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IL ROMANZO DELLA PSICANALISI

 

21 maggio 1993

primo incontro

 

Scrivendo Il romanzo familiare dei nevrotici Freud è andato molto oltre ciò che prima di lui si poneva in connessione alla nozione di romanzo. Avvia, per così dire, un nuovo modo di pensare il romanzo. Per chi ha letto questo saggio sono note le questioni che avanza. In particolare, come ciascuno non tenga conto, se non in modo marginale, di ciò che gli si racconta, ma si adoperi per inventarsi la sua storia. Ciascuno, a un certo punto della vicenda, viene a conoscenza di alcune cose che gli si raccontano: tu sei nato così, tu sei nato cosà, questo è il papà, questa è la mamma, questo è il fratellino, ecc. Ecco che allora, a partire da queste informazioni, si avvia un’invenzione che si avvale di queste informazioni unicamente, parafrasando Freud, come resto diurno per inventare un sogno.

Il romanzo familiare dei nevrotici dice come per ciascuno sia irrinunciabile inventare il proprio romanzo. Non si tratta di una scelta che ciascuno può fare oppure no a seconda della propria cosiddetta creatività. No, è proprio irrinunciabile.

Freud descrive questo indicando come per ciascuno queste informazioni che riceve siano assolutamente inadeguate, assolutamente insufficienti. In altri termini, non c’è chi si accontenti di non sognare. Ecco allora il romanzo come ciò che di questo sogno si scrive.

Già etimologicamente il termine romanzo allude a una lingua altra, alla lingua straniera dei Franchi. Romanice loqui , da cui il romano, era il parlare la lingua latina volgare. Dunque, una lingua straniera per loro.

Il romanzo di ciascuno si scrive ogni volta in una lingua diversa, in una lingua non propria, in una lingua non familiare. Il romanzo pone una scena, un racconto che non è familiare. Anzi, prende le distanze dal familiare e viene scritto in un idioma che è assolutamente particolare, che non è partecipabile a altri. Altri non capiscono questa lingua, non capiscono questo idioma. In alcuni casi può avvenire che qualcuno tenti di rendere altri partecipi di questo romanzo facendo di tutto per farsi capire. Ciò che incontra, in seguito a questi tentativi, è questo “nessuno mi capisce! nessuno capisce la mia lingua!”, non accorgendosi che parla una lingua che nessuno capisce. Parla un idioma assolutamente particolare. Ciò che scrive, dunque, è qualcosa che procede da una scena che lo riguarda, la scena originaria, che tiene conto della sua storia, della sua vicenda Gli eventi che man a mano incontra che, come dicevo prima, sono dei resti diurni, materiale mnestico.

Non c’è chi propriamente sappia scrivere il romanzo. Non c’è chi abbia una competenza per cui sa scrivere mentre altri invece non sanno scrivere. In molti casi può avvenire di accorgersi che una domanda, anche una domanda di analisi, non è altro che una richiesta di acquisire una competenza. Laddove questa competenza, per qualche motivo, si avverte che non viene fornita, ecco che, allora, può sorgere qualche problema, anche lungo un’analisi. Può formularsi anche in questo modo e cioè: “che cosa ho fatto fino a adesso se non ho acquisito una competenza, un saperci fare?”.

È importante la questione della competenza. Come sapete, per alcuni linguisti è essenziale, soprattutto per la scuola americana. La competenza è ciò che rende qualcuno in condizione di ottenere in modo corretto ciò che è il suo obiettivo. Allora, la richiesta di competenza vale a una domanda che è traduzione: “traduci il mio romanzo o almeno che se ne faccia un riassunto in modo che io possa capire la mia lingua. Se io riesco a capire la mia lingua, allora riesco a capire ciò che dico”. Dunque, è sempre una competenza sulla lingua. I risvolti filosofici della linguistica americana - penso a Chomsky, ma non soltanto, penso anche a Searle, a Austin - sono notevoli. La competenza relativa alla lingua consente di svolgere il linguaggio in lingua comune o almeno in dialetto, in un lessico magari familiare come voleva la Natalia Ginzburg. Dunque, in una lingua che io posso capire. Capendo questa lingua con cui scrivo il romanzo, capisco chi sono, che cosa voglio, dove vado. Questi sono i risvolti filosofici avviati da alcuni linguisti e di cui la filosofia attuale tiene conto avallando questa supposizione di competenza.

In che lingua scrivo, dunque, in che lingua parlo? Può volgersi anche così la domanda che Freud attribuisce ai bambini, cioè “da dove vengono i bambini?”, da dove vengo io?, cioè, quando ho cominciato a scrivere il mio racconto? e fino a che punto posso dire che è mio?

