18 febbraio 1994
Il diritto ha posto le basi della logica, così come è strutturata oggi. Buona parte della logica nasce dall’esigenza di costruire ragionamenti corretti per potere dimostrare la verità o la falsità di una proposizione.
La nozione di vero e di falso ha un notevole debito nei confronti del diritto, un debito che sembra a tutt’oggi tutt’altro che estinto. Basti pensare alle questioni che ciascuno si pone intorno al fare bene o al fare male sono continue: “faccio bene o faccio male a fare questo?”. Quale criterio queste considerazioni mettono in atto, di quale criterio si avvalgono?
Il diritto lo insegna. Ci sono due aspetti: la ratio e la natura, che quando si fondono insieme diventano la ratio naturalis, in altri termini, la synderesis di Tommaso. La synderesis è appunto la ragione naturale da cui ciascuno trae necessariamente il concetto di bene, di naturalis, in quanto procede da dio. Dio è la ratio naturalis.
A cosa fanno appello a tutt’oggi ciascuna dottrina etica, o altre che comunque le sono connesse, se non alla ratio, alla ragione? Anche le teorie più moderne intorno al giusnaturalismo muovono da un concetto che vede nella natura - in molti casi senza avvedersene - il proseguimento di ciò che era prima dio. La natura sarebbe ciò che è presupposto. In alcuni casi in modo anche molto violento: il dio degli ecologi, per esempio, è un dio cattivissimo. Questa natura, infatti, se viene offesa, si scatena in cose terrificanti; se gli umani offendono il pianeta, questo si ribella e allora la terra si spalanca inghiottendo il cielo in un oceano di fuoco.
La natura è ciò che è necessitante, è l’idea stessa della necessità, la legge necessaria. Taluni suppongono che questa idea della necessità, dell’ordine, della legge, provenga dalla necessità che si suppone insita nelle leggi della fisica. Ma è esattamente il contrario: sono le leggi della fisica che procedono da una supposta legge necessaria e naturale.
Ciascuna dottrina del diritto fa appello alla ragione naturale, che è posta come il principio primo, come ciò che non può essere spiegato da altre cose. Se potesse essere spiegato da altre cose, non sarebbe più un principio primo ma un principio secondo. In questo caso, infatti, ci sarebbe qualcosa di superiore alla ragione naturale e, quindi, questa sarebbe derivata. E invece no, occorre un principio primo.
Ciò che interessa è che la necessità di porre una ragione naturale come principio, non ulteriormente scomponibile, non ulteriormente indagabile, quindi costrittivo, necessario, impone l’esistenza di un elemento tale che possa e debba essere indiscutibile, ché a base di qualunque forma di legalità, di diritto o di etica, occorre un elemento che debba essere indiscutibile. Altrimenti, si perde ogni criterio e non si sa più da che parte girarsi.
Dunque, questi due aspetti: la ragione e la natura.
“Chi ragiona correttamente non può non ammettere che...”, la natura dal canto suo impone delle leggi, obbliga le conseguenze. Parlare di ragione naturale significa ammettere l’esistenza di implicazioni naturali, di implicazioni logiche necessarie, ineluttabili, ineludibili e indiscutibili.
Sono di grande interesse questi saggi, alcuni li abbiamo citati, l’Etica di Spinoza, la Teodicea non solo di Leibniz ma qualunque teodicea, in cui si reperisce la necessità di giustificare e di rendere possibile l’opera di dio. Giustificare, non nel senso che spetti agli umani giustificare, ma nel senso di dimostrare la naturalità della sua opera, cioè che dio e la ragione naturale sono la stessa cosa.
Ciò che interessa qui per porre qualche questione da cui poi muovere un’elaborazione intorno al diritto è questa necessità, su cui da tempo ci stiamo interrogando, di istituire e di consolidare la metafisica. La nozione di ratio, così come è posta dalla storia del pensiero, è una nozione prettamente metafisica, in quanto viene posta come necessaria, come dire che una certa serie di implicazioni, di inferenze, di deduzioni, non potrebbero né possono essere altrimenti che quelle. Abbiamo visto negli anni precedenti con Aristotele come questa esigenza sia connessa con la necessità di potere stabilire un criterio valido per ciascuno. Il criterio valido a ciascuno è il criterio a cui ciascuno deve attenersi, criterio fondante, criterio fondato e costrittivo, evidentemente. Stabilire questo criterio è ciò che accomuna, la ratio naturalis è ciò che accomuna, in quanto si suppone distribuita da dio o dalla natura a tutti gli umani. Nessuno ne è privo, tranne pochissimi casi, circoscritti, delimitati, individuati. Questo è il fondamento per poter fondare qualunque dottrina del diritto, cioè la partecipabilità di questa nozione di ratio naturalis, che è appunto naturale perché riguarda ciascuno. Stabilito questo si è stabilito un elemento comune cui nessuno, se ragiona, può sottrarsi. Da qui l’appello alla ragione, che tra l’altro può ascoltarsi anche nelle conversazioni correnti come “Ma ragiona!” o “Usa la testa!”. L’appello alla ragione è qualcosa a cui nessuno può sottrarsi. La retorica si è avvalsa di questa superstizione in questo modo, che ciò che segue secondo ragione viene immediatamente creduto vero, perché la ragione è naturale: se la ragione giunge a questa conclusione, questa conclusione è per natura, né potrebbe essere altrimenti. Da qui la cogenza delle deduzioni logiche, che sono costrittive.
La connessione tra la logica e il diritto passa attraverso questo: il diritto dice che esiste una ragione naturale, ché altrimenti non potrebbe esistere; la logica ne trae le formule, tutte le implicazioni possibili.
Non c’è logica senza diritto e non c’è diritto senza logica. Il diritto fornisce alla logica i principi primi, gli indimostrabili di cui già Aristotele parlava, e cioè che naturalmente gli uomini ragionando pongono delle istanze che non possono essere confutate, non possono nemmeno essere discusse, perché sono connaturate alla sua stessa esistenza. La logica fornisce al diritto, non soltanto le sue implicazioni, ma anche l’esibizione del come il diritto è naturale. Attraverso il principio del terzo escluso mostra che una cosa è così e non può essere altrimenti che così. L’affermazione per la quale dico “O sono qui o non sono qui” pone già due istanze che si escludono naturalmente. Dire che una delle due istanze viene esclusa ha delle implicazioni straordinarie, su cui è il caso di riflettere, dal momento che sia il diritto sia logica si muovono in un settore molto particolare che non è quello di una supposta realtà o del dato di fatto ma, come dicevano i medioevali, dei predicamenta, delle proposizioni. Dire che “io sono qui oppure non sono qui” è appunto un dire che comporta delle proposizioni, delle asserzioni. Ciò suggerisce che il passaggio immediato da queste considerazioni è che esiste qualcosa nel linguaggio, cioè nel modo in cui le cose si dicono o in ciò che si dice, che è assolutamente naturale. D’altra parte si usa continuamente questa proposizione “se dici questo, non puoi dire quest’altro”. E invece no, lo dico. Il linguaggio esclude naturalmente delle proposizioni. Questa considerazione può farsi seguendo una sequenza molto semplice, vale a dire che ciascuna considerazione, ciascuna proposizione, qualunque cosa voi facciate lo fate attraverso delle proposizioni che sono formulate attraverso un linguaggio. Dunque, ciò che risulta naturale o innaturale o contro natura è qualcosa che attiene sempre in prima istanza al linguaggio. Di tutto ciò le varie dottrine intorno al diritto non hanno mai tenuto conto. Vanno incontro evidentemente a delle aporie oppure a delle asserzioni di principio, come dire che è così e tanto basta.
Riflettere su queste considerazioni consente di fare un passo ulteriore. Il passo ulteriore è questo: considerare che il diritto verte, in prima istanza, su questioni linguistiche. Sembra curioso ma è così. Vale a dire che, stabilire delle leggi, dei principi primi o stabilire il bene dei popoli o degli individui, verte e elabora questioni che sono prettamente linguistiche. Dire, come già faceva a Aristotele, che la parte è inferiore al tutto comporta che ciascun cittadino, preso in quanto tale, è inferiore allo stato, al tutto. Al di là della portata morale di tutto ciò, cioè che instaura un debito assoluto, quindi, una colpa inestinguibile in quanto il cittadino è sempre in difetto, pone una questione che va ben oltre. Vale a dire, la ricerca del tutto, come l’unità o come la coincidenza degli opposti o come un tutto armonico, costituisce in effetti il fine ultimo, il bonum, a cui ciascuno naturalmente tende, perché lì sta la perfezione. Il tutto è la perfezione e le sue parti sono imperfette. Imperfette rispetto al tutto, evidentemente.
Ma questo “tutto” da dove salta fuori? Come a un certo punto viene in mente di pensare a un tutto che dovrebbe essere perfetto, cioè un tutto che manca di nulla? Di cosa ciascuno fa esperienza?
Fa esperienza di una inadeguatezza continua fra ciò che dice e ciò che vorrebbe dire, fra ciò che pensa e ciò che dice, che può anche mostrarsi in questo modo: fra ciò che vorrei descrivere e ciò che descrivo, immaginando ciò che vorrei descrivere come la cosa in sé, quindi, inventandola per poterla descrivere.
Già con Aristotele il diritto è ciò che regola e numera la distribuzione e, quindi, la partecipazione del bene. Possiamo, però, elaborare una nozione di diