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LA PSICANALISI: UNO STRAORDINARIO MODO DI PENSARE.

 

21/1/1998

 

Potremmo partire dal titolo di questo incontro che accosta la psicanalisi ad un modo di pensare anziché come generalmente avviene, con la terapia. Parlare di psicanalisi come modo di pensare, in effetti, pone la questione in termini radicali, dove non si tratta di trovare un metodo per curare alcuni disturbi noti come nevrosi o psicosi, ma qualcosa che va’ oltre e cioè riflette, in effetti, su come si pensa generalmente, su come accade di pensare in un certo modo. Lungo gli incontri dello scorso anno abbiamo affrontato alcuni temi prettamente psicanalitici, in particolare la nosografia psicanalitica con i suoi discorsi (isterico, schizofrenico, etc.), ma sempre tenendo presente che ciascuno di questi discorsi, in effetti, è un modo particolare di pensare, con tutte le implicazioni che questo comporta, ma ciò che avviene, o ciò che stiamo facendo in questi anni rispetto alla psicanalisi è soprattutto una sorta di esercizio a pensare. Parrebbe una cosa abbastanza banale, tutto sommato, in quanto ciascuna dottrina, a modo suo, si pone questo obiettivo, però, qui pensare assume una connotazione un po’ differente, perché si tratta di pensare anche lungo un itinerario analitico in un modo tale per cui di fatto tutto ciò che viene accolto generalmente come ovvio, come scontato, come inevitabile, viene invece messo in discussione, non per un particolare ghiribizzo, ma perché proprio ciò che è dato per acquisito, per scontato, comporta generalmente una serie di assiomi, di principi su cui ciascuno fonda la propria esistenza, e questi principi, questi assiomi non sono altro che ciò che la persona considera la realtà delle cose, dei fatti, vale a dire ciò che di più stabile, di più sicuro, di più certo possa pensarsi. La psicanalisi si è adoperata in questo secolo per inserire all’interno delle varie dottrine, delle varie teorie, anche il suo modo di pensare; tuttavia la psicanalisi così come ciascun’altra dottrina ha sempre preso le mosse da un impianto dottrinale il quale muoveva da osservazioni, da considerazioni fornite dall’esperienza, oppure da una sorta quasi di "necessità logica", pensate alla nozione di inconscio, per esempio, il quale giunge a questa nozione quasi necessariamente, come dire che supponendo che gli umani compiano azioni che non hanno origine consapevole, allora necessariamente queste azioni non sono consce(dice lui) e quindi sono inconsce. Certo, è un modo di procedere che tuttavia comporta una serie di problemi : il primo fra questi problemi che si pongono ovviamente se si considera la questione in termini rigorosi , il problema che incontra, uno dei tanti, è quello della fondabilità di tali affermazioni, non della scientificità, ma della loro fondabilità; su cosa si fonda un’affermazione come quella che afferma che l’inconscio esiste, dicevo prima sull’osservazione e quindi su una serie di deduzioni che muovono dall’osservazione. Ma come ciascuno sa’, l’osservazione non è un parametro così certo, così sicuro, tant’è che come ciascuno di voi sa’, ciascuno osserva un’infinità di cose e ciascuno trae conseguenze non necessariamente simili a quelle che ha tratto un’altra persona che ha osservate le stesse cose. Insomma, l’osservazione non ha un fondamento così affidabile, eppure una parte per esempio della psicologia, ma anche della psicanalisi muovono proprio dall’osservazione. L’osservazione è un metodo che giunge a quelle conclusioni che generalmente si aspetta di trovare, in definitiva l’osservazione non fa’ altro che confermare ciò che si immagina che l’osservazione mostri. Per questo e per altri motivi abbiamo preferito non fondarci sull’osservazione, perché questa instaura un modo di pensare che è per moltissimi versi molto simile a quel fenomeno noto come superstizione, la quale superstizione al pari di una infinità di altre dottrine o scienze, si fonda sull’osservazione. Però, porre la superstizione a fondamento di una ricerca ci è parso non sempre così interessante; non interessante in quanto, come dicevo prima, promuove una ricerca che è supportata da affermazioni che risultano arbitrarie; perché arbitrarie? Perché è sempre possibile formulare una proposizione che le nega, e quindi ci sono parse poco utilizzabili, voglio dire questo, che ci sono parse poco utilizzabili al pari di qualunque altra affermazione altrettanto gratuita o arbitraria, cioè non necessaria. Perché muovere soltanto da ciò che risulta necessario?