HOME

 

 

Torino, 23 ottobre 2008

BIBLIOTECA CIVICA DIETRIC BONHOEFFER

 

LA PAURA, IL DISAGIO E LA DEPRESSIONE.

Da Freud ai giorni nostri, che cosa è cambiato?

 

IL DISAGIO NON È UNA MALATTIA

 

Sandro Degasperi

 

 

Innanzitutto vi ringrazio di essere qui al secondo appuntamento di questa serie di incontri dal titolo “La paura, il disagio e la depressione: da Freud ai giorni nostri, che cosa è cambiato?”.

Il nostro intento, come Associazione, è quello di portare all’attenzione di un certo pubblico delle informazioni in più rispetto alla psicanalisi.  E questo ci sta molto a cuore, cercando di superare quello che è nell’immaginario collettivo la psicanalisi, che ha avuto nei decenni scorsi un torto non indifferente, quello di lasciar passare una divulgazione, una vulgata di psicanalisi, che è assolutamente lontana dalla psicanalisi così come è nata con Freud. Già sin dalla sua morte, la psicanalisi ha subito uno scivolamento verso lo psicologismo, scivolamento che ha relegato la psicanalisi nell’ambito di una ideologia di tipo medico-psicologistico.

Nell’immaginario collettivo lo psicanalista è considerato come una figura molto vicina a quella del guaritore, ovviamente un guaritore di un certo tipo, perché se uno ha mal di pancia si rivolge a un medico mentre se ha qualche problema come un’ansia, una fobia, una depressione, allora si rivolge allo specialista di malattia nervose o psichiche, e lo psicanalista è considerato uno di questi specialisti.

So quanto è difficile oggi come oggi definire esattamente cosa distingue uno psicanalista da uno psicoterapeuta, perché tra questi due personaggi c’è una differenza abissale, senza parlare poi della psichiatria. Spesse volte mi sono trovato nell’occasione di essere richiesto di spiegare questa distinzione tra lo psicanalista, lo psicoterapeuta e lo psichiatra, e vi dirò che è molto difficile perché ci si scontra inevitabilmente con quello che è un luogo comune, ormai consolidato da decenni come vi dicevo prima. Ecco perché questi incontri, che vengono da molto lontano, la nostra Associazione ha venticinque anni di vita, e il lavoro di questa Associazione è stato proprio quello di riportare la psicanalisi nella sua specificità, nella sua particolarità. In questo lavoro, tuttavia, ci siamo trovati nell’occasione non solo di fare questo ma di andare oltre, molto oltre. Il nostro lavoro, il lavoro teorico ha, come dicevo, venticinque anni ma l’Associazione in quanto tale, come Scienza della Parola, è nata nel 1992, cioè, sedici anni fa. Questa data ha segnato una svolta nel nostro percorso, perché Scienza della Parola? Perché, certo, c’era il desiderio di restituire la sua specificità alla psicanalisi, ma nel frattempo ci siamo accorti di moltissime altre cose, ci siamo accorti, per esempio, che mancava nella psicanalisi quello che era già accaduto in altri settori, come la linguistica, la semiotica, come la retorica, ecc., e cioè l’attenzione per il linguaggio.

Ora, considerate che l’analista è come un artigiano che utilizza un unico strumento per esercitare il suo mestiere, la parola. E, quindi, potete ben immaginare quanto sia importante, essenziale, sapere come funziona questo strumento, la parola. Ecco, in questi anni ci siamo dedicati a questo, a conoscere il funzionamento del linguaggio. La volta scorsa abbiamo avuto modo di introdurre la questione, mi rendo conto che il tempo è pochissimo, che è molto difficile dire tutto quanto nell’arco di un’ora e mezza, e ci siamo accorti come questa questione del linguaggio abbia molto sorpreso le persone che ascoltavano, forse perché ci si aspetta da uno psicanalista racconti intorno a casi clinici, descrizioni di malanni vari, e invece abbiamo terminato la volta scorsa parlando in modo stringente della questione del linguaggio, lasciando qualcuno anche un po’ sconcertato.

La psicanalisi certamente comporta anche un aspetto clinico, che è quello che investe l’analista nel momento in cui si trova a parlare con un analizzante, ma c’è anche un aspetto teorico, che è fondamentale. Non c’è una pratica senza una teoria, una pratica va inevitabilmente nella direzione stabilita da quelli che sono considerati i principi teorici basilari, qualunque essi siano, e accolti dall’analista.

