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LA TERAPIA COME IDEOLOGIA

 

20 novembre 1993

 

Introduzione di Sara Pauluzzi.

 

Luciano Faioni ha terminato l’intervento della settimana scorsa introducendo quello di oggi con le parole “Ciascuna dottrina che si ponga come psicoterapia si pone religiosamente come la salvezza dal male”.

Ma che cos’è il male? Tenendo da parte per il momento quello fisico di dolore, per quanto anche questo abbia notevoli implicazioni, perché il male ha tanta importanza per gli umani e è sempre stato contrapposto al bene sul principio del terzo escluso? Eppure, non è raro provare sensazione di malessere e di benessere contemporaneamente, senza peraltro che l’uno escluda l’altro.

Intanto occorre distinguere tra malessere e disagio. Il disagio è strutturale, non può togliersi. È ciò che resta della domanda pulsionale, che non trova risposta perché non è la risposta che cerca, in definitiva.

Freud dice che la pulsione raggiunge la meta ma non l’oggetto, che si sposta, trovandosi continuamente gettato innanzi. Questa mancata presa dell’oggetto, questo oggetto sempre inadeguato, mantiene il disagio, mantiene l’inquietudine, inquietudine intellettuale che è ciò che muove a fare, a pensare. Il disagio non ha nulla a che fare con il malessere. Il malessere è un’economia del disagio, è la sua rappresentazione e lo rappresenta per non volerne sapere di ciò che interroga.

Lo star male è il modo di avvertire il godimento laddove il godimento è localizzato. Il disagio può essere accolto e preso in un’elaborazione, in una pratica analitica - un elemento di grande interesse, in questo caso -, ma lì dove non c’è ascolto, dove questa difficoltà non viene messa in gioco, non resta che attenersi alla realtà che questo disagio enuncia, qualunque essa sia, e supporre in questo caso che il male e la sofferenza siano lì. E partendo da questo luogo in cui si è rappresentato il disagio, motivare, giustificare e fornirsi tutta una serie di risposte.

La sofferenza si mette sovente in atto in questioni che si esprimono con “Tizio non mi ama” oppure “non mi ama più” o anche “non sono capace di fare nulla di buono nella vita”. E questa sofferenza è tanto più intensa quanto più queste questioni sono mantenute ferme, immobili. La sofferenza, lo star male, sono continuamente messe in atto, rappresentati, e la terapia o la psicoterapia si trovano a spaziare in un terreno vastissimo. Per terapia, in questo caso, si può pensare a tutto ciò che si presenta come tale e che promette risultati più o meno duraturi come la magia, la psicologia, la religione, e anche qualsiasi operazione che abbia come risultato il benessere, per cui qualsiasi forma di persuasione, di convinzione, di liberazione o riconoscenza di sé.

La nevrosi è la terapia per eccellenza. È il primo tentativo che si mette in atto per togliere il disagio. La psicoterapia esercita la credenza nel male per eliminarlo. Dunque, c’è chi propone di eliminare il male, c’è chi lo sposta, c’è chi lo giustifica e lo considera necessario e consiglia di accettarlo. C’è, comunque, sempre l’idea di togliere il male a beneficio del bene adesso o in una vita eterna. La psicoterapia..., in questa altalena di male e bene che si inseguono, si pone come punto focale, un punto centrale dell’esistenza, su cui tutto ruota, anche l’esistenza stessa. Tutto ciò impedisce di accorgersi che se si elimina questa dicotomia, se si tiene conto che male e bene sono parole da ascoltare innanzitutto, e nozioni di linguaggio più che contenuti a cui attenersi, si pongono le condizioni per potere elaborare e articolare ciò che nel proprio discorso insiste come disagio. Vale a dire, cogliere ciascuna volta qual è e dove si situa il disagio, come interviene, quali sono i tic e quali sono i rimedi contro questo disagio.

 

Intervento di Luciano Faioni.

 

Si tratta, a questo punto, di illustrare alcune delle proposizioni che ha proposto Sara aggiungendo degli elementi.