(non è necessario in effetti). Però, visto che è di pensiero che si tratta, perché non portarlo alle estreme conseguenze. E così ci siamo addentrati in un percorso che mano a mano, sempre più, si è configurato come una sorta di esercizio o addestramento a pensare, cosa che generalmente, anzi quasi sempre è la cosa socialmente più inutile e più malvista; tuttavia abbiamo proseguito lo stesso. Dunque, cosa intendiamo qui con pensare; ho fatto un accenno prima, ma forse occorre precisare visto che è la questione centrale rispetto tutto ciò che andiamo facendo rispetto la psicanalisi. Con pensare intendo il seguire ciascuna argomentazione sino alle sue estreme conseguenze, ciascuna argomentazione e quindi ciascuna affermazione, ciascuna considerazione, ciascuna riflessione. Quali sono le estreme conseguenze? Come sapete, ciascuna affermazione si pone come vera, o come potenzialmente vera, ma ciò su cui si supporta questa affermazione, non risulta ne vero, ne potenzialmente tale. Perché questo? Perché non può rendere conto di se, perché non può stabilire un criterio definitivo per compiere questa operazione. Possono sembrare cose abbastanza banali, in effetti lo sono ma ripercorrono in buona parte il modo in cui funziona il pensiero di ciascuno e quindi anche delle persone che iniziano un’analisi, per esempio le quali inizieranno a riflettere esattamente in questi termini cioè muovendo da elementi che ritengono assolutamente certi. Si tratta in una analisi di porre qualche obiezione esattamente così come è possibile porre delle obiezioni a una teoria o ai principi che la sostengono. Ma è sempre possibile porre delle obiezioni ad una teoria? Sì è sempre possibile, dal momento che ciascuna teoria parte pure da qualche cosa e questo qualche cosa è sempre, come si diceva all’inizio, frutto dell’osservazione, della tradizione o di ciò che è ritenuto creduto dai più. Una persona pensa esattamente in questo modo, cioè esattamente come funziona una qualunque dottrina filosofica o scientifica, non è differente la struttura, poi la dottrina filosofica o scientifica possono essere più o meno elaborate, più o meno sofisticate, ma il criterio è questo. Perché straordinario modo di pensare? Perché esce dall’ordinario, e ordinario è il modo di pensare, intendiamo qui in questa occasione come ordinario il modo di pensare del discorso occidentale, cioè quello che sostiene che non tutto è nella parola. Questa affermazione che ho appena enunciata è il paradigma del discorso religioso, o se preferite il paradigma di ciascun paradosso. Se leggete i manuali o testi di psicanalisi, ma non soltanto, vi accorgerete immediatamente che ciascuno di questi è alla continua ricerca di quell’elemento che possa garantire che qualche cosa è fuori dalla parola. Considerazione che può sembrare abbastanza bizzarra, tuttavia affermare che un elemento è fuori dalla parola rimane un paradosso, dal momento che non posso affermarlo in nessun modo se non attraverso alla parola. Questione non marginale; come sapete una psicanalisi si svolge lungo la parola, è un discorso che si svolge, è un discorso che è fatto in buona parte di affermazioni, di deduzioni di inferenze; ciascuno per esempio enunciando un disagio, in molti casi ne enuncia anche le sua inevitabilità, così come per esempio nel discorso ossessivo o peggio ancora nella cosiddetta depressione. Così come stanno le cose è inevitabile che per esempio io sia depresso o stia male. Ma, da dove trae la considerazione che le cose stiano così come pensa che siano? Esattamente dalle stesse cose per cui il discorso scientifico trae le sue conclusioni, o il discorso filosofico, o qualunque altro, non è assolutamente differente. E quindi considerare o riflettere intorno al discorso di ciascuno ha comportato il riflettere in termini precisi intorno a come funziona ciascuna affermazione, qualunque essa sia; che affermi che esistono le razze inferiori o superiori, o che esista la legge di gravitazione universale, sono affermazioni e come tali strutturate in un certo modo, perché un’affermazione per essere tale deve procedere da altre, e queste altre da altre ancora. Dunque straordinario dicevo, nel senso di non ordinario, non comune o quanto meno di un modo che si allontana da tutto ciò