E, quindi, come dicevo, ci siamo ritrovati a rimescolare le carte nell’ambito della psicanalisi, a creare una sorta di scompiglio, puntando tutto il nostro interesse teorico sulla questione del linguaggio.

L’analista, come dicevo prima, ha a che fare con un unico strumento, la parola.

Vi piacciono le storie? Sì? Bene, se non siete psicanalisti allora avete sbagliato mestiere perché voi per ascoltare una storia siete costretti ad andare al cinema, al teatro, a comprare un romanzo, ecc., mentre noi psicanalisti le ascoltiamo tutti i giorni, ne ascoltiamo delle belle, come mi diceva una volta un’amica, e ci pagano pure. In effetti, è proprio questo che accade in una analisi, si racconta una storia, ciascuno inizia un’analisi incominciando a raccontare la propria storia. Per dirla in termini molto semplici, una analisi non è altro che l’analisi di una storia. Ora, l’analisi di ciascuno ha la stessa struttura di tutte le storie, di qualunque storia, come dicevo prima, di un film, di un romanzo, perché anche questi sono strutturati come storie. Parte da qualcosa, si inizia a parlare a un certo punto, qualunque cosa si tratti, e questo possiamo chiamare l’esordio. Poi, il racconto prosegue, prosegue proprio perché si è detta quella cosa, e quindi ci sono vari passaggi, passaggi che devono essere coerenti con ciò da cui si è partiti, per cui si fa quindi tutta una serie di considerazioni e, dopo questo, come tutte le storie, si arriva a una conclusione. Questa conclusione può essere una felice conclusione oppure può evidenziare un problema risolto malamente o addirittura non risolto.

Cosa interessa all’analista? Non interessa ovviamente e solamente ascoltare la storia. Quando si parla di ascolto dell’analista, che è un elemento direi fondamentale, si parla di un certo modo di ascoltare questa storia, perché questa storia, per la persona che la sta raccontando, ha la prerogativa di essere creduta così come viene raccontata, è così com’è, è la realtà, la realtà dei fatti. Quindi, ciò che la persona racconta è la descrizione di quanto è avvenuto o che immagina che sia accaduto, una successione, di eventi, di circostanze, una descrizione di sentimenti, di emozioni, ecc. Che corrisponda alla realtà dei fatti comporta che a questa storia la persona creda moltissimo, ed è proprio questo il motivo per cui questa persona non abbandona questa storia.

Il fatto di credere a questa storia è anche ciò che la porta a raccontarla sempre allo stesso modo.

Cosa fa l’analista, allora? Beh, ciò che fa non è altro che interrogare questa storia, perché ciò che a lui interessa è sapere da dove viene, come si è costruita, e soprattutto che cosa la mantiene. Prendete, per esempio, una persona che vive  una fantasia di abbandono o di rifiuto, è una fantasia abbastanza comune. Il suo racconto magari esordisce denunciando il fatto di sentirsi sempre rifiutato … mi viene in mente a questo punto un esempio concreto, una ragazza di circa trent’anni si era rivolta a me, laureata a pieni voti ma che a trent’anni viveva ancora di piccoli lavoretti, senza riuscire a trovare uno sbocco che fosse per lei soddisfacente. Questo perché ogni volta che aveva un colloquio di lavoro, e ne aveva avuti molti, in cui era in ballo qualcosa di importante per lei e che avrebbe significato riuscire a darsi una stabilità e finalmente lavorare in modo soddisfacente, ebbene ogni volta lei veniva sopraffatta dal panico, era letteralmente terrorizzata. Era inevitabile, potremmo dire, che questo suo modo di reagire destasse qualche perplessità nel suo interlocutore e difatti veniva congedata con un “le faremo sapere” e poi ovviamente non le veniva fatto sapere nulla. Questa ragazza dopo diversi anni, dopo ripetuti tentativi finiti male, si era ritrovata nella disperazione più completa, si vedeva senza futuro, tutti i suoi sacrifici vanificati, ecc. E aveva capito che era la sua paura a determinare ciascuna volta il fallimento.

