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LA CONVERSAZIONE PSICANALITICA

 

È il penultimo incontro questo, e dirò delle cose molto semplici che riguardano, come dice il titolo, la conversazione nella psicanalisi. Questione che è stata trattata dopo Freud in tutti i modi, soprattutto per quanto riguarda il che cosa l'analista debba fare o dire oppure non dire o non fare. Siccome Freud non diede nessuna indicazione sul come fare esattamente, ciascuno ci mise del suo. E allora ecco, per esempio chi iniziò a bombardare di interpretazioni, chi invece stava in assoluto silenzio, chi invece lasciava parlare per un'ora e poi diceva che cosa quell'altro aveva voluto dire, insomma vari modi. La questione centrale in una riflessione intorno alla conversazione analitica, riguarda lo scopo che ci si prefigge in una conversazione analitica, questione legittima, e qui la questione si fa complessa. Generalmente lo scopo che si prefigge una conversazione analitica è la cosiddetta guarigione, conversazione come strumento così come la battezzò Anna O: "Talking cure" una cura che avviene parlando, c'è chi prende dell'aspirina, altri invece... ma in effetti così ha funzionato e funziona. Cioè uno parla, racconta quali sono i suoi malanni, e si aspetta che accada qualcosa. Ora non è certamente stato Freud ad accorgersi che il parlare ha un effetto benefico, la cura attraverso la parola era già nota a Platone, ne parla nel Fedro, se l'interlocutore consente di parlare, avviene una sorta di catarsi, di liberazione, ora come vi dicevo questo perlopiù avviene, con qualche piccola variante che riguarda, almeno presso alcune scuole psicanalitiche che una persona, raccontando delle cose, mostri quali sono ad esempio gli aspetti che non funzionano, questo accade soprattutto nella psicanalisi americana, cioè si viene a sapere dove c'è qualcosa che non funziona e allora lo si corregge. Ma la questione più interessante in tutto ciò, e più singolare, è che in effetti tutto questo funziona, per quanto bizzarra la cosa possa apparire, ci sono effetti terapeutici non soltanto nella psicanalisi ovviamente, ci sono altre settanta o ottanta cose che hanno gli stessi effetti benefici o forse anche di più, ma proviamo a considerare bene la questione della guarigione, visto che una persona si rivolge allo psicanalista per guarire da un qualche cosa, da un qualche cosa che generalmente i medici cosiddetti non sanno guarire e allora ecco, si rivolge ad uno psicanalista o anche ad altri. E allora che cos'è la guarigione? Questa è una domanda interessante da porsi o, più propriamente ancora, a quali condizioni è possibile parlare di guarigione? Be, intanto che ci sia qualcosa da cui guarire, qualcosa che interviene come il male, chiamiamolo così in linea generale, un male da cui liberarsi, ma come già gli antichi avevano osservato, è un male ben curioso in quanto è la stessa persona che dice di volersene sbarazzare che lo produce. E questo non è indifferente, uno viene da voi e dice: ho l'angoscia. E allora? Perché mica l'ha ordinato il medico di provare angoscia, ne altri l'hanno costretto, e allora perché, visto che nessuno costringe a provare l'angoscia non ci sarebbe nessun motivo, dico l'angoscia come qualunque altra cosa, qualunque altra cosa che viene enunciata come disagio, come male, come malessere, quello che volete. Dunque da dove viene questa sofferenza? Viene dalla stessa persona. E perché la produce? A che scopo?

Per aggirare la questione è stata inventata la nozione di inconscio che per molti effettivamente funziona come una sorta di deus ex machina, che interviene lì, a risolvere un problema che altrimenti è irrisolvibile, cioè l'inconscio come un'istanza che fa andare in un certo modo, anziché in un altro e per certi suoi motivi. È una tesi che a tutt'oggi è piuttosto accreditata, ma nessuno ci obbliga a credere una cosa del genere. E allora proviamo ad attenerci unicamente alle cose che incontriamo senza ricorrere a "dei ex machina" e cioè che una persona produce ciò stesso di cui si vuole sbarazzare. Come dicevo, situazione ben curiosa, perché questa sofferenza la avverte non come una sua produzione, e quindi qualcosa che decide di provare ad un certo punto, così come uno decide di sbronzarsi e decide di bersi una bottiglia di whisky, non funziona allo stesso modo, ma accade così, che irrimediabilmente ad un certo punto soffra, e allora cosa succede? Succede questo, che ciò che avete di fronte è una persona che fa, che produce qualcosa di cui si deve sbarazzare, come dicevamo prima, ma il fatto che produca questa sofferenza non è un aspetto marginale, ci chiedevamo prima perché, a che scopo. Intanto che cosa possiamo dire di primo acchito? Questo se volete possiamo chiamarlo nevrosi, o come vi pare. Cosa producono in primissima istanza? Sensazioni molto forti, la sofferenza prima di tutto è una grande emozione. Una forte emozione dunque, e una forte emozione è una cosa importante, che può rendere conto anche facilmente di ciò che Freud incontrò dall'inizio della sua pratica, quando le persone andavano da lui per sbarazzarsi di una fobia per esempio, e poi, ad un certo punto del lavoro analitico, si accorgeva che queste persone facevano di tutto per non abbandonare la loro fobia. Cosa che lo incuriosiva: Ma come! Sono venute da me per questo e poi... dovrebbero collaborare tantissimo, e invece cercano di ostacolare in tutti i modi. Ora lui dà una spiegazione, anche se è molto fumosa. Ma consideriamo un aspetto molto semplice, e cioè quello di una emozione. Chi rinuncerebbe a una forte emozione, e in cambio di cosa poi? Dicevamo qualche tempo fa a proposito dei cosiddetti drogati, che perlopiù non cessano di drogarsi, e perché dovrebbero farlo? Il fatto di drogarsi produce delle forti emozioni a cui non rinunciano, e non c'è alcun motivo per cui debbano rinunciare tutto sommato, a meno che, ed è questo il motivo per cui avviene la guarigione, a meno che non ci sia una conversione. Potete metterla così intanto. La guarigione esiste unicamente all'interno di una struttura religiosa, fuori dalla religione, non c'è nessuna guarigione, di nessun tipo.

Ma precisiamo meglio la questione, dicevamo prima che la guarigione, di per sé presuppone, direi per definizione, la necessità di liberarsi di qualche cosa che necessariamente è inteso come male. Ora con queste premesse e a queste condizioni è inevitabile che, dicevo forse già all'inizio di questa serie di incontri, per potere soffrire occorra che ci sia della credenza, della religione, per guarire è indispensabile proprio strutturalmente che io creda nel male, ma se non ci credo non lo provo? No molto semplicemente, no. E perché? Perché non lo produco. Semplicemente. Non fa una grinza, cioè non ho bisogno di produrlo, non avendo bisogno di produrre il male, non ho bisogno di credere nel male, non credendo nel male la guarigione non c'è. Detto questo potremmo anche chiudere, abbiamo detto l'essenziale ma, giusto per andare avanti ancora un po', possiamo aggiungere questo, che dicendo che non c'è guarigione fuori dalla struttura religiosa, diciamo che lo stesso parlare di guarigione, la stessa domanda di guarigione implica necessariamente una struttura religiosa, e allora la domanda di guarigione è una domanda ben curiosa, perché per il solo fatto di porre la questione enuncia l'esistenza di una struttura religiosa che supporta questa domanda. E allora cosa avviene perlopiù? La risposta da parte delle persone preposte a intervenire in questo caso, gli psichiatri, gli psicologi, gli psicanalisti e chi più ne ha più ne metta, è una risposta altrettanto religiosa, e quindi entrambi si adoperano per una migliore gloria di dio, o chi per lui, in quanto c'è una risposta a una domanda - Vuoi la guarigione? Eccola -. Chiaramente c'è un unico modo per guarire, dicevamo prima, essendo la guarigione un fenomeno prettamente religioso, e cioè la conversione, la conversione religiosa. Quando, dicevo, i cosiddetti drogati, adesso però vanno meno di moda, una volta molto di più, smettono di drogarsi? Quando si convertono a un'altra religione, e cioè credono un'altra cosa. Prendete l'intervento analitico tradizionale, e cioè quello che deve guarire: prende un enunciato, un racconto di una persona; ha alla sua destra, nelle migliori delle ipotesi una teoria, se no una tecnica, una tecnica che gli consente di volgere questo enunciato, questo discorso che ha ascoltato in un altro discorso. Come fa un traduttore, e impone questa traduzione come la versione corretta del discorso. Ora questa persona che si è rivolta all'analista o allo psichiatra o allo psicologo, quello che volete, perché crede a ciò che gli dice lo psicanalista? Questa è una bella questione, potrebbe non crederci affatto, ci crede perché la sua domanda, se ci riflettiamo bene, è di guarigione ma, in quanto domanda di guarigione, è domanda di credere, e l'altro gli risponde per le rime, cioè gli offre qualcosa in cui credere, sistemato in un certo modo, che sia più facilmente credibile, ma tutto sommato gli offre esattamente ciò che cerca, e cioè dei motivi per credere, a questo punto avviene la conversione e quindi la guarigione. Cioè la persona non crede più le cose in cui credeva prima, per esempio non crede più di essere abbandonato da dio e dagli uomini, ma crederà che questa idea procede, per esempio, dal fatto che c'è stato un problema nei confronti della mamma, di odio e di amore che non ha risolto, adesso l'ha risolto e quindi sa di che cosa si tratta, e adesso crederà questa altra cosa che non è né migliore né peggiore di quella precedente, però ciascuna conversione ha sempre effetti terapeutici, perché comporta l'abbandono dell'errore e l'ingresso nella verità, e quindi nella salvezza.

