HOME 

 

IL SOFISTA E LA PAROLA

 

Riprendiamo il discorso avviato l’anno scorso, abbiamo fatto una serie di incontri terminati in una caldissima serata di luglio, questa sera non è una freddissima serata di settembre, però ci sono molte persone che non erano presenti allora, quindi terremo conto di questo non dando per scontato nulla in ciò che diremo. Il titolo è: "Il Sofista e la parola. Liminari a una discussione sul linguaggio". Si, perché è il linguaggio che da tempo ci sta interrogando, perché la ricerca che stiamo compiendo, io insieme con altri amici, ci ha condotti (prima ancora di iniziare una teorizzazione o elaborazione intorno alla psicanalisi, visto che è di questo che ci occupiamo) a una riflessione intorno a delle proposizioni. Riflettendo intorno a una qualunque cosa, accade di immaginare che delle proposizioni, dei discorsi che si fanno, siano veri: se io affermo qualcosa, generalmente penso che questo qualcosa sia vero. Ciò da cui siamo partiti è questa considerazione: che cosa ce lo fa pensare, che questo discorso, qualunque esso sia, sia vero? E in seconda battuta, se è proprio necessario che debba esserlo? E qui ci siamo fermati a lungo perché è una questione complicata. Tanto complicata che ciascuno la incontra ogni giorno continuamente. Ogni volta che parla con qualcuno o che parla tra sé e sé, si fa dei discorsi, dice delle cose, discorsi che concludono in un certo modo. Io mi chiedo una certa cosa, giungo a una certa conclusione, e ritengo che questa conclusione sia vera. Come so che la ritengo vera? Perché mi costringe, per così dire, a muovermi in un certo modo anziché in un altro, e quindi l’ho accolta, anche se magari non è che mi sono fatto tutto un discorso intorno al fatto che ciò che vado dicendo sia vero oppure no, viene accolto, e la mia condotta tiene conto di questo, cioè della conclusione cui sono arrivato. Ora, ciò che ci ha interrogati, in prima istanza, è questo: visto che, io mi muovo come alcuni altri, in relazione a discorsi che ritengo veri, riflettere su questo può essere non del tutto indifferente né del tutto marginale, visto che se cambio idea, per esempio, mi muovo in un’altra direzione, se io credo una cosa, farò certe cose, se ne credo un’altra ne farò delle altre, sembra molto semplice e in effetti lo è. E in effetti, quando si pone questa questione di sapere se ciò che vado pensando sia vero oppure no? Quando da ciò che penso procede ciò che farò, e allora devo decidere, e in base a ciò che avrò deciso mi muoverò. Come sapete le cose che possono pensarsi muovono a fare cose straordinarie, terribili, soltanto perché credo che sia così. Se, per fare un esempio, un integralista islamico o cattolico o buddista o quello che preferite, non credesse, si comporterebbe esattamente allo stesso modo? Magari no! Soltanto perché ha cessato di credere vera una certa cosa e, quindi, si muoverebbe in un’altra direzione, farebbe altre cose. Se io sono fermamente convinto che una cosa sia giusta, qualunque essa sia, questa convinzione mi muoverà ciascuna volta in cui mi trovo di fronte a questo, e in una direzione ben precisa, se io non la credessi, non mi muoverei in quella direzione. Dal momento che da ciò che penso, segue ciò che faccio, ci è parso di un certo interesse, riflettere sul criterio che mi consente di stabilire una certa cosa o di giungere a una certa conclusione, ci ha interessati dal momento che, risulta, per ciascuno, di grandissima importanza, sembra, avere dei punti fermi, delle cose delle quali può dire che sono vere o, se preferite, che sono proprio così. Dicevamo proprio negli incontri precedenti, di quanto soprattutto in alcuni momenti, come questo che sta avvenendo, dove c’è qualche vaga incertezza, ci sia un appello ai valori e cioè alla necessità di credere qualcosa. La questione interessante è questa: qual è per ciascuno il criterio di valutazione del vero? Supponiamo che il mio amico Alessio incontri una fanciulla e che questa fanciulla gli dica che lo ama; supponiamo anche questo. Possiamo supporlo, nessuno ce lo proibisce. Può accadere ancora che Alessio si domandi se questo è vero oppure no. Cioè se lo ama davvero, se lo dice soltanto, se finge, se, per esempio, con questa proposizione, questa fanciulla intende qualcosa di assolutamente differente da quello che intende lui. Cosa che può accadere e accade nove volte su dieci. Allora Alessio come farà a sapere una cosa del genere? Se è vera oppure no? Ma, soprattutto e prima ancora, qual è il criterio che utilizzerà per stabilire una cosa del genere? Si avvarrà evidentemente delle cose che sa, di esperienze precedenti o della sua attesa, si avvarrà in definitiva, di una serie di cose a cui crede. Come dire che giunge a credere una certa cosa a partire da altre cose a cui crede. Noi ci siamo chiesti: ma funziona sempre così un criterio di verità o esistono altri modi, diciamo più certi, più affidabili, dell’affidarmi soltanto a ciò che credo. Anche perché, nonostante che Alessio si fermi ad un certo punto lungo questa ricerca, potrebbe in teoria non fermarsi mai, riflettendo sul criterio che ha utilizzato per stabile un certo criterio, e così via all’infinito e non saprebbe mai se la fanciulla in questione lo ama oppure no. Può chiederglielo naturalmente, ma ciò che questa fanciulla risponderà, Alessio lo intenderà in un certo modo, ma sarà esattamente ciò che ha voluto intendere l’altra persona? E se si, come lo sa? Da qui qualche smarrimento, qualche incertezza, qualche indecisione, l’impossibilità di essere persuasi che talvolta accade di incontrare. Però ponendo la questione in termini più radicali, si è trattato di riflettere intorno alla "necessità", mettiamola pure tra virgolette, che ciascuno ha di credere qualche cosa, se non altro almeno che sta credendo, perché mai? Tenendo conto che "ciò che crede" lo crede vero. Posso credere a qualcosa che so, per certo essere falso? Diventa difficile, quasi impossibile. Era Wittgenstein che asseriva che ciò che so, è ciò che credo. Niente più di questo! Allora torniamo alla questione relativa a ciò che credo, e perché credo a qualcosa? Cos’è credere? In modo più esplicito, credere è il dare il proprio assenso incondizionato a una proposizione che afferma qualcosa, potremo definirla così in termini molto provvisori, molto sommari. A quali condizioni io do il mio assenso a qualcosa? Sempre tenendo conto che, laddove do il mio assenso a qualcosa, dopo, la mia condotta terrà conto di questo, cioè farò ciò che credo, nel senso che mi muoverò tenendo conto di questo e non potrò non farlo. Verrà a costituire uno di quegli elementi di cui sono fatto, potremmo dire che sono fatto delle cose che credo, perché sono queste che mi muovono a fare le cose che faccio, potremo dirla così in modo un po’ spiccio. Perché il sofista? Molti di Voi avranno qualche eco dalle scuole, quando si studiavano i Sofisti insieme con i Presocratici, non si da generalmente un grandissimo spazio ai Sofisti nei manuali di storia della Filosofia, generalmente li si liquida rapidamente, sono stati in effetti liquidati rapidamente. Sofista è chi continua a interrogare anche ciò che crede, e ciò che credo, è tale perché cesso di interrogarlo. A meno che non sorga qualcosa per metterlo in gioco, ma allora mi sposto rispetto a quell’altra cosa che ritengo più vera, che credo più vera. Sofista dunque, è colui che continua a interrogare ciò che crede o il credere stesso se preferite e, in questo, strutturalmente non può credere, cioè, non crede. Chi interroga ciò che crede, ha già con questo cessato di credere, come dire che ha messo in dubbio che si tratti di una cosa vera o quanto meno può essere che lo sia, però può