HOME

 

 

18 marzo 1994

 

Affronteremo questa sera questo argomento: l’autorità.

Potremmo definirla così come viene definita generalmente: il muovere l’altrui volontà a secondo della propria, dove questo muoversi viene da un riconoscimento che viene attribuito. Riconoscimento che può venire da molte cose, dalla gerarchia, dall’età, da qualunque cosa.

Intorno all’autorità non c’è generalmente moltissimo né di interessante nella letteratura giuridica e in quella filosofica. L’etimo di autorità pare derivare da augeo, cioè aumentare, aggiungere, ecc.

Chi è provvisto di autorità è colui che impone l’obbedienza che può essere volontaria, costrittiva, ecc.

Le questioni connesse a questo termine sono volte a mettere in discussione questo termine mostrandone la impossibile fondabilità, soprattutto negli ultimi anni. Quella della fondabilità è una questione tutto sommato marginale. Non ha di fatto più alcun interesse non soltanto stabilire se qualcosa è fondabile ma anche la ricerca intorno alla fondabilità delle cose.

Detto questo, ci interessa affrontare la questione dell’autorità in modo differente da come è posto dalla giurisprudenza o dalla filosofia. Vale a dire, interrogandosi intorno al da sé delle cose. Anziché far provenire questo termine da augere, si può riflettere intorno all’autòs, al da sé delle cose. Lungo questa via è possibile accogliere delle istanze intorno alla nozione di autorità che sono differenti da quelle poste dal diritto. La questione della fondabilità del diritto poggia sulla necessità di giustificare il diritto, come se si dovesse giustificare l’autorità, come se l’autorità venisse da altro anziché da sé: venendo da altro, deve essere giustificata. E allora ecco le richieste di provare o di giustificare l’autorità, che viene generalmente attribuita a dio o al popolo o allo stato, comunque sempre da altri.

Lacan, come sapete, aveva posto questo aforisma: “L’analista, non chiunque, si autorizza soltanto da sé”. Qui il da sé già allude alla questione dell’autòs di cui stiamo parlando. Parlare dell’autòs riferendolo all’autorità è come dire che l’autorità è lungi dal dover essere giustificata o fondata o stabilita, è in ciò che si dice o, più propriamente, è nel da sé di ciò che si dice.

Questo da sé possiamo intenderlo così, che le cose non seguono, non procedono da qualche altra cosa, non sono deducibili, non sono derivabili.

Dicevamo qualche tempo fa della questione dell’intervallo fra lo zero e l’uno, non c’è passaggio possibile, come anche la teoria dei limiti avverte, c’è un salto a un certo punto, diventa uno ma senza possibile continuità.

Questa non possibilità, questa non derivabilità delle cose indica il da sé. Questo annota a margine la non possibile giustificabilità o spiegabilità delle cose, nel senso che non è possibile ricondurle a qualche altra cosa, cioè farle discendere, attraverso una spiegazione, da qualche altra cosa. Possono ovviamente illustrarsi, possono dirsi moltissime cose intorno a ciascun elemento ma un’illustrazione ha la stessa portata che ha in un libro di fiabe per bambini, cioè racconta a fianco un’altra cosa, non giustifica né spiega il testo.

Reperire il da sé delle cose, cioè come le cose si dicono e dicendosi comportano l’autorità, è come dire altrimenti che ciascuna cosa si dice senza che altro la supporti, senza che altro la sostenga. Questione che non è semplicissima da affrontarsi dal momento che l’autorità, in questa accezione di autòs, sbarazza prima di tutto ciò che è connesso alla causa, alla mitologia della causa. Non c’è cosa che non debba avere una causa, per cui “se questo è così è perché questo è cosà”. Questo nel discorso occidentale sembra imprescindibile, come se non potesse darsi qualcosa senza una causa, cioè ciascuna cosa è effetto di un’altra causa, salvo ricorrere eventualmente alla suprema autorità, al motore immoto di Aristotele, a dio, a qualche cosa che prende da sé la propria autorità e che è posto necessariamente come il limite della parola, cioè il limite oltre il quale non è possibile andare, non è possibile spingersi. Le varie prove dell’esistenza di dio indicano la necessità di qualche cosa che vada da sé: tutte le cose vanno per causa di qualche cosa ma, risalendo alle cause, ci deve essere qualche cosa che va da sé. Sia Anselmo sia Tommaso si fondano su questo. Qui si tratta di reperire questo da sé per gestirlo, per farne un’economia. In questa accezione, non sono le mie parole che vanno da sé ma ciò che va da sé è qualche cosa che sta fuori, perché, se le mie parole andassero da sé, allora non ci sarebbe alcun modo di reperire un supporto alle cose che mano a mano incontro e, soprattutto, la solitudine verterebbe intorno al dovere necessariamente e inesorabilmente confrontarmi con il mio desiderio.