Le questioni che abbiamo affrontato sabato scorso ci consentono oggi di affrontare questo aspetto, uno dei più complessi, forse dei più ardui da affrontarsi nel discorso occidentale. Non che non sia stato trattato, evidentemente; anzi, se ne parla continuamente: il disagio e dei modi per porvi rimedio. Questione antichissima.

Questione ardua perché affrontarla in termini non comuni, non partecipati e non partecipabili, comporta immediatamente il trovarsi a una certa distanza dal pensare comune.

Possiamo, dunque, muovere da questa considerazione: ciascuno si trova, lungo la propria vicenda, a esplorare il disagio generalmente attraverso il malessere, cioè lo stare male. Lo stare male è il modo con cui si avverte qualcosa di cui non si riesce a dare una giustificazione, non si riesce a attribuire un significato, un motivo valido, sufficiente. Questa sospensione, questa impossibilità a rispondere è propriamente ciò che viene avvertito come disagio. Però, il disagio non è sempre e necessariamente il malessere. Già Freud indicava nel disagio qualcosa di strutturale, qualcosa che non può togliersi, e nel malessere, il tentativo mancato di rispondere al disagio, dunque, di trovare un significato al disagio e, quindi, toglierlo di mezzo. Operazione che non riesce, non riesce e questa non riuscita è testimoniata in modo talvolta drammatico sia dalla nevrosi sia dalla psicosi.

Si tratta di questo, propriamente: intendere se è possibile rispondere al disagio e se no con quali termini affrontare la questione. Ciò che gli umani hanno inventato da sempre per rimediare a questo problema è ciò che la volta scorsa indicavo come la struttura del discorso religioso.

Per discorso religioso intendo questo: qualunque struttura di discorso che si ponga come obiettivo la soluzione del disagio, indicando questa soluzione come possibile, come raggiungibile. Il discorso religioso è il discorso che ha la risposta e che pertanto produce senso. Diceva Lacan molti anni fa che la religione è la più formidabile produttrice di senso, di significato delle cose. In effetti, fornisce un senso a tutto, non c’è cosa che rimanga in sospeso. Non è casuale che in molte occasioni ci sia una sorta di sovrapposizione tra la figura dello psicoterapeuta e quella del prete. In quest’ultimo caso, si tratta di assolvere, in quanto c’è qualcuno che perdona. Anche nel primo caso c’è una sorta di assoluzione ma posta in modo differente, che passa attraverso o la rassegnazione, come dire che “occorre che ciascuno conosca i propri limiti”, occorre quindi che ciascuno sappia fino a che punto può andare e pertanto si rassegni. C’è una sorta di accettazione: conosce quali sono i propri difetti e cerca i modo di conviverci. Questa è una soluzione che viene in molti casi propinata. Anche qualche tempo fa un articolo di un noto psicoterapeuta proponeva esattamente questo: diceva che insomma ciò a cui bisogna giungere è che ciascuno si rassegni a essere quello che è, come il massimo della felicità. Tutto ciò si mantiene, come dicevo sabato scorso, nell’ambito di una struttura religiosa, quindi, nell’ambito di una struttura che prevede, che immagina possibile la guarigione.

Nozione curiosa questa, anche se molto praticata, in quanto muove da un concetto molto antico, quello guerresco di “combattere” contro il male. Un male come una sorta di corpo estraneo che deve essere eliminato con varie tecniche. Ciò che ha incominciato a intravedere Freud lungo la sua ricerca è che forse non si tratta di un corpo estraneo e nemmeno di un corpo interno ma più propriamente di un qualche cosa che si dice. Tant’è che se una persona lamenta una sofferenza, soprattutto una sofferenza cosiddetta psichica, tiene molto paradossalmente a questa sofferenza. Al punto che se qualcuno gli suggerisce che forse questo suo malanno non vuole dire niente, che anzi non ha assolutamente niente, si arrabbia moltissimo e fugge dicendo di non essere capito, di non essere inteso da questa persona che non capisce qual è il suo problema.