Questa fantasia di abbandono, perché anche in questo caso possiamo parlare di una fantasia di abbandono, era già lì, era già presente nel suo discorso, solo che sino ad allora non aveva avuto una grande importanza perché non aveva ancora trovato qualcosa, diciamo tra virgolette, di “reale” a cui agganciarsi per potersi manifestare. Questa ragazza ovviamente non sapeva nulla di tutto ciò, per lei la cosa si limitava al fatto che ogni volta che si presentava quella determinata situazione la reazione era la paura, il panico, cosa che lei non voleva, a suo dire, anzi… Questo per dire che alla base di questa che è la sua storia di quegli anni c’era questa fantasia di rifiuto.

Ovviamente, la richiesta di questa persona era di liberarla da questa fantasia, o meglio, liberarla dalla sua paura, perché per lei non era in questione una fantasia ma la paura in quanto tale. È così anche nel discorso comune, non si tratta di liberarsi da una fantasia ma da un sintomo, ma questo sintomo è sostenuto da una fantasia, cioè, da un pensiero. Anche Beatrice diceva la volta scorsa, il sintomo è retto da pensieri. Il pensiero è fondamentale, sono l’unica cosa che ciascuno ha, sono l’unica ricchezza di ciascuno.

Ma, per tornare al nostro esempio, di che cosa si è trattato lungo l’analisi? Si è trattato lungo l’analisi di fare delle domande, perché questa storia procedeva sì nel suo racconto attraverso vari passaggi però c’era modo di accorgersi di qualcosa che non funzionava come se questi passaggi procedessero troppo rapidamente, come se si volesse sorvolare su qualcosa. In questo caso il compito dell’analista è quello di fare delle domande esattamente lì su quella questione che la persona vuole evitare. Cosa vuole evitare? Qualcosa che probabilmente la infastidisce, e il tentativo, si sa, di fronte a qualcosa che infastidisce è quello di farlo tacere, di zittirlo. Tuttavia, questo qualcosa che dà fastidio non lo si riesce a zittire completamente, in qualche modo opera, in qualche modo funziona sempre. Ecco che allora il compito dell’analista è quello di fare le domande, anche le più impertinenti, anche le più sconvenienti, fare quelle domande che richiedono quelle risposte che la persona ha in qualche modo preferito tacere da sempre. Se prestate attenzione a questo particolare potete intendere il fatto che il fare queste domande su qualcosa di cui non si vuole sapere comporta che nuovi elementi si aggiungono alla storia e, aggiungendo questi elementi, comporta una sorta di cambiamento di direzione. Questo qualcosa che non può più essere taciuto, se non altro perché l’analista mette la persona in condizioni di dovercisi confrontare, implica che tutta la storia, questa costruzione, va a modificarsi. Rispetto a questa ragazza, questa paura di essere rifiutata, e rispetto alla quale c’è una certezza, perché sapeva con certezza come sarebbe andate le cose… Un po’ come accade nelle relazioni sentimentali, accade che qualcuno lamenti che le proprie relazioni terminano sempre malamente, è sicuro che anche la prossima volta finirà male, ha una certezza assoluta. Ora, la domanda che si potrebbe fare è “ma come fai ad essere così sicuro che andrà male. Ci sono miliardi di persone al mondo, da dove viene questa certezza?”. È come se questa storia dovesse ripetersi sempre allo stesso modo, come se la persona, diciamolo tra virgolette per il momento, “volesse” che le cose accadano proprio in quel modo.

L’analista sa che la propria storia non è qualche cosa che si impone dall’esterno. Ciascuno immagina di avere una propria storia e immagina che sia quella, la “mia” storia, non sa che l’ha costruita questa storia ma dice “ho” una storia, come se la propria storia fosse la somma di circostanze accadute in modo casuale, mentre non è così, e infatti questa sicurezza per cui si dice che le cose andranno sempre in quel modo dice anche di come la propria storia prende la direzione che la persona vuole che abbia, nel senso che è la persona, o meglio, il discorso che costruisce la propria storia.

