa potrò affermare che qualcosa è fuori del linguaggio?

Qualsiasi cosa che sia considerabile con il pensiero acquista il carattere di esistenza nel momento in cui viene ad esistere come elemento linguistico, secondo le regole fondamentali del sistema operativo che chiamiamo linguaggio, prima tra tutte la possibilità di distinguerlo dagli altri elementi linguistici.

Il dilemma dell’esistenza si risolve allora alla radice della struttura che sorregge tutto: esistere significa essere DENTRO il linguaggio, parte del linguaggio.

Al di fuori c’è il nulla, anzi qualcosa di non definibile perché altrimenti sarebbe un elemento linguistico.

Al di fuori del linguaggio, c’è il non-linguaggio, il non-umano, l’inconoscibile.

Intervento:  mi sembra che la felicità sia quasi il contrario del linguaggio c’è più il silenzio vuoto al di là del linguaggio, che va al di là del linguaggio…

Il linguaggio non è uno strumento per esprimere un concetto ma è inteso come il sistema operativo, come la possibilità di pensare qualsiasi cosa, è la fonte stessa di qualsiasi pensiero, la possibilità di elaborare qualsiasi considerazione, non semplicemente la verbalizzazione di un pensiero. La felicità come dicevo prima è raggiungere ciò che si desidera al di là del desiderio specifico. Ciascuno può mettere all’interno del proprio discorso, della propria vita, di quello che pensa, di quello che sono i suoi pensieri, i suoi valori, al di là di questo desiderio specifico forse quello che si ricerca è qualche cosa di diverso, è vero che raggiungere questo obiettivo specifico molte volte non è sufficiente, non appaga completamente, è necessario spostare questo desiderio in un’altra direzione e c’è questo richiamo a una felicità assoluta che è intesa come la ricerca della felicità assoluta. Faioni, se vuole aggiungere qualche cosa per rispondere alla signora…

 

Intervento di Luciano Faioni

 

La felicità, diceva giustamente Daniela, è considerata comunemente come il raggiungimento di un obiettivo desiderato, ciascuno in qualche modo cerca di essere felice, in fondo è l’obiettivo di tutti gli umani da quando c’è traccia di loro, difficilmente qualcuno cerca di essere infelice, però è una questione che merita di essere considerata questa della felicità perduta, anche perché di fatto si considera generalmente un concetto abbastanza personale, soggettivo, è chiaro che una persona è felice in alcune circostanza e un’altra in altre, cionondimeno ciascuno cerca questa felicità, però forse occorrerebbe porsi questa domanda “che cosa cerca esattamente?”, è possibile definire la felicità in modo tale che possa essere utilizzata e applicata a ciascuno? Potremmo dire che è ciò che ciascuno cerca comunque come ciò che è più desiderabile, o forse chiama ciò che è più desiderabile felicità. Ma sia come sia essendo, come dicevo un concetto molto personale, ciascuno la trova dove ritiene più opportuno, per esempio un bimbetto di quattro anni è felice quando gli si da una caramella, infelice quando gliela si sottrae, cioè ha raggiunto anche lui un obiettivo ma perché raggiungere un obiettivo comporta la felicità? Potrebbe non essere così automatico anche se poi di fatto nel quotidiano lo è, però nessuno si chiede come mai il raggiungimento di un obiettivo desiderato comporta la felicità, perché?