In tutto ciò risulta essenziale questa sorta di comprensione che si aspetta dall’altro una sorta di complicità. In questa accezione: se io dico che sto male, per qualunque motivo, e l’altro fa qualche cosa per il mio male, beh, in prima istanza accoglie quel che io dico, cioè crede a ciò che dico. E, quindi, lo verifica, nel senso che lo rende vero, lo conferma. In molti casi è propriamente questo ciò che si cerca: qualcuno che fornisca una conferma, che dica “sì, è vero, stai proprio male!”. Perché questo? Perché paradossalmente si potrebbe attendere esattamente il contrario e cioè che potrebbe dare maggiore soddisfazione una persona che dica l’opposto, vale a dire, che non sta affatto male. Invece no, c’è questa necessità di una conferma, di un “sì, è proprio così, stai male!”, ma evidentemente questo male ha delle prerogative assolutamente particolari: quella, in prima istanza, di potersi dire.

Freud ha inventato la psicanalisi per via di alcune persone che si trovavano nell’urgenza di raccontare che stava male, di dirlo a qualcuno. La prima esigenza che si avverte, nove volte su dieci, è di trovare qualcuno a cui dirla. Perché mai? Anche nei casi in cui si tace il proprio male la questione è la stessa nel senso che tacere il male ha una funzione tale da dovere funzionare da soluzione, cioè fare in modo che qualcuno finalmente si decida a chiedere che cosa ho. Magari sto in disparte in silenzio, poi qualcuno interviene a un certo punto. Come dire che la richiesta in questo caso è quella di una conferma che questo male esiste. Non che non esista. Ciascuno lo avverte. Per esempio, la depressione è una questione antichissima. Già Aristotele parlava della malinconia accostandola all’uomo di genio che non necessariamente coincide. Ci sono, infatti, persone depresse che non sono dei geni.

Parlo della depressione che è uno dei mali di moda ultimamente. I mali seguono anche loro le mode. Nell’800 era l’isteria, poi fu la nevrosi ossessiva. Oggi, in parte, comincia a essere la depressione. Potete tener conto di questo anche soltanto leggendo i vari articoli sui giornali che pongono l’accento sul disagio sotto forma di depressione. Depressione o malinconia.

Dicevo all’inizio dell’eventualità di porre la questione in altri termini che non prevede né il rifiuto, cioè l’accusare chi soffre di mentire. Come avveniva, rispetto al discorso isterico, a fine ‘800. Le cosiddette isteriche, dopo essere state sezionate e vivisezionate accuratamente, non avendo trovato nulla che non funzionasse, l’unica cosa che potesse dirsi da parte degli psichiatri di allora era che mentivano. Dove, d’altra parte, si tratta forse di avallare la menzogna istituendola a questo punto come necessaria, dicendo “sì, è proprio così, stai male!”. Quale altro modo, dunque?

Freud ha sicuramente tracciato una via in questa direzione. Una via di un certo interesse che muove da questa considerazione: chi enuncia di stare male, che cosa sta dicendo? Dicevamo prima di un disagio, cioè la sensazione di qualche cosa che accade e di cui non trova una spiegazione, di cui non sa dire il motivo. Ora, è una questione è sempre esistita, gli umani si sono sempre dati da fare intorno a ciò cui non riuscivano dare spiegazioni. Basti pensare al discorso scientifico, alla filosofia o a qualunque altro, dove ci si muove esattamente in questi termini, cioè come la ricerca di una soluzione, di una risposta a una domanda. Solo che in questo caso, in quello dello stare male, la questione è posta in modo differente. Non è tantissimo, tant’è che alcuni trovano la risposta al loro malessere attraverso l’arte, per esempio, attraverso la scrittura o in vari altri modi.

Questo pone una domanda: se è sufficiente trovare il modo giusto, o quanto meno un modo soddisfacente, per rispondere a questo malessere e risolvere i problemi. È una domanda legittima. Solo che non è di questo che si occupa la psicanalisi. Di che cosa si occupa?

