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LA SCIENZA DELLA PSICANALISI

 

18 giugno 1993

 

Consideriamo questo aspetto: la formazione.

Non è escluso che, a partire da questo momento, io ponga, rispetto alle persone che iniziano l’analisi con me, a fianco dell’analisi propriamente detta, anche l’aspetto della formazione, cioè, incontri, équipes, seminari. È indubbio che un itinerario, un percorso, che si svolge in questo modo ha degli effetti anche per quanto riguarda la propria analisi tutt’altro che secondari. L’analisi, quindi, prosegue in tutt’altro modo. L’analisi è un aspetto dell’itinerario intellettuale, non l’unico.

Ci sono almeno due aspetti indispensabili perché ci sia itinerario intellettuale, anziché psicoterapia. Ma questa è una questione che discuteremo sia nell’assemblea sia nei vari incontri che faremo.

Detto questo, possiamo riprendere la conversazione interrotta venerdì scorso. Avevamo lasciato in sospeso due domande. Una domanda riguardante il relativismo dell’ipotesi scientifica. L’altra riguardava questo: dopo tutte le cose che abbiamo dette, a che scopo proseguire la ricerca?

Dicevamo questo prendendo spunto da Popper per un motivo preciso. Cioè, dicevamo che le obiezioni, le critiche, alla non scientificità della psicanalisi, erano sorte in seguito alla formulazione di Popper intorno alla falsificabilità. Popper, infatti, andava asserendo che la psicanalisi, come altre teorizzazioni, non è falsificabile. Non è che ci interessi muovere obiezioni a Popper o a altri. Ci interessa intendere ciò che ciascuno può rilevare rispetto al proprio discorso. E, in effetti, questo avviene generalmente. Dopo lo psicologismo, soprattutto quello americano, è invalso l’uso di attribuire a sé ogni cosa che accade. Come dire, in altri termini, “questo è un mio modo di pensare” oppure “ciascuno ha una sua idea”, “tutto è relativo”. Certamente, questa è una banalizzazione, però può dare un’indicazione su una sorta di psicologismo che oggi è piuttosto seguito.

Il soggettivismo pone un soggetto come punto di vista, cioè, il punto da cui sono osservate le cose, il punto da cui ciascuno può osservare le cose. Dunque, ogni cosa sarebbe relativa al soggetto. Questo viene anche da una vulgata intorno alla teoria della relatività che, tuttavia, tiene conto sempre di un elemento che ha questa funzione, cioè, di costituire il punto di vista rispetto a cui altre cose sono misurabili. Non è esente in Einstein questa posizione per cui si ritrova a un certo punto costretto a pensare, anzi, è molto infastidito, da una sorta di casualità che, tuttavia, lui e con lui altri, incontrano. Soprattutto Max Born che ha avuto con Einstein una relazione epistolare di grande interesse. È interessante questo carteggio perché lì, più che altrove, Einstein si pronuncia rispetto alle cose che lo infastidiscono. Una di queste è, come dicevo, l’intervento della casualità nell’ambito di un sistema che, invece, lui vorrebbe definitorio e definibile, quindi, determinabile. Cosa che lo farà pronunciare questa famosa formulazione con cui diceva che si rifiuta di pensare che dio giochi ai dadi, che le cose siano in mano al caso. Cosa vuol dire questo? Che se c’è un dio, deve essere onesto. Se è onesto, non mente, cioè, mostra le cose così come sono. Mostrando le cose così come sono, le mostra in un modo determinabile, un modo che è descrivibile come una traiettoria che è determinabile perché si sa da dove parte. Se il punto di partenza non è localizzabile o, peggio ancora, è situato nel caos, questa traiettoria non è determinabile. Allora, potremmo dire che non è più relativa, non è più relativa a un punto, non è più relativa a qualcosa di determinabile. Dunque, segue un andamento che non è fermabile, non è fissabile, non è osservabile.

Questo è, in effetti, ciò che infastidiva Einstein e in nessun modo ha mai tollerato l’idea che ci sia un caso, lo stesso caso che già a modo loro avevano intravisto gli antichi. Il modo in cui Einstein lo descrive, come elementi che si spostano in un modo che non è sempre così definitoriamente determinabile, non è molto lontano dagli atomi che si muovono lungo un clinamen di Lucrezio. In effetti, anche Democrito immaginava un tutto che si muove secondo una linea, una traiettoria assolutamente determinata, però, per spiegare il fatto che le cose andavano sempre come volevano, è stato costretto a immaginare a un certo punto che degli atomi si muovessero ad libitum, senza nessuna legge, senza nessun criterio. E proprio questo caos, per chiamarlo così, sarebbe il responsabile dell’aggregazione della materia.

