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PSICANALISI

 

22/7/1997

 

Allora l’ultimo incontro di quest’estate, parrebbe, almeno qui in libreria, e riprendiamo l’intervento della volta scorsa, lo riprendiamo proprio là dove l’abbiamo lasciato e cioè al punto in cui dicevo che ciò di cui si occupa l’analista prevalentemente è volgere tutto ciò che nel discorso di qualcuno interviene come affermazione o conclusione più o meno certa, volgere dunque questa conclusione in questione, in domanda. E si occupa di questo dal momento che, come abbiamo visto, non sta a perdere tempo a interpretare i discorsi dell’altro, cioè a volgerli in un’altra cosa, ma semplicemente fa in modo che tutto ciò che risulta sicuro, certo, consolidato e affidabile nel discorso della persona che sta parlando diventi invece, non un problema, un problema lo diventa quando è ritenuto certo, ma una questione, cioè qualcosa che continua a interrogare anche là dove sembrava che non interrogasse più. In questo senso la formazione di uno psicanalista in questo caso non passa attraverso l’addestramento a interpretare e quindi in relazione ad una particolare teoria psicanalitica, non è di questo che si tratta ma di porre le condizioni perché chi si trova nella posizione di analista possa ascoltare. È questa la parte difficile perché con "possa ascoltare" intendo il trovarsi nella condizione di non dovere ricondurre ciò che ascolta a qualche altra cosa che ritiene o più vera o più adeguata o più consona a ciò che dovrebbe essere. In questo senso ovviamente non fornisce né consigli né giustificazioni, né dice ciò che occorre fare, ascolta ciò che si dice e coglie in ciò che si dice ciò che interroga. Ma che cosa interroga? Ciò che generalmente è ritenuto più certo, più sicuro, più consolidato. Uno psicanalista in teoria non potrebbe seguire nessuna teoria, se fosse tale e cioè uno psicanalista, dal momento che non potrebbe esimersi nemmeno dal porre in questione la stessa teoria da cui muove, non potrebbe non interrogarla fino alle estreme conseguenze, e le estreme conseguenze sono quelle tali per cui questa teoria, qualunque essa sia, si rivela assolutamente arbitraria e quindi, a questo punto, non ci sarebbe alcun motivo per seguirla, né una teoria, né nessun altra. Se l’analista in definitiva è colui che, in un itinerario analitico costringe a pensare e quindi ad interrogare, è ovvio che questa operazione occorre che venga fatta anche rispetto al proprio discorso, e di conseguenza anche alle cose in cui crede, non ultima una qualunque teoria a cui si appoggi. Per questo un analista che sia tale non può, per definizione, seguire nessuna teoria. Eppure qualcosa fa, come dicevo fa almeno questo, cioè volgere in questione ciò che ascolta, ma come può fare una cosa del genere? Dicevamo che questa è la parte difficile di tutta la questione. Generalmente chi inizia una pratica come analista ha percorso un certo itinerario analitico o con l’intenzione di divenire analista oppure con altre intenzioni e poi questa intenzione si è costruita, si è formata lungo il camino. Può avvenire che qualcuno inizi l’analisi perché ha dei problemi, poi questi problemi scompaiono e si accorge che si trova di fronte ad una curiosità nei confronti del proprio discorso, della propria vicenda, che diviene irrinunciabile e allora prosegue, prosegue fino a trovarsi nelle condizioni in cui può insieme con il proprio discorso ascoltare quello altrui. Giunge al punto in cui è in condizioni di ascoltare il discorso altrui nel momento in cui non può più non ascoltare il proprio discorso. Potremmo dire così, che analista è chi non può non ascoltare, non può non farlo, in nessun modo; cioè in altri termini di fronte a qualunque situazione si trovi non può non rilevare che cosa interroga in quella situazione e ricondurre tale interrogazione, e quindi la questione stessa, al gioco in cui è inserita, cioè qualunque cosa accada si pone come una domanda che non si attende una risposta che soddisfi la domanda ma è la domanda che rinvia ad un’altra domanda e questa ad un’altra ancora. Di cosa ci si accorge a questo punto? Che le domande che sorgono sono infinite, cioè non c’è nulla che possa accogliersi in modo definitivo come risposta a questa domanda, e allora accade che si abbandoni la necessità di trovare la risposta. Di fronte alla possibilità di fornirsi una quantità sterminata di risposte ci si accorge che questa operazione non ha nessun senso, nessun interesse e che ne è di questo elemento che si volge in domanda e continua a domandare? Domandando produce altri elementi, altri elementi che si affiancano ai precedenti, questi nuovi elementi non sono, come si diceva, la risposta a quelli precedenti, sono elementi che si accostano, sono un’aggiunta, niente di più e cioè in altri termini è come se si consentisse a questo particolare elemento di potere dire tutto ciò che ha da dire, senza arrestarlo da qualche parte. Quand’è che si cessa di cercare una risposta? Quando ci si accorge di poterne produrne un numero sterminato, e fra queste constatare che nessuna, più legittimamente di qualunque altra ha diritto di essere accolta, ma a questo punto non interviene un arresto, una paralisi, ma è possibile accogliere qualunque elemento nel discorso, qualunque elemento perché il discorso non si è arrestato da nessuna parte, qualunque elemento può essere interessante, può esserlo, può anche non esserlo certo, ma finché non si dice, per così dire, è improbabile saperlo, perché dicendosi questo elemento ne produce letteralmente un’infinità di altri. È un modo questo di praticare la psicanalisi assolutamente differente da ciò che generalmente accade, però offre la più grande libertà. La stessa elaborazione teorica avanzata da Freud se presa in un certo modo costituisce un limite, prendete per esempio la sua teoria della rimozione, se voi pensate delle cose che ad un certo punto vengono rimosse e poi si tratta di recuperarle dal rimosso per renderle coscienti, così è come passa generalmente nella vulgata, voi di fatto credete che esista una cosa del genere, cioè che esista la rimozione, che esista l’inconscio, e che le cose procedano in quel determinato modo. Ma come lo sapete? Perché l’ha detto Freud? E se io dicessi il contrario, magari con motivazioni non meno valide, anzi più forti? Accade talvolta di constatare che il testo di Freud venga preso molto religiosamente, come una serie di affermazioni che occorre apprendere e che siccome si dice che la psicanalisi non sia scientifica allora devono essere prese così come sono, un po’ come la religione, credo quia absurdum, diceva il nostro amico Tertulliano, credo perché in definitiva non lo posso dimostrare. Posso provare l’esistenza dell’inconscio? No. E quindi ci credo. Naturalmente la cosa posta in questi termini è moto banale, l’accusa alla psicanalisi di non essere scientifica è un non senso, ma resta che tutta la teoria psicanalitica, almeno fino a questo punto, si è sempre supportata su una struttura religiosa che chiedeva di essere creduta, di essere creduta vera, come avviene per qualunque teoria, qualunque dottrina, però che avvenga per qualunque dottrina forse si è più invogliati a pensarlo, mentre che avvenga per qualunque teoria cosiddetta scientifica risulta più arduo, ma risulta più arduo soltanto perché l’addestramento a pensare nel discorso occidentale conduce a pensare in questi termini. Di fatto una qualunque teoria scientifica non è né più né meno credibile di qualunque religione. Se voi prendete per esempio l’accusa di non scientificità della psicanalisi, per poco che interroghiate questa questione vi accorgete immediatamente della vanità di una cosa del genere, perché immediatamente vi porreste la domanda di cosa debba intendersi con scienza, e quando vi sarete dati una risposta, qualunque essa sia, non potrete esimervi dal chiedervi perché avete accolta questa definizione, e se questa definizione che avete accolta corrisponda a qualche cosa che possa essere provato oppure no. Vi trovate allora di fronte ad una serie di affermazioni assolutamente arbitrarie, come dire che se io decido che la scienza sia una certa cosa allora la psicanalisi non è scientifica, se io decido che la scienza sia un’altra cosa allora la psicanalisi è scientifica. Posso deciderlo a piacere. Questo per esempio è un modo in cui è possibile muoversi. Considerate ora un modo che non si accontenta di qualche definizione ma che consiste nel proseguire ad interrogare una definizione, non per sapere se sia vera o se sia falsa, non ha nessun interesse, ma per considerare che questa definizione è stata accolta così come avreste potuto accogliere una qualunque. Così porre la domanda se sia o no scientifica non ha nessun interesse. La psicanalisi è un itinerario che potremmo anche indicare come intellettuale nel senso che costituisce una ricerca intorno al discorso, alla struttura del proprio discorso, al modo in cui il proprio discorso si costruisce e costruisce certe proposizioni che sono quelle che vengono prodotte da loro e in base alle quali ci si muove, in definitiva non è altro che questo, una sorta di curiosità, sapere perché si pensa in un certo modo, tutto qui. E si pensa in un certo modo perché si è giunti più o meno consapevolmente ad una serie di conclusioni alle quali ci si attiene, come se fossero vere, perché se sapessi che sono false cesserei di attenermici, invece pensando che sono vere allora misuro la mia condotta in base a queste conclusioni. Potremmo dire che la psicanalisi non è altro che questo e per fare questo non c’è la necessità di nessuna dottrina, di nessuna teoria psicanalitica, anzi dovreste prendere ciascuna teoria psicanalitica come un discorso, uno fra infiniti altri e interrogarlo e chiedergli perché pensa che le cose siano in un certo modo, che cosa glielo fa pensare? Che in definitiva è ciò che avviene lungo una psicanalisi, cioè perché uno pensa quello che pensa? Perché pensa che sia così, che il pensiero corrisponda ad uno stato di fatto delle cose, una sorta di adæquatio rei et intellectus dicevano gli antichi. È anche per questo che divenire analisti non è così difficile, per un verso, per l’altro potrebbe esserlo, dipende dalla difficoltà che ciascuno ha ad abbandonare le superstizioni a cui è aggrappato, a cui tiene, perché nel momento in cui le abbandona, le abbandona non per acquisirne altre ma perché non sa più come utilizzarle. A questo punto non ha la necessità di trovare la risposta e cioè di dire come stanno le cose, eventualmente a qualcun altro, come accade talvolta di ascoltare riguardo a conversazioni analitiche: Lei fa questo per questo motivo. È una follia, cioè non è altro che una religione, poi ciascuno valuti se sono la stessa cosa. Perché dicevo che è semplice? È semplice perché tutto sommato è sufficiente che l’analista rimanga al suo posto e non si metta nei panni altrui, non cerchi di pensare come pensa l’altro, di mettersi al suo posto, perché se mai lo facesse non ascolterebbe più nulla del discorso che si va facendo, parteciperebbe alla eventuale sofferenza dell’altro, soffrirebbe con lui cercando una soluzione ai suoi problemi e in questo modo confermandoli, oltre che consolidarli. Li conferma perché in questo modo l’altro si sente avvallato nella propria sofferenza, e li consolida perché credendoci anche l’analista perde ogni possibilità, ogni eventualità di porre le condizioni perché la persona possa pensare differentemente e cioè domandarsi perché pensa in quel modo, in quel caso ha la risposta immediata: perché le cose stanno così. Ecco, quindi stare al proprio posto. Invece la parte difficile consiste nell’abbandonare il proprio modo di pensare con tutto su cui si è costruita la propria esistenza, tutte le cose più stabili e più certe, più sicure; tutto questo è un impedimento, un impedimento ad ascoltare tanto il proprio quanto ovviamente il discorso altrui. Come sapete le scuole cosiddette psicanalitiche sono moltissime, ce n’è uno sproposito e ciascuna con la sua teoria, ma quello che stiamo dicendo è che non c’è necessità di nessuna teoria, di nessun tipo, che anzi qualunque teoria di qualunque tipo è un limite. Perché se io penso che le cose stiano in un certo modo, che per esempio la struttura psichica sia fatta in un certo modo e quindi si muova in un certo modo e segua un certo andamento, allora inevitabilmente e inesorabilmente applicherò queste conoscenze a ciò che ascolto e ricondurrò tutto ciò che ascolto a ciò che io ritengo essere vero, cioè che la struttura psichica è fatta in un certo modo per cui se avviene che una persona dice una certa cosa allora vuol dire che… Non so cosa vuole dire, dice qualcosa in cui crede, dice qualcosa che per questa persona funziona in un certo modo, si tratta soltanto di intendere perché pensa una cosa del genere, tutto lì. Perché nel momento in cui io mi accorgo che credo in un certo numero di cose o penso in un certo modo e constato l’assoluta non necessità e quindi