Si occupa del disagio che, come dicevamo, è strutturale. Lo interroga e pone questa istanza: il disagio non può togliersi e non c’è nessuna risposta, a nessuna domanda. Considerazione, tutto sommato, abbastanza banale a cui non soltanto la psicanalisi è giunta ma anche altre moltissime riflessioni. La stessa logica, la stessa fisica, lo stesso discorso scientifico, sono giunti alle stesse considerazioni. Solo che c’è una differenza tutt’altro che marginale: che ciascuna di queste dottrine continuano a supporre la risposta possibile, pensabile, raggiungibile in qualche modo, prima o poi. Cioè, viene data come ipostasi, come ciò che sta sotto a qualunque cosa.

La psicanalisi constata e verifica in atto che non c’è nessuna ipostasi, non c’è nessuna soggiacenza, né perduta né da ritrovare.

Cosa avviene, allora, lungo un itinerario analitico? Avviene che si tratta di mettere in gioco, di esplorare una fantasmatica, qualcosa in cui si crede. Qualunque cosa sia. La credenza ha sempre la stessa struttura. Chi sta male non è che creda nel male, o non soltanto, comunque non è questo il motivo per cui sta male. Lo stare male consiste in questo: è la constatazione impotente che ciò che si dice o ciò che si pensa o ciò che si fa risulta costantemente inadeguato a qualcosa che interroga, in alcuni casi anche in modo molto forte. La sensazione è quella di provvisorietà, di instabilità, di assenza di identità, di impossibilità di sapere che cosa voglio, che cosa sto facendo, chi sono. Con tutta una serie di corollari e di implicazioni poi rivolte anche a altri, cioè chi sono gli altri e che cosa vogliono da me.

La psicanalisi trova questo, che fino a quando la questione è formulata in questi termini non c’è nessuna possibilità di venire a capo di alcunché. Ma si accorge che la questione può trovare una via per dissolversi formulando in altro la questione, la domanda. Prendete questa, per esempio: che cosa voglio? Bene, fino al punto in cui la domanda viene posta in questi termini ... Quali sono questi termini? Sono questi: che questa nozione di volontà presuppone inevitabilmente un soggetto che sostiene questa volontà. Presuppone che questa volontà sia transitiva, cioè che vada verso qualcosa, che sia soddisfatta da qualche cosa. Questo è ciò in cui si crede fortissimamente e è questo il problema, mica altri. In effetti, è questa certezza che costringe alla necessità di una risposta che chiuda la questione. Senza questa certezza la cosa si altera. Supponete che non vi sia questa certezza, che esista qualcosa che soddisfi il desiderio per esempio, che non esista la certezza che il soggetto sia necessariamente un quid, o come volevano i Greci l’hypokeimenon, cioè una soggiacenza, ciò che giace sotto, il soggetto, e che quindi, giacendo sotto, deve sostenere tutto. Se questa certezza dovesse venire a mancare per qualunque motivo, allora sicuramente non mi spetto che esista qualcosa che tolga di mezzo il mio desiderio una volta per tutte. Se questo dovesse accadere, se dovessi cioè constatare, verificare in atto, che non c’è qualcosa che possa togliere il desiderio, ecco allora l’attesa che questo avvenga scompare. Non attendo più. Cosa accade non attendendo più? Beh, che nel frattempo posso fare altre cose, non sono necessariamente e costantemente inchiodato in questa posizione di attesa nei confronti miei o altrui, perché posso anche attendere che altri rispondano a questa domanda, il che rende le cose ancora più complicate.

Come giunge Freud a questa considerazione?