anche essere che non lo sia. Ora certamente, uno può togliere, sottrarre il proprio assenso, da qualcosa a cui crede per credere un’altra cosa, in termini tecnici si chiama conversione. Cioè passare da una fede ad un’altra ma, dicevamo, il Sofista, colui che interroga il Credere, si chiede di cosa è fatto, si chiede perché credere, non dando dunque il suo assenso a qualcosa. Ma non si tratta tanto di sospendere il giudizio, quanto piuttosto di affrontare anche questa questione connessa al giudizio, per cui né lo sospendo, né lo attuo, in modo tale che possa prodursi una credenza, qualcosa di fatto e finito, perché, dicevamo, ciò che credo lo credo vero, se no, non potrei crederlo. Poi, più avanti, vedremo perché, potremmo dire per ora che è grammaticalmente impossibile. Ora, come faccio a sapere le cose in cui credo, perché magari di molte non mi accorgo affatto, e non posso accorgermene perché ciò che credo è la realtà che mi circonda, che io individuo come la realtà che mi circonda, non c’è nessuna differenza, sono esattamente la stessa cosa, come dire è una cosa a cui credi o è la realtà? Che differenza fa? Nessuna. Tutto ciò che si è detto discusso intorno a questa nozione di realtà, così come i grandi temi del Discorso Occidentale: la realtà, la verità, l’essere, il bene, il giusto e chi più ne ha, più ne metta. Tutti questi grandi temi, impongono, per poter essere accolti, che io creda, rispetto a questi, qualcosa, che io creda che sia bene questo, che io creda che sia bello questo, che sia giusto quest’altro, credo che l’essere sia questo, credo che...Come dire...arresto questo percorso ad un certo punto, non è possibile un regresso all’infinito, diceva Tommaso, santo. Non l’hanno fatto santo per questo. E perché non è possibile? Perché di fronte a questo, io non ho gli strumenti, i mezzi per credere vero qualcosa e dunque, o resto in sospeso come fecero già gli Scettici, praticando quella che loro amavano chiamare epoché, la sospensione del giudizio, oppure stabilisco che è così perché tutto mi induce a pensare che è così o a credere che sia così, che, come dicevo prima è la stessa cosa. Tutto fila liscio come l’olio, finché non c’è qualcuno che mi chiede perché, allora devo mostrare dei motivi che possono essere più o meno intelligenti, più o meno validi, più o meno articolati, sofisticati, elaborati ecc., questo importa poco, cioè posso giustificare ciò che credo non provarlo, posso giustificare, e qual è la migliore giustificazione? Quella che afferma che è così perché mi piace così, le altre non sono migliori, sono solo più lunghe. Perché il discorso occidentale si è arrestato prima con Gorgia, dopo, dopo tantissimi anni di intervallo, con Gödel, con Cantor? adesso diremo qualcosa di loro, ma si era già "arrestato", arrestato tra virgolette, nel senso che si era mostrata l’impossibilità all’interno della struttura del linguaggio di provare che qualcosa fosse vero già con Gorgia di Lentini, 2500 a. c. , anno più anno meno, che pose un limite al linguaggio, un limite ma è un limite particolare che di fatto non limita nulla e perché non limita nulla? Perché impedisce soltanto di pensare qualcosa che sia fuori da questo limite. Non posso dunque provare nulla, poi Gödel, cosa faceva Gödel? Faceva il matematico, poi si è divertito a trovare che è possibile derivare dagli assiomi dell’aritmetica una proposizione che non è dimostrabile. Ecco, questo ha provocato quella che è passata alla storia come la crisi dei fondamenti, se nemmeno più l’aritmetica è fondabile, dimostrabile, allora non c’è la possibilità di andare molto lontani in questa direzione ma, dicevo, la questione centrale in tutto ciò, è che l’impossibilità di provare qualunque cosa si mostra immediatamente nel momento stesso in cui lo voglio fare. Cioè è soltanto il tentativo di provare qualcosa che mi