20 novembre 2003
BEATRICE DALL’ARA
Il piacere della droga
Questo incontro prosegue gli interventi che avvengono ormai da molti anni, una quindicina di anni da parte della Scienza della Parola, e da parte di Luciano Faioni che ha permesso tutto questo. Da anni interveniamo e parliamo con delle persone che vengono ad ascoltare. Questa sera ci troviamo a svolgere un tema, quello del piacere della droga, che è inscritto in un contesto più ampio che è quello della sessualità. Questa sera voglio proseguire delle questioni che ho iniziate quando mi sono trovata a parlare del piacere del corpo, posi delle questioni che questa sera voglio svolgere in modo più preciso anche perché molte persone che sono qui non c’erano in quell’incontro. In quell’incontro la prima questione riguardava il piacere e mi chiedevo se il piacere, il piacere del corpo, potesse darsi senza una struttura linguistica, inferenziale, che lo potesse concludere, senza una conclusione per cui qualcosa è considerato piacere, una conclusione in un sistema linguistico. Avevamo considerato in quell’occasione che il corpo non potrebbe provare piacere se non esistesse questo concetto di piacere che è una costruzione di un sistema linguistico, un sistema inferenziale, se non si desse questo sistema avevamo concluso che non poteva darsi il piacere e quindi il corpo non godrebbe, non potrebbe godere, perché se non ha gli strumenti per potere concludere che prova piacere letteralmente il piacere non c’è, e il piacere, come tutti sappiamo, è un concetto frutto di sillogismi che funzionano. Non avendo gli strumenti per accorgermi che questa è una conclusione il piacere letteralmente non potrebbe darsi, poi da questa questione avevamo considerata un’altra questione che è una delle questioni principali che negli interventi che da dieci anni noi andiamo facendo interviene sempre ed è quella che afferma che il linguaggio è un mezzo per… sì è una struttura logica, linguistica, inferenziale che funziona che è complessa, però questa struttura serve al corpo per descrivere, in questa conferenza parleremo di sensazioni, il piacere è una sensazione, un’emozione, quindi parliamo di sensazioni e in questo caso questa struttura, questo linguaggio, il linguaggio è un mezzo che serve ad un corpo per descrivere quello che sente, quello che prova, e allora dalla prima questione quella del concetto di piacere e cioè che senza un concetto non si darebbe il piacere del corpo, proseguiamo e cerchiamo di intendere come un corpo potrebbe darsi fuori da una struttura linguistica. Sembra una questione oziosa il trovarci a parlare del linguaggio e di trovarci ad affermare che il linguaggio non è un supporto per un corpo che descrive, questa Associazione nata da molti anni, afferma che qualsiasi cosa è un gioco linguistico e quindi afferma che il linguaggio non è un mezzo per descrivere ma è il linguaggio che costruisce quel corpo che sente, che ascolta, che si emoziona e tutte quelle cose che conosciamo, quindi qualsiasi cosa è un gioco linguistico e non “qualcosa sì e qualcos’altro no” la bocca che esprime ciò che sente, ciò che prova è un gioco linguistico tra gli altri, il linguaggio costruisce, ricostruisce, gioca con questi giochi non fa nient’altro il linguaggio, fa tantissime altre cose. Quanto a noi non ci stanchiamo di giocare questo gioco perché anche il nostro è un gioco linguistico, non si da nulla fuori da una struttura, qualsiasi cosa è un gioco linguistico questo perché possa funzionare, perché possa funzionare e dicevo che il corpo, parlavo del corpo e di come il corpo che da sempre è stato considerato una sostanza, l’affermazione che il corpo esiste perché esiste una struttura linguistica è una questione che comporta le maggiori resistenze, resistenze perché una affermazione così semplice è intesa immediatamente non è una formula matematica che deve essere decifrata e quindi o sono un matematico e quindi la so decifrare oppure devo darla per scontata, non è un atto di fede ma è la verità, è la verità che qualsiasi cosa è un gioco linguistico, e quando noi andiamo affermando che negare questa proposizione che qualsiasi cosa è un gioco linguistico comporta il paradosso, comporta la contraddizione, perché negando questa proposizione io non mi accorgo che per farlo devo utilizzare ciò stesso che intendo negare, o che voglio negare, chiaramente questo avviene continuamente, tutto