Intervento: appagamento…

Si certo, però sposta soltanto la questione, è come se la cosa girasse in tondo, appagamento sì produce ferità e la felicità è l’appagamento, è soddisfazione però sembra difficile uscire da questo. Riprendiamo la questione che Daniela aveva sollevata, e cioè la connessione tra la felicità e il linguaggio, diceva che in effetti se non ci fosse il linguaggio, se non esistesse il linguaggio non ci sarebbe neanche la felicità, così come non ci sarebbe l’infelicità, non ci sarebbe né la soddisfazione, né l’insoddisfazione, né alcuno potrebbe mai porsi una questione del genere fuori del linguaggio, ed ha precisato bene che il linguaggio non è la verbalizzazione di qualcosa, ma adesso vedremo di che cosa è fatto il linguaggio. Austin, un filosofo del linguaggio, disse delle cose interessanti, parlava di enunciati felici, per esempio un enunciato è felice quando soddisfa i requisiti di cui è fatto; faccio un esempio molto banale, faccio un esempio che faceva lui: se io in questo istante vi dicessi che sto varando una nave, mancano i requisiti perché questo enunciato sia felice cioè soddisfi i requisiti, o più propriamente le regole di cui è fatto, perché non c’è il mare, non c’è nessuna nave, sono sprovvisto di una bottiglia di champagne. Ma se io invece fossi al porto di Genova, di fronte a una bellissima nave, a tracolla una fusciacca, provvisto di bottiglia nell’atto di lanciarla sulla chiglia della suddetta nave, ecco che allora questa affermazione che dice che sto varando la nave sarebbe felice, diceva Austin, cioè soddisfa i requisiti, in questo caso i requisiti sono che appunto ci siano tutte queste condizioni, e allora dire che varo una nave è un enunciato felice, se no è infelice, se io lo pronunciassi qui compirei un enunciato infelice. Forse la questione può essere ampliata, nel senso che una qualunque affermazione potrebbe essere felice o infelice a seconda che soddisfi oppure no i requisiti del sistema che la fa esistere questa affermazione, cioè il linguaggio. Prendete una affermazione, un’affermazione qualunque: “questo è un orologio”, direbbe Austin che affermare questo è un’affermazione felice, perché questo è effettivamente un orologio, ma che cosa ho fatto con questo? Mi sono semplicemente attenuto a delle regole stabilite dal linguaggio, ma se andassimo oltre potremmo considerare che l’enunciato: “questo è un orologio” potrebbe anche non essere così felice perché al di fuori di queste regole che sono totalmente arbitrarie questo enunciato non significa niente, così come qualunque affermazione, anche la più ferrea. Pensate alle affermazioni che produce il discorso scientifico, sono felici? Cioè sono vere? A questo punto appare essere la stessa cosa, sì in un certo senso sì, sono vere, sono vere se si attengono ai criteri che abbiamo stabilito per decidere che cosa è vero, così come se si stabilisce giocando a carte che un asso vale più di un sette, se io mi attengo a queste regole posso considerare che questa regola all’interno di quel gioco a carte che sto facendo è vera, certo, ma al di fuori? Al di fuori non significa niente, quindi come direbbe Daniela è una felicità caduca, relativa a un gioco particolare e assolutamente arbitrario ma che non garantisce niente, perché al di fuori del gioco l’affermazione, compresa questa che dice che questo è un orologio non significa niente. Detto questo, è possibile giungere a un enunciato che sia felice? C’è la possibilità di costruire un enunciato che sia assolutamente felice e cioè vero non soltanto rispetto a un gioco particolare ma vero comunque anche al di fuori di quel gioco particolare, che sia felice sempre comunque in qualunque circostanza? È possibile questo? In fondo è ciò che gli umani hanno sempre cercato, l’idea della verità assoluta, quella che rende felici per sempre, molti l’hanno cercata in una religione, per esempio, ricordate il catechismo? Cosa diceva dio? Io sono la via, la verità, la vita. Il fatto che dicesse la verità anziché la falsità non è del tutto indifferente Trovare la verità assoluta da sempre è considerato l’obiettivo finale, perché si considera che il riconoscimento, il reperimento della verità assoluta costituisca il godimento assoluto. Tant’è che nella religione cattolica, il godimento assoluto qual è? È la contemplazione di dio, ma questo dio che cos’è? È la verità assoluta. La contemplazione dunque della verità e di conseguenza del bene assoluto. Come diceva giustamente Daniela è il luogo comune a mostrare il più delle volte la questione, anche se non è in condizione di affrontarla e tanto meno di risolverla, però la indica mostrando che la felicità assoluta è connessa con il reperimento di qualche cosa che è considerato dal discorso come la verità assoluta, cioè il bene assoluto, che sono la stessa cosa. Lo dicevano anche alla la Scuola di Chartres, sì, dicevano alcuni intorno al dodicesimo secolo, che si erano radunati nella cattedrale di Chartres, avevano elaborato, studiando, compulsando attentamente e lavorando sulle Sacre Scritture, che il bene equivale al vero. Non è il fatto che lo dicessero loro che ci garantisce nulla ovviamente, però quanto meno ci fa considerare la questione. Allora ciascun enunciato felice, nell’accezione austiniana del termine, appare caduco, diceva giustamente Daniela, cioè relativo al gioco particolare così come il bimbetto che è felice perché gli si da la caramella, la felicità degli adulti è diversa? No, è la stessa cosa, magari anziché una caramella ne vuole due, tre, mille, una fabbrica di caramelle, una multinazionale di caramelle, però la struttura non è così lontana. Ma avevo accennato poc’anzi alla possibilità di costruire un enunciato che sia