impedisce di concludere in qualche modo. E perché questo? Cos’è provare qualcosa? Potremmo dire che è dimostrare che è vero, però non andiamo molto lontani, o devo dire che deve essere necessariamente vero, se è questo l’obiettivo, come potrete immediatamente riscontrare, vi trovate di fronte a un problema notevolissimo, che è quello di cui si parlava all’inizio, cioè di stabilire un criterio che dovrò utilizzare per stabilire una cosa del genere. Come vedete non c’è uscita salvo quella di decidere che è vero ciò che io decido che sia tale, e belle e fatto. E non ce ne sono altri! Altri che possano a miglior titolo essere accolti. Ecco allora il Sofista, colui che ha ben presente tutte queste cose, sa che non può provare nulla, nemmeno ciò che dice, ma sa anche che, cercare di fare una cosa del genere, approderebbe assolutamente a nulla. Allora cosa fa? Si occupa di altro evidentemente, né soprattutto si preoccupa di stabilire, se quello che afferma è vero. Ma può fare una riflessione in più, quella che è mancata per esempio agli Scettici, i quali si sono arrestati dicendo: non possiamo stabilire nulla, siamo rovinati, non è proprio così. Cos’è che non possiamo non stabilire? O non possiamo non accogliere? Forse proprio la stessa cosa che ci sta consentendo di dire queste cose, e cioè una struttura che mi consente di organizzare queste cose in un certo modo e di farle esistere, una struttura che è comunemente nota come linguaggio. In questo caso non c’è nulla da provare, cosa provo? Che sto parlando? Lo sto già facendo. Posso negarlo? Nemmeno! Perché negandolo necessariamente devo dire, se non altro dire che lo nego, e quindi già affermo che sto parlando. Da qui anche un interesse rivolto verso il linguaggio, inteso in questa accezione, non come uno dei modi di espressione, ma come quella struttura tale, che mi consente anche di pensare all’eventualità di altre forme di espressione, che mi consente di dire o di pensare che io esisto, che mi consente in definitiva di pensare. E allora il linguaggio non più come una delle possibili forme di espressione, perché senza linguaggio io non potrei parlare ne pensare a nessuna forma di espressione, che in quanto tale, non esisterebbe. E perché non esisterebbe? Per un motivo molto semplice, che o credo che qualcosa esista di per sé, ontologicamente, metafisicamente, oppure ciò che esiste, esiste nella parola, esiste in quanto ne parlo, perché se non esiste nella parola cioè esiste di per sé, allora come lo so? Vengo a saperlo soltanto quando lo inserisco in una struttura che è quella del linguaggio, che mi consente di dire che esiste e di pensarlo, senza questo non ci sarebbe nulla da inserire in nessuna struttura di linguaggio. Il problema è che questo fatto mi impedisce anche di pensare che cosa potrebbe essere fuori dal linguaggio, perché qualunque elucubrazione possa fare in questa direzione, con che cosa la faccio? Con il linguaggio. È che non posso nemmeno pensare cosa potrebbe essere fuori dalla parola. È grosso modo questo che già Gorgia di Lentini, aveva inteso, cancellato poi in ciò che ne è seguito, ma è tornato. Cioè si è tentato di eliminare tutto questo, attraverso la metafisica, ma ciò che è stato cacciato dalla porta è tornato dalla finestra, devastando la fondabilità dell’aritmetica e poi del linguaggio. Ma cosa avviene se te tengo conto di tutto questo? Non è che per questo cesso di parlare evidentemente, anzi chiacchiero anche molto di più magari, ma avviene che non ho più non solo la disponibilità, non ho più la possibilità di credere, cioè di dare il mio assenso incondizionato a una proposizione qualunque, che affermi di se stessa di essere vera. Ecco, questo viene a mancare, e non perché lo ritengo falso, non lo ritengo né vero né falso. Salvo accogliere di volta in volta dei criteri che so essere assolutamente