Ma che ciascuno si ponga a modo suo, a vario titolo, queste domande comporta che la risposta che ne ha è il più delle volte insufficiente. Cioè, non chiude la questione.

La considerazione che ciascuno può trovare a farsi che nessuno lo capisce può, non necessariamente, condurre alla domanda, come dicevo prima, “in che lingua sto parlando?”. E, poco dopo, “se esista qualcuno che possa tradurmi ciò che dico”.

A questa domanda rispondono le religioni. C’è una sola risposta a questa domanda ed è la risposta che la religione fornisce, nelle varie forme. Indico qui la religione nell’accezione più ampia del termine, cioè come struttura del discorso religioso.

Il discorso religioso ha questa prerogativa di sapere tradurre in un codice quello che sto dicendo o di immaginare che in qualche modo quello che sto dicendo sia traducibile in una traduzione ultima, quella definitiva, quella che non ammette ulteriori parole. In altri termini, quella che dice l’ultima parola.

Il romanzo familiare dei nevrotici di cui parla Freud è un modo tra le altre cose che Freud dice per indicare che l’ultima parola non c’è. L’ultima parola sarebbe stata questa: questo è tuo papà, questa è tua mamma, questa è la tua famiglia e, quindi, tu sei questo. Cioè, ti riconosci attraverso delle coordinate che sono sempre cartesiane, vale a dire, hanno la funzione di dire qual è il posto di ciascuno. Che è individuato appunto dalle coordinate, ascisse e ordinate. Il punto d’incontro è quello che indica il posto, che indica poi, filosoficamente, qual è il mio posto nell’ambito della mia famiglia, nell’ambito della società che mi accoglie, nell’ambito di altri consessi. Ciascuna organizzazione sociale, istituzionale, necessita di questi posti, è fatta di questi posti. Quindi, ha la necessità che ciascuno si attenga, che resti al proprio posto. Se ciascuno sta al suo posto funziona un sistema di coordinate tali per cui è sempre possibile reperire la posizione di ciascuno in ciascun momento. Il che consente un ordine sociale ben preciso.

Ma, dicevo, Il romanzo familiare dei nevrotici pone già un’obiezione a questo. Come dire che si tratta qui di una sovversione di queste coordinate che vengono indicate per dire questo è il tuo posto. Freud dice in questo saggio che c’è una sovversione rispetto a questa posizione. Una sovversione tale per cui queste coordinate non hanno più nessun valore. Questo ha dei risvolti che possono reperirsi anche nella lingua di ciascuno. Se si attenesse a questa posizione, a queste coordinate, questo comporterebbe di dover attenersi a un sistema di coordinate linguistiche, cioè di significati e di referenti che dovrebbero consentire la possibilità di mantenere la posizione dovuta, prescritta. Come già avvertiva Rousseau, c’è la necessità che ciascuno apprenda un certo numero di coordinate linguistiche, ciò è indispensabile per il mantenimento dell’ordinamento sociale in quanto consente a ciascuno di sapere quali sono le leggi. Infatti, se uno non sa né leggere né scrivere non può venire a conoscenza delle leggi e, quindi, non può attenersi.

In questo saggio Freud indica come ciascuno non possa attenersi a queste leggi. È una formulazione che può sembrare paradossale nella misura in cui gli stati si reggono su qualche cosa. Ma questa è un’altra questione.

Se ciascuno si trova preso in un idioma, questo comporta e indica che la sua lingua non è individuabile da coordinate e che, dunque, non c’è un punto fermo, non c’è un punto che sia isolabile da una combinatoria linguistica. Non c’è un punto che sia isolabile da questo idioma. Non essendo isolabile questo punto risulta un punto vuoto, un punto inassumibile, non misurabile, quindi, non localizzabile. Questo punto, che in altre occasioni ho indicato come sembiante, non è il punto di intersezione, il coordinato. Queste coordinate non si danno propriamente in un idioma. Si danno, invece, in un sistema linguistico perché vorrebbe o cerca di porsi come lingua universale, la lingua fondamentale di Schreber.

Preso dunque nell’idioma ciascuno avvia una scrittura. Avvia, dunque, un romanzo, un romanzo che lo riguarda e di cui non sa propriamente l’origine, non conosce il punto di partenza, le prime battute. Si accorge di scriverlo quando ormai è già in scrittura per così dire, quando lo sta già scrivendo. A quel punto può accorgersi, può anche non accorgersi, che sta scrivendo un romanzo.