Potete reperire questa difficoltà nel cogliere l’autorità, in ciò che ciascuno dice continuamente, nella necessità che può intervenire talvolta nel pensare a qualcuno o a qualcosa che funzioni da supporto ma in un modo particolare, come dire che finché c’è questo qualcuno posso continuare a pensare che sono mosso in relazione alle cose che lui fa o non fa, che vuole o che non vuole, che dice e che non dice, quindi posso continuare di pensare di muovermi o di desiderare per conto terzi, sempre in una sorta di distanza dal desiderio che mi riguarda. Se questa persona o questo qualcosa viene per qualunque motivo a mancare, si sottrae, allora succede che non c’è più nessun supporto, mi trovo in una solitudine assoluta in ciò che faccio. Ciò che faccio non ha più alcuna giustificazione, né posso attribuirlo a qualcuno, perché non c’è e allora come faccio? E allora l’eventualità è di accogliere questa autorità che c’è in ciò che dico o sottrarmi alle mie parole ma soprattutto alla mia esistenza per cui cesso di esistere, come avviene in alcuni casi. Se questa persona si sottrae è come se l’esistenza venisse sospesa, l’una non è più qui e un’altra persona subentrerà. Accogliere l’autorità in ciò che dico, questo autòs, questo da sé, come dire che non c’è nessuna possibilità di attribuire a altri ciò che io penso, ciò che io faccio, ciò che io desidero.

Come sapete la prova veniva anticamente anche attraverso le auctoritates, le autorità che avevano detto questo, quindi... queste erano prove; soprattutto presso i Padri della Chiesa una delle autorità era appunto Aristotele: ipse dixit, quindi è così, l’ha detto lui che è considerato un’autorità. Nella giurisprudenza l’autorità è tale che è considerata prova ma non soltanto; l’autorità, essendo tale sempre rispetto a altro, impone necessariamente che ciò che sto dicendo sia senza autorità, sia in attesa di autorità o chieda autorità, attraverso magari l’autorizzazione. L’autorizzazione è un’autorità che passa dall’uno all’altro: c’è un’autorità che concede una piccola parte di autorità, quanto serve per autorizzare. In altri termini, le parole di ciascuno non hanno mai autorità, non c’è mai qualcosa che va da sé ma deve essere sempre accompagnato e sorretto, sostenuto. Questo consente ogni ordinamento non solo di diritto ma anche statale, un ordinamento poliziesco: ciascuno non può andare da solo ma deve essere accompagnato. Tempo fa parlavamo della repubblica dell’incapace alludendo alla necessità per ciascuno stato, per ciascuna istituzione, di mantenere il suddito in una sorta di incapacità. Nessuno può andare da sé, nulla può andare da sé, ciascuna cosa deve essere giustificata o certificata, per cui chiaramente che cosa emerge da tutto ciò? Che le cose sono niente senza questa autorizzazione, senza questa certificazione: la parola non vale nulla, assolutamente niente, anzi spesso si dice “sono solo parole, sono solo chiacchiere!”. Negli anni ‘70 si diceva “più fatti meno parole”. “Sono solo parole” appunto perché la parola non può da sola sostenersi. Anche per questo c’è la necessità della metafisica, la supposizione della sostanza che possa sostenere la parola. Da sola la parola è niente, è flatus vocis, un soffio, senza nessun peso, senza nessuna sostanza, senza nessuna corporeità. C’è stata con Freud a un certo punto l’eventualità di accorgersi che le cose procedono lungo la parola, anzi che sono nella parola. Più ancora, la nozione stessa di esistenza, che consente di dire che sono nella parola, è nella parola. Questione non del tutto marginale se si considera tutta la disquisizione intorno alla nozione di essere, di esistenza, di sostanza, ecc.

Potremmo un giorno, se ne avremo voglia, dimostrare la necessità della metafisica - perché no? - e cioè che è assolutamente necessaria. Chiaramente, come ciascuna prova è confutabile ma, come dicevamo tempo fa, occorre almeno dimostrare l’esistenza di dio, sennò... Ma questo non per giungere alla sostanza delle cose, per dare come provato, giudicato, ma per potere constatare e verificare come ciascuna istanza, se presa come ipostasi, può essere simultaneamente confutata e provata. La questione non è tanto questa perché in entrambi i casi, sia della prova sia della confutazione, c’è un terzo elemento che funge da parametro. Come dire che anche in questo caso la parola ha bisogno di supporto; per potere provarsi ha bisogno di un altro supporto che è fuori della parola.