convenzionali, provvisori, chiedo a qualcuno: mi hai comperato le sigarette? Questo può rispondere: si, no, anche non lo so, nel senso che può essersene dimenticato. Se mi risponde di si, penso che quello che dice sia vero, ma cosa faccio con questo? Adesso ho fatto un esempio molto banale apposta, semplicemente immagino che questa persona si attenga, in questo momento, a un sistema che grosso modo abbiamo convenuto, tale per cui se gli rivolgo questa domanda e lui ha preso le sigarette mi risponde di si. Facciamo un altro esempio: è vero che deve esistere il bene? Ecco, questo è più complicato o è la stessa cosa? Potrebbe anche esserlo. Sembra più complicato perché sono state dette molte più cose intorno a quell’altra. Se io rispondo di si a questa seconda domanda, cioè se il bene esiste o la giustizia o la verità, quello che Vi pare, che cosa faccio? Do il mio assenso a questa proposizione, e perché? Ma allo stesso modo incondizionato di quella precedente, se qualcuno mi risponde di si, che mi ha preso le sigarette, io ci credo, se poi non le ha prese va bene, però sul momento...come dire, ci credo allo stesso modo, dove sta la differenza, se c’è? O io ritengo esista il "vero" assoluto, oppure convengo di volta in volta o accolgo una convenzione sapendo che è tale, ma se io dico che la giustizia deve esistere accolgo soltanto una convenzione in questo momento o è qualcosa in cui credo fermamente? Che differenza c’è? Posso dire, si, la giustizia deve esistere e anche, si, però potrebbe anche non esistere, sarebbe la stessa cosa? Oppure no? Che cosa mi muove a fare tutte queste considerazioni? Se non l’idea che da qualche parte, in qualche modo, da qualche parte non si sa dove, in qualche modo non si sa come, per quale motivo non si sa perché, deve pur esserci qualcosa che è quello che è, e che non mente, per cui se dico che è così allora è così, in modo assolutamente indiscutibile, inconfutabile, innegabile e inoppugnabile. Ma che cos’è questo pensiero se non l’idea che esista almeno un elemento, almeno uno, del quale io possa dire che è fuori dalla parola; perché se è nella parola è un’espressione linguistica, mutevole, si trasforma, varia continuamente, come le parole, se invece è fuori allora è lì. Inventare la nozione di dio, ha valso a risolvere almeno provvisoriamente e parzialmente questo problema, dio come garante, che cosa in ultimissima analisi mi garantisce qualche cosa? Dio. Si chiama dio, possiamo chiamarlo in altri modi, legge universale, necessità universale o come preferite, è la stessa cosa. Dico ancora questa poi apriamo il dibattito. Allora, se credo a qualche cosa che possa garantirmi, o credo in dio o immagino che ci sia qualche cosa in cui io possa essere assolutamente certo, senza equivoco, perché mai io dovrei pensare una cosa del genere? C’è un motivo, perché se c’è qualcosa che garantisce, allora anch’io sono garantito, dagli effetti di ciò che dico. Sono garantito dal trovarmi di fronte a cose che io ho dette, che non avrei voluto dire, che ho pensato e che non avrei voluto pensare, che ho incontrate e che avrei preferite non incontrare, perché ciò che volevo dire è un’altra cosa, questa che mi si è parata innanzi è un’altra che non c’entra. Sono, in definitiva, garantito dagli effetti, dai contraccolpi della parola, come se la responsabilità di ciò che dico, potesse attribuirsi ad altri o ad altro fuori di me, per cui ciò che dico non è altro che la descrizione di uno stato di cose, del quale io mi limito a registrarne lo stato attuale, le cose sono così, io non posso fare niente, oppure io ho detto così, quindi ho mostrato come stanno le cose per me, e con queste occorre che mi confronti. Come stanno le cose per me o se preferite, come io le produco, mentre parlo? Ecco, mi fermo un momento così intanto qualcuno può approfittarne per intervenire.