Che portata ha questo romanzo? Forse, occorre un itinerario intellettuale per avvedersene e anche per avvalersene di questo romanzo. Avvedersene comporta un tenere conto che questo romanzo non è partecipabile, che si scrive, dunque, in una solitudine irrimediabile. Non può parteciparsi né distribuirsi. Avvalersene comporta il potere trarre frutto, giovamento, da ciò che mano a mano si scrive, consentendo di esistere nella parola, dunque, senza mortificare questo romanzo, facendolo passare attraverso una griglia di decodificazione o di spiegazione. Il romanzo è fatto di pieghe, di continue pieghe. Tentare di togliere una piega vuol dire provocarne mille altre.

Dicevo, avvalersi del romanzo che si va scrivendo può portare anche alla stesura, propriamente detta, di un romanzo, non necessariamente. In ciascun caso, a passare o attraversare il romanzo storico come un romanzo politico. Passando per la teoria della clinica.

Il romanzo storico e il romanzo politico. Avvedersi del romanzo è il romanzo storico. Cioè, ci si accorge che di questo romanzo non c’è l’ultima parola, ci si accorge che non c’è soluzione, che non c’è una chiave che consente di trovare la soluzione. Il romanzo storico è l’analisi propriamente detta, cioè, l’assenza di soluzione. Il romanzo storico è il percorrere le vicende, l’andare incontro ai ricordi, l’andare incontro ai pensieri, per avvedersi che tutto questo non ha soluzione, non ha un significato che garantisca della verità, dell’appartenenza a un gruppo, a un clan. Avvedersi che non c’è un segno di riconoscimento e che il romanzo si scrive in un idioma. Non c’è segno di riconoscimento certamente per altri, ma in prima istanza per chi scrive.

Ecco la questione dell’identità. È una questione che interroga, in effetti. Il timore che possa perdersi l’identità, cioè, che io possa non riconoscermi più. Ma, mi sono mai conosciuto? L’identità è una dei tanti modi con cui gli umani cercano la compagnia. L’enunciato “sto bene solo con me stesso” è un po’ psicotico, come dire che reperisce una compagnia estrema, totale oltreché totalizzante, in un se stesso identico a sé. Uno ha, quindi, conoscenza di sé. L’identità serve a questo, soprattutto: a stare bene con se stessi. Curiosa formulazione questa.

In moltissime pagine di Freud si rileva la totale inconsistenza di questo “se stesso” che non è un sé nell’accezione del self americano, meno che mai uno stesso. È un sé più prossimo alla concezione presocratica. C’è questo noto enunciato di Talete, riportato anche da Socrate, “conosciti da te”. Che non è il “conosci te stesso”, anche se la traduzione greca può alludere anche a questa soluzione. Conoscersi da sé comporta che c’è un da sé per cui le cose vanno da sé, vanno da sole, cioè, non hanno bisogno di supporto, non hanno bisogno di giustificazioni, di spiegazioni. In questo senso la conoscenza viene da sé, cioè, senza compagnia, avviene facendosi, lungo un itinerario, lungo l’idioma, lungo lo svolgersi dell’idioma.

Il se stesso, caro soprattutto alla psicologia americana, in particolare a Koyut, ha avuto grande fortuna incontrando la dottrina del self-made man tipica americana, che pone l’accento proprio sull’uomo che si fa da sé. È piena la letteratura psicologica e psicanalitica che incitano a fare da sé - non so con quale connotazione erotica o altro - alludendo a una mitologia che immagina che il destino, l’obiettivo, la meta degli umani sia quella di autorealizzarsi, cioè, di diventare se stesso.

Scrivendo Il romanzo familiare dei nevrotici Freud pone un’obiezione che risulta radicale a questa idea. Cioè, ciascuno si trova preso in una scrittura che non ha fine e che toglie di mezzo del tutto l’uomo realizzato, l’uomo totale, l’uomo che ha trovato o raggiunto se stesso. No, dice, è una scrittura continua, incessante, che non ha un punto di partenza e non ha un punto di arrivo. Senza punto di arrivo non c’è l’obiettivo, cioè, l’uomo da raggiungere, l’uomo totale. Leggete questo saggio di H. Kohyut: è un messaggio gnostico, cioè, che ciascuno raggiunga il proprio sé. Raggiungere il proprio sé vuole dire qui realizzare le proprie mete e i propri obiettivi. Realizzare un obiettivo concreto, così almeno è per Kohyut, non realizzare i sogni come diceva Borges. Realizzare il sogno, quanto di più evanescente, illocalizzabile, insituabile, inafferrabile. Realizzare il sogno è un po’ come diceva Verdiglione al termine del congresso di New York: “Provate a camminare nel cielo” anziché restare con i piedi per terra.

Camminare nel cielo è esattamente ciò che intendevo prima con lo scrivere il romanzo. Romanzo che non si attiene a nessuna superstizione, a nessun pregiudizio, a nessun ordine di partito, a nessuna parola d’ordine. Anziché alla parola d’ordine si attiene al motto di spirito.

Che ciascuno scriva il proprio romanzo, che ciascuno si trovi a trarre da ciò che sta scrivendo quanto può trarre, quanto può intendere. Ma, soprattutto, quanto può intendere è questo, cioè, che può continuare a scrivere.

Quando si parla di intendimento, in alcuni casi, viene sovrapposto alla comprensione. L’intendimento dice che le cose stanno proseguendo. Intendere la logica è intendere qualcosa per cui ciò che sto dicendo prosegue, si apre, si divide. Nulla a che fare con la comprensione o con il capire, che è un’altra cosa. Il capire attiene alla funzione di resistenza, l’intendimento alla funzione vuota. Già questo indica come sia lontanissimo da ogni supposizione di avere riempito qualcosa con un significato.

Ciascuno è preso in un racconto che va facendo. Prima dicevo che forse lungo un itinerario intellettuale c’è l’occasione di accorgersi del romanzo.

La questione si può porre in questi termini: che ne è del romanzo se di questo romanzo non ci si accorge? È una questione che può riferirsi anche a altri aspetti. Più radicalmente la posi qualche tempo fa ponendo la questione se esiste l’inconscio fuori dell’analisi. Potremmo dire di sì o anche di no, ma sta di fatto che è soltanto lungo un itinerario intellettuale che c’è l’occasione di accorgersene. Quindi, porre la domanda, così come l’abbiamo posta, forse è come se fosse posta male. Forse, occorre trovare un altro modo di formularla. È importantissimo trovare il modo nel formulare le questioni. Nove volte su dieci è più interessante, cioè, offre più elementi, la formulazione che un’eventuale soluzione.

Lungo un itinerario intellettuale non è che propriamente si trovino delle risposte alle proprie domande. Per quanto ci si possa sforzare, le domande non trovano nessuna risposta, come dire, non riesce a tradurre l’idioma in un dialetto, in una lingua comune, dove ci sono le risposte, dove tutto è normalizzato.

A questo giunge l’analisi, al “non c’è soluzione”. Però, le questioni continuano, c’è qualcosa di assolutamente irrinunciabile, ciò che Freud indicava come la pulsione, il principio di costanza. C’è, potremmo dire, questo questionare della pulsione che, dunque, rilascia una domanda a cui non c’è risposta. E che non esige alcuna risposta, è assolutamente indifferente a qualunque risposta.

E, allora, sta nel “formulare” la domanda. Che cos’è il formulare la domanda? Dire la domanda. Un dire che non è una facoltà, una competenza. Formulare la domanda è consentire alla domanda di dirsi. Che non è la formulazione di una richiesta, evidentemente.

L’analisi, come romanzo storico, giunge alla formulazione della domanda.

Ciascuno verifica in atto che la domanda continua a formularsi, in modi differenti. Ecco, quindi, mano a mano la scrittura del romanzo lungo queste riformulazioni. Riformulazione nel senso che la domanda si formula di nuovo.

È in questi termini che l’analisi propriamente detta prende avvio. Forse, può incominciare a distinguersi l’analisi dall’itinerario intellettuale. L’analisi è un aspetto dell’itinerario intellettuale, aspetto connesso al romanzo storico.

 

Domanda: Qual è la relazione tra il romanzo storico e la costante del questionare?

 

Risposta. L’accezione di verità come verità storica e verità materiale, di cui parla Freud. La verità storica comporta ciò che si dice e continua a dirsi incessantemente. La verità materiale è il modo in cui si dice in questo momento, quanto di materiale c’è in ciò che sto dicendo. È ne L’Uomo Mosè e la religione monoteistica che Freud distingue questi due aspetti.

Lo storico è ciò che non cessa di dirsi, di questionare.

 

Dicevo, quindi, di questa distinzione tra itinerario intellettuale e analisi. L’analisi è un aspetto, un aspetto che attiene al romanzo storico, che attiene all’assenza di soluzione, a questa verifica in atto. Ecco, qui il genere è l’idioma.