Tutto questo appena per indicare quanto la nozione di autorità, posta in questi termini di autòs, consenta di porsi rispetto al discorso in tutt’altro modo. Dicevamo qualche giorno fa della decisione. La decisione interviene parlando, che la persona lo sappia oppure no. Può non accogliere questa decisione. Non accogliendo la decisione è in preda al dubbio. La decisione procede dalla divisione e quindi consente di decidere, cioè, di tagliare, di tagliare fuori, di reperire.

Abbiamo detto come il dubbio segua la decisione, la decisione che non è accolta. Può non accogliersi la decisione, spesso non viene accolta. In questo caso sorge qualche contraccolpo, perché, una volta intervenuta la decisione, non può togliersi. Può ascoltarsi. La decisione non comporta necessariamente l’azione: “ho deciso questo, quindi faccio questo!”. Non necessariamente, non è una condanna. Tuttavia, occorre ascoltare ciò che si è deciso nel proprio discorso per coglierne, non soltanto le implicazioni e i risvolti, ma anche la portata del desiderio in tutto ciò e degli effetti di verità. Un itinerario analitico non può prescindere dall’autorità. Questa autorità può essere, per una svista, per un equivoco, può essere attribuita all’analista. Questo per una sorta di sovrapposizione perché si immagina che la parola dell’analista giunga da un sapere, da qualcosa che si è elaborato, si è svolto, quindi, da una sorta di padronanza. Spesso la nozione di autorità è associata alla padronanza, come se fosse possibile la padronanza sulla parola o sul sapere o su qualunque altra cosa. Ecco, l’autorità dice che non c’è padronanza. Lo sottolinea in questo modo: che le cose vanno da sé in ciascun atto, non hanno padrone, non lo richiedono. Ma se le cose che io dico non hanno nessun padrone è un problema, perché, allora, io dove sono, dove mi situo, qual è la mia posizione, il mio ruolo?

In questa circostanza, il soggetto, quello cartesiano tanto per intenderci, quello padrone della situazione, quello che decide per il bene e per il male, non ha più alcun supporto. Il soggetto cartesiano ha un supporto incrollabile, per cui quello che decido è vero, la mia sensazione, la mia esperienza è vera, quindi, parto da lì. Ciò che decido essere vero è vero, è una decisione ma una decisione padroneggiata, assunta: io decido. Dire “io decido” è problematico perché suppone un soggetto della decisione, cioè l’attribuirsi l’autorità: l’autorità sta altrove e me l’attribuisco. Di nuovo mi trovo in questa posizione dove non c’è accoglimento dell’autorità che esiste in ciò che sto dicendo, dal momento che l’autorità che indosso la prendo da altrove.

Ciò che abbiamo detto lungo questi interventi a partire dalla nozione di etica si è trovato a vertere intorno a questo, all’autorità, al da sé che ciascuno può reperire nella parola. Da qui, immediatamente, la nozione di responsabilità.

Se ciò che dico va da sé, non certamente nell’accezione che sia immediatamente evidente ciò che dico, sono assolutamente e totalmente e irreversibilmente responsabile. Qui ho usato questo fatidico elemento della grammatica che è il soggetto in quanto ho detto “io sono responsabile”. È un modo un po’ improprio. Questo “io”, che ciascuno può trovarsi a dire, di fatto interviene continuamente parlando come una sorta di punto di sottrazione. Questo “io” che dico si sottrae continuamente. Provate a stabilire chi è esattamente “io” e vi troverete presi in una deriva incessante, in un’impossibilità di decidere. Ecco, l’io è proprio quell’ostacolo che vi troverete di fronte lungo questa operazione e che impedisce di decidere qual è l’ultimo elemento per cui posso dire “io è questo”. Io, dunque, come punto di sottrazione, come sguardo. Questa istanza sembra evocare ciascuna volta il soggetto, quello cartesiano, padrone. Dire in questo caso “io ho la responsabilità” è una figura retorica. Quale figura? Almeno un’anfibologia, cioè una simultaneità di due soggetti per cui non si riesce a attribuire una proprietà a uno o all’altro. Un esempio di anfibologia è questo: “ho visto mangiare una lepre”. Non si sa se ha visto una lepre che sta mangiando o se ha visto qualcuno che si stava sgranocchiando un cosciotto di lepre. C’è questo equivoco.