Occorre che un’analisi giunga a questo, a riconoscere la responsabilità nella costruzione della propria storia, nel senso che si tratta di reperire quegli elementi che sono alla base di questa costruzione che è la storia, che non sono gli eventi a fare la storia ma è la storia a pilotare gli eventi. Per dirla in termini più semplici, porre la persona in condizioni di accorgersi che è lui l’autore e non solo il personaggio di quella storia e che le cose sono andate in un certo modo è perché lei “ha voluto” che andassero in quel modo e non diversamente. Certo, come diceva la signora poco fa, in modo inconscio. Abbiamo accennato al senso di colpa la volta scorsa. Il senso di colpa è abbastanza esplicito rispetto a quanto abbiamo appena detto. Perché una persona dovrebbe sentirsi rifiutata? Ovviamente, per via di qualche pensiero. Stiamo comunque parlando in senso generale, poi è ovvio che nel particolare solo un’analisi può dire perché una persona pensa di essere la persona più degna di rifiuto a questo mondo. Ma, detta in termini generali, una persona si sente rifiutata per via di un senso di colpa. Il senso di colpa è un elemento molto importante in psicanalisi, chi avesse letto Freud ha trovato senz’altro moltissimi riferimenti al senso di colpa. Freud distingueva tra il senso di colpa inconscio e la coscienza di colpa, cioè, io do una botta in testa a qualcuno e poi mi sento in colpa, ecco questa è la coscienza di colpa. Invece, il senso di colpa inconscio è qualcosa che la persona non avverte in quanto tale ma è ciò che dirige i suoi pensieri e conseguentemente il suo comportamento, e uno degli effetti più evidenti è questo bisogno di punizione. Ecco che allora questa persona ha tutti i buoni motivi per sentirsi rifiutata, perché fa esattamente queste, fa in modo di procurarsi una punizione attraverso questa necessità di essere rifiutata e dove gli altri diventano uno strumento per perseguire il suo obiettivo. Ovviamente la persona non sa nulla di tutto questo, per lei esiste soltanto la sua paura, la paura del rifiuto, punto e basta. E allora i casi sono due: o pensiamo che questa cosa sorga magicamente oppure dobbiamo dare un senso a questa cosa. Qui abbiamo a che fare con pensieri e quindi sono i pensieri che hanno costruito questa fantasia e questa fantasia possiamo indicarla come la premessa della sua storia. Come dicevo all’inizio, ogni storia parte da una premessa e da lì segue tutto quanto, per cui se la premessa riguarda questo bisogno di essere puniti ecco che tutta la storia, cioè tutto quanto segue, prende una precisa direzione volta a raggiungere l’obiettivo che la premessa ha deciso che deve essere. E allora ci si può chiedere se tutto ciò che accadrà in seguito a questa premessa, a questa fantasia, sono fatti cosiddetti reali o è qualcosa che dipende da questa fantasia, vale a dire, che è costruito da questa fantasia. Possiamo ancora affermare che la storia è semplicemente la descrizione di ciò che è accaduto o ciò che è accaduto è pilotato da questa fantasia? (….) Una persona se si vuole mettere nei guai ne trova fin che vuole e se non ne trova se li costruisce appositamente.

E, quindi, l’analista sa benissimo di non trovarsi di fronte a qualche cosa di reale, anche lì dove il discorso comune sarebbe disposto a sottoscrivere che si tratta di situazioni reali, di dati di fatto, ma l’analista sa che ciascuno costruisce la propria storia secondo quelle che sono le premesse del suo discorso, vale a dire, le fantasie originarie, le fantasie che sono alla base del suo discorso, che hanno costruito quella storia, e che sono quelle fantasie alle quali la persona non rinuncerà mai per nulla al mondo. Non vi rinuncerà perché sono le cose fondamentali per lei, perché sono le cose sulle quali ha costruito la sua vita, toglietele queste cose e le avrete tolto la vita, non sa più cosa fare.

Perché un’analisi molto spesso dura a lungo? Proprio per questo motivo, perché la persona non rinuncia alle sue fantasie, perché non le viene neanche per un istante l’idea di poterle mettere in discussione. Se fosse sufficiente comunicare alla persona “guarda, le cose stanno così e così…”, l’analisi potrebbe durare tre minuti, e invece no, dura degli anni, per quale motivo? Proprio per quello che dicevo prima, perché la persona non rinuncia alle sue fantasie, e non vi rinuncia perché sono le cose che ha imparato, lungo la sua vita, essere vere.