L’idioma è una logica particolare a ciascuno. Una logica che con Verdiglione non è più la logica aristotelica, la logica predicativa, quella che deve spiegare le cose, quella che deve giungere alla soluzione finale. Tant’è che, parodisticamente, Verdiglione formulava il teorema, che sarebbe l’ultima formula della dimostrazione, con un “non c’è più”.

 

Domanda: “Genere e specie. Passare dal genere alla specie non è un procedimento aristotelico?”

 

Risposta: “Si, certamente. Qui genere è in un’altra accezione. Possiamo dare a questo significante una dignità differente così come abbiamo fatto con la logica e con altri termini. Così come, per esempio, l’accezione con cui indichiamo il termine analisi non prevede nessuna sintesi. Quando parliamo di “impossibile” non dobbiamo nulla alla nozione di possibile. Questi termini non si muovono lungo una scomposizione dialettica che, invece, comporta la presenza di un elemento di un elemento, del suo opposto e, quindi, di una loro composizione. Sarebbe la tesi, l’antitesi e la sintesi, cioè, la posizione, la contrapposizione e la composizione.

La composizione finale sarebbe quella che prima indicavo con l’uomo totale, cioè, quello che ha superato ogni contraddizione, colui che ha conosciuto la sua posizione, la sua contrapposizione e, alla fine di questo itinerario, giunge a una composizione e diventa composto. Vale a dire, totale, tutto, ha inglobato in sé ogni cosa. Ogni cosa ha trovato il suo contrario e, quindi, il suo equilibrio, il suo possibile bilanciamento.

Il testo di Freud, sotto questo aspetto, è del tutto sbilanciato, non reperisce la contrapposizione se non come caricatura, come parodia.

Se prendessimo le cose seriamente, potremmo dire che la dialettica è una caricatura della sofistica. Cioè, prende in modo serioso e definitivo ciò che la sofistica aveva posto in modo assolutamente irrispettoso di qualunque posizione, di qualunque contrapposizione e assolutamente insensibile a qualunque composizione. Per riprendere alcune cose che abbiamo detto tempo fa, è il terapeuta l’uomo composto, cioè, quello che ha superato ogni contrapposizione per giungere a qualcosa di totale. È l’idea di dio, in definitiva. È quello che non ha più bisogno, come dire prima aveva bisogno, adesso non ne ha più bisogno.

Il romanzo familiare dei nevrotici dice, invece, che non ha mai avuto bisogno, fin dall’inizio. Cioè, non ha mai avuto bisogno di questa ideologia ma, fin da sempre, è risultato assolutamente impossibile attenersi a qualunque posizione. Potremmo dire che il romanzo è sovversivo per un verso e anarchico per una altro. Sovversivo, cioè, non gira intorno a nulla, non ha nessun fuoco attorno a cui scaldarsi o a cui girare. È anarchico nel senso che non ha nessun luogo di origine. È, invece, originario ciascuna volta, cioè, trova l’originario lungo lo svolgersi.

 

Domanda: “L’elementare e il romanzo storico.”

 

Risposta: C’è l’elemento che, però, non è elementare, non è l’ultimo. Parafrasando Levi-Strauss, potremmo dire che l’elemento è strutturale anziché la struttura elementare.

È l’elemento che è strutturale, che interviene nel gioco linguistico a dare ciascuna volta una specificità, una particolarità, a individuare un elemento. Cioè, l’elemento si individua e dice che non c’è l’indifferenziato ma degli elementi, ciascuno dei quali non ha nulla in comune con altri.

La struttura elementare è il fondamento, la base, il fondo. Ciascun fondamentalismo immagina, a modo suo, una struttura elementare.

È un po’ anche il mito della fisica quello di trovare la struttura elementare.

 

Domanda: “E il nome come struttura elementare?”

 

Risposta. No. Non c’è proprio struttura elementare. Il nome, semmai, indica che la struttura non è elementare perché non può reperirsi il fondamento, non può reperirsi l’origine, il fondo. A questo allude anche la scena, come sfondo, come assenza di fondo. La struttura elementare è il fondo, cioè, dice come sono gli elementi che costituiscono la base. La struttura elementare sarebbe quella che viene raccontata rispetto alla famiglia, dicevamo prima del romanzo familiare del nevrotico, e che dice: questo è il papà, questa è la mamma, questo è il fratellino. Questa sarebbe la struttura elementare. Mentre si accorge che ciascuno di questi elementi, il papà, la mamma, il fratellino, è strutturale, cioè, partecipa di una struttura. È preso in una struttura che non è altro che una combinatoria significante.