Le annotazioni intorno a queste affermazioni di Einstein ci interessano nella misura in cui rendono conto di una struttura di pensiero che necessita - in questo carteggio per Einstein è molto evidente - di qualche cosa o di una certezza che ci sia almeno un elemento che sia stabile, che sia fermo, che sia localizzabile, che ci sia almeno un elemento che non menta, che non inganni. È sufficiente un elemento fermo per costruire qualunque struttura osservabile, qualunque struttura determinabile. Un elemento fermo è un elemento metafisico, un elemento, cioè, che è immaginato fuori dalla parola, un elemento immaginato fuori da ciò che rende impossibile ogni determinabilità delle cose. L’idea della metafisica è sempre stata questa: poter costruire qualcosa offrendo un elemento, un elemento qualsiasi (a seconda delle mode e dei momenti) un elemento stabile, individuabile, localizzabile, che non menta.

La questione della menzogna è interessante nel discorso scientifico. Il discorso scientifico incontra la menzogna, o la sua eventualità, continuamente. Questione che ha indotto molti, negli ultimi anni, a una riflessione intorno alla scienza, alla sua struttura, a ciò che fa, in definitiva. Mi riferisco ai nomi più noti come Kuhn, Feyerabend, prima di loro Enriquez, Poincaré. Dunque, una riflessione intorno alla verità, a questa interrogazione: se c’è inganno e se l’oggetto della scienza menta oppure no, e se mente, per quale motivo. Le ultime indicazioni rispetto a questo tentano di reperire una struttura della menzogna. Mi riferisco al pensiero di Prigogine, che si è occupato insieme con altri delle leggi del caos. Come dire, sappiamo che l’oggetto della nostra ricerca mente ma in questo mentire possiamo reperire delle leggi? Questione curiosa perché, in effetti, sposta la questione. Si tratterà, evidentemente, di stabilire se il criterio di queste eventuali leggi, se l’oggetto del criterio di queste leggi, mente oppure no.

Questo è sempre stato l’intoppo di ogni riflessione intorno al metodo o all’operare stesso della scienza da quando questa ha cessato di immaginare che fosse stato dio a avere sistemato tutte le cose. Quando ha cessato di immaginare questo o meglio, quando non ha più creduto che dio fosse l’artefice o il garante di questa veridicità, ha dovuto cercarla altrove evidentemente. Si tratta di stabilire questo: se la struttura che permane nel discorso scientifico sia la stessa e cioè se, in altri termini, la ricerca comunque nel discorso scientifico rimanga la stessa dell’esistenza di dio o , detto altrimenti, dell’esistenza dell’oggetto che non mente. Dio come la verità o l’essere, come i filosofi amano ripetere. L’essere totale è la verità, ciò che è in quanto tale.

Questa riflessione può farsi anche intorno alla struttura del discorso scientifico più che ai suoi risultati. La logica dice che se io incontro due segni in questo modo ‘=‘ vuol dire che la proposizione è vera. Questo non vuole dire niente. Non ha nessun riscontro con una supposta realtà oggettiva. Cosa che, invece, insegue il discorso scientifico che anzi trae, o almeno tenta di trarre, la sua legittimità proprio da questo.

Se voi leggete questi autori, anche molto accreditati, c’è sempre qua e là, più o meno tra le righe, la speranza che il lavoro che stanno facendo conduca finalmente all’ultima legge, a quella cioè che cessa di mentire, in una sorta di richiesta che potremo formulare così: se esiste un dio, dimostri la sua esistenza, la dimostri mostrando di non mentire, che qualcosa non mente.