felice in modo assoluto. Cosa vuole dire assoluto? Che non ha soluzione di continuità, cioè è vero sempre. Occorre che sia vero assolutamente, che sia un bene non particolare a qualcuno o a qualcosa, a una persona o a un ideale, a una religione o qualunque cosa sia non ha rilevanza, perché sia felice questa affermazione, questa proposizione occorre che sia assolutamente vera, e cosa vuole dire che sia assolutamente vere? Che non possa essere falsificata, da nessuno in nessun modo, questo non è semplice, però se si trovasse una cosa del genere sarebbe l’equivalente del concetto di dio per i religiosi, dio è vero sempre e comunque, non può essere messo in discussione se no se ne ha a male, ma la questione è che la cosa non può essere comunque trovata tant’è che suggeriscono di avere fede. Ma invece è possibile trovare qualcosa di totalmente, inesorabilmente, necessariamente vero, senza avere un briciolo di fede? E se fosse possibile? La questione potrebbe apparire complicata ma in realtà è molto semplice. Considerate ancora Austin: l’enunciato è felice quando soddisfa i requisiti di cui è fatto, dunque se portiamo la cosa alle estreme conseguenze, un enunciato è felice se soddisfa le condizioni di ciò che è la condizione stessa dell’enunciato, vale a dire il linguaggio. Quali sono i requisiti del linguaggio? Il primo è che è la condizione per potere pensare, stabilire un requisito, stabilire un criterio di verità, decidere cosa è bene e cosa è male, decidere cosa è vero e cosa è falso, decidere cosa fare la sera, decidere cosa fare al mattino, ma perché è la condizione? Perché è fatto in modo tale per cui da una cosa che si chiama premessa, passa a un’altra che si chiama conclusione, il linguaggio è questo, è nient’altro che questo, una struttura che consente di passare da una premessa a una conclusione e come ciascuno di voi sa qualunque decisione è fatta di questo, se questo allora quest’altro, e questa si chiama inferenza ed è possibile grazie al linguaggio, che è questo, nient’altro che questo e dunque se il linguaggio è la condizione di qualunque cosa allora se io costruisco questa affermazione: “qualsiasi cosa è un elemento linguistico” questa affermazione è sempre necessariamente vera, o c’è anche un solo caso in cui non lo è? Basta un solo caso in cui non lo sia perché sia arbitraria, ma quale caso? È possibile che questa affermazione possa non essere vera? Perché io possa costruire una dimostrazione che provi una cosa del genere che cosa dovrò utilizzare, ci spiegava prima in modo preciso Daniela: il linguaggio naturalmente, è ovvio, che altro se no? Per costruire qualunque criterio di verità o di falsità, o per dire che questa affermazione non mi piace oppure mi piace avrò bisogno comunque di questa struttura che chiamiamo linguaggio, senza la quale neanche questa questione si sarebbe potuta mai porre, appare l’unica affermazione necessaria. Intendo con necessario ciò che non può non essere, perché se non fosse allora non sarebbe né questa né nessun altra. Dunque affermare che qualsiasi è un elemento linguistico è necessario, e questa affermazione necessariamente vera. Questa affermazione non può essere negata, non può essere confutata in nessun modo, naturalmente può apparire che detta così non abbia alcuna utilità, invece ce l’ha. Provate a considerare che qualunque cosa pensiate, speriate, desideriate, tutto sia fatto di stringhe di proposizioni, le quali proposizioni rinviano ad altre proposizioni, all’infinito. Il linguaggio è un sistema al tempo stesso chiuso e aperto, chiuso perché non c’è uscita, in qualunque modo tentiate di uscirne dovrete usarlo, aperto perché vi dà la possibilità di costruire un numero infinito di proposizioni, quindi di pensieri, di discorsi, di immagini, di scene, di attese, desideri, affanni, sofferenze, dolore e tutto quello che volete. Il linguaggio è un sistema operativo, costruisce proposizioni, quali siano queste proposizioni è totalmente indifferente. Possiamo distinguere il discorso dal linguaggio: il linguaggio è ciò che produce continuamente discorsi, sequenze di proposizioni provviste di senso, cioè costruite utilizzando delle precise regole di formazione. Si tratta dunque di tenere conto di questo in ciascun discorso, in ciascun pensiero, che ciò di cui si tratta sono elementi linguistici, stringhe di proposizioni e che l’obiettivo del linguaggio è soltanto quello di proseguire se stesso, non ce n’è altro, potrebbe, dico potrebbe, fare considerare l’esistenza stessa in modo differente, il rischio è quello di perdere travolgenti emozioni, però è un rischio che qualcuno può osare di correre. Sapete tutti benissimo che gli umani cercano emozioni fortissime, e le trovano in un modo o nell’altro, la sofferenza è il sistema più rapido, la felicità meno perché la felicità è momentanea, è caduca, mentre la sofferenza può durare anni. Ecco dunque perché giustamente Daniela poneva la connessione tra la felicità e il linguaggio, non soltanto perché in assenza di linguaggio non si potrebbe neanche porre la questione della felicità, né nessun altra ovviamente, ma perché l’enunciato è felice quando ha a fondamento qualcosa di necessariamente vero, allora è supportato da qualcosa di straordinariamente potente e tutto ciò che si costruisce a partire da lì lo sarà altrettanto. Questo ha come effetto immediato il cessare immediatamente di avere bisogno di avere paura, per esempio, e di conseguenza abbandonare la quasi totalità delle proprie sofferenze, avere l’opportunità di accorgersi che non è necessario soffrire. Mi rendo conto di avere dette cose non semplicissime anche se ho cercato di renderle il più semplice possibile, che ci sia riuscito questo è un altro discorso…

Intervento: il linguaggio… la questione importante di cui stiamo dicendo questa sera, Daniela prima spiegava alla signora che il linguaggio non è un mezzo per esprimere quelle che sono le proprie sensazioni, le proprie emozioni ma il linguaggio è tutto ciò che costruisce le emozioni, questo è fondamentale laddove si abbia la possibilità di interrogarsi sulla condizione per cui qualsiasi cosa esista, la condizione per cui qualsiasi cosa esista è che esista una struttura, quella che noi chiamiamo linguaggio ma questo fa sì a questo punto di accorgersi che il linguaggio, le cose che dico non è un mezzo per dire delle cose, la signora parlava prima della felicità che è quasi contraria alla nostra descrizione della felicità all’interno del linguaggio, e diceva che anzi la felicità è il silenzio cioè qualcosa che avviene all’interno di sé, ecco la signora considerava il linguaggio come comunemente viene considerato cioè un mezzo per descrivere quelle che sono le proprie emozioni, le proprie sensazioni e invece no se uno può considerare che il linguaggio è l’unica necessità, la verità assoluta perché qualsiasi cosa esista, ha l’opportunità di considerare che il linguaggio non è un mezzo ma è qualcosa che produce le cose che io vado dicendo per cui se io credo che le cose stiano in un certo modo le cose stanno in quel modo e non c’è assolutamente modo di interrogarle e quindi di proseguire a dire, a parlare, per esempio di trovare un altro gioco, di trovare un altro modo perché se io penso che il linguaggio sia un mezzo per descrivere la realtà quella realtà che devo descrivere non può mutare, è vero, è necessario quindi io non posso assolutamente nulla nei confronti di quella realtà… questo mi pareva assolutamente essenziale: accorgersi che il linguaggio non è un mezzo…

Ciò che gli umani hanno cercato da sempre, dai presocratici, da Socrate, Platone con l’Iperuranio, e poi il motore immoto e poi dio, e poi le cause naturali, hanno sempre cercato quale fosse la condizione di tutto, da sempre, perché se è la condizione è responsabile di tutto, senza accorgersi che la condizione di tutto ciò è sempre stata lì a portata di mano, sotto gli occhi di tutti e non era nient’altro che ciò che consentiva di domandarsi: “qual è la condizione di tutto?”. Qual è la condizione di questa domanda? Che esista una struttura che mi consenta di pensare, che chiamiamo linguaggio. Una struttura che consente di pensare, la condizione, quella che gli umani hanno sempre cercata, quella che immaginavano che una volta trovata comportasse la felicità assoluta, addirittura diceva Heidegger l’arrestarsi del desiderio, se gli umani trovassero, diceva lui, ciò che hanno sempre desiderato sarebbe una catastrofe per loro perché cesserebbero di esistere. Non è stato così, io l’ho trovata e sto benissimo. Può accadere in alcuni casi che il raggiungimento della felicità comporti la tragedia, la catastrofe, ne parla Freud per esempio in un celebre saggio “Coloro che soccombono al successo”, però non tutti coloro che trovano il successo soccombono, moltissimi stanno benissimo, in ogni caso come dicevo il linguaggio è ciò che gli umani hanno sempre cercato, da quando esistono: la condizione di tutto…

Intervento: mi ha fatto venire in mente… la questione delle emozioni qui c’è la difficoltà del luogo comune, del pensiero occidentale a considerare le emozioni prodotte dal linguaggio e in effetti fa pensare tutte le considerazioni intorno alle emozioni confluiscono con il pensiero magico, quasi come dire che queste emozioni si producono così dal nulla anche la psicologia tutto sommato senza arrivare a credere che si producono dalla magia fa un discorso che però…

È sicuro?

Intervento: la psicologia dice di non credere alla magia poi ovviamente fa delle costruzioni tali per cui questo punto di domanda rimane alla fine fa pensare che queste emozioni vadano da sé… e allora per dare un piccolo contributo rispetto alla questione delle emozioni basta riprendere quella che era la nozione di felicità che ha dato Daniela “il soddisfacimento di qualche cosa di desiderabile” ma il più desiderabile come è tale? Cioè più desiderabile? Se non perché c’è la possibilità di poter costruire un giudizio? Anche estetico… morale di qualunque genere e la possibilità di creare un giudizio, di fornire un giudizio, di costruire un giudizio viene dal linguaggio perché è un pensiero, è una serie di pensiero che giungono ad un certo punto a concludere che questo qualche cosa è desiderabile, ciò che desidero di più è ciò che per me costituisce una volta raggiunto la felicità e quindi si torna al funzionamento del pensiero, al funzionamento del linguaggio, è una conclusione quindi attiene a qualche cos’altro… anche Peirce diceva che le sensazioni sono il prodotto di un’inferenza cioè non esistono così di per sé ma qualche cosa è bello, qualche cosa è buono, qualche cosa è fastidioso, qualche cosa mi fa paura in seguito a che cosa? In seguito a un ragionamento, a una elaborazione che comunque mi è consentita dal linguaggio. la condizione perché io possa fare questo è il linguaggio quindi si può dire che la condizione di qualunque emozione è il linguaggio…

Intervento:…

Questa è una bella questione, per un verso è noto da sempre che una persona triste, depressa, si ammali più facilmente di quella allegra e contenta, già dai tempi di Aristotele si parlava di una cosa del genere, però fino a che punto interviene il pensiero sul corpo? Questa è una bella questione, nessuno di fatto ha mai posta la questione in termini precisi, meno che mai i medici che sono molto lontani, però effettivamente come accade ciascuno lo esperimenta e lo ha esperimentato un sacco di volte, quando i suoi pensieri sono sereni, quando è felice anche il suo corpo sta meglio e così a questo punto si può porre la domanda: fino a che punto i miei pensieri agiscono su questa cosa che chiamiamo corpo?

Intervento: io ritengo molto…

Infatti in seguito a una tale comunicazione la persona sta malissimo, ma di fronte a una rassicurazione ecco che torna il benessere, il corpo torna a stare bene, magari prima c’era una arrabbiatura tremenda ma è un altro discorso, l’arrabbiatura produce adrenalina, uno si agita e si dimentica che è malato però certo questa è una questione che forse un giorno si tratterà di affrontare in modo preciso perché è tutt’altro che semplice intendere fino a che punto il pensiero agisce sul corpo tanto da ucciderlo in alcuni casi, e così come lo uccide può anche farlo vivere, però come dicevo non è una questione semplice…

Intervento:…

È noto da sempre, è quasi luogo comune che il neofita, colui che all’improvviso abbraccia una religione sia è una persona felice, entusiasta etc. perché ha trovata la verità e la verità ha un potentissimo effetto terapeutico, il trovare la verità, così come la soluzione di un problema…

Intervento: la felicità, raggiungimento di un obiettivo… Si passa sempre a un giudizio superiore, nel momento in cui si raggiunge… raggiungendo la verità assoluta nel fatto che il linguaggio…