la gratuità del modo in cui penso, la mia posizione rispetto a queste cose cambia inevitabilmente, non posso più accogliere certe conclusioni e quindi mi muoverò ovviamente di conseguenza. Se per esempio la bimbetta ha paura del buio, avendo paura del buio si muove in un certo modo, poi crescendo cessa di avere paura del buio, non può più fare come se avesse paura, non può più, e perché non può più? Bizzarra questione, però non può più. Così come ciascuno di voi non potrebbe più pensare le stesse cose di una certa persona se sapesse che quella certa persona è tutt’altro da quella che pensate che sia. La persona la si vedrebbe in un altro modo, sarebbe un’altra cosa, non potreste più vederla come prima, in nessun modo. Per lo stesso motivo per cui non posso credere vero ciò che so essere falso, è una questione grammaticale. A che cosa serve una psicanalisi? Potremmo dire così: serve a cessare di avere paura. In che cosa si ha paura generalmente? In qualcosa in cui si crede. Un po’ come l’esempio che facevo prima, la bimbetta ha paura del buio finché crede un certo numero di cose, quando cresce e cessa di crederle non ha più paura. Esattamente allo stesso modo, e quindi in definitiva serve a vivere meglio, se proprio la volete mettere in termini così spicci. Perché se non ha paura vive meglio indiscutibilmente, perché ogni paura è un limite, uno sbarramento che si incontra davanti al cammino: lì non posso andare perché se faccio questo mi succede quest’altro e oltre essere un limite, la paura, esercita una fortissima attrazione. Chi ha paura di una certa cosa ne è anche fortemente attratto, tant’è che va sempre a cercare quella certa situazione che lo spaventa, ma non chissà per quale arcano motivo, per un motivo molto semplice, perché la paura produce una forte eccitazione, come la droga, come l’innamoramento. La paura è una delle fonti principali, più praticate per provare emozioni, pensate a tutti i cosiddetti sport estremi. Si buttano giù da precipizi terribilissimi, ogni tanto muoiono ma… per provare la paura e la paura delle morte è una delle fonti più accreditate di emozione, quindi rischiare la vita è considerato da sempre un gesto eroico, perché si rischia il bene più prezioso. Allora cessare di avere paura comporta anche l’eventualità di non provare più queste forti emozioni ed è una delle maggiore preoccupazioni di taluni che iniziano l’analisi. Perché ciascuno avverte a modo suo che se cessa di avere paura, è vero che può affrontare meglio alcune situazioni, però perde anche una bella parte di eccitazione. E non è casuale che Freud si fosse accorto ad un certo punto che le persone che andavano da lui, pur essendosi rivolte a lui con il preciso intento di sbarazzarsi di taluni malanni, arrivati ad un certo punto era come se facessero di tutto per non proseguire, per non "guarire" come diceva Freud. È esattamente ciò che accade in tantissime occasioni, proprio per il timore di abbandonare ciò stesso per cui si è iniziata l’analisi. Una persona ha iniziata l’analisi perché ha paura dei lampi, poi si accorge che questa paura inizia a dissolversi e interrompe l’analisi perché questa paura dei lampi è importante, produce emozioni, eccitazioni, sensazioni a cui non si rinuncia facilmente. Per lo stesso motivo i cosiddetti drogati non cessano di drogarsi, perché la droga produce da una parte forti emozioni, dall’altra c’è anche la mitologia dell’eroe e cioè l’idea di fare qualche cosa che altri non hanno il coraggio di fare. Sono questi due elementi che messi insieme impediscono che una persona che fa queste operazioni cessi di farle, così come uno che pratichi sport estremi difficilmente vi rinuncia. Non è che non si renda conto del pericolo, se ne rende conto perfettamente, così come quello che si fa di crac, sa perfettamente quali sono i danni che potrebbe produrre, ma appositamente lo fa, un po’ come la roulette russa, uno gioca alla roulette russa e sa perfettamente qual è il rischio che corre, perché se proprio in quella occasione trova la pallottola in canna e preme il grilletto è un problema, come è noto. Non è che non lo sa, lo sa però la sensazione, l’emozione, l’eccitazione che questo produce non è rinunciabile, oltre al fatto di questa mitologia molto antica dell’eroe che sfida la morte, cioè sfida quel bene che è considerato supremo.