L’altra volta eravamo partiti da queste considerazioni per intendere ciò che può avviarsi attraverso un itinerario intellettuale. Abbiamo preso le mosse dal discorso scientifico ma avremmo potuto prendere le mosse da altrove, dalla filosofia, dalla linguistica, dalla logica, da molte altre discipline, per indicare un modo di pensare, modo di pensare che ciò che qui abbiamo chiamato itinerario intellettuale mette in gioco, mette in discussione. Che cosa, dunque, mette in discussione? La necessità di un oggetto che non menta, reperendo la menzogna come strutturale nel discorso, come qualcosa che non può togliersi. Forse a queste condizioni può pensarsi un discorso che non necessita dell’esistenza di dio come supporto, cioè, non necessita della verità come supporto. Non è cosa semplice, evidentemente. Perché non è semplice?

Il discorso occidentale, la sua struttura logica, sintattica e grammaticale, è tale da costruire ciascuna volta delle formulazioni che danno per acquisito, per assunto, che esista un qualcosa che garantisca ciò che sta dicendo. Questo non per caso. Il discorso occidentale procede nel suo impianto logico e filosofico dalla lingua greca, la quale, come già Havelock e Humboldt avevano rilevato, consentiva per la sua struttura logica, sintattica e grammaticale la formulazione di pensieri che altri linguaggi escludevano. Potremmo dire che la metafisica è un’invenzione del pensiero greco che ha consentito l’invenzione della tecnica e della scienza. Senza la metafisica, probabilmente, non sarebbe stato possibile tutto ciò. Simultaneamente ha anche posto una sorta di veto, una sorta di limite, che è quello che già i greci avevano immediatamente intuito, quello dei paradossi. Quelli di Gorgia, tanto per intenderci, e prima di lui quelli di Eraclito. Formulazioni che già, nel momento stesso in cui indicavano quale fosse la struttura praticabile del pensiero, ne indicavano il limite, immediatamente.

I paradosso e le antinomie si incontrano laddove un elemento suppone di potersi togliere dal linguaggio. A quel punto incontra il paradosso, immediatamente. Se ci riflettete, la struttura del paradosso è sempre la stessa, cioè, è quella di un elemento che non può rendere ragione di se stesso e gli si chiede, invece, proprio questo. Come nel famoso paradosso di Russell: l’insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi, si chiede lui, contiene se stesso oppure no? La risposta è che contiene se stesso se e soltanto se non contiene se stesso.

Ecco, laddove a un elemento è richiesto di giustificare la propria esistenza, non può farlo e, immediatamente, si trova di fronte a un paradosso, a un’antinomia, a un’aporia o a un diallele, come lo chiamavano gli antichi.

Se voi leggete gli scritti di Sesto Empirico, e prima di lui Pirrone, che sono passati alla storia come gli scettici, vi renderete conto che non fanno altro che giocherellare con tutta una serie di paradossi che ciascun pensiero che voglia porsi come autoreferente incontra inevitabilmente. E loro si limitavano a elencare i vari modi con cui questi paradossi, queste antinomie, si incontrano. Come dire altrimenti, che qualunque affermazione, che immagini di porsi fuori da una combinatoria linguistica, incontra un paradosso. O, se volete dirla altrimenti, non c’è nessuna affermazione che possa giustificarsi, che possa giustificare se stessa o autogiustificarsi. Si è trattato, e si tratta a tutt’oggi, di riprendere molti di questi elementi avvalendosi di molte discipline, come la filosofia, la linguistica, la logica, la scienza, la retorica.

Un itinerario intellettuale non può non confrontarsi con tutto questo. Non può in quanto è chiamato, in prima istanza, a confrontarsi con ciascun tentativo di rendere il proprio discorso autoreferenziale. Che cos’è la psicosi di cui parla Freud, o meglio la psicotizzazione? È la certezza di aver raggiunto questo, cioè, l’autoreferenzialità del proprio discorso, per cui non ha più bisogno di giustificazioni, è lì immobile e identico a sé. Deve poi fare tutta una serie di operazioni, che sono i cosiddetti sintomi psicotici, per mantenere questa immobilità. Come dire che neanche in quel caso riesce.

Mettere in discussione tutto questo, confrontarsi con questo aspetto, è ciò che Freud ha iniziato a fare. Cioè, che cosa ha fatto? Ha cessato di cercare dio e ha incominciato a ascoltare ciò che stava dicendo. Ha incominciato a ascoltare le parole, a come si scrivono.

Cosa avviene dopo che c’è stata un’elaborazione scientifica? Avviene che c’è un certo parametro che viene dato per buono e ciascuno si affanna a confermarlo. Si affanna a trovare tutto ciò che questo parametro consente. Potete leggere Kuhn a questo riguardo.