ciò che ha costruito il discorso, il linguaggio da quando funziona e quindi da sempre non possiamo stabilire quando ha cominciato a funzionare, da quando, dicevo, il linguaggio ha cominciato a funzionare ha dovuto utilizzare quelle che via via erano le differenze che intervenivano per continuare a funzionare, ha funzionato con linguaggio ed è una chance per l’umano sapersi gioco, sapersi un elemento linguistico che funziona e deve la sua esistenza ad altri elementi linguistici che rinviano incessantemente ad altri elementi linguistici senza mai trovare un termine a questa questione, è una chance non un limite potersi considerare tali, questa è l’unica necessità, l’unica verità che l’umano possa affermare di sé, senza questa struttura assolutamente non ci sarebbe l’umano, nulla, perché nulla avrebbe, significherebbe e non significando qualcosa per qualcuno non avrebbe un utilizzo. Dicevo qual è la chance per l’umano di potersi considerare un gioco linguistico e non una sostanza che si trova a sentire e a provare quelle emozioni che per lui sono la ricchezza? E che chiaramente non sono linguaggio, le parole sono un mezzo per descrivere ma ovviamente al momento che penso che credo che una descrizione sia qualcos’altro da una procedura linguistica a questo punto non posso tenere conto che se descrivo allora c’è la cosa che descrivo e questa cosa che descrivo non è un gioco ma un qualcosa che esiste fuori da una struttura linguistica che l’afferma. Ma la chance di poter intendere perché noi continuiamo, non possiamo non farlo questo gioco che è un gioco che da la possibilità di non fermarsi mai, in prima istanza perché il linguaggio non può fermarsi. Avere la possibilità di accogliersi linguaggio può sembrare il limite, io prima parlavo del limite ma questa è la ricchezza perché il linguaggio ha la possibilità…può compiere qualsiasi operazione e quindi partire da questa premessa e giocarla è ciò che permette al linguaggio di interrogare se stesso, interrogare quello che lui sta dicendo, perché il linguaggio non è una sciocchezza, un mezzo fra gli altri che serve a qualche cosa, no il linguaggio è ciò che costituisce qualunque cosa, costituisce l’umano, l’umano senza linguaggio non sarebbe, l’umano è una costruzione del linguaggio ed è questa la chance, per chance intendo come questa struttura che chiamiamo linguaggio, che dicevo funziona da quando ha cominciato ha funzionare ed è inutile che noi andiamo a cercare quando e come ché possiamo dire tutto quanto e il suo contrario e questa è un’opinione, il linguaggio per funzionare deve utilizzare linguaggio non importa che cosa, non importa come… l’unico vantaggio del linguaggio è quello di proseguire, di creare altro linguaggio e dicevo al linguaggio, a ciò che chiamiamo linguaggio cioè la possibilità, la necessità… quello che mi permette di affermare quello che sto affermando, la condizione per cui io posso affermare quello che sto affermando, dicevo che al linguaggio l’unica necessità, non interessa come e che cosa utilizza, quali sono le costruzioni che utilizza per proseguire, importante è che prosegua e quindi importante è che trovi un’altra proposizione che ricominci e che rimandi ad un’altra proposizione, in un rinvio infinito e non importa dicevo quali sono le costruzioni che utilizza per il suo funzionamento, se il linguaggio costruisce delle tragedie, al linguaggio non importa, importante è che ci sia materia, che ci sia molta parola per continuare, per proseguire, solo quando può interrogare se stesso, può chiedere conto di quelle che sono le costruzioni che gli sono utili per proseguire può riflettere su sé, il linguaggio può riflettere su sé, può riflettere su come funziona, e proseguire da questa via tutto ciò che il linguaggio ha costruito per il suo funzionamento e quindi per continuare a girare sono delle proposizioni, delle proposizioni che il linguaggio ha stabilite essere vere ma senza nessuna dignità perché assolutamente arbitrarie, arbitrarie in quanto produzioni di un sistema linguistico, quindi né vere né false ma utili al suo funzionamento, nient’altro che questo, ora la chance è poter accorgersi di questo, poter accorgersi di essere linguaggio, di essere gioco linguistico, di non poter non essere un gioco linguistico che per funzionare ha delle regole, delle istruzioni per come deve proseguire… se il linguaggio costruisce delle