che è il discorso occidentale,(anche orientale) impongono come norma, e la norma è questa: che è necessario che almeno un l’elemento sia fuori dalla parola. Abbiamo provato a considerare invece che questa eventualità non si dia, e cioè che non vi sia un elemento fuori dalla parola. Questa semplice considerazione ha comportato immediatamente un sovvertimento piuttosto radicale di tutta una serie di questioni; prima fra tutte è che se ciascun elemento è necessariamente un elemento della parola, questo è connesso con altri elementi, cioè esiste in quanto connesso ad altri in una catena significante, per esempio, e quindi ancora che non ha nessun senso di per se ma il senso gli è fornita dalla catena in cui è inserito, la quale può variare e variando la catena varia il senso, considerazione banalissima che già De Saussure aveva formulato in modo abbastanza preciso. Considerazione che già sbarazza della possibilità di trovare il senso ultimo, per esempio e quindi quell’elemento caro a tutto il pensiero che è noto generalmente come verità. Non è che sbarazzi della verità nel senso che ciò che facciamo o le cose che diciamo non possano considerarsi tali, ma diciamo che toglie la portata a questo significante verità, riducendolo a significante cioè un elemento linguistico, il cui senso e fornito di volta in volta dalla combinatoria in cui è inserito. Anche questa considerazione può sembrare piuttosto strampalata, perché una persona che sta’ male generalmente non si cura di verità o di tabelle verofunzionali. Tuttavia, crede che il suo stare male sia vero, se lo ritenesse falso non starebbe male, non per una questione di autoconvincimento o di autosuggestione, ma per una questione grammaticale che è molto più potente della suggestione cosiddetta, allo stesso modo per cui non può credere vera una cosa che sa’ essere falsa, ma se dico che sto’ male, se quindi credo necessariamente che questo sia vero, da dove traggo questa certezza? La traggo da una serie di considerazioni; ma se cessassi di credere che è vera la proposizione che afferma che sto male cesserei di stare male? La questione non è semplice, però potremmo riassumerla in due parole, che riassume anche brevemente tutto ciò che andiamo facendo e cioè la possibilità di pensare fuori dal linguaggio mi è barrata, non lo posso fare in nessun modo. Se affermo o se immagino, se sento, se so’ di stare male, tutto questo non può in nessun modo porsi fuori dal linguaggio, non posso uscirne, in qualunque via tenti di praticare questa uscita mi è impedita, e allora tutto ciò che penserò, che farò, che sentirò, riguarderà comunque il linguaggio e cioè quella struttura che mi consente di dire, per esempio, che sto male. Ma posso stare male senza dirlo? La risposta affermativa sembra ovvia, ma non lo è, perché se non lo potessi fare, cioè affermare che sto male, effettivamente io non starei male perché lo stare male in quanto formulazione linguistica non esisterebbe, ma, sentirei pure qualcosa, il problema è che fuori dal linguaggio non possiamo saperne assolutamente nulla. Allora posso immaginare che lo sentirei comunque, posso pensare che non lo sentirei, posso pensare qualunque cosa e il suo contrario altrettanto legittimamente. È una questione molto complessa, tuttavia ecco, portare il pensiero alle estreme conseguenze comporta esattamente questo dal momento che il pensiero per potersi fare necessita di una struttura che glielo consenta, e questa struttura è ciò che generalmente è noto come il linguaggio. In tutto ciò è ovvio che si incontrano notevoli difficoltà oltre che perplessità; affermare che fuori dal linguaggio non c’è lo stare male può sembrare un’affermazione paradossale o assurda o fuori di senso, il problema è che affermare il contrario non ha nessun senso dal momento che fuori dal linguaggio non potrei neanche pormi la questione. Per tornare alla questione della psicanalisi e al modo di pensare, si tratta a questo punto di incominciare a tenere conto in modo sempre più rigoroso di ciò che comporta la parola, come si connette, che cosa fa’ e anche, ovviamente, che cosa non può fare. Una sola cosa non può fare: uscire dal linguaggio, tutto il resto sì. Che cosa comporta, dunque, quali implicazioni, quali connessioni, considerando che ciascuna parola esiste in quanto elemento linguistico e quindi connesso con altri. Parrebbe posta così la questione che in nessun modo possa fermarsi la parola su un punto perché questo punto non potrà mai rappresentare l’ultima parola. Eppure avviene, questo fenomeno straordinariamente bizzarro per il quale ad un certo punto si è considerata una parola come l’ultima, e allora di volta in volta è stato Dio, è stata le verità, è stata qualunque altra cosa. Ma come è potuta accadere una cosa del genere visto che le considerazioni che abbiamo fatte chiunque può farle, ma qui possiamo inserire un elemento che ci viene dal luogo comune. Luogo comune che potremmo definire con una sorta di definizione non lontanissima da quella che propone Aristotele, come il luogo in cui la parola cessa di essere arbitraria e diventa necessaria senza esserlo, una qualunque affermazione che si ponga come necessaria ma non lo è, questo è un luogo comune, o più semplicemente ciò che è accreditato dai più come vero. Dunque nel luogo comune si parla spesso della necessità di dire, di comunicare, c’è qualche cosa in questo luogo comune che merita di essere considerato, per esempio il fatto che se la parola non può essere sganciata dalla combinatoria in cui e per cui esiste, allora effettivamente ciascuna parola trae ad un’altra. Ma che cosa ci cerca parlando? Che cosa ci si attende dall’interlocutore, per esempio un analista all’occorrenza o chiunque altro. Ci si attende che le proprie parole trovino un utilizzo, uno scopo o una finalizzazione, o un senso che si immagina che sia fornito unicamente dal fatto che l’altro le ascolta e ascoltandole in un certo senso le fa esistere. Questione antica questa, della necessità di parlare, come se parlare tra sé e sé fosse altro del parlare con altri, in effetti, se ci riflettete bene non trovare nessun elemento che possa stabilire una differenza necessaria fra il parlare fra sé e sé e il parlare con altri. Tuttavia ciascun avverte una differenza, ma c’è l’eventualità che questa differenza sia costituita dal luogo comune il quale invita a parlare con il prossimo perché in questo modo la parola diventa garantita. È noto che ciascuno pensa delle cose e poi preferisce sentire altri per vedere se sono vere o per confrontare, quindi è in attesa che da un luogo gli giunga la verità o per dirlo in altri termini, il senso di ciò che dice. L’impatto con un itinerario analitico procede dalla considerazione, dalla constatazione che questo ritorno, mano a mano che si procede si dissolve, come dire che le proprie parole non trovano nell’altro la garanzia della propria esistenza che generalmente si chiama confronto, si chiama conforto, si chiama in vari modi. E allora che cosa avviene? Avviene che le parole in cui e per cui esisto non si agganciano a nulla se non a se stesse, cioè non hanno nessun rinvio all’infuori di se. Questione che può creare qualche smarrimento in alcune circostanze dal momento che è come se si interrompesse un supporto religioso al discorso; ciò che avviene nella psicologia, in una parte della psicanalisi, è un supporto religioso, cioè fornire ad un discorso che suppone di sé di essere senza senso, un senso, un senso pronto per l’uso. Però, abbiamo considerato che un’operazione del genere non ci interessava e quindi abbiamo dovuto fare altro. Dunque ancora straordinario; straordinario perché non si appoggia a nulla al di fuori di sé ma non perché si tratti di un… portato alle estreme conseguenze, ma perché abbiamo riscontrato che ciascuna altra teoria, ciascun altro modo di pensare di fatto aveva un supporto religioso e allora ci siamo chiesti se era possibile non essere supportati da nulla salvo che da quegli stessi elementi di cui è fatto il linguaggio e da cui non saremmo potuti uscire mai. Quindi quali regole utilizzare? Quelle che fornisce il linguaggio, solo quelle. Certo diventa difficile, perché questa assenza di riferimenti comporta l’eventualità di trovarsi nella condizione di non sapere se ciò che si sta’ pensando sia vero oppure no, però cade anche questa necessità dal momento che la nozione di vero, come quella di falso risultano, proseguendo in questo modo, piuttosto problematiche. Quali sono le uniche cose che si accolgono lungo questo itinerario? Le regole del linguaggio, vale a dire tutto ciò che necessariamente si dà, salvo la dissoluzione del linguaggio, cosa che non può avvenire. Perché questa cosa anziché una qualunque altra? Perché questa è l’unica che non si supporta su nulla salvo su ciò stesso che gli consente di esistere, questo è l’unico criterio. Ora vi direte che la psicanalisi così come l’avete letta, studiata, non ha niente a che fare con tutto questo, e non avete tutti i torti; generalmente, in effetti, è una struttura molto religiosa, però il fatto che lo sia non ci costringe a seguire quella strada. Struttura religiosa nell’accezione che indicavo prima e cioè immagina che almeno un elemento sia fuori dalla parola e su questo chiaramente fonda tutta la sua esistenza, come dire che qualunque teoria è fondata su un elemento che è assolutamente arbitrario, potrebbe essere quello come qualunque altro. Ma quando parlo di qualunque teoria, intendo proprio qualunque, nessuna esclusa; è una religione, cioè ad un certo punto credo che sia così, e non c’è niente di male, però se si porta il pensiero alle estreme conseguenze, risulta difficile accogliere una cosa del genere, io posso credere che qualunque cosa sia Dio, perché no, non è mica proibito e non c’è neanche nulla di male, però posso anche non crederlo, nessuno mi obbliga, e abbiamo preferito non crederlo, non credere che sia Dio una cosa in generale ne qualunque altra cosa in particolare; che sia Dio e cioè quell’elemento considerato fuori dal linguaggio. Come sapete anche il discorso scientifico non è esente da questi supporti necessariamente perché muove dall’osservazione, dall’esperienza, cioè da elementi assolutamente negabili, o arbitrari, gratuiti. In effetti, è un una questione abbastanza recente questa di muovere dalla percezione, dall’esperienza; i Greci non avevano una grande considerazione della percezione o dell’osservazione, si basavano più volentieri sulla deduzione, tuttavia anche questa necessita di un punto da cui partire, e il problema è sempre quale? Che cosa dovrò assumere per iniziare? Questione non semplice, ma come dicevo prima, ciascuno a modo suo, in un verso o nell’altro, incontra questi problemi che apparentemente sembrano riservati a pochi che non hanno di meglio da fare; e invece no, ciascuno che lo sappia o no, che lo voglia o no è continuamente preso da domande circa la verità o la falsità di una proposizione che poi si configura nel faccio bene o faccio male, è così non è così, mi sbaglio sono nel giusto, questi sono i modi in cui si configura ma la questione è la stessa e cioè riuscire a produrre una proposizione che sia vera, necessariamente vera; questo portando il discorso quotidiano alle estreme conseguenze. È ovvio che a questo punto ci si debba porre una questione circa la nozione di necessità, che cosa è necessario? Per definizione ciò che non può non essere, e se voi sfrondate mano a mano che proseguite in questa ricerca condotta alle estreme conseguenze e cioè sfrondate tutto ciò che mano a mano rilevate come assolutamente gratuito, ciò che vi resta non è altro che ciò stesso che vi consente di fare queste considerazioni e cioè il linguaggio, la sua struttura, nient’altro che questo, sfrondato di tutto questo rimane e non potete toglierlo, perché come lo togliete? Sfrondare delle superstizioni, delle credenze è il lavoro che facevano 2500 anni fa i sofisti, per questo abbiamo ripreso il gesto, almeno in parte e riproposto in termini ancora più radicali. Taluni hanno posta la questione di che cosa servisse una cosa del genere, a quello che pose la questione fu subito rimandato da persona veramente poco gentile il quale rispose a che cosa servisse la sua esistenza, (se la questione la vogliamo porre in termini molto radicali), o a che cosa servisse la nozione di servizio; imparare a pensare comporta abbandonare delle ingenuità soprattutto, ingenuità e cioè il trovarsi ad utilizzare degli strumenti molto semplici e molto inadatti a proseguire e essendo inadatti a proseguire fermano su qualunque superstizione, qualunque credenza, qualunque certezza, qualunque religione. Il compito della psicanalisi così come la stiamo elaborando è esattamente impedire che questo si verifichi, cosa che non è così semplice visto che la persona che parla cerca in tutti i modi di fare esattamente il contrario e cioè di stabilire finalmente come stanno le cose. Ciò che abbiamo considerato nel corso degli incontri dell’anno 1997 ha mostrato in buona parte quali siano tali difficoltà e cioè di come ciascuna struttura di discorso, nel modo che gli è più peculiare, cerchi più o meno disperatamente, a seconda dei casi, di stabilirsi come certezza con tutti