Freud ha cessato di cercare il significato di ciò che una persona sta dicendo e ha, invece, incominciato a lasciare parlare senza più curarsi di che cosa voleva proprio dire quella persona ma lasciandola parlare. Cosa ha trovato? Ha trovato che le parole si combinavano tra loro in un modo che forse non è del tutto casuale, che indicava forse una storia e che la concatenazione di queste parole, se questo discorso aveva l’occasione o la fortuna di poter proseguire, annodava ancora altre parole e altre ancora, fino al punto in cui si accorge mano a mano che forse quelle che lui chiama nevrosi non sono altro che una sorta di rimedio che può accadere che qualcuno trovi, all’impossibilità di giustificare ciò che sta dicendo. Come dire che c’è un impossibile da gestire parlando. Questo impossibile la nevrosi lo localizza. Tutte le analisi che Freud fa intorno a queste strutture di discorso, discorso isterico, ossessivo, paranoico, schizofrenico, indicano ciascuna volta il modo in cui queste strutture cercano di porre rimedio a qualcosa che continua incessantemente a interrogare e non cessa a interrogare nonostante tutte le risposte che ci si è dati o che gli altri hanno fornito. Nonostante tutto, qualcosa continua a interrogare. La nevrosi è un modo di rispondere, di cercare di rispondere, di arginare questa domanda continua. Domanda che comporta, quindi, un rilancio continuo della questione.

Ecco che, allora, incominciando a ascoltare queste persone ha l’occasione di accorgersi che questi sintomi, chiamiamoli così provvisoriamente, sono connessi con la storia di questa persona. Il caso emblematico è quello che racconta nel caso clinico dell’Uomo dei topi. Questo ragazzo si trovava in analisi con Freud racconta che, mentre passeggiava lungo un viale a Vienna, trova un sasso in mezzo al viale. Cosa pensa immediatamente? Di qui potrebbe passare la mia fanciulla, inciamparsi e farsi male. Allora che cosa fa? Torna indietro, prende il sasso e lo toglie di mezzo. Riparte, fa qualche passo e dice “com’è possibile che sia così stupido, fare una cosa del genere!”. Ritorna sui suoi passi e rimette il sasso dov’era.

Vedendo questo sasso, la prima cosa che immagina è che la sua ragazza inciampi e si faccia male. Non era obbligatorio che pensasse questo. Perché lo ha pensato? Non è una domanda del tutto oziosa. Perché qualcuno si trova a pensare qualcosa? Perché qualcuno può trovarsi a pensare che l’amico, la mamma, un parente o comunque una persona che gli è molto cara, debba avere un incidente. Perché? Da dove viene questo pensiero? Certamente, ciascuno si dà moltissime giustificazioni, la prima delle quali è “con tutte le cose che succedono in giro!”. No, invece, può accadere che qualcuno, l’analista ad esempio, non sia assolutamente soddisfatto da queste giustificazioni e insista. Ecco, chi è l’analista? Chi non si accontenta mai e continua a chiedere, chi non comprende e, quindi, continua a chiedere. Continua a chiedere perché non è più sufficiente la spiegazione, quella corrente, quella pronta per l’uso. E, quindi, occorre magari affrontare altri elementi, altri pensieri. Dunque, da dove viene questo pensiero? Beh, viene da questo tizio, evidentemente, nessuno glielo ha inculcato. È un suo pensiero, lo ha pensato lui. Bravo, sono questi dunque i pensieri che hai nei confronti della tua fanciulla, che debba cadere e farsi male. Non solo, cosa succede poi? Che si rende conto che è proprio questo che vuole, che cada. Tant’è che, dopo che ha tolto il sasso, torna indietro e ce lo rimette. Proprio nell’eventualità, che lui aveva immaginato, che la sua fanciulla passi di lì.