tragedie, le regole per cui possa avvenire questa costruzione sono quelle che sono peculiari alla tragedia che ciascuno di noi parlando sa, conosce perché parla, tuttavia dicevo che il linguaggio non è considerato se non un mezzo per l’espressione dell’anima, già Aristotele diceva pur considerando il linguaggio e facendo un’analisi continua e completa, completa questo abbiamo visto che non è avvenuto, comunque un’analisi del linguaggio continua, se voi vi confrontate con i suoi testi che hanno formalizzato la metafisica e quindi questo modo di pensare, vi renderete conto che è solo di linguaggio e della sua struttura che lui formalizza, sì dicevo della chance dell’accogliersi linguaggio e quindi del poter riflettere su come sto funzionando mentre parlo. Perché è importante questo? dicevo appunto come per proseguire il linguaggio costruisca per esempio delle tragedie, oppure delle commedie e di come sia importante accorgersi di quello che si utilizza per non essere travolti da ciò che promette questa costruzione, accorgersi momento per momento di quello che si va facendo… la tragedia è da molti e molti anni che si pratica e si conosce e si interpreta e se ne è attori, basta pensare alla guerra questo gioco linguistico che dai tempi di Ulisse funziona, funziona nello stesso modo in cui funziona qui e adesso, eppure è una costruzione linguistica. È chiaro che se non si pongono le condizioni affinché la guerra sia un gioco fra altri giochi e non susciti tutte quelle emozioni, quel linguaggio che non sa di essere linguaggio ma crede di essere sostanza, la guerra continuerà a costruire le tragedie per le quali intervengono quei sentire e quelle forti sensazioni che creano le uniche direzioni possibili quelle di cercare in tutti i modi di distruggere la guerra perché nessuno, nessuno è a favore della guerra, questo è ciò che si sente, tutti sono inorriditi cercano di distruggere questo flagello eppure funziona, si mettono in atto e si studiano i modi e si predicano soprattutto i modi perché ci sia l’ultima guerra ma questo non avviene e se non avviene ci saranno dei buoni motivi ma il linguaggio non può interrogare se stesso, il linguaggio è la sostanza a cui rinvia, è un corpo che dice delle cose non può considerare che dicendo delle cose lui le fa queste cose, lui costruisce le tragedie, perché? Perché lo fa continuare a parlare, perché sa parlare solo di quello, perché non ci sono altri argomenti che lo attraggano e quindi che ripetano quel gesto perché è di un gesto che si tratta, un gesto iscritto “fuori da una struttura linguistica”. Una persona che accede ad una analisi, ad una psicanalisi, la Scienza della Parola è nata da un percorso analitico così come l’aveva inventato Freud, come aveva inventato Freud la Psicanalisi e quindi in prima istanza un modo di porre le questioni, un modo di instaurare la domanda e di portare qualsiasi domanda che interviene alle sue estreme conseguenze, dicevo una persona che domanda di entrare, di praticare una psicanalisi perché il suo discorso funziona in un certo modo per cui delle questioni lo interrogano per cui non trova risposte a ciò che lui va chiedendo, non è soddisfatto, beh dicevo quella persona è la società, un particolare gioco della società che chiede di entrare in analisi e di fare analisi perché non è soddisfatta, perché non c’è nulla che possa distoglierla ….chiede anche una conferma perché no? Ma dicevo che in prima istanza è la società che chiede di fare l’analisi, quella società che parla quella persona, che parla, che vive quella società, perché ha imparato a parlare in quella società, lei sa parlare la “lingua” di quella società per cui quando c’è una domanda di analisi è la società che chiede l’analisi, che entra in analisi e fin tanto che la persona non potrà accorgersi di quello che va agendo laddove si trova a subire quel mondo che espone, che mostra, che interpreta, che rappresenta in analisi, fin tanto che non potrà accorgersi del discorso che agisce e di quello che costruisce pur di mantenerlo, continuerà a costruire i suoi “sentire” che provengono da quelle tragedie che man mano mette in atto per continuare a godere, questo è il piacere. Dicevo che al momento in cui si accorge che agisce, che è un discorso quello che lei va facendo, beh a quel punto ha la chance di accorgersi che conviene che ascolti quello che lei sta dicendo e quindi che sappia