Giunge ascoltando i sogni, ascoltando i racconti. L’itinerario analitico è un racconto, in effetti. Un racconto particolare e la particolarità sta in questo: nel constatare che cosa c’è di particolare in questo racconto, cioè, in che modo mi riguarda, in che modo ciò che sto dicendo mi riguarda. Questione tutt’altro che semplice dal momento che parlando ciascuno immagina continuamente che ciò che dice riguardi le cose che descrive o le persone di cui sta parlando. Non è propriamente così. Ciò che dice e ciò che racconta muove da una realtà, non quella che immaginano alcuni “realisti” ma quella che Freud indica come Wirklichkeit, come la realtà psichica, il fantasma. Questa è la realtà che ciascuno si trova continuamente a descrivere, di qualunque cosa parli, che lo sappia o no, che lo voglia o no. Questo rende le cose per un verso molto più semplici, per l’altro molto più complesse. Molto più semplice in quanto le questioni ciascuno le espone continuamente, sono proprio lì sotto gli occhi incessantemente. La difficoltà sta nell’accorgersene. La difficoltà è solo questa, non ce ne sono altre: accorgersi di ciò che si sta dicendo. Cioè, accorgersi di ciò che è in gioco parlando, di che cosa sta accadendo mentre parlo, cosa sta accadendo per me evidentemente, quali immagini, quali fantasmi, quali ricordi, quali connessioni, quali le implicazioni che sono in gioco in quel momento e di cui non tengo conto in nessun modo. Ma queste connessioni e queste implicazioni “si” tengono conto, per così dire, al punto che le cose che faccio e che dico procedono, si costruiscono mano a mano tenendo conto di una quantità sterminata di elementi che ignoro totalmente. Posso venirne a sapere qualcosa, evidentemente, parlandone e ponendo le condizioni perché possa ascoltare ciò che sto dicendo. Ascoltare non è sentire, propriamente, anche se lo prevede. Ascoltare è accorgersi, constatare, verificare in atto come ciò che si dice si divide da sé, si alteri, sia sempre incessantemente altro, quindi impossibile a isolare, a localizzare, a fermare, a significare, nonostante tutta la buona volontà che ci si possa mettere. Questione che i linguisti hanno avvertito in modo molto preciso: parlare è strutturalmente impossibile. Nonostante alcuni abbiano tentato di parlare di competenza rispetto al linguaggio. I più attenti si sono trovati di fronte a aporie insormontabili. Non è possibile una competenza sulla parola. Non è possibile controllare, indirizzare o isolare ciò che si dice. È la stessa cosa che rileva Freud nella Psicopatologia della vita quotidiana, per esempio: ciascun atto che interviene ... sì, in alcuni momenti è più evidente: uno fa una sbadataggine, rovescia un bicchiere d’acqua, dice “beh, è stato un lapsus”, è stato un atto mancato. Freud incomincia a interrogare questi atti mancati e coglie delle connessioni, come dire che questo atto è mancato - questo mancato occorrerebbe metterlo tra virgolette in quanto è in un’accezione molto particolare, perché per alcuni versi è invece perfettamente riuscito - ma dicevo c’è una connessione a fianco, c’è un pensiero che opera, di cui non so. C’è una combinatoria in cui mi trovo e che ignoro, di cui qua e là verifico degli effetti. Quando, dice Freud? Per esempio, nel sogno - il sogno una cosa stranissima, assurda - oppure in una sbadataggine: l’innamorata regala una bellissima statuetta a cui la persona è affezionatissima e la tiene sempre sulla scrivania. Poi, a un certo punto, si lascia con questa fanciulla e qualche giorno dopo inavvertitamente urta la statuetta che, cadendo, si rompe. Può sembrare una banalità, può anche esserlo. Però, di fatto, sta che la psicanalisi si occupa prevalentemente di banalità, di inezie, di sfumature. Non si occupa di sistemi universali, di sovvertire le sorti del mondo, ma proprio di queste sciocchezze, di queste stupidaggini. Può risultare, in effetti, non semplicissimo parlare lungo un’analisi perché spesso le cose che vengono in mente si ritengono delle stupidaggini, delle banalità, delle cose di poco conto. Come appunto la rottura di una statuetta. Per, va da sé che la rottura con la fidanzata non è la causa di quell’altra rottura. È soltanto una connessione che può consentire, laddove si riscontri, laddove ci si accorga di questa connessione, può consentire l’incontro con altri elementi, con altri aspetti, con altri pensieri, di cui non si sapeva.

Allora si apre un itinerario che non ha propriamente la fine. Non è per caso che Freud si sia trovato, lungo il suo percorso, a scrivere quel saggio noto come Analisi terminata e analisi interminabile. Se non c’è l’ultima parola che, come dicevamo prima, può coincidere con la rassegnazione, come vuole Jung e Carotenuto, così come scrive su Panorama, può coincidere con l’identificazione con il Super-Io dello psicanalista, come voleva Balint, può coincidere con l’identificazione del sé, come voleva Kohyut. Può coincidere con varie cose; di volta in volta, ci si immagina un elemento che costituisca l’ultima parola, quindi, in definitiva, la spiegazione di tutto. Vale a dire, ciò cui occorre che ciascuno si attenga. Ma la questione posta in questi termini cambia la questione. La domanda è se è proprio il fatto di attenersi a qualche cosa che costituisce il problema. Non a torto Sara Pauluzzi indicava con la nevrosi propriamente la psicoterapia. La nevrosi, cioè, il rimedio che dovrebbe dare la risposta a un disagio, che tenta di essere definitivo, a modo suo. Cerca, dunque, di eliminare l’interrogazione, di eliminare questa domanda che, per una serie di motivi, si avverte in modo drammatico. Ma, dicevamo prima, che l’avvertire questa domanda in modo drammatico procede forse proprio da questo: dall’immaginare che debba necessariamente la risposta, l’ultima parola.

Questione antica, dicevo inizialmente. Leggevamo ieri sera con alcuni amici in un’equipe alcune pagine della Fisica di Aristotele che non a torto Heidegger indica come uno dei pilastri del pensiero occidentale. Lì si pongono alcune nozioni molto precise che rendono necessaria, inevitabile, questa struttura. A loro volta, rendono necessario, inevitabile, che ci sia la risposta. Anzi, stabilisce che debba esserci la risposta. Questo per una serie di motivi notevoli. Freud riesce anche a individuarne alcuni. Chiaramente non li porta molto avanti, non era questa la questione che lo interessava particolarmente. Uno degli aspetti che Freud ravvisa nella Psicologia delle masse e nell’Uomo Mosè e il monoteismo è questa, una delle condizioni di governabilità degli umani. Una variante, se volete, della nobile menzogna. Se gli umani cessassero, se ciascuno non si trovasse più nella necessità di supporre l’esistenza o anche solo la pensabilità di una risposta alla domanda, dice Freud forse si troverebbe in una condizione assolutamente impensabile oggi. Ma, come dicevo prima, non era questo quello che lo interessava. Non si è mai posto nei termini del salvatore del mondo. Anche perché non era così ingenuo da non accorgersi che, in questo caso, si sarebbe trovato nella stessa struttura che stava individuando. La questione è tutt’altro che semplice. Come ciascuno incontra tutto ciò? Evidentemente, lo incontra in questo itinerario mettendo in gioco le cose che riteneva incrollabili, inamovibili, sostanziali. Si tratta di trovarsi a mettere in discussione ciò che è assolutamente evidente, ciò che non può essere altrimenti che così. Di questo si occupa la psicanalisi, soltanto di questo. Di ciò che non può pensarsi altrimenti da come è. Non senza difficoltà, evidentemente. Però, posta in questi termini, la questione è esattamente all’opposto da come viene posta generalmente.

La lettura di Lacan è essenziale per chiunque voglia occuparsi non soltanto di psicanalisi ma intenda riflettere sul pensiero, sulla sua struttura.

Dicevamo che la psicanalisi non è una terapia, non si occupa di terapeutizzare nessuno. In questa accezione, cioè non è così ingenua da pensare di potere sostituire una religione con un’altra. È questo che lo stesso Freud enuncia in modo molto esplicito a un certo punto: “non è questo ciò di cui ci occupiamo, cioè di sostituire una credenza con un’altra”. Non è che non funzioni questo, funziona perfettamente, ha sempre funzionato. Funziona benissimo, anzi, straordinariamente bene. Nel senso che è esattamente ciò che ciascuno domanda. Cioè questo: che qualcuno trovi il modo di fargli credere che esiste la risposta e, eventualmente, indicargliela. Ma questo è già rischiosa. Si tratta propriamente di fare credere che esiste, che è possibile. Su cosa si fonda la persuasione? Su questa, questa è la sua struttura. Per questo funziona. La stessa confessione, inventata dalla religione cattolica, funziona in questo senso. Funziona come psicoterapia, cioè, fornisce esattamente ciò che ci si aspetta. Non è casuale che Freud abbandoni a un certo punto la pratica ipnotica, che è il colmo della persuasione, come è noto. Non soltanto perché non riusciva mai a ipnotizzare nessuno ma perché si accorge che forse non è questo iò di cui si tratta. Non è convincendo qualcuno di qualcosa che si fa un passo, un passo che non sia all’interno di una struttura prettamente religiosa, quindi, osservante. Ma, invece, preferisce, seguendo un’altra via, portare il racconto, il discorso, alle estreme conseguenze, senza sapere assolutamente dove lo condurrà. Senza nessuna paura, cosa che, invece, aveva spaventato altri che avevano lavorato con lui. Spaventati per le cose che sarebbero potute accadere. La possibilità della risposta, l’esistenza di una risposta alle questioni costituisce sempre un argine e quindi la certezza che oltre un certo punto non si può andare. E questo punto è dato dall’ultima parola, quella che chiude la questione.