Faccio un esempio apparentemente molto lontano. Una persona nata in una parte del mondo di religione cattolica avrà acquisito mano a mano certe abitudini, un certo modo di pensare, accoglierà certe cose, ne rifiuterà altre, ecc., ecc. Un’altra persona nasce, invece, in una regione del mondo islamica e cresce con altri principi, altri valori. Questi principi, questi valori, sono per il cristiano così come per il musulmano assolutamente irrinunciabili semplicemente per il fatto che non si pone minimamente il problema in quanto sono la natura delle cose, sono le cose normali, scontate, reali, perché quindi metterle in discussione? Sarebbe come chiedersi se questo è un pezzo di carta oppure no, a chi viene in mente una cosa del genere?

Per quanto riguarda una persona non funziona diversamente. Ci sono delle cose che sono state acquisite, sono state imparate o per le quali si è stati addestrati, addestrati sin da piccoli a pensare in un certo modo. Di che cosa è fatto il modo di pensare di una persona? È come una sorta di database, in cui vengono raccolte una serie infinita di informazioni, di conoscenze, di valori, di principi morali, estetici, religiosi, qualunque cosa. Costituisce la base sulla quale costruisce tutto, tutta la sua storia. Tutte queste cose vengono accolte come assolutamente vere e costituiscono le sue certezze, le cose fondamentali, e sono talmente evidenti, talmente salde che non pensa minimamente a metterle in discussione, non ha alcun interesse a fare una cosa di questo genere.

Non solo questo genere di cose ma anche particolari fantasie trovano il modo di fissarsi, di costituire qualcosa si vero e di certo su cui poi costruire la propria esistenza. Un esempio anche divertente è quello del bambino a cui viene negata la caramella mentre viene invece concessa al fratellino o alla sorellina. Una cosa banale, una cosa assolutamente banale, ma se per una serie di circostanze venisse assunta come una sorta di ingiustizia, come una tragedia, perché per i bambini è sempre tutto estremo, loro estremizzano tutto, questo potrebbe per ipotesi far subentrare un desiderio di morte nei confronti del genitore, il sentirsi vittima, ecc., ecco tutto questo può determinare un certo percorso, il fatto che la sua storia prenda una certa direzione. Era solo un piccolo esempio, giusto per mostrare la questione. Ma immaginate che questo bambino, ormai cresciuto, venga da voi in analisi, ha passato tutta la sua esistenza in mezzo a chissà quali difficoltà, piena di fallimenti, di guai, perché? Perché si sente vittima di ingiustizie, perché gli viene sempre negato qualcosa, prima era la caramella ma poi è diventato qualcos’altro, potrebbe essere la scuola, il lavoro, le relazioni sentimentali, ecc., come dire che quell’episodio … però attenzione che chiamarlo episodio cambia molto le cose perché potrebbe dirsi a questo punto “ah, ecco, è successa quella cosa e quindi le cose non potevano andare diversamente, ecc.”… In effetti, non si tratta di un episodio, occorre tenere conto che non è determinante in quanto tale ciò che è successo ma ciò che è stato costruito dal bambino intorno a ciò che è successo e che gli è servito per costruire tutta una storia di ingiustizie, una storia di fallimenti, di guai, di malanni, di depressione. A un certo punto, la fantasia di allora, quella che ha scatenato tutto questo, è sì dimenticata ma non cancellata, nel senso che ha operato in modo tale da sostenere tutta quella costruzione che è la sua storia.

È chiaro allora che nell’ascolto  di questa storia occorre porre questa persona, il suo discorso di fronte a una responsabilità. In che senso? Nel senso che tutte le difficoltà che ha incontrato non sono state determinate dal fatto che è stato sfortunato, disgraziato o perché maledetto da dio, ma perché è il suo discorso che l’ha portato a costruire tutto ciò che ha costruito, tutto quello che è la sua storia. Vale a dire, che questa fantasia ha determinato il percorso del suo discorso e, quindi, il percorso della sua storia. L’intervento in una analisi ha questo obiettivo, quello di riportare la persona alla sua responsabilità, non quello di guarirlo, perché le persone non hanno nulla da cui guarire, una persona depressa non ha nulla da cui guarire. La cosa che, invece, occorre che accada è che accolga questa fantasia, che l’ha rimossa, come diceva prima la signora, e quindi occorre che ripercorra tutti i vari passaggi per arrivare a questa fantasia e considerarla per quello che è, appunto una fantasia. E, quindi, accorgersi che ciò di cui ha avuto paura per così lungo tempo non erano altro che pensieri, né più né meno.

Dicevamo con gli amici ieri sera, parlando delle storie, che un’analisi deve consentire il poter modificare la propria storia. Come dicevo all’inizio, ciascuno pensa di avere una sua storia, che è quella, la”mia” storia, e in effetti all’inizio di un’analisi si incontra spesso questa idea di dover raccontare questa storia in modo molto preciso quasi come se la funzione di un’analisi fosse quella di coprire i vari buchi, i vari omissis. Non è propriamente così, lontana dalla psicanalisi l’idea che ci possa essere un recupero del vissuto, perché il vissuto in quanto tale non esiste, il passato stesso in quanto tale non esiste, è una costruzione linguistica. Ecco che allora, se non ci si deve attenere a questa storia, se non è ritenuta necessaria, c’è l’occasione di poter costruire infinite storie, non una, perché se io sono obbligato a raccontare sempre la storia, se questa è una brutta storia sarà sempre una brutta storia, mentre se io sono nelle condizioni di poter ascoltare la mia storia in infiniti modi qualche volta potrà anche essere brutta ma altre volte potrà essere bella, per esempio. È sufficiente mettere in discussione, mettere in gioco quella che è la fantasia alla base. Se io sono una persona che ritengo di me stessa di essere meritevole di rifiuto e di abbandono, nel momento stesso in cui la metto in gioco e non sono più tenuto a crederci, io posso costruire la mia storia in modo differente, non sono più vincolato a questa storia, non sono più nella necessità si ripetere. Freud quando parlava della coazione a ripetere intendeva proprio questo: il ripetere sempre la stessa storia, e quindi se mi trovo in una certa situazione accadrà sempre quell’altra cosa. Se io non sono più nella necessità di ripetere perché non c’è più quella fantasia che pilota il mio discorso, a questo punto io mi ritrovo in una libertà assoluta, cioè io posso costruire le storie che voglio.

L’unica cosa che può modificare qualcos’altro è la parola. I pensieri si modificano per via della parola. Il potere della parola è una questione antica. Pensate a tutta l’operazione di persuasione, all’organizzazione del consenso, che punta a modificare il pensiero attraverso dei messaggi, così come accade per il consenso politico o la stessa pubblicità. Se dovete comprare un detersivo c’è la pubblicità che vi pilota nella vostra scelta. La parola è ciò che modifica, può modificare il punto di vista, non solo quello politico o quello che riguarda le necessità quotidiane, e quindi la pubblicità, ma ciò che ciascuno utilizza per qualcosa di più importante, e cioè per ascoltare se stesso. Questo punto di vista può essere modificato. La parola ha un potere straordinario, questo lo sapevano già gli antichi, da Gorgia in poi, ha un potere superiore a qualunque altra cosa, mentre generalmente la parola è immaginata essere un semplice strumento, un mezzo per descrivere qualcos’altro che parola appunto non è. Adesso dovrei addentrarmi in tutta la questione che riguarda il linguaggio, la priorità del linguaggio, che meriterebbe senz’altro quanto meno un accenno, tuttavia è tardissimo. Quello che ho cercato di dirvi questa sera è proprio questo, come ciascuno non può uscire dalla propria parola e come ciascuno è un discorso, è ciò che pensa. Con parola non intendo la verbalizzazione, intendo una struttura, che è quella che consente anche una verbalizzazione ma non solo, soprattutto consente di pensare. Pensiero e linguaggio non sono due cose differenti, perché il pensiero senza la struttura del linguaggio non esisterebbe. Se per ipotesi non esistesse il linguaggio non esisterebbe nemmeno il pensiero perché a questo punto con che cosa penserebbe. Quindi, quando parliamo di linguaggio parliamo di una struttura, di una struttura originaria, al di là della quale non c’è nulla, nel senso che, nel momento stesso in cui io voglio considerare l’esistenza di qualche cosa utilizzo il linguaggio. Come dicevamo la volta scorsa, senza il linguaggio non esiste nulla, non sarebbe mai esistito nulla e non esisterà mai nulla, e questo per un semplicissimo motivo, che il concetto di esistenza è un concetto linguistico, tolto il linguaggio non c’è più esistenza.

Intervento: …

Possiamo porci una domanda: in assenza di linguaggio è possibile provare fame?

Intervento: Penso proprio di sì.

Come fa a saperlo?

Intervento: non so, perché me lo ha detto la mamma?