- Intervento: la visione della realtà nel linguaggio...

Non è proprio così. Non è che vede solo nel linguaggio la realtà di quello che sta dicendo. Considera soltanto che senza il linguaggio non potrebbe considerare la realtà che lo circonda. Ché, con quale strumento potrebbe farlo? Dice, con uno strumento che è fuori della parola! E io che ne so? Come faccio a saperlo? Visto che comunque resto nella parola? È questo l’intoppo, da cui non si esce, ciascuna volta in cui io cerco di uscirne, mi riporta immediatamente, inevitabilmente in ciò che sto facendo, cioè al fatto che sto parlando. Io posso pensare e dire: questo esiste fuori della parola, posso dire questa cosa come qualunque altra, ma tuttavia dicendo questo, cosa sto facendo esattamente? Sto dicendo. Posso uscire da questo per fare qualunque tipo di considerazione io voglia fare? No. È soltanto questo ciò che stiamo considerando, non che la realtà sia soltanto nel linguaggio o fuori dal linguaggio, direi che è una questione che tutto sommato non potrebbe nemmeno porsi, fuori del linguaggio.

- Intervento: sulla possibilità di dire quanto si va dicendo, esiste in quanto io uso il linguaggio.

Dirò di più: la nozione stessa di esistenza è nel linguaggio. Cioè io posso dire che una cosa esiste, posso dirlo perché è nel linguaggio. Cioè io posso dire che una cosa esiste, posso dirlo perché è nel linguaggio. Che cosa è l’esistenza fuori della parola? La nozione stessa di esistenza, posso dire che qualcosa esiste? A quali condizioni? Che lo dica. E se no? Che succede?

- Intervento: Heidegger diceva: il linguaggio è un modo dell’Essere...

Si, per un primo approccio, certo. È un modo di approcciare la questione. Heidegger ha detto delle cose molto interessanti, soprattutto rispetto agli antichi, dove considera alcune proposizioni di Eraclito di Anassimandro e, fra gli altri Parmenide, e quando si occupa di poesia. Quando si occupa della verità, ritorna esattamente al punto in cui era partito, non va molto lontano. Però ha questo merito, per esempio lo scritto su Hölderlin è straordinario e molti altri. La questione è che definire l’Essere o l’Esserci o qualunque altra cosa, senza tenere conto di ciò che si sta facendo, cercando di definirlo, riconduce immediatamente alla metafisica e cioè porre questo elemento come se, fosse fuori della parola, cioè come un’ipostasi, altrimenti è una espressione linguistica.

- Intervento: Continua ricerca di verifica della realtà che "vediamo".

Più che legittima, anche i Sofisti si posero questa domanda, seguita immediatamente da un’altra e cioè che cos’è una verifica esattamente? e cioè...

- Intervento: Se non c’è verifica dei propri sensi allora le altre sono parole.

Si ci vuole un criterio certo! È quello che indicavo prima cioè "è così perché mi va che sia così" e belle e fatto.

- Intervento: Metto la mano sul fuoco mi accorgo che brucia.

E non è mica così semplice. Per esempio, nel Medioevo, quando c’erano un sacco di miracoli, ce ne sono ancora adesso ma perlomeno..., tutte queste cose erano assolutamente certe, provabili e "sotto gli occhi" di tutti, e tutti le acconsentivano, tutti le accoglievano, perché adesso non si accolgono più? Perché questa stessa cosa che veniva vista con i sensi, era una certa cosa, e adesso quella certa cosa non c’è più, i sensi nemmeno più la colgono.

- Intervento...

Vuole la lista dei miracoli! Un persona che è posseduta dal demonio viene guarita, una ampolla, una statuetta che lacrima sangue o uno storpio, uno zoppo che riprende a camminare, un cieco che riprende a vedere, un morto che risorge...

- Intervento...

Si perché adesso non ci sono più, allora c’erano, se Lei ne avesse dubitato l’avrebbero bruciata.

- Intervento: A questo punto interviene la decisione di ciò che voglio vedere?