Non attenersi a questa ultima parola può, come dicevo inizialmente, diventare arduo ma è la scommessa che ciascuno può fare con se stesso per incominciare a esercitare il proprio pensiero, la propria parola, senza pregiudizi e pregiudiziali, senza argini. Va da sé una sorta di timore di fronte all’assoluta responsabilità che si instaura a questo punto rispetto alla propria parola. Che non è più sorretta da alcunché, non è più giustificata da un motivo. Se io faccio delle cose e poi trovo il motivo finalmente, questo motivo giustifica tutto ciò che ho fatto, ciò che ho detto, e quindi posso stare tranquillo in quanto giustificato, in quanto so finalmente. Potrò accogliere questa cosa in vario modo ma sicuramente tutto ciò acquista un significato.

Supponete per un istante che questo significato, questa parola ultima, non ci sia. Allora, non avrò mai quell’elemento che mi consente di giustificare ciò che faccio, ciò che dico. Non potendolo giustificare, questo elemento, tutti questi elementi continueranno a stare lì e non potrò evitare di confrontarmici. Contrariamente a quanto avviene di solito: ha fatto questo ma per questo motivo, ah ecco, allora va bene! La questione è chiusa. No, invece. La questione resta aperta. Sempre. Non trova il modo per chiudersi. Potremmo dirla anche così: la psicanalisi è un itinerario dove non c’è la possibilità di essere soddisfatti di una risposta. O, come suol dirsi generalmente in gergo, farsene una ragione.

Considerare tutto ciò è arduo in quanto si scontra con una struttura di pensiero, un modo di pensare piuttosto ben consolidato, che, anzi, ha costruito intorno a questo una serie di strutture difficilmente spostabili. Una quantità notevoli di strutture, anche statali, organizzative, ecc., si fondano su questo. Come dunque alterare tutto ciò? Alcuni hanno avvertito questa sorta di minaccia da parte della psicanalisi sia da destra, sia da sinistra, sia da centro, mettendo in molti casi al bando la psicanalisi prima che questa si mostrasse assolutamente innocua. Freud, prima di sbarcare negli Stati Uniti, come è noto, pronunciò questa frase “Non sanno che sto per portare loro la peste” e lui, invece, non sapeva che erano vaccinati e che non ha portato nulla. Vaccinati nel senso che tutto ciò che lui avanzava, le sue proposizioni, venivano immediatamente diluite, significate o poste in termini tali da risultare perfettamente funzionali a un sistema vigente. E così è avvenuto in seguito per buona parte della psicanalisi. Questa funzionalità, negli Stati Uniti in particolare, dove si tratta unicamente di una sorta di riciclaggio. A un certo punto, un elemento della macchina si guasta, lo si ripara e una volta riparato lo si reinserisce nel macchinario. Come? Molto semplice. Il sistema più praticato negli Stati Uniti è quello che fa leva sul senso di colpa. Forse perché la psicanalisi è arrivata negli Stati Uniti attraverso un pensiero prevalentemente ebraico. Anche Freud era certamente ebreo, però, un ebreo particolare. Questo retaggio ebraico ha sì che ciò che si utilizza come sistema di riciclaggio è il senso di colpa. Cioè, rendere la persona colpevole, colpevolizzarla, per il suo mancato adeguamento alla società. Questo senso di colpa chiaramente lo muoverà in modo tale da fargli desiderare di sbarazzarsi del senso di colpa adeguandosi alla struttura che lo ospita. E in questo funziona, in un certo senso. In Europa è un pò differente, ma non molto lontano.