La definizione di felicità come raggiungimento di un obiettivo in effetti non è una definizione necessaria, è quella che fornisce il dizionario e come tale molto discutibile, tant’è che mi ero rivolto a un filosofo del linguaggio che aveva parlato di felicità in un modo che potrebbe essere più interessante, cioè un enunciato che soddisfa i suoi requisiti, in questo caso la felicità non è propriamente un’emozione ma l’enunciato che tiene conto della sua condizione e non può non tenerne conto, è l’enunciato che è felice, io posso essere soddisfatto di conseguenza. Forse a questo punto se si pone la questione in termini radicali si potrebbe anche cessare di porsi la questione se l’essere felici oppure no abbia qualche interesse, per esempio, non esiste più la questione, sa perché pensa le cose che pensa, a questo punto, come dicevo, c’è l’eventualità che la questione di essere felice oppure no perda di interesse; c’è l’opportunità di abbandonare ogni illusione di trovare il bene assoluto in qualche cosa, così come trovare la verità da qualche parte poiché la si conosce già, quindi non la si cerca più. A questo punto intanto si pensa in un altro modo, il proprio pensiero comincia a modificarsi, si cessa di credere a un’infinità di cose a cui gli umani credono perché di fatto vanno verso una verità sconosciuta, ma se questa verità la conoscessero già? Non la cercherebbero più ovviamente anzi, non soltanto non la cercherebbero ma farebbero in modo che operi in ciascun pensiero, ma cosa significa questo? Significa sapere sempre perché si pensano le cose che si pensano, sapere perché se un certo fanciulla mi abbandona soffro, non è una cosa naturale né automatica, potremmo dire che è una conseguenza di tutta una serie di questioni alle quali occorre credere perché funzionino in quel modo, cioè se uno non credesse a tutte queste cose, non succederebbe niente. Modificare il modo di pensare, questa è una questione fondamentale, e non è che qualcuno lo modifica propriamente, ma si modifica da sé nel momento in cui reperisce le proprie condizioni. Ci sono delle condizioni che modificano totalmente il proprio modo di pensare, di vedere certe cose, se per esempio gli amici venissero a sapere che invece di fare lo psicanalista e occuparmi di certe cose fossi un agente del kgb, da quel momento in poi mi vedrebbero in modo differente, non solo, ma tutto ciò che ho fatto prima verrebbe visto in modo differente. È mutato il modo di pensare, è bastata una piccola, semplice informazione ed è cambiato tutto, così come una fanciulla viene a sapere appunto che il fanciullo si sta intrattenendo con un’altra, basta questa piccola informazione per cambiare tutto, le cose non sono più come prima, e allora occorre trovare qual è quella piccola informazione che consente a tutto il sistema di pensiero di quella persona di modificarsi. Tecnicamente è possibile costruirlo, praticamente è straordinariamente difficile fare in modo che un elemento intervenga all’interno di un sistema di pensiero e lo modifichi, cioè costringa il discorso a tenere conto delle sue condizioni continuamente in modo tale che non possa più non farlo, ininterrottamente, sarebbe qualcosa di prossimo a ciò che in informatica si chiama un virus, che modifica il sistema. È una bella scommessa trovare quella sequenza che modifica il modo di pensare, sappiamo che è possibile, gli esempi che facevo prima molto banali lo mostrano, talvolta basta una minima informazione e tutto il proprio modo di pensare cambi, almeno in parte, può crollare il mondo addosso per una piccola informazione, questo lascia intuire che tecnicamente è possibile, ma praticamente è molto complicato costringere un sistema operativo a tenere conto delle proprie condizioni sempre e comunque, come se la persona, e in fondo questo è l’obiettivo, non potesse non sapere e di conseguenza non tenere conto di cosa accade in ciascun istante, qualunque cosa pensi o faccia, che tutto ciò che fa e pensa sono stringhe di proposizioni mosse da altre proposizioni e che il referente di tutto ciò sono altre proposizioni e via all’infinito, e che al di fuori di questo non c’è niente, non c’è mai stato niente e non potrà mai esserci niente. Tenere conto di questo costantemente, ventiquattrore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni l’anno e non potere non farlo, questo è l’obiettivo, poi vedremo cosa succede. Bene, a questo punto non mi resta che ringraziare Daniela e ciascuno di voi per essere intervenuti. Giovedì prossimo ci sarà la conferenza di Cesare Miorin che ha un bel titolo: “il tradimento nella coppia” perché talvolta accade che all’interno di una coppia intervenga il tradimento, e se volete sentirne di più vi aspettiamo giovedì prossimo. Grazie e buona notte.