L'abbandono dell'errore e l'ingresso nel mondo della verità, della salvezza ha sempre per definizione effetti terapeutici, fa stare meglio, esattamente così, e per lo stesso motivo, per cui una persona sta meglio quando in una conversazione, in una discussione, si accorge di avere ragione dell'altro, e allora si sente bene, si sente benissimo, se succede la mattina allora va bene tutta la giornata. Il fatto di avere stabilito che cosa è vero e quindi avere individuato il falso, è questo che ha effetti terapeutici, è questa la conversione che è sempre la stessa cosa, ha straordinari effetti terapeutici, non è un caso che la chiesa, che è sempre molto attenta a queste cose, si sia sempre più impadronita delle terapie, delle tecniche psicologiche e psicanalitiche, in particolare quella di Jung, che è più consona allo spirito ecclesiastico, in Freud c'è la questione del sesso, non andava tanto bene, e invece Jung, il pastore svizzero, protestante, è una meraviglia, e suggerirono a molti dei loro preti di seguire una formazione della, come la chiamano loro, della psicologia del profondo. Ma, vi dicevo, la chiesa si sta impossessando molto abilmente e inserendo e introducendo nel discorso corrente questa novità, e cioè che la preghiera (una novità, non è una novità affatto, è una novità rispetto all'accostamento tra le tecniche psicoterapeutiche e la preghiera) ha effetti terapeutici, se tutti insieme ci mettiamo a pregare per un nostro amico, può accadere che il nostro amico guarisca o anche può accadere che non guarisca. Sarebbe guarito anche da sé, sì forse, oppure effettivamente guarisce perché si sente al centro dell'attenzione, perché non lo so, possono essere milioni di cose, perché una persona ad un certo punto cambia modo in cui pensare, cessa di credere a certe cose e ne crede delle altre, per cui per esempio comincia a cessare di credere di stare male, e quasi immediatamente, come miracolato, sta bene. E allora, dicevo, la religione non ha affatto torto a porre la questione in questi termini, la guarigione è religiosa per definizione e quindi è giusto che sia proprietà del Vaticano. Ma, dicevamo della conversazione psicanalitica, adesso abbiamo detto soltanto un aspetto della conversazione psicanalitica, anche molto marginalmente, e cioè quello che avviene laddove lo scopo che è stato prefissato è quello della guarigione, ma se non è quello della guarigione lo scopo? Ma allora generalmente una persona non avvia una pratica analitica, non gli importa assolutamente nulla, ciò che vuole è soltanto guarire, credere in un'altra cosa che gli si faccia credere essere più vera, più accreditata, più importante, tutto quello che volete, da tutto ciò che abbiamo detto quest'anno da gennaio fino ad adesso, affiora un'altra figura, se volete, giusto per non fare confusione, non chiamiamolo più psicanalista, ma sofista, in omaggio agli antichi. Ecco, in questo caso una conversazione avviene in un altro modo ovviamente, di che cosa si tratta in questo caso propriamente? Non di togliere la sofferenza ma di considerare che ciò che viene chiamata sofferenza è esattamente ciò che la persona produce e che quindi desidera. Proviamo a porla in questo modo: tutto ciò che io produco, intendo nei miei pensieri, nel mio discorso, in ciò che credo ecc., e che nessuno mi costringe a fare, ma che faccio da me, chiamiamo questa produzione desiderio, o il desiderio è qualcosa di meglio? Ma la persona generalmente dice di non volere una cosa del genere e quindi si dovrebbe supporre che non la desideri, ma se non la desiderasse non la proverebbe, visto che, torniamo a ripetere, nessuno la costringe, ma se lo fa ha dei buoni motivi. Dicevo che tenere conto di questo aspetto può risultare di straordinario interesse. Una persona non soffre perché qualche cosa a sua insaputa, e che bisogna eliminare, la costringe a soffrire, proprio per nulla, di questa sofferenza ne ha l'assoluta, totale e irreversibile responsabilità. Responsabilità non penale ovviamente, una responsabilità che potremmo chiamare intellettuale, e allora se soffro cosa faccio esattamente? Produco una sensazione che chiamo sofferenza, la produco perché questa sensazione è irrinunciabile, c'è un termine per descrivere tutto questo: si chiama piacere, anche se la sofferenza e il piacere non sono considerati sinonimi generalmente, in alcuni casi, in alcuni casi risulta che il limite tra l'uno e l'altro, come ciascuno di voi sa, sia molto labile per potere stabilirsi, ma generalmente si considera il piacere qualcosa che si prova e che si cerca, mentre la sofferenza è qualcosa che si subisce, come il termine stesso ci indica.

Allora dunque, se questa sofferenza è una mia produzione, nel senso che faccio tutto da me, posso considerare allora questa emozione, questa sensazione che produce la sofferenza come l'obiettivo della sofferenza. Non è proibito soffrire, ma non è neppure obbligatorio, è facoltativo, chi vuole farlo può farlo. Tuttavia, dicevamo prima, qualcosa è sofferenza perché è affiancata da un enunciato che dice che non la vuole, che apparentemente contraddice tutto ciò che stiamo affermando, ma noi restiamo fermi su questa posizione, salvo supporre o immaginare che siano gli extraterrestri, potenze occulte, o chissà quale altra diavoleria il responsabile, ma nulla ci costringe a pensare una cosa del genere, noi sappiamo soltanto una cosa, che soffre e che nessuno la costringe a fare una cosa del genere, solo questo, ciò che ne traiamo è che questa sofferenza è la sua produzione, e se la produce è per qualcosa. Perché la sofferenza si produce da pensieri, da immagini, da discorsi che sono i suoi, e allora questa sofferenza, cioè questa sensazione che chiama sofferenza dice di non volerla. Ma questa è una questione prettamente grammaticale, nel senso che se parlo di sofferenza allora alludo a qualcosa che non voglio, anche se talvolta la cosa non è così precisa, così ben marcata, ci sono persone che più o meno consapevolmente dicono di soffrire e che in questa sofferenza c'è del piacere, come se ci si gongolasse... - ogni tanto cito agli amici il film di Troisi "Pensavo che fosse amore e invece era un calesse" dove lui soffre moltissimo, come sempre in tutti i suoi film, e per amore ovviamente, e quando un amico cerca di distrarlo lui, indispettito, dice di lasciarlo soffrire in pace, vuol soffrire per un'oretta tranquillo...