Esatto, è vero, tutto ciò che noi sappiamo è perché ce lo ha detto la mamma, qualunque cosa, e per mamma ovviamente non intendo solo la genitrice. Intendo dire che tutto ciò che noi sappiamo lo sappiamo perché qualcuno ce lo ha raccontato e, se ce lo ha raccontato, è perché questo qualcuno era nella parola, nella struttura del linguaggio…

Intervento: Io e il mio cane abbiamo praticamente gli stessi istinti …

Se io lascio cadere questo aggeggio per terra, si fa male, proverà dolore?

Intervento: si rompe.

Già, ma perché non diciamo che si farà male?

Per quanto ci riguarda nulla ci impedisce di dire qualunque cosa. Che cadendo questo aggeggio possa farsi male è qualcosa che nulla mi impedisce di dirlo. Nel gioco linguistico del discorso comune non si dice “si fa male” ma si dice “si rompe” ma niente mi impedisce di dire, per una mia strana fantasia, che questo aggeggio si fa male. Quello che non posso fare è provare un’affermazione del genere. Esattamente come la questione degli istinti, io posso immaginare, come fa il discorso comune, che il cane abbia fame, che provi del dolore o che scodinzolando voglia qualcosa, ecc., ma sono considerazioni che appartengono al discorso comune, non al cane, siamo noi che stiamo attribuendo al cane tutta una serie di cose. Intendo dire che laddove noi non possiamo provare nulla possiamo affermare qualunque cosa e il suo contrario, è come l’esistenza di dio, io posso dire che esiste così come dire il contrario, che non esiste, tanto non posso provare né l’uno né l’altro. È una questione di fede, è un atto di fede, non solo per quanto attiene alla religione comunemente intesa ma in tutto, tutto ciò che non posso provare ma che comunque credo ha la struttura della superstizione.

Potete immaginare quante migliaia di fantasie, di superstizioni, guidano ciascuno lungo la sua giornata, affidandosi a cose di cui non può assolutamente provare nulla, che sono senza fondamento, ma rispetto alle quali c’è una credenza comunque. Ciascuno è libero di farlo, non è un male, non è nemmeno proibito, però sono quelle superstizioni che in alcuni casi possono comportare qualche problema, per esempio ad avere paura. Se io un fervente cattolico, praticante, è possibile che io abbia paura dell’inferno, ma se io non credo in dio è ancora possibile avere paura dell’inferno? Questo per dire che alla base di ogni paura, di qualunque tipo sia, c’è sempre qualcosa in cui si crede, vale a dire, che c’è sempre qualcosa che si immagina così e che non può essere altrimenti.

La questione della credenza è importante. Se io credo di essere un incapace, questa mia fantasia produce tutta una serie di effetti, effetti di paura, di disagio, di angoscia, ma se io non credo di essere un incapace ho paura? No. La paura è sempre sostenuta da qualcosa in cui si crede. Compito dell’analista in questo caso è reperire qual è quella fantasia alla quale si crede e non dire “guarda che stai dicendo una stupidaggine, le cose non stanno come pensi ma stanno in quest’altro modo”, non è necessario fare questo, ma è semplicemente mostrare l’arbitrarietà di questa cosa. Come dire, la persona crede una certa cosa, compito dell’analista non è mostrargli che invece è falsa, che è vero qualcos’altro, ma porre le condizioni perché si accorga che quella cosa creduta vera non è né vera né falsa. Nel momento in cui una persona si accorge che le cose non stanno come ha sempre che stessero può continuare ad avere paura?

Quella fantasia che lo condiziona, che lo pilota nel suo comportamento, è qualche cosa a cui crede fermamente, perché le cose stanno così e non può essere altrimenti, e magari le pensa perché glielo ha detto la mamma o chi per lei, e questa cosa l’ha portata con sé per tutta la vita, una vita magari fatta di guai, di problemi, ecc., tutto per una sciocchezza, per una fesseria. Che poi può diventare una cosa straordinariamente complessa ma si tratta, attraverso un’analisi, di riportarla alla sua semplicità. Come accade spesso, si può vedere qualcosa anche per molto tempo come estremamente complesso, poi basta un nonnulla che cambia il punto di vista e rende tutto quanto estremamente semplice. È arrivare a questo punto che può essere difficile.

Intervento: ….