- Intervento: sono perplesso sul fatto che non si debba seguire una teoria…

Non è che non si debba, è preferibile, cioè non serve…dipende da cosa si intende con teoria. Sì certo se intendiamo con teoria un qualunque modo di pensare allora sì certo, è una teoria anche questa… Sì in un certo senso questa obiezione è possibile perché c’è un punto da cui si muove e il punto è quello che ho detto in varie occasioni, cioè non accogliere nulla come atto di fede, nulla come necessario, questo certo è un punto di avvio e uno può dire che è un dogma, perché no? Può dire qualunque cosa, ma non è tanto l’affermare che una cosa sia o non sia un dogma, è o non è una teoria, occorre che ci intendiamo su che cosa stiamo intendendo con teoria, perché se parlo di dogma e con dogma intendo ciò che deve essere creduto, allora non è un dogma perché non necessita di questa prerogativa, se intendo con teoria una struttura di proposizioni organizzate in modo tale per cui a partire da queste proposizioni io posso dare una giustificazione ad altre proposizioni allora non è una teoria, se invece con teoria intendo un qualunque insieme di proposizioni organizzate in un certo modo tale per cui ciò che dico produce altre proposizioni allora è una teoria, cioè dipende da cosa intendiamo ovviamente. Dire che ciò che io vado dicendo è, per esempio, affermare che ciò che dico è religioso, non mi preoccupa più di tanto, non mi importa assolutamente nulla, nel senso che non c’è un significante che abbia un significato per decreto divino, con religioso possiamo intendere qualunque cosa e, come facevano i sofisti, possiamo provare che facendo un lungo giro, qualunque cosa può volere dire qualunque altra o il suo contrario. Però se qualcuno mi dicesse che ciò che dico è religioso sarei mosso da curiosità e chiederei che cosa intende con religione, se poi dicesse che con religione intende qualunque cosa si dica, in qualunque caso, allora gli chiederei come mai pensa una cosa del genere, dal momento che l'affermare che tutto è religione o è preso alla lettera, e allora questa affermazione non serve a nulla, oppure è una affermazione che riconduce ideologicamente qualunque cosa ad un’altra struttura, che lui intende come religione e allora fa un confronto con qualunque cosa, e dice sì questo corrisponde a ciò che io intendo con religione e quindi è religione. Va bene…

- Intervento: sull'ipnosi…

Non è facile, ci provavano una volta con l’ipnosi. Quando Freud da ragazzino andò in Francia a Parigi, allora c’era Charcot che andava molto di moda alla Salpetrière dove praticava l’ipnosi, e allora anche Freud tornato a Vienna cominciò a vedere se funzionava questa cosa e non riusciva mai a ipnotizzare nessuno, non gli riusciva mai, però si accorse che con l'ipnosi tolta la paura dei topi subentrava la paura degli scarafaggi, veniva sostituita da un’altra, cioè la struttura rimaneva tale e quale, anche se apparentemente una certa cosa veniva tolta. L’ipnosi funziona come una forte credenza religiosa, se uno avverte un forte bisogno di credere, e ad un certo punto una certa religione non lo soddisfa più ne trova un’altra, ma non per questo cessa di credere, cioè la struttura in cui si trova rimane la stessa…

- Intervento:…

Sì è molto difficile eliminare la paura ma per questa sorta di affezione, non alla paura in quanto tale ma alla sensazione che produce, tant’è che uno può cambiare la paura dei topi con quella per gli scarafaggi oppure con i ragni, ecc. Sì c’è qualcun altro che vuole aggiungere qualcosa?

- Intervento:…

Se si eredita? No questa è una questione ampia, cioè in che modo le cose che dicono o in cui credono i genitori influisca e abbia in qualche modo influenza o più propriamente venga utilizzato dal figlio. Questa è una questione molto ampia, l’unica cosa che possiamo dire è che alcuni casi, alcuni tratti, alcuni tic nella condotta dei genitori vengono utilizzate dai figli per costruire una certa struttura. Dire che una certa condotta o atteggiamento dei genitori sia causa della presenza, come alcuni sostenevano, della nevrosi dei figli è una follia. Una follia in quanto è una formulazione evidentemente arbitraria, gratuita, posso dire che è così e posso dire che non è così altrettanto legittimamente. Negli anni settanta andava di moda un modo di pensare molto simile soprattutto da parte della scuola degli antipsichiatri inglesi come Cooper Laing e Esterson, in Italia c’era Basaglia, poi morì, poi Pirella e anche quell’altro che in qualche modo seguirono questo andamento e una tesi che allora veniva sostenuta era la schizofrenicità, la famiglia era considerato schizogena, causa di schizofrenia, attraverso l'invio di un messaggio contraddittorio, questione che poi è stata ripresa dai teorici di Palo Alto come Jakson e altri con la teoria del double bound, del doppio legame. Però si accorsero ad un certo punto che questo ragazzo, o ragazza, che diventava schizofrenico inesorabilmente, per diventare quello che è diventato ci ha messo del suo, che cosa, perché e come, questo non lo sappiamo, però non è sufficiente l’educazione ricevuta, ha un’importanza ovviamente ma non è la causa, può costituire uno stimolo, può costituire un freno, ma se non c’è una sorta di complicità da parte del figlio in questo caso, non si produce niente.

- Intervento:…

È una delle affermazioni di Freud interessanti, perché tutto ciò che generalmente viene considerato come malanno è il modo che questa persona utilizza per risolvere un problema, per darsi una risposta tutto sommato, potremmo dire anche che ciò che comunemente è intesa come nevrosi è un tentativo di rispondere a qualcosa che interroga, che questiona, potremmo anche dire che la nevrosi è un tentativo fallito di dare una risposta, con tutto ciò che poi consegue, con tutte le sue messe in scena, rappresentazioni ecc. certo.

- Intervento: Come avviene che un individuo diventa analista, sarà un buon analista

Chi garantisce della bontà di un analista? Nessuno. Possiamo anche fare un comitato di garanti e questi garanti chi ce li garantisce? E se fossero peggio di quegli altri? Lei prenda una delle scuole più quotate di psicanalisi. Una è la S.P.I. (Società Psicoanalitica Italiana) quella affiliata all’I.P.A (International Psycoanalitical Association) quella fondata praticamente dalla figlia di Freud, la più quotata nel senso che è la più ricca, in questo caso l’addestramento degli analisti funziona così: c’è una domanda da fare, poi si aspetta generalmente un anno, un anno e mezzo e poi si inizia un’analisi didattica, con un analista didatta e occorre fare un certo numero di ore, oltre questo certo numero di ore inizia l’analisi di un caso che viene affidato sotto la supervisione di un didatta, dopo di che, questo didatta relazionerà la commissione dell’analista che lui sta seguendo e insieme con la commissione decideranno se questo analista può essere accolto all’interno della società psicanalitica. Questo l’iter, e allora queste persone, gli analisti didatti della S.P.I., io ho avuto l’occasione di conoscerne alcuni, e lei mi chiede se per esempio io ritengo che siano in condizioni di praticare come analisti? Assolutamente no, molti sono ignoranti come zappe, non sanno niente, recitano a memoria delle cose che hanno imparato malamente, e non sanno assolutamente quello che stanno dicendo, basta che chieda una qualunque cosa non sapranno cosa rispondere, proibiscono ai loro analizzanti di leggere il testo di Freud o di qualunque altro analista non perché lo reputino inadatto, ma perché hanno paura che quest’altro incominci a fare delle domande a cui non saprebbero rispondere. Questi sono gli analisti didatti, cioè quelli che devono decidere chi praticherà come analista Allora un simile addestramento funziona perché è molto sacrale, è molto istituzionalizzato, cioè è creduto e quindi funziona, però diciamo che si potrebbero porre molte obiezioni alle quali non saprebbero rispondere, e allora non ci interessano più di tanto. Certo qualcuno ha detto anche delle cose interessanti, tale J. Lacan, e anche altri hanno detto qua e là delle cose però permane in moltissimi questa aura di religiosità, questa necessità di credere la tale teoria, cioè la necessità di stabilire un qualche cosa a cui dovere ricondurre ciò che ascoltano, ci siamo domandati se questo fosse proprio necessario e ci siamo risposti di no, e allora abbiamo cominciato questo cammino senza riferimenti, ma non nel senso di eliminare tutto, questo ci ha costretti ovviamente ad andare a leggere tutto, anche perché per muovere delle obiezioni abbiamo dovuto sapere ciò che altri dicevano, come facevano i Gesuiti quando si scagliavano contro gli eretici. I Gesuiti studiavano molto bene le tesi degli eretici per potere confutarle, occorre fare almeno questo. In questo caso sapere cosa dice Freud, ovviamente e che cosa dicono tutti gli altri, dai vari suoi discepoli fino arrivare all’ultimo.