i contraccolpi che ne riceve, ma che in definitiva ciò che instaura, la condizione stessa per potere stare male sia la struttura del discorso religioso ed eravamo giunti alla considerazione che se il discorso religioso si dissolve, si dissolve anche la possibilità stessa di stare male, non tanto lo stare male ma la possibilità, cioè cessa di essere necessaria, di essere pensato tale. Stiamo proseguendo un discorso che ha come obiettivo di insinuare altri elementi nella struttura del pensiero. Perché questo? Nulla per un verso, per l’altro invece può essere interessante fornire maggiori elementi per un gioco ovviamente, un gioco retorico, un gioco logico. Se ciascuno fosse nelle condizioni di poter facilmente confutare tutte le cose in cui crede, gli sarebbe più difficile credere le cose a cui crede; il problema in molti casi è che non lo può fare perché molte fra queste le considera la realtà e la realtà per definizione non può essere messa in discussione; questa è una delle trovate del discorso occidentale e che ha funzionato per 2500 anni e ci sono ottime probabilità che continui a funzionare per altrettanti. Quando si parla con un’altra persona, si può sempre pensare che le cose che si ascoltano siano quelle che si vogliono pensare o comunque che le cose che gli altri dicono siano filtrate dal nostro discorso e quindi interpretate dal nostro discorso; nessuno vieta di pensare una cosa del genere così come nessuno vieta di pensare il contrario e cioè che le cose che si ascoltano sono altro da ciò che si pensa. La questione forse non è tanto chiedersi se ciò che si ascolta quindi la possibilità di entrare in relazione con altre persone si dia oppure no, ma da dove viene questa domanda, da quali elementi è supportata, che cosa comporta; io posso pensare che le cose che gli altri dicono di fatto mentre gli altri parlano e noi ascoltiamo, queste rimangano essenzialmente e squisitamente un soliloquio tre me e me e posso anche produrre delle prove a questo, posso anche pensare invece che le cose che gli altri dicono non sono quello che noi pensiamo, però se ci poniamo questa domanda, vuole dire che c’è già qualche questione forse che va’ al di là di una risposta a questa domanda e cioè che cosa mi sto chiedendo effettivamente, che cosa è in gioco; se io mi ponessi una domanda del genere e cioè se le cose che ascolto sono meramente un soliloquio oppure effettivamente io ascolto altro da ciò che penso; se dunque mi ponessi questa questione, incomincerei a chiedermi che cosa mi sto chiedendo esattamente con questo, che cosa è in gioco, come se io mi trovassi preso in un certo gioco linguistico il quale lungo il suo svolgersi impone questo quesito, ma lo impone o lo fa sorgere a partire dalle regole che fanno questo gioco particolare che sto facendo in questo momento; e allora ecco che posso essere indotto a considerare, per esempio, quale tra le due ipotesi io ritenga più piacevole, più interessante e probabilmente ce n’è una tra le due per la quale sono più favorevolmente indirizzato e allora senza stare a chiedermi se sia più vera questa o quell’altra, posso cominciare a domandarmi che cosa comporta l’eventualità, per esempio, che le cose che gli altri dicono sono altre da quella che io penso. Io so perfettamente che entrambe le proposizioni, sia questa, sia quella che la negano sono provabili e confutabili, ciò non di meno mi sono trovato a pensare questo, ed è con questo che devo fare i conti, con ciò che penso, ma non per stabilire se è vero o è falso, ormai abbiamo perduta quest’ingenuità ma perché è una questione che mi riguarda e cioè che mette, letteralmente, in gioco delle questioni che mi stanno riguardando in questo momento cioè che le sto pensando, e allora posso considerare che nell’eventualità di preferire che le cose che gli altri mi dicono sono altre da quelle che io penso, in questo momento può comportare il fatto che, se le cose sono altre da quelle che io penso, mi danno di più in questo momento, nel senso che le ascolto in un altro modo, mi interrogano, cioè posso lasciarmi interrogare dalle cose che gli altri dicono, se io immaginassi invece che tutto ciò che gli altri dicono non è altro che un mio soliloquio, potrei non esserne interrogato, cambia il modo in cui ascolto, e il discorso può avvenire anche viceversa; ma in ogni caso sia che sia dia una o l’altra ipotesi è con ciò che penso che mi confronto