Si forse è differente la questione che stava ponendo il Signore e cioè quella dei propri sensi. Cosa mi mostrano, cosa mi dicono i sensi? Mi dicono sempre, necessariamente ciò che è? Oppure una volta mi dicono una cosa un’altra volta me ne dicono un’altra? E poi rispetto a che cosa? Come stabilisco che è sempre la stessa cosa? O i sensi, quelli che si chiamano sensi, semplicemente mi indicano che cosa, in quel momento, la mia attenzione è disposta ad accogliere? In certe circostanze uno può sentire freddo, alla stessa temperatura in altre circostanze, con gli stessi indumenti, non ha affatto freddo, non perché stia bene o stia male, ma perché non lo sente, perché è impegnato a fare una cosa che lo interessa moltissimo, oppure la stanchezza, stanco morto, per non avere fatto assolutamente niente tutto il giorno, i suoi sensi cosa gli dicono? Che c’è una forte stanchezza! Ma magari poi si affatica moltissimo, facendo un lavoro che però gli interessa, lo diverte, gli piace e non sente nessuna stanchezza, eppure dovrebbe essere molto più stanco, oppure la fame che è uno degli stimoli più noti, in alcuni momenti cessa completamente, per i motivi più svariati, non mangio da due giorni e non me ne sono neanche accorto posso fidarmi dei miei sensi? E se non me fossi accorto e fossi morto di fame? Oppure accade qualche cosa un amico mi dice: Hai visto quello che è successo? No, non ho visto niente. Cosa è successo e dov’ero? Ero lì anch’io! Allora dovrei concludere che non posso fidarmi dei miei sensi, dei miei occhi che non vedono ciò che tutti gli altri hanno visto, e perché io no? Non sono cieco, sono andato dall’oculista l’altro giorno e mi ha detto che ho una buona vista, allora cosa mi dicono i miei sensi? Perché sento qualcosa e in un’altra situazione sento tutt’altro pur essendo medesime le condizioni? Che cosa mi dicono? Quello che vogliono in un certo senso. Allora sento freddo, caldo, fame, paura, gioia anche senza motivo, provo una fortissima angoscia, nulla mi turba, nulla mi preoccupa, nulla mi minaccia, devo pensare che è un segno premonitore? E di che? Eppure è una sensazione ben viva, basta chiedere a una persona che l’avverte, è viva al punto tale, che scompare qualunque altra cosa, anzi sembra vivere solo per questo. Erano gli Antichi, che erano poco inclini a fidarsi dei sensi. Quando dico che una cosa è dolce? Già Platone scriveva: quando sto bene mi sembra dolce, quando sto male mi sembra amara, allora è dolce o è amara? Cioè che cosa dico quando è dolce? E così via all’infinito. Allora fidandosi pochissimo dei sensi, hanno preso a considerare la logica, cioè la capacità di dedurre da qualcosa che si suppone vero, altre conseguenze che, dato che sembra vera la premessa, dovrebbero risultare altrettanto vere, e quindi fidarsi unicamente della "ratio".

- Intervento...

Allora potremmo riformulare tutta la questione in questi termini, la poniamo come quesito, credo ciò che sento o sento ciò che credo? Questa è una bella domanda? Su cui possiamo riflettere, visto che abbiamo molti incontri a disposizione. Adesso possiamo riprendere la sua questione (decido di vedere ciò che voglio) questione interessante, che cosa faccio quando voglio qualcosa? Che cosa muove il volere? Così nel discorso comune, si suppone che sia qualcosa che è avvertito come mancanza, ma non è sufficiente questo, che di ciò che si suppone mancante, si supponga ancora che sia irrinunciabile ossia necessario per il mio benessere, e cioè in definitiva ciò che voglio, questa cosa una volta ottenuta, possa chiudere il tendere verso quella cosa. Occorre, si, riflettere sulla nozione di domanda, più che il domandare qualcosa, su ciò che riguarda una domanda in termini strutturali, cioè che cosa domanda effettivamente in ciascun discorso, ciò che forse muove a proseguire, distinguo appunto tra la domanda e il domandare, perché domandare, uno domanda qualcosa, immaginando che ottenendola, soddisfare qualche cosa ma, forse c’è una domanda di cui potremmo dire, essere più strutturale, essere presente in ciascun atto di parola anche là dove non c’è un domandare, propriamente, adesso molto rapidamente potremmo accennare appena la questione poi quando ritornerà, la riprenderemo, la domanda cioè come qualcosa che interviene nel dire, come apertura e aprendosi impedisce che le cose si richiudano su se stesse, chiudendo definitivamente il discorso, in effetti qualunque discorso è possibile proseguirlo, proprio perché esiste la domanda, perché comunque c’è una porta aperta da qualche parte, che consente di proseguirla, ciascun discorso anche quello che sembra più irrimediabilmente chiuso. C’è sempre una via di uscita, cioè anche quel discorso che si ritiene più chiuso, più blindato in qualche modo domanda, c’è una domanda, si tratta forse di acconsentire a questa domanda, cioè lasciare che possa dirsi. Ciò che voglio...c’è da riflettere bene, se ciò che voglio è effettivamente che la domanda insista o lasciare questa domanda, oppure che questa domanda che è nel dire si levi di torno e cioè ciò che voglio, in questo caso sarebbe che ciò che mi domanda, cessi di domandare, e quindi chiudere il discorso. Ecco trovare la risposta quella che soddisfa la domanda.