- Intervento: Lei dice che la sofferenza è voluta, mi sembra un po' azzardato come discorso, secondo me è un po' il discorso del giardino terrestre, il fatto della conoscenza, il fatto di sapere...

Perché il sapere dovrebbe produrre la sofferenza?

- Intervento: Perché più sai e più soffri...

Sì, ma perché questo dovrebbe produrre la sofferenza?

- Intervento: ... cioè la sofferenza può essere sapere che uno ha così, un altro ha cosà, uno non ha quello che desiderava... non è che una persona se la voglia produrre è legato alla conoscenza...

Sì, però la questione rimane, e cioè perché tutte queste cose dovrebbero produrre sofferenza? Supponiamo anche una conoscenza, una conoscenza sterminata, illimitata perché dovrebbe produrre sofferenza, per quale via?

- Intervento: quando l'uomo viene a conoscere la morte... che la morte può arrivare in ogni momento. Si viene a conoscenza della morte e dei pericoli correlati alla morte, le malattie, una continua spada di Damocle

Sì, certo, io posso credere tutte queste cose, ma posso anche non crederle, e allora soffro oppure no? È una questione perché se tutto ciò non mi crea nessun disagio, nessuno smarrimento, nessun timore, allora a quel punto non soffro. La questione è propriamente quella che si diceva poc'anzi, e cioè: perché la conoscenza produce la sofferenza anziché no? E poi occorrerebbe provarsi a definire la sofferenza, la sofferenza è qualcosa che non si vuole, ma anche la nozione di volontà non è così facilmente definibile, in effetti in ciò che andavo dicendo c'era qualcosa di molto semplice, nel senso che una persona dice che soffre, nessuno la costringe a farlo, perché lo fa? E questa sofferenza teniamo sempre conto che è una produzione del suo discorso, dei suoi pensieri, delle cose in cui crede, di tutto ciò di cui è fatto, solo questo sappiamo. Dicevo prima, soffre se e soltanto se desidera farlo, sì ovviamente qui occorre precisare questa nozione di desiderio. Cosa dobbiamo intendere con desiderio? Ciò che mi muove a fare delle cose, e questo ciò che mi muove è qualcosa che mi riguarda ? O soltanto ciò che mi muove a dire delle cose? È ovvio che può non essere facilissimo definire una nozione come quella di desiderio, ma proviamo semplicemente a dire ciò che non possiamo non dirne, giusto perché se no non sapremmo che cosa intendere con desiderio. Potremmo in linea generale intenderlo come qualche cosa che si produce in un discorso e che mi spinge in una direzione, solo questo intanto. È una definizione generale, ma d'altra parte bisogna pure che cerchiamo di intenderne qualche cosa, intendere nel senso di stabilire che cosa il desiderio non può non essere se vogliamo potere usare quel termine. Posta la nozione di desiderio in questi termini, dire che una persona soffre, perché desidera soffrire, è assolutamente ineccepibile: qualcosa che riguarda il suo discorso la muove in quella direzione, né più né meno. Certo il desiderio, è una nozione come moltissime altre molto vaga, molto labile, è praticamente quasi onnicomprensiva, però posta in termini molto vaghi appunto rischia di comprendere tutto e niente, e possiamo dire del desiderio soltanto questo, cioè ciò che si produce nel mio discorso e che mi muove in una certa direzione. Allora risulta molto più semplice intendere che se soffro allora qualcosa nel mio discorso mi muove in quella direzione, che cosa sia o perché, adesso non sappiamo, né ci interessa, ma questo dice soltanto di una sorta di responsabilità; potremmo dirla in termini ancora più precisi e cioè, se soffro, la condizione perché soffra è che io mi trovi a fare una sorta di gioco linguistico che ha delle regole ben precise, per esempio, quando una persona ti dirà così, tu soffrirai, allora ogni volta che una certa persona, con certi requisiti dirà quelle cose lei soffrirà, qualcuno la obbliga? No, anzi, i più la sconsigliano, se vogliamo dirla tutta. Però questo non le impedisce di farlo, e cosa avverte in questa cosa che è chiamata sofferenza? Un'emozione molto violenta, molto forte, tanta più è forte tanto più è irrinunciabile, si tratterrebbe certo di interrogarsi