cioè che lascio che le cose che ho pensato, producano altri pensieri; producendo altri pensieri possono condurmi anche molto lontano, possono condurmi a riflettere su tutto ciò che avviene mentre parliamo. Supponiamo invece che io cerchi di stabilire se è vera l’una cosa o vera l’altra e immaginiamo ad un certo punto che io ne consideri vera una, a questo punto tutto ciò che avverrà in seguito sarà vincolato da questa superstizione che io ho prodotta e cioè supponiamo che io creda che le cose che qualcuno dice non siano altro da ciò che io penso, ma tutto ciò che ascolto sia soltanto un soliloquio, allora tutto ciò che avverrà sarà vincolato a questa superstizione che io crederò vera perché penso di averla provata; ed è così che si formano le superstizioni, cioè mano a mano diventano quei luoghi comuni su cui si costruisce la propria esistenza. Se io fossi assolutamente convinto che chiunque parli non potrà dirmi nulla ma sarà sempre, in ogni caso, un soliloquio fra me e me, allora cambia il mio modo di pensare così come cambia se penso esattamente il contrario, oppure possiamo considerare che ne l’una cosa sia vera ne l’altra, ma di volta in volta si impongano nel mio discorso e che quindi mi indichino una direzione che non avendo la necessità di stabilirsi come vera o falsa possono essere seguite, se io ne ritenessi vera una e falsa l’altra seguirei quella vera, e abbandonerei quella falsa, è soltanto un modo di porre le cose, sono soltanto figure retoriche che hanno esattamente questa funzione di stabilire un modo in cui le cose si dicono; le cose per dirsi si dicono in un modo necessariamente e questo modo è ciò che indichiamo come retorica. Ciò che accade è di trovarsi a parlare come dei poeti, come romanzieri o parlare allo stesso modo in cui si compone la musica, una frase musicale di per sé non è sottoponibile ad un criterio verofunzionale, questo non vuol dire che non abbia un senso una sua collocazione una posizione ben precisa all’interno di un brano in cui è inserita, infatti cambia tutto se la si toglie e la sostituisce con un’altra. Ora, parlare si svolge in questo modo, ma il problema sorge quando si pensa che non sia così e cioè che le parole corrispondano ad una realtà extralinguistica, solo allora cominciano i problemi, provate a considerare di parlare come se le vostre parole fossero una musica, una musica che produce un senso ovviamente, e questo senso siano altre frasi musicali inserite all’interno di altri brani musicale, allora potrebbe chiedere ma tutto ciò allora è per niente. Se vogliamo, possiamo anche considerarla così, a meno che qualcuno non sappia indicare uno scopo ultimo finale, però dovrebbe avere delle ottime argomentazioni per persuaderci. La necessità di parlare con il prossimo è più quasi un aspetto religioso, in molti casi si interrompe nel momento in cui ci si accorge che le cose non hanno un senso: è un po’ la chiusa del Tractatus di Wittgenstein: "ciò di cui non si può parlare si deve tacere". Di che cosa non si può parlare? Di ciò che non è possibile stabilire come significato e quindi è un non senso e quindi tanto vale tacere. Ma se non ci si pone in questo ambito per cui si deve parlare se e soltanto se le cose hanno un significato stabilito allora parlare è come ascoltare della musica, perché si produce della musica? Perché fa piacere farlo, perché si producono continuamente, e allora ecco che alcuni più di altri come i poeti hanno voglia di giocare con questa produzione senza, almeno nel momento in cui fanno poesia, di appoggiassi alla necessità di stabilire alcunché. Potrebbe avvenire di smettere di parlare laddove si considerasse che il parlare non ha nessun senso, ma invece si considera che il senso si produce proprio parlando e che parlare è l’occasione per proseguire, cioè produrre altro senso, quindi produrre delle sensazione delle emozioni, produrre tutto ciò che generalmente è piacevole, parlare per il piacere di farlo come ascoltare la musica, non ha nessuna utilità ma è piacevole, e il parlare e un po’ la stessa cosa, non ha nessuna utilità, in effetti, ma è piacevole farlo, perché se qualcuno parlasse solo per fornire nozioni, allora esaurirebbe tutto in poco tempo. Il linguaggio è fatto il modo tale per cui necessariamente produce altre cose, se qualcosa glielo impedisce lui va avanti lo stesso ma generalmente si avverte una sensazione di fastidio, nota come noia.