che agisce quel discorso che crede di subire. Non c’è bisogno di subire questa è la chance. La chance di accorgersi che la sostanza, che “il figlio di dio” che non può distruggere e che entra in analisi è un gioco linguistico che le ha permesso di continuare a utilizzare quelli che sono i luoghi comuni più comuni che circolano in quella struttura linguistica, al momento in cui si accorge di questo può cominciare ad analizzare in modo preciso quello che è un discorso, il suo discorso. Di qui forse potete cogliere perché noi continuiamo ad affermare che qualsiasi cosa è un gioco linguistico non “qualche cosa sì e qualche altra no” a mio piacere perché il piacere è un concetto che come dicevo all’inizio è costruito, è possibile perché una struttura linguistica ha permesso e utilizza questa costruzione, ora non ho molto tempo per illustrare e per rifare tutti i passaggi per affermare quello che stiamo affermando, ma ci sono le prime trascrizioni, ciò che abbiamo cominciato a sbobinare a mettere sul computer dal 1990, e forse diventa più semplice quello che andiamo dicendo… comunque questo ampio preambolo alla droga e al piacere della droga che è il tema di questa sera, per fare intendere in prima istanza che il gioco della droga è un gioco fra altri giochi… non ho dimenticato che questo era il tema della serata. Il piacere della droga dunque, questo gioco linguistico fra altri giochi linguistici perché il problema della droga è un problema per colui che “ha” il problema della droga e quindi gioca questo gioco, per altri il problema della droga non esiste: una serata con gli amici… alcool, fumo… questo non è un problema utilizza certe cose ma non è un problema che sconfina nel piacere, utilizza il piacere senza problemi ma dicevo appunto del cavallo di battaglia di tutti i governi che offrono la loro protezione in cambio chiaramente di qualche voto, è la potenza e ciascuno sa ciò cui intendo alludere… è il cavallo di battaglia anche delle istituzioni benefiche quelle che promettono il salvataggio del malcapitato in cambio di un paradiso, di un dio che li saprà amare, un’altra forma di protezione. Dicevo prima della società e dei particolari giochi che si giocano in questa società e del drogato, di questo eroe al contrario, capovolto, pare strana questa affermazione ma forse è proprio lì che se vogliamo andare a parare con il piacere dobbiamo riflettere, questo eroe capovolto che pur di avere, pur di muovere ed appagare il suo desiderio con ciò che per lui funziona come droga, muove nei modi in cui sappiamo, muove e appaga il suo desiderio e il suo paradiso è lì, subito, in questo trasgredendo, credendo, immaginando di trasgredire quelle che sono le regole, quelle stesse regole che utilizza la società e lui non le trasgredisce lui le conferma, lui le utilizza è questo che mantiene il suo piacere non è lo sballo, non è il buco, questo è il piacere, il piacere dell’eroe che si fa drogato e che è drogato in barba a quelle che sono le proibizioni che gli provengono da una società… così come il fervente credente quello che accoglie le regole di quel dio che gli promette sempre un paradiso, ma non subito qui e adesso, sempre di là, sempre da venire, la struttura è la stessa, cambia, cambia che cosa? Cambia la conclusione: il paradiso è qui e adesso e io sono un eroe. Io avrò un paradiso bellissimo dipende dalle regole che io riesco a seguire dipende dalla proibizioni che io riesco a fare mie, ad adempiere. È la stessa struttura tutto sommato, non cambia. Da parte del governo in questo caso, il mantenere il desiderio e quindi il mantenere questo luogo comune proibito e quindi perseguito e quindi attuale, sempre attuale è un’operazione che è avvenuta nei secoli e ha procurato molto linguaggio, molta parola, è un po’ l’operazione che ha compiuto il cattolicesimo quando si è trovato a fare i conti con la sessualità, sessualità che procurava del piacere, e il cattolicesimo l’ha finalizzata alla procreazione, demonizzando quel desiderio l’ha innalzato e quindi sempre accessibile. Nessuna trasgressione, nessun piacere in questo gesto solo utilizzo del linguaggio che non sa di essere tale, non sa di essere linguaggio ma crede di essere una sostanza, un figlio di quel dio che gli ha donato l’unica ricchezza che sta in quel sentire che non può essere messo in gioco perché se no c’è il piacere… perché se no con che cosa giochiamo?