in modo molto preciso, proprio sulle sensazioni, sulla loro forza. Un'attrazione fatale. Di fatto non è stato mai detto nulla di interessante intorno alle sensazioni. Perché esercitano un'attrazione così forte? Lungo una pratica, chiamiamola analitica, l'unica condizione che una persona guarisca è che si converta. Se io per esempio gli propongo un'altra religione, e la persona si converte, allora guarisce, sta benissimo, se no, no. Ma accennavamo all'eventualità che non si dia soltanto questa ipotesi, pur essendo la più diffusa e la più accreditata, al punto che sembra arduo pensare altrimenti, ma per esempio rispetto alla questione connessa alla sofferenza bisognerebbe cominciare a reperire quali siano le regole del gioco che è la condizione perché si possa provare la sofferenza, perché si possa soffrire, perché senza queste condizioni non si soffra. Se per caso dovesse cadere per terra questo foglietto non soffro, perché? È una bella questione, potrebbe apparire molto banale, ma non lo è affatto, e rispondere a una domanda come questa, per quanto sembri banale, è straordinariamente difficile rispondere in modo interessante. Occorrono delle condizioni perché io soffra, se no, no non c'è verso, e se queste condizioni non si danno, non si dà la sofferenza, ma oltre a questo possiamo anche stabilire quali siano queste condizioni, e qualche cosa abbiamo già detta rispetto alla struttura del discorso religioso. All'inizio abbiamo fatto un esempio molto semplice per cui effettivamente ciò che mi induce a soffrire è qualche cosa in cui credo. Come già si diceva, posso credere un certo discorso e questo mi porta a soffrire, se io credo che la conoscenza comporti la sofferenza allora soffrirò, se no, no perché la conoscenza di per sé non comporta assolutamente nulla. Né la conoscenza, né altre cose ovviamente. Come dicevamo prima posso avere una conoscenza illimitata, sterminata, e non succede niente, ho una conoscenza sterminata e poi mi fermo lì, so che sono mortale e quindi, con questo? E poi posso sapere infinite altre cose, ma di per sé tutte queste altre cose che posso sapere sono nulla se non sono inserite in un gioco linguistico che attribuisca a questi elementi un senso, una portata, e che le pone come regole di un gioco, e allora se credo una certa cosa allora soffrirò inesorabilmente, ma anche questo non è assolutamente necessario. Certo, la condizione per soffrire esiste nella struttura religiosa, però detto questo occorre anche considerare che in questa struttura religiosa la sofferenza è cercata. Perché? È stata fatta un'economia della sofferenza soprattutto con il cristianesimo, presso gli antichi greci molto meno, amavano meno soffrire, comunque sia la sofferenza è stata anche questa monopolizzata. È stato detto che soffrire è degno, nobile e bello, lo stesso Gesù Cristo ha sofferto e allora se l'ha fatto lui che è una persona altolocata rende degna qualunque forma di sofferenza anzi, la sofferenza è cara agli occhi di dio e quindi soffrite e vi meriterete il paradiso. Certo la questione posta così può sembrare molto ingenua, e per alcuni aspetti lo è, tuttavia funziona, funziona in un modo straordinario e ineccepibile per ciascuno, che lo sappia o no, che lo voglia oppure no. C'è un erotismo nella sofferenza che è straordinario, e la chiesa ha avuto il merito, fra le altre cose, di monopolizzarlo e monopolizzandolo consolidarlo, quasi una dignità teorica, teoretica per altri aspetti. Jacques Lacan, fra le altre cose che scrisse, ne scrisse anche una che si chiama "Parafrasi di Kant con Sade", la struttura del discorso sadiano è fortemente religiosa, fortissimamente religiosa, e lì la sofferenza e il piacere sono la stessa cosa. Lui ha inteso perfettamente, Sade, anche Kant per altro verso, come la sofferenza se è snobilitata diventa erotismo, se invece è nobilitata allora è una cosa totalmente differente, rispettata, considerata e tutto sommato incoraggiata, se invece è snobilitata no, diventa una cosa abbietta. Le due posizioni, quella di Kant e quella di Sade, leggetelo questo saggio di Lacan è divertente - Kant avec Sade -...