Ora, tutto ciò non ha autorizzato Freud a pensare o a immaginare che questo tizio volesse necessariamente, che fosse una sua intenzione che la fanciulla dovesse rompersi il naso. Non era questo, ma la questione che questo tizio, con tutti questi suoi pensieri, si sta ponendo. Cioè, Freud non traduce mai propriamente, non dice mai “ha fatto questo per cui vuole dire quest’altro”. Sottolinea che c’è una questione che riguarda la sua ragazza e l’incolumità della sua ragazza, su cui lui fa delle operazioni. Operazioni su cui si può riflettere e che lui prende alla lettera. Dice “di qua passa la mia ragazza e si fa male. Allora, tolgo il sasso. No, lo rimetto”. Va bene, ma se di qua passa la ragazza come diceva prima, il fatto che rimette il sasso può farci riflettere. Evidentemente, c’è qualche cosa, qualche questione che insiste per questo ragazzo, che lo questiona intorno alla sua fanciulla. Quale questione non ci è dato saperlo.

In effetti, ciò che si rileva lungo l’analisi è che qualcosa questiona, qualcosa insiste. Si rileva il modo in cui insiste, non il perché. Nulla che possa giustificare. Il perché non lo saprò mai così. Che non sia possibile ricostruire la traiettoria, era questo che mi incuriosiva in Prigogine, perché, dice lui, non c’è memoria del punto di partenza, questa memoria non è più reperibile. È esattamente ciò che dice Freud in una lettera a Fliess o a Pfister, dove dice che non c’è possibilità di ritorno indietro, un percorso a ritroso. Non c’è percorso a ritroso, non è dato, facendo una sorta di regressio, ritornare al punto di partenza. Come dire che non è possibile stabilire il punto, la traiettoria di un sintomo, di una nevrosi. Perché, a un certo punto, qualcuno si trova in un discorso ossessivo, isterico o altro? È questa una domanda, dice Freud, rispetto a cui non possiamo dare alcuna risposta. E, forse, non ci interessa più di tanto rispondere a questa domanda. Ci sono domande che lui ha lasciato ai filosofi, cioè, a coloro che cercano l’origine, la spiegazione, delle cose, che cercano, in altri termini, una cosmogonia.

Rispetto alla psicanalisi, più che di spiegazioni, di giustificazioni, può parlarsi di illustrazioni, così come si illustra un libro di fiabe per bambini. Sono illustrazioni che non spiegano quello che c’è scritto, proprio per nulla, né lo giustificano. Danno lustro, per così dire, consentono di ripensare in un altro modo ancora ciò che si è detto, per esempio: uno legge una fiaba, poi alla fine vede un’illustrazione e, a partire da questa illustrazione, riscrive la fiaba. Ecco che allora si può certamente illustrare il motivo della ricerca. La ricerca è un andare intorno, anche letteralmente, un andare continuamente intorno a qualcosa. Potremmo dire che forse ciascuno è preso in una ricerca. Ciascuno non può sottrarsi all’andare intorno a qualcosa che lo questiona continuamente. Intorno a che?

A un punto che, potremmo dire così, resta vuoto, resta illocalizzabile, resta sempre fuori portata. Un punto che fa da ostacolo, fa da ostacolo ogni volta alla comprensione.

Dunque, una ricerca che va intorno a qualcosa che continua a provocare. Potremmo indicare questo punto vuoto come provocatorio, qualcosa che provoca, letteralmente, cioè, che istiga la voce, che istiga a parlare, che istiga a dire.

Che cosa distingue questo oggetto dall’oggetto della metafisica? Questo oggetto non esiste né fuori né prima della parola, è indotto da ciò che dico, è lì, mano a mano che parlo, che si produce. Non c’è prima, quindi, non posso isolarlo, non posso farne oggetto di ricerca o di studio. Qualunque ricerca che si ponga come finalizzata lo incontrerà comunque come ostacolo e sempre altrove da dove lo immagina. È un ostacolo alla comprensione, alla definizione. Un modo di pensare l’oggetto che poi non è lontano da alcuni modi che sono della fisica, anche della linguistica. Già la linguistica definisce l’oggetto come una sorta di incontro di fasci di significazione. Anche una parte della fisica lo definisce in modo non molto dissimile, cioè, un qualcosa che è molto lontano dall’essere localizzabile. L’ultimo oggetto, l’ultimo mattoncino, risulta molto difficile da fermare. Da qui poi tutte le varie ricerche intorno alla possibilità di stabilire l’esistenza di un elemento che esista in quanto tale, cioè che esista fuori dall’osservazione, che sia tale indipendentemente dall’osservazione. Questione che già i semiotici si posero: l’oggetto della semiosi è tale per qualcuno, se no, non esiste.