Ecco, dunque, che la psicanalisi è passata a un certo punto mostrandosi innocua. In effetti, lo era diventata, assolutamente. Ma, simultaneamente, oltre a essere diventata innocua, è diventata di nessun interesse. Fu Lacan, di cui parleremo sabato prossimo, a rilanciare la questione, cioè a rilanciare il messaggio, più propriamente, il gesto di Freud. In modo molto esplicito, in alcuni casi in modo tanto esplicito che gli valse l’espulsione dall’IPA, cioè dall’Internazionale Psicanalitica, la società voluta peraltro da Freud e curata dalla figlia di Freud Anna. Lacan, riprendendo il messaggio di Freud, ha detto in modo molto esplicito che la psicanalisi non è una nuova religione, non è un modo di tradurre le cose, ma è qualcosa che sovverte in modo radicale il proprio modo di pensare e che rende impossibile pensare le cose così come le si pensavano prima.

 

Risposte lungo il dibattito.

 

Prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, Einstein si trovò a scrivere a Freud delle sue considerazioni intorno a ciò che sembrava inevitabile, chiedendo a Freud se avesse anche lui riflettuto intorno a questo e se ritenesse se ci fosse l’eventualità di evitare una cosa del genere oppure se la catastrofe era assolutamente inevitabile oltre che ripetibile.

Freud rispose a questa lettera in un modo di un certo interesse che può intendersi riferito non soltanto a ciò che stava per accadere, cioè lo scoppio della seconda guerra mondiale. Ma, in effetti, ha una struttura che rende possibili questi eventi e altri non meno drammatici. Freud considera che gli umani si trovano in una condizione tale, in una condizione di pensiero, quindi, di parola, tale da rendere non solo inevitabili queste catastrofi ma tale da rendere sorprendente il fatto che non si verifichino più di frequente. Cioè, la domanda non è come mai gli umani ogni tanto decidono di scannarsi gli uni con gli altri, cosa che peraltro fanno continuamente, ma piuttosto questa: tenuto conto della struttura del discorso in cui si trovano, come è possibile che questo non avvenga ininterrottamente?

Ora, molti si sono trovati a considerare questo aspetto, evidentemente. Come dire in altri termini, tutto ciò è inevitabile, direi che è un’implicazione stretta che ha come assioma, come premessa una struttura che è quella logica e sintattica del discorso occidentale. È questa struttura che consente di pensare in un certo modo e questo pensiero consente di avercela a morte con Tizio o con Caio, anche con sé all’occorrenza, e di pensare alla soluzione più immediata e più radicale per sbarazzarsi di questo disagio. Se il disagio è lui, è sufficiente che io mi sbarazzi di lui e elimino così il disagio. È molto semplice e funziona perfettamente.
Funziona perfettamente anche nel caso della nevrosi, la struttura è sempre la stessa. Può non arrivare necessariamente a imbracciare un kalashnikov, ma la struttura in cui si muove è esattamente la stessa. Cioè, il pensare che sia possibile, eliminando l’ostacolo, eliminare così la causa e eliminare l’effetto. E, quindi, c’è una sorta di ideologia che gli consente di pensare questo, gli consente di pensare all’esistenza della causa e alla possibilità che dalla discenda un effetto, quello in particolare. Il ragionamento che compie è assolutamente logico, ineccepibile. Chiaramente, muovendo da questa premessa. Può discutersi la premessa, come è ovvio. Ma, se si accoglie questa premessa e se si accoglie una struttura logica di discorso, la conseguenza è inevitabile. Le nevrosi sono esattamente in questo modo, né più né meno.

Come evitare tutto ciò? La questione va posta altrimenti: che cosa significa questa domanda?

Forse questo è un altro modo di affrontare la questione che può, in alcuni casi, per evitare il male riproporlo, esattamente con gli stessi termini, come avviene. La questione è tutt’altro che semplice.