Dunque, il dire “ho una responsabilità” è una figura retorica, cioè non pone l’accento su nessun soggetto grammaticale o cartesiano, ma anzi indica propriamente la paradossalità del soggetto grammaticale, che non può isolarsi, non può stabilirsi. È poi questo che dice l’anfibologia.

C’è dunque una responsabilità, cioè, se le cose vanno da sé, non sono giustificabili, non possono essere ricondotte a altro che le sostenga, le sorregga, le aiuti e faccia da sussidio, ecc., allora occorre che mi confronti con queste cose che sto dicendo. Dopo che è vanificato ogni tentativo di ricondurle, di riportarle, di attribuirle, ecc., a questo punto mi trovo in una solitudine estrema con ciò che dico, con le mie parole.

Laddove c’è l’eventualità di accorgersi di ciò che si sta dicendo, la semplicità che ne segue nel dire e nel fare è straordinaria. Invece, il non accorgersene comporta il fare dei giri incredibili, il girare in tondo per degli anni, per arrivare a accorgersi di qualche cosa che si era detto sin dall’inizio, ma a cui non si era attribuita alcuna importanza perché le parole non sono nulla, sono solo parole. Però, di fatto, è la sola cosa con cui ciascuno ha a che fare, non ha altri strumenti. Non soltanto ma ne è preso continuamente. Ciascuna cosa acquisisce la sua esistenza proprio da questo, dalle parole. Il che non è poco.

Una persona mi dice che c’è un’altra persona che la occupa. Tuttavia, questa persona non la interessa e ci mette un anno per accorgersi di ciò che ha detto e cioè che, di fatto, questa persona non la interessa. Dunque, perché la occupava? Per un equivoco, la cui portata gli era totalmente sconosciuta. Un abbaglio. Qual è l’abbaglio in questo caso? Il non tenere conto di ciò che si dice e immaginare o pensare di avere detto un’altra cosa. Sarebbe il contrario del lapsus.

Non c’è modo di imporre l’autorità con la forza, con la persuasione o con altri sistemi. Anche la più democratica della votazione risulta un atto di forza, quella dei più nei confronti dei meno, i quali devono soccombere alla volontà dei più.

Importa qui sottolineare un aspetto che è connesso con ciò di cui ci occupiamo rispetto all’autorità e cioè questo, gli effetti dell’accoglimento dell’autorità nella parola. Cosa accade se accolgo l’autorità di ciò che dico? Dicevamo prima della solitudine estrema, condizione per fare, per parlare, per dire, per muoversi. Condizione in quanto soltanto la solitudine consente di non appoggiarsi, di non significare le cose in modo da immobilizzarle, da ucciderle. Soltanto la solitudine consente di confrontarsi con ciò che si dice. La compagnia immagina la partecipabili delle cose, un riconoscimento degli altri, quindi, la supposizione di non essere solo perché altri la pensano come me, altri credono in ciò in cui credo io. Questa è un’illusione tra le più note e che Freud mette in evidenza appunto ne L’avvenire di un’illusione. La compagnia toglie l’autorità dalla parola e la localizza da qualche parte in modo che, qualunque cosa accada, io non sia mai costretto a dovere confrontarmi con le parole, con il mio discorso. Qualunque cosa accada, c’è sempre la possibilità di riportare, di riferire, di sviare, come mostra il discorso isterico per esempio che compie questo paradosso: attribuisce con autorità l’autorità. Il discorso isterico muove da un’autorità assoluta, di cui si fa espressione. Notava anche Lacan che l’isteria si trova mossa da ciò che lui chiamava oggetto causa di verità, che mette in una posizione di agente. Ciò che agisce è questa causa di verità, che il discorso isterico ignora ma di cui si fa, appunto, espressione per altri. Dunque, indica costantemente e continuamente l’autorità a cui ciascuno deve sottoporsi. Una volta si immaginava che il discorso isterico fosse facilmente suggestionabile tant’è che gli esperimenti fatti da Charcot, da Pine e da altri, venivano fatti su persone cosiddette isteriche. Non è proprio così, non è che il discorso isterico sia suggestionabile come d’altra nessun discorso, ma ha una grande facilità a attribuire un’autorità su cui legiferare. Per questo accoglie facilmente un’autorità, cosa che ha portato alcuni a pensare che fosse facilmente suggestionabile. Non è propriamente così. Questa autorità è ciò su cui deve legiferare. Insomma, deve reperire il desiderio su cui legiferare.