Questo l’ha deciso lei, cioè è lei che deciso che il suo giorno fortunato è il 13 e non il 17…

Intervento: …

Vorrei però spostare un momento la questione. Qual è la credenza alla base di questo discorso? Intendiamoci, stiamo facendo un gioco, e giocando mi viene in mente una prima questione. C’è qualcosa in cui lei crede, che non è tanto se il giorno fortunato sia l’uno piuttosto che l’altro, ma è la fortuna, cioè lei crede alla fortuna e, credendo alla fortuna, si è trovata a dover immaginare, pensare, che debba esserci un suo giorno fortunato o sfortunato, come se queste cose fossero indipendenti da lei, mentre, come dicevo prima, tutto è frutto della sua decisione. Riprendo quello che dicevo prima, dicendo che non è tanto importante quale sia o meno il suo giorno fortunato ma incominciare a metter in discussione questa idea di fortuna. In questo modo avrebbe modo di scoprire molte cose, per esempio che questa idea le consente di non accogliere una responsabilità, e soprattutto non avrebbe più la necessità di stabilire quale debba essere il giorno fortunato e quale quello sfortunato, non avrebbe più necessità di farlo.

Intervento: … differenza tra psicanalista e psicoterapeuta…

Sono due cose assolutamente differenti. Lo psicoterapeuta, lo dice il nome stesso, è un terapeuta della psiche. Per quanto riguarda uno psicanalista, questi sa di avere a che con storie, con pensieri, con fantasie, non con malattie. Le storie possono essere belle o brutte ma hanno tutte la stessa struttura. Anche una persona che dice di vivere una bella storia può fare un’analisi magari perché vuole saperne di più, anche se le è andato tutto bene  nella vita non importa. Ecco perché diciamo che la psicanalisi è un itinerario intellettuale, e non un itinerario terapeutico - certo, possono esserci effetti di terapia ma non è questo lo scopo di un’analisi – intellettuale nel senso che è una ricerca intorno al proprio pensiero, in modo che ciascuno possa venire a sapere perché pensa le cose che pensa, a che cosa servono e dove conducono, e accorgersi della grande ricchezza del pensiero.

Intervento: ….

L’unica certezza assolutamente incontrovertibile è l’esistenza del linguaggio, di questa struttura, che è ciò che ci consente di pensare e di lì tutto il resto. Dal linguaggio non è possibile uscire, tutto ciò che noi siamo, che facciamo, che pensiamo, è consentito unicamente da questa struttura chiamata linguaggio e non possiamo uscirne. Quando si considera qualcosa immaginandola fuori dal linguaggio, è chiaro che possiamo dire qualunque cosa e il suo contrario, tanto non possiamo provarlo. E, quindi, ciò che si afferma è assolutamente arbitrario e non si è costretti a credere. Che io dica che esiste dio o che invece siamo governati dai marziani che stanno su un pianeta distante sette milioni anni luce, che differenza fa? Nessuna, sono entrambe affermazioni gratuite, indimostrabili, e quindi che senso hanno? Nessuno. Tutto ciò che immagino fuori del linguaggio non posso considerarlo salvo cadere in paradossi, in non-sensi, e se lo voglio fare me ne assumo la responsabilità.

Intervento: … il bisogno di credere…

È una questione molto importante quella del bisogno di credere. Come dicevo prima, qualunque forma di disagio ha alla base un credere in qualcosa, un atto di fede, magari senza saperlo, inconsapevole. Obiettivo di un’analisi non è solo quello di eliminare quella determinata credenza ma quello di perdere mano a mano la necessità di credere, il bisogno di credere. Questo va in qualche modo contro il luogo comune perché il discorso comune dice che è necessario credere in qualche cosa, che non è possibile non credere. Perché?

Intervento: …

Ciascuno può credere quello che vuole, può credere in dio o in paperino. Ma a questo punto perché se io dico che credo in dio la cosa non desta alcun problema mentre se dico che credo in paperino rischio il ricovero in manicomio? Eppure, entrambe sono affermazioni gratuite, arbitrarie, senza possibilità di dimostrazione? Questo per dire dell’influenza, del peso di alcune superstizioni diciamo così “universali” come le religioni…

Bene, si è fatto tardi, io vi ringrazio per la vostra partecipazione, è stato per me un grande piacere parlare con voi. Grazie e buona sera a tutti.