- Intervento...

Si, ecco la risposta generalmente è posta in questi termini, effettivamente come la possibilità che la domanda possa togliersi di mezzo e io finalmente stia tranquillo, ma questo non si da propriamente, qualunque cosa io faccia, anche questo stesso tentativo di trovare la risposta che chiuda ogni cosa e che finalmente mi appaghi di tutto, contiene in sé, una domanda, cioè apre ad altro, pensi agli umani da quanti anni si interrogano e ciascuno poi a modo suo lo fa, da dove viene questa interrogazione? Perché ciascuno si interroga, interroga gli altri, vuole sapere, c’è qualche cosa che lo muove, che lo costringe, direi quasi a interrogarsi, cioè avverte effettivamente che qualunque cosa accada, questa cosa rinvia ad un’altra, rilancia la questione anche la risposta, anziché chiudere rilancia ad un’altra cosa. E così all’infinito.

- Intervento...

Allora l’escamotage qual è stata? Questo si ramifica in mille modi, la risposta non c’è, però non può non esserci in assoluto da qualche parte, prenda Popper per esempio, allora la scienza procede per aggiustamenti finché l’ultimo aggiustamento sarà quello che coincide con il vero, perché se non ci fosse questo vero a dare una direzione, come faccio a sapere che sto andando in quella direzione? Verso il vero? Come faccio a sapere che le proposizioni che sto inventando vadano nella direzione giusta? Che cosa mi dice che cosa è giusto a quel punto? Se non ha un obiettivo sono costretto come fa Lui a immaginare l’esistenza della verità, cose che fa, esattamente nella "Logica della scoperta scientifica", e non può non farlo, dal suo punto di vista è inevitabile. Come dire tutto è falsificabile tranne la falsificabilità, perché se si falsifica la falsificabilità, allora diventa falsa, diventando falsa, diventa vero il contrario e quindi è scientifico tutto ciò che non è falsificabile. Non aveva preso in considerazione questo Popper, insieme con molte altre cose. Si comunque certo, ciò che Lei dice ha mosso tutto il pensiero occidentale, e che immediatamente si mette in moto nell’istante stesso in cui immagino o cerco di trovare qualcosa che sia fuori dalla parola, allora parte tutto questo meccanismo che gira su se stesso all’infinito, gira in tondo, e per questo aspetto gira in tondo da sempre cioè da quando gli umani si sono posti la questione in questi termini, senza nessuna possibilità di uscita, può girare in tondo ancora per altri 2500 anni, o altri 50.000 anni. Va bene per questa sera ci fermiamo qui, è stata una serata introduttiva delle varie questioni, invece la prossima volta facciamo un intervento più specifico il tema è: Il male come rimedio (una questione specificatamente psicanalitica) e come sottotitolo: perché avviare una psicanalisi? Porre il male, cioè l’idea stessa di male, come rimedio, a qualcosa che evidentemente si immagina molto peggiore. Vi ringrazio e vi auguro la

buona notte.