Lungo un’analisi come reperire un’autorità, una volta che ho cessato di credere che l’autorità sia seduta su una poltroncina a fianco? Ché non è lì propriamente. Se l’autorità è posta altrove, se è posta fuori, ciascuna cosa che io dico è sempre e comunque riferita a questa autorità che deve giudicare, acconsentire, proibire, autorizzare, fare tutta una serie di operazioni che danno valore al mio discorso. Senza questo il discorso non vale niente. Questa autorità è quella che deve capire. Nella maggior parte dei casi, la supposizione di qualcuno che capisca, dell’analista come colui che capisce, è la supposizione che esista qualcuno che autorizzi il desiderio, mi autorizzi a fare ciò che desidero o, più propriamente, sia assuma la responsabilità del mio desiderio perché non posso assumerla.

Nel momento in cui l’autorità cessa di essere attribuita alla persona che è seduta sulla poltroncina, a quel punto sono veramente solo con ciò che dico. In altri termini, la persona che seduta lì a fianco cessa di essere il riferimento, il referente, ma interviene come ciò che consente il rilancio, ciò che puntua. Ecco, è come se fosse la punteggiatura nel discorso. Punteggiatura che io reperisco nel mio discorso, evidentemente, cioè, con cerco più l’autorizzazione, l’autorità, ma reperisco questa punteggiatura, questa puntuazione che consente di avviare un’elaborazione intorno al proprio discorso. Qui la questione apre, fra le tante cose, all’aforisma di Lacan che “l’analista, non chiunque, si autorizza soltanto da sé”. È possibile questo? Qui “autorizzarsi da sé” comporta un pleonasmo nel senso che l’autorità è già il da sé. L’autorizzarsi da sé vale qui a porre il da sé come ciò che deve essere autorizzato, anziché come l’autorità.

Ciò che andiamo dicendo apre a questa nozione dell’autorizzarsi. Questione tutt’altro che semplice. Autorizzare chi? Sé? Ma perché dovrebbe essere autorizzato? A che scopo e da chi?

Dicevamo che occorre porre le condizioni perché possa accogliersi questo da sé, che non può essere autorizzato da nessuno. È una sorta di pleonasmo dire che l’analista si autorizza soltanto da sé, oltre a immaginare questo sé questo autòs, necessiti di essere autorizzato, cioè di un altro autòs, di un meta-autòs, di un superautòs.

Aprire a questa questione comporta il domandarsi intorno all’analisi, evidentemente, come dire che il percorso che abbiamo fatto in questi incontri ci ha condotti a una riflessione intorno a questa nozione di analisi come itinerario intellettuale, come ricerca scientifica. In altri termini, come qualcosa che esclude il rimedio, cioè, esclude il pensare che qualcosa non vada bene e che debba quindi essere corretto, raddrizzato o sorretto. Questa è la mitologia che prevede l’autorità ipostatizzata, un’autorità, quindi, fuori della parola. La nozione di rimedio è lontanissima dall’autorità: porre rimedio al male, all’angoscia, all’ansia, ecc. Immaginare questo è partire male, è partire da un’angoscia, da un’ansia, poste come ipostasi, qualcosa che attende da altro l’autorizzazione a scomparire in un certo senso.

 

Risposte lungo il dibattito.

Tutto il discorso filosofico, anche quello più recente come quello di Giuseppe Rensi con la sua Filosofia dell’autorità, verte unicamente intorno a questo, cioè, intorno all’impossibilità di fondare l’autorità, qualunque forma di autorità. Facendo questo mette in evidenza molte superstizioni, seguendo la direzione della filosofia scettica. Lo scetticismo, come la sofistica, ha avuto una parte notevole nel diradare, nel dissipare, alcune superstizioni, credenze, e nel rendere un po’ più avvertiti.

Non c’è fondabilità ma non c’è fondabilità al di fuori della parola, cosa che sfugge anche allo scetticismo più scientifico, come quello di Feyerabend tanto per intenderci. Certamente, non c’è fondabilità al di fuori della parola, non è possibile. Ma questo non significa niente, anche perché esige un’altra questione: perché dovrebbe essere fondabile? e che cosa significa porsi questa domanda? È qualcosa che non va da sé. Qual è l’esigenza di porsi questa domanda?

In quest’altra accezione di autorità, la questione se è fondabile oppure no non si pone più, in quanto l’autorità è reperita come istanza nella parola. Non ha più bisogno di essere fondata, è un’istanza che dice che le cose non sono fondate, non sono cioè bisognose, stanno da sole, stanno su da sole.