- Intervento: è possibile che ad un certo punto un "analista" si senta il salvatore…

Se questa persona parla con me è difficile che possa credersi tale cosa, ma diciamola così, se una persona mi chiede se ci sono le condizioni perché possa praticare come analista io posso dire qualcosa, però se vuole farlo non glielo impedisco. Non a torto diceva Lacan che l’analista si autorizza soltanto da sé, ma l’analista, non chiunque…

- Intervento: uno potrebbe credersi quello che non è.

In effetti non è necessario che l’analista sia corretto, può anche essere un gangster, può essere un bandito, un fuorilegge, un assassino… adesso io esagero apposta, però è sufficiente che quando ascolta stia al suo posto e faccia in modo che le cose che Lei dice si articolino e si svolgano, poi che sia un fuori legge… Sì non è necessario che sia un santo, è questo che intendevo dire, lui non predica, lui semplicemente ascolta un discorso, non è che dia suggerimenti né consigli quindi non predica nulla, pone solo le condizioni perché l’analizzante si accorga di quello che sta dicendo. Per questo dico per assurdo che potrebbe essere un gangster e potrebbe essere un ottimo analista, paradossalmente, in ogni caso non peggio di molti altri…

- Intervento:…

Un analista che ascolta un discorso non ha di fronte a sé una persona, ha una sequenza di significanti, un discorso, nient’altro che questo e a questo si attiene, per cui ciò che deve fare non è altro che fare in modo che questo discorso ritorni a chi lo dice in modo tale che lo intenda, solo questo, non gli si richiede nessuna bontà particolare né alcuna rettitudine particolare né nessuna coerenza, non gli si chiede nemmeno che creda in quello che fa, non è necessario. Per un matematico risolvere un problema matematico non comporta che lui creda nella matematica, può non crederci, lo risolve lo stesso e nel migliore dei modi, così come un programmatore può fare un ottimo programma per computer non avendo nessun interesse per il computer, lo fa perché lo sa fare e magari lo fa benissimo, molto meglio di altri che lo fanno con fede. L’unica cosa che interessa è che lo sappia fare, poi quello che è lui, per dirla così, non ha nessuna importanza. Dicevo prima, portando le cose all'estremo che potrebbe essere un gangster, se sa fare il suo mestiere va benissimo, se invece non lo sa fare, anche se è una persona santa e piena di buoni intendimenti non servirà a niente, infonderà nella migliore delle ipotesi un’altra religione a chi ne ha più che a sufficienza…rimasta perplessa?

- Intervento:…

Non ho detto che l'analista debba essere cinico, perché se è tale, e cioè analista non gli interessa neanche essere cinico tutto sommato…(….) Perché dovrebbe essere un male? Chi stabilisce che è giusto? Quando è giusto? Quando comincia ad essere sbagliato? E allora possiamo dire solo questo, che essenziale è che non pensi in modo religioso, in modo da potere consentire a chi sta parlando con lui di accorgersi della religiosità del proprio discorso, o per dirla altrimenti del perché pensa in un certo modo, in definitiva solo questo possiamo dire, poi tutto il resto è assolutamente gratuito. Va bene, allora se volete proseguire questa conversazione l’appuntamento è per mercoledì alle nove in via Piffetti 36, grazie a tutti e buona notte.