- Intervento: Sade il divino marchese?

Si. Proprio lui.

- Intervento: Io non capisco, una martellata sul ginocchio fa soffrire oppure no, esiste oppure no?

La questione è ardua se lei pone la nozione di esistenza. Avevamo accennato proprio a questo aspetto, quello dell'esistenza, quando ci chiedevamo che cosa esiste e che cosa ci stiamo dicendo, dicendo che qualcosa esiste. Che io dica che una martellata sui denti fa male oppure no, non faccio nulla di straordinario dicendo che né l'una cosa né l'altra, se cerco di stabilire un criterio assoluto, extralinguistico e immutabile e immutevole allora sarò costretto a crederci, come dire che chiedersi se una martellata fa male oppure no può essere o un non senso oppure esigere a questo punto che si precisino ciascuno di questi elementi che compongono questa proposizione, se no non significa niente, cioè non è possibile formulare nessuna risposta, se sappiamo che cos'è il male, allora se con il male intendiamo una certa cosa allora una martellata sul dito fa male, se per male intendiamo una certa altra cosa, allora non fa male. Però potrei dire: è pur sempre qualche cosa, ma come lo so? Perché lo provo? E allora? Le questioni non sono semplici se si prendono in termini radicali, in termini estremi, così come la sto ponendo, e cioè in termini di esistenza, cosa che generalmente non avviene che si ponga in questi termini, ci si ferma molto prima, ci si arresta così, a ciò che comunemente è accreditato, ciò che comunemente è creduto, però d'altra parte uno si ferma dove vuole. E definendo la sofferenza come una forte sensazione abbiamo detto tutto e niente, e comunque soltanto qualcosa che in ogni caso fa parte, direi per definizione, della sofferenza, niente più di questo. Può essere talvolta utile cercare di definire un elemento senza aggiungere nulla più di ciò che non sia assolutamente e strettamente necessario dire, proprio per avere una maggiore libertà, se no dovremmo precisare che cosa intende con sofferenza Beatrice, che cosa intende con sofferenza Eleonora e non finiremo mai. Allora che cosa non possiamo non dire, proprio per continuare a parlare di questi termini? Potremmo dire che la sofferenza non è un'emozione? No, e quindi intanto questo, provare un'emozione, e le domande che ci stiamo chiedendo riguardano come avviene, tenendo conto di un discorso che accade e cioè che una persona enunci, perché di qui siamo partiti, di soffrire e di volersi liberare di questa sofferenza, questo è il punto da cui abbiamo preso le mosse, chiede dicevo di liberarsi esattamente di un qualche cosa che lui stesso produce, e che nessuno lo costringe a fare, questo è l'avvio da cui siamo partiti in queste considerazioni. Tutto sommato ciò che vi sto dicendo non è altro che un prendere atto di una responsabilità in cui ciascuno si trova e tutto ciò che dice, che pensa, che crede anche se ovviamente le cose che dice, che pensa, che crede muovono da altre cose, che sono venute non dal nulla, ma ascoltate, lette, sentite e che costruiscono, anzi lo costruiscono letteralmente, ciascuno è fatto di queste cose...