Se ci sono degli interventi, se no avrei piacere di ascoltare Luciano Faioni per rendere ancora più semplice la questione…
Intervento di Luciano Faioni
Nella migliore tradizione si sa che la droga è quella cosa, quell’idea che rappresenta o che promette un piacere irrinunciabile. Generalmente funziona così. Ora, la questione che a noi interessa è come accade che qualche cosa possa diventare, rappresentare un piacere irrinunciabile, come se dipendesse dal raggiungimento di questo obiettivo la felicità assoluta, chiamiamola così. Come avviene una cosa del genere? Beatrice illustrava alcuni aspetti del funzionamento del linguaggio. Ovviamente, con linguaggio non intendiamo la verbalizzazione di qualche cosa ma una struttura, quella struttura che consente a ciascuno di potere pensare, cioè trarre delle conclusioni, considerare le cose, fare domande e fare delle risposte. Beatrice andava considerando come di fatto la nozione di droga corrisponda a niente altro che all’idea che qualche cosa sia fuori dal linguaggio e in questo rappresenti quella sostanza che può promettere un piacere assoluto. È un’idea molto diffusa, che sia la cocaina, che sia l’ideale politico o la religione, in fondo la condotta non è molto diversa. Prima si parlava dell’eroe rispetto a colui che assume sostanze stupefacenti. Sì, è vero, interrogando queste persone, in effetti la più parte di loro considera questo aspetto come determinante, nel senso che compiendo questa operazione, non soltanto attirano l’attenzione del prossimo, ma considerano che fanno qualche cosa che altri non hanno il coraggio di fare, per esempio. Per questo si considerano in qualche modo delle persone speciali, allo stesso modo del fondamentalista islamico che crede anche lui di essere speciale per le cose che fa, tanto speciale da meritarsi il paradiso, non quello dei cristiani ma quello dei musulmani, sono diversi. Come dire, in altri termini ancora, che ciascuna volta in cui si crede fortissimamente qualche cosa, cioè si crede vera fortissimamente qualche cosa, cominciano i problemi. Si crede fortissimamente vera una qualunque cosa a condizione di pensare questa cosa fuori dal linguaggio, perché se è nel linguaggio allora questa cosa non è vera di per sé ma è vera all’interno della combinatoria in cui è inserita, così come faccio spesso questo esempio, è vero che giocando a poker quattro assi battono due jack ma è vero all’interno del gioco del poker, fuori da questo gioco non significa assolutamente niente. Ora, accade di pensare che una cosa sia assolutamente vera, il problema è che, dopo che si è pensato questo, ci si comporta di conseguenza. Se è assolutamente vero che se uccido mille cristiani poi andrò in paradiso con settanta vergini, se questo è assolutamente vero, allora mi muoverò di conseguenza. Questo per indicare come ciascuno si muove in base alle cose che crede e tanto più fortemente si crede tanto più la sua condotta sarà inesorabilmente pilotata da questa cosa. Non è certo una cosa insolita, avviene così da quando c’è traccia degli umani, ha delle implicazioni, è ovvio, perché se io credo assolutamente vera una cosa e per esempio il mio amico Sandro credesse assolutamente vera la sua contraria, è un problema, perché allora, siccome io non posso pensare che ciò che io credo assolutamente non sia vero, allora devo fare in modo che il mio amico Sandro receda dalla sua posizione, se è una persona ragionevole si lascia persuadere oppure lo abbatto, è il sistema più rapido. Questo