In termini logici molto precisi Carlo Sini diceva, riprendendo l’elaborazione di Peirce e facendo un po’ il verso a una certa astronomia: un giorno il sistema solare si disintegrerà con un botto da qualche parte; bene, da quel momento la terra non sarà mai esistita. Non solo non esisterà più ma non sarà mai esistita. Sembra una formulazione che può essere difficile da situare rispetto a ciò che è generalmente noto: se una cosa esiste esiste perché esiste.

Ecco che qui possono venirci in soccorso anche alcuni filosofi, soprattutto semiotici, che si sono posti la questione in termini radicali: che cosa vuol dire che qualcosa esiste? Esiste per chi, per cosa? Il problema è sempre stato risolto dalla metafisica che dice che esiste e tanto basta. Però, può esserci qualcuno che, all’occasione, può non essere del tutto soddisfatto da questa risposta, come è avvenuto. Da qui l’esigenza di chiedersi se il segno è tale perché è segno per qualcuno. Allora, rispetto a tutto ciò, dire che un oggetto non è osservabile è dire che esiste, semplicemente. Esiste ma in un’accezione di esistenza particolare. Cosa esiste? Ciò che esiste nella parola, ciò che si dice.

L’esistenza è innanzitutto un significante, come l’essere. È un significante, un elemento linguistico, innanzitutto. Dopo, eventualmente anche altre cose. Quali? Quelle che di volta in volta gli si attribuiscono. E che sono altri significanti.

È una questione che è sfuggita a molti ma che, se accolta, può condurre a questioni tutt’altro che marginali. Ciascun elemento che incontro, che dico, è in prima istanza un significante.

La ricerca volta al controllo delle cose è quella che inseguiva Einstein e lui lo dice esplicitamente. Anzi, si inquieta moltissimo quando avverte che potrebbe non essere così.

La rimozione ha la struttura della metafora. Qualcosa si sottrae mentre parlo, c’è un elemento che interviene ma che mi è inaccessibile mentre sto parlando. A fianco ne sorge un altro che mi è invece accessibile e che dico. Questa è la struttura della metafora. Perché, dice Freud, questo elemento cui ho accesso, e che lui chiama ritorno del rimosso, non esisterebbe senza quest’altro elemento cui non ho accesso e che lui chiama rimosso. Tant’è che lui dice che della rimozione sappiamo qualcosa perché c’è il ritorno del rimosso. Ora, questa è esattamente la struttura della metafora. Nella metafora, l’elemento che non dico funziona. Se io dico che lei ha i capelli biondi come l’oro dico una metafora. E lei è in condizione di intendere perché fa una connessione tra il biondo e l’oro: se io dicessi che ha i capelli d’oro e lei non fosse in grado di fare questa connessione non capirebbe nulla. Per lei avrei detto una cosa falsa. Comporta certamente un abuso, come ciascuna metafora, ma funziona perché lei fa questa connessione.

La rimozione di cui parla Freud ha la struttura della metafora ma non è propriamente una metafora nell’accezione che da di questa la retorica. L’elemento che nella metafora non si dice è noto. Nella rimozione non lo è ma produce effetti di senso. Lungo una catena di elementi linguistici che capisco c’è un elemento che non capisco. potremmo dire che c’è un significante che funziona come nome, cioè, come ciò che non attribuisce nulla, che, anziché essere ciò che attribuisce qualcosa, qui non attribuisce niente. Il nome resta vuoto, un insieme vuoto. Ora, dice Freud, questo elemento che non capisco è ciò che determina l’elemento che mi si pone in quel momento e che capisco e che senza la rimozione non potrebbe esistere. La rimozione dice che qualcosa, parlando. In altri termini ancora, l’elemento linguistico non può essere tutto, non riesce mai a essere capito o deciso completamente perché c’è qualche cosa che funziona e che lo impedisce. La rimozione è questo: un significante che penso, o che dico, è non tutto. Cosa vuol dire che è non tutto? Che non può autogiustificarsi, non si sostiene, che è inserito in una combinatoria linguistica. Ciò toglie la possibilità di qualsiasi referente, stabile, identico a sé, ripetibile. Toglie radicalmente la possibilità dell’esistenza del mattoncino su cui costruire in modo solido qualcosa. È come se ciò che si dice si scrivesse sull’acqua. Avete mai provato a scrivere sull’acqua?