- Intervento:... però il suo modo di porsi troppo legato alla parola... allora si può costruire di tutto con la parola e allora tutti questi tumori che ci sono in giro? Se uno arrivasse a questa consapevolezza forse riuscirebbe ad intendere meglio perché uno si ammala... sei tu che ti ammali, tu che come corpo e anima che ti ammali, che poi però non esista la sofferenza...

No, io non ho detto che non esiste la sofferenza, ho detto che esiste. Oggi si dice che moltissimi muoiono di tumore, anziché morire di che? C'è questo fatto che Aristotele ha sancito una volta per tutte, che gli umani in quanto mortali, muoiono, allora sì certo, si muore di tumore o di qualunque altra cosa, però giustamente questa signora poneva la questione di un certo interesse. Per altro ci sono molti oncologi e anche altri che considerano questo con attenzione, ma la questione della parola non direi che porta a una distanza dalle sensazioni, dalle emozioni, tutt'altro, è che effettivamente attraverso che cosa io posso fare delle considerazioni e quindi riflettere o interrogarmi o dire di qualunque cosa? Attraverso la parola. Per questo abbiamo incominciato a tenere conto di questo aspetto in modo più deciso, anche per considerare quali risvolti comporti il fatto che necessariamente, per potere parlare di qualunque cosa, sono costretto appunto a parlarne, e questo sembra comportare delle implicazioni e delle conseguenze non indifferenti, ecco perché una certa attenzione alla parola che non toglie nulla alle sensazioni, alla sofferenza che c'è in quanto ciascuno la avverte, avverte qualcosa che chiama sofferenza e quindi esiste. Ciò che sto dicendo questa sera è che per una serie di elementi che abbiamo detti in tutti questi mesi, perché ci sia sofferenza occorrono delle condizioni e noi stavamo riflettendo proprio intorno a queste condizioni, cioè a quali condizioni io posso soffrire. Poi accade talvolta che qualcuno ci chieda di sbarazzarlo della sua sofferenza e, come dicevo prima, è una domanda un po' paradossale, però non ci esime dal rispondere, da qui le riflessioni intorno alle condizioni della sofferenza.

- Intervento: Lei prima parlava della conversione di una religione in un altra religione, e mi veniva in mente che proprio Freud ha inventato la psicanalisi ascoltando delle isteriche, il cui sintomo si convertiva in un altro sintomo fisico (la famosa conversione isterica), e mi sembra che non a caso si siano usati questi termini, conversione, in qualche modo della dissoluzione del sintomo del male in un altro male, in un male minore...

Sì questa è la tesi di Freud, la nevrosi come il male minore...

- Intervento: Lui diceva che una volta che questo male si fosse cambiato, non c'era più dolore, né sofferenza e quindi trovare un'altra religione è trovare il male minore, per non sentirlo più perché ci sia assenza completa di emozione in qualche modo, di sensazione, cosa che invece ciascuno ricerca e qui sta il paradosso, la ricerca continua della sensazione, e mi chiedevo come quella sensazione che continuamente si produce, a meno che uno non supponga che ci sia qualcuno che permette questa sensazione e allora abbiamo il destino, dio, la natura ecc.., mi chiedevo cosa comporta intanto parlare di produzione e come sia difficile parlare di produzione e non invece di qualche cosa che c'è in qualche posto, questo desiderio...

È una formulazione paradossale, cioè che la malattia cosiddetta non sia altro che la volontà di guarigione...