comporta il credere fortissimamente le cose. Il corollario apparirebbe essere quello di non credere necessariamente alle cose. Può darsi ma non è così semplice, anzi, è una delle cose più difficili, non tanto il non credere una cosa a vantaggio di un’altra ma non avere la necessità di credere, credere per esempio che il mio benessere dipenda da una pista di coca oppure dall’ammazzare mille cristiani, oppure dal fare altre cose, potrei fare miliardi di esempi. Come vi dicevo prima, la condizione perché io possa fare cose del genere è di credere fortissimamente. Si dice generalmente che gli umani hanno bisognosi credere. Magari non è così sicuro, è un’idea come un’altra. Certo, in genere si verifica così, gli umani credono a una qualche cosa. Si tratterebbe di considerare forse una questione, perché lo fanno e a quali condizioni potrebbero cessare di farlo eventualmente. E qui, certo, si connette la questione del sapere, il credere qualche cosa fornisce un certo piacere, il piacere che interviene nel momento in cui si suppone di avere trovato la verità, per esempio nel caso della religione, o la felicità nel caso della pista di coca. Se quella è la cosa che devo raggiungere per essere felice allora sono contento. È un luogo comune ormai che ciascuna conversione religiosa procuri una certa eccitazione, una certa gioia, abbracciare una nuova religione, qualunque essa sia, il piacere di trovarsi a pensare di avere ragione. In definitiva, si tratta di questo, io ho ragione e gli altri hanno torto. Perché? Perché sì, in genere si pensa in questo modo, non è che si vada molto oltre. C’è un’altra considerazione, certo, come diceva Beatrice, e anche notevolmente importante, cioè il fatto che la droga sia perfettamente funzionale, il concetto di droga più che la sostanza in sé, che non rappresenta assolutamente niente, funzionale a qualunque istituzione. Anche questo è noto da sempre, anche se non sempre se ne tiene conto, il fatto che più si impongono divieti, più si fanno sentire le persone in colpa, più facilmente sono gestibili. Rimane il fatto che la questione centrale è la possibilità di pensare in un altro modo. Le teorie, filosofiche e non, ce ne sono a bizzeffe, in questi ultimi tremila anni ne sono state costruite una quantità notevolissima, però ciascuno di questi modi di pensare risulta arbitrario. Voi sapete che gli umani cercano la verità da quando esistono, da quando c’è traccia di loro, anzi, è il loro obiettivo fondamentale di tutta la loro esistenza anche se non è esposto in questi termini, in modo così esplicito. Ma, prima vi dicevo del piacere che ciascuno incontra nell’avere ragione di quello che dice, di quello che pensa, di quello che fa, lo cerca ininterrottamente “farò bene a fare così, farò male, è giusto quello che sto facendo?”, passa tutta la vita a chiederselo, magari in modo un po’ così sommario, talvolta un po’ arruffato, però lo fa ininterrottamente, vuole sapere qual è la verità o come stanno le cose, cos’è il giusto, cos’è il bene. E perché vuole saperlo? Cosa se ne fa ? possiamo porre la questione anche in altri termini, perché una persona ama avere ragione e detesta avere torto? È una bella questione, potrebbe non interessargliene assolutamente niente e invece no, pare che ci tenga moltissimo, e in effetti è così, ci tiene moltissimo. La questione della verità non è una questione astrusa, riservata solo agli squinternati filosofi, ma è qualcosa con cui ciascuno si confronta quotidianamente, anche quando compera il pane, anche se non lo sa, è meglio un etto di panini o di grissini? Come dire, è meglio un etto di panini, questa proposizione è vera, se è falsa allora è vera quell’altra. È ovvio che non viene formulata così di fronte al panettiere, però la struttura di questo ragionamento è fatta in questo modo, una proposizione è vera e l’altra è falsa, rispetto a quel momento particolarissimo, magari dopo tre minuti è vero il contrario, non importa. In fondo l’idea della droga è anche l’idea di una verità assoluta connessa con il piacere assoluto, nessun cosiddetto drogato ha alcun dubbio circa il fatto che ami farsi di qualche cosa, ne è assolutamente sicuro, cioè questa cosa per lui è assolutamente vera, così come è vero che questa sostanza che si inietta, sia eroina o altro, in ogni caso gli procurerà gli effetti che desidera. Funziona tutto così, dovunque voi siate e qualunque cosa facciate. Ma, vi dicevo, questo modo di pensare, così comune, così antico, comporta degli effetti collaterali. Uno di questi è il conflitto, adesso non parlo necessariamente di un conflitto armato, parlo di conflitto tra persone che segue a un conflitto di idee. Anche quando si pone questa sorta di captatio benevolentiae, uno dice una cosa e dice anche “questa è una mia opinione”, ma se non la credesse vera questa cosa non l’avrebbe affermata. È una captatio benevolentiae, in realtà si crede che sia così, e quindi difenderà la sua opinione, e difenderà così allo stesso modo e per lo stesso motivo per cui nel Medioevo i cristiani difendevano la loro fede con la spada e i musulmani oggi difendono la loro fede, i loro ideali, con la spada o altro. Ecco, questi gli effetti collaterali, se credo una cosa assolutamente vera allora mi muoverò di conseguenza, come dire che non ci posso giocare con questa cosa, diventa una cosa straordinariamente seria al punto da diventare drammatica in alcuni casi. Se fosse possibile, invece, pensare che non è nient’altro che un gioco, un gioco linguistico, cioè una sequenza di proposizioni vincolata a delle regole che consentono di giocare, come qualunque altro gioco, e queste “verità” che si incontrano sono vere all’interno di quel gioco, non significano assolutamente niente fuori da quel gioco, ecco che allora la mia condotta sarà differente, potrò giocare, giocare con i miei pensieri, senza crederci, senza prenderli in modo così drammatico. Che cosa accade a questo punto? Che mi muovo di conseguenza, ovviamente, cioè non ho bisogno di difendere ciò che credo né a rischio della mia vita né a rischio di quella del prossimo, per esempio.
CAMBIO CASSETTA
… addestrato a pensare che le cose esistano di per sé, fuori dal linguaggio che le costruisce. Ed è anche la condizione perché la civiltà, la società, le istituzioni come esistono adesso, possano continuare a proseguire. In effetti, questa è una posizione terribilmente sovversiva, perché toglie di mezzo le condizioni perché qualunque istituzione possa esistere, e cioè toglie la necessità di credere qualunque cosa, non toglie una credenza per mettercene un’altra, non ha nessun interesse, ma toglie la necessità di credere qualcosa, di credere, cioè di pensare che qualcosa sia fuori dal linguaggio, che se considera che è un prodotto del linguaggio, che magari sì, è vera ma che è vera all’interno, come dicevo prima, di quel gioco particolare, fuori da quel gioco non significa assolutamente niente. Sicuramente non mi ammazzerò per questo né ucciderò altri, lascerò vivere.
Il linguaggio è una questione sempre abbandonata dal discorso comune, dal discorso occidentale, abbandonata da sempre, da quando duemilacinquecento anni fa circa, i sofisti posero la questione in modo sufficientemente chiaro. La reazione fu immediata, furono cacciati e tutto il loro insegnamento cancellato, a buon diritto e con ottime argomentazioni. Qualunque buon governo sapeva perfettamente che tali insegnamenti, quello dei sofisti, avrebbero condotto alla dissoluzione del governo, dello stato, delle istituzioni. Non li hanno uccisi, allora non uccidevano per così poco, vennero allontanati. Questo gesto dei sofisti, di cominciare ad accorgersi che le cose mutano continuamente, variano, perché sono costruite da quella stessa cosa che è la stessa condizione che consente a me di pensare, di parlare, a voi di ascoltare, di porre domande, di obiettare, di assentire, di fare qualunque cosa, quella condizione che è il linguaggio, cioè la possibilità di pensare, di trarre conclusione, di sapere, di affermare, di negare e qualunque altra cosa. Se qualunque cosa è un elemento linguistico allora qualunque cosa trae la sua forza, il senso, dalla combinatoria, dal gioco in cui è inserito in quel momento, da niente altro che questo. Occorre naturalmente porre una condizione, infatti, ho detto “se” qualunque cosa è un elemento linguistico, perché se non lo fosse allora…beh, allora hanno ragione i musulmani, credete, credete fortissimamente quello che vi pare e dio sia con voi, inshallah. Invece, abbiamo considerato, contrariamente a gli umani in generale, che questa proposizione che afferma che qualunque cosa è un elemento linguistico è necessariamente vera. Con necessariamente vera intendo dire che se non fosse così allora il linguaggio cesserebbe di esistere, per il semplice fatto che qualcosa sarebbe fuori dal linguaggio. Ora, lo posso pensare, lo posso dire, ovviamente, qualcosa fuori dal linguaggio, la droga, cioè qualcosa che ha un’esistenza a sé, cioè indipendente da qualunque cosa e quindi è costrittiva, è terroristica, perché le cose sono così e non posso fare niente. Solo che c’è un problema, certo lo posso credere, la più parte degli umani lo fanno, che affermare che qualcosa è fuori dal linguaggio comporta una domanda semplicissima, come lo so se è fuori dal linguaggio? Certo, occorrerebbe a questo punto partire da una serie di argomentazione, però potete per il momento riflettere su questa questione, e cioè se sostengo che esiste un x che è fuori dal linguaggio come lo so? E cioè, se questa è una proposizione vera, quella che afferma che x è fuori dal linguaggio, come lo so che è vera? In base a che cosa, a quale criterio? Perché quando si pensa occorre farlo sul serio, se non si crede alla prima stupidaggine che viene in mente. Pensare comporta questo, cominciare a porre delle domande circa le condizioni che mi consentono di farlo, tutto ciò che utilizzo per trarre le conclusioni che traggo. Ecco l’importanza del linguaggio, è ciò di cui ciascuno è fatto, è ciò di cui vive. A questo punto o se ne accorge oppure no. Se non se ne accorge ecco la droga di cui parlava Beatrice, la sostanza, che è fuori, immutabile, identica a sé, quindi esige che creda fortissimamente perché è così. Oppure, un’altra via, che è quella necessaria logicamente, più ardua sicuramente perché è la meno battuta, la meno praticata, sicuramente, ma è quella che consente di cessare di essere ingannati, di ingannarsi, in fondo di vivere nella menzogna. La droga costituisce di per sé una menzogna, l’idea che ci sia qualcosa che fornisce un piacere assoluto. Intanto c’è qualche questione, qualche considerazione intorno a ciò che siamo andati dicendo?
Intervento: ….
Il linguaggio non è altro che una struttura che consente di parlare, di pensare, di fare qualunque cosa, riguarda in effetti qualunque altra struttura come se fosse una sorta di metagioco, un gioco che consente di giocare tutti i giochi, che rappresenta le condizioni per costruire qualunque gioco, le regole per costruire qualunque gioco. Perché io mi immagini qualunque cosa, per esempio voglia costruire una teoria, voglia decidere dove andare a fare le vacanze, qualunque cosa, in ogni caso dovrò pensarci. Come funziona il pensiero? Muove da un elemento, considera le varie cose e giunge a una conclusione, per dirla in modo molto spiccio. Questa struttura è data dal linguaggio, è lui che consente queste operazioni, che mi consente per esempio di decidere dove andare a passare le vacanze. Lei provi a immaginare, così per assurdo, che di colpo il linguaggio cessi di esistere, e insieme con questo qualunque altra cosa cesserà, non può pensare, quindi non può accorgersi, non può considerare, non può avvertire, interrogare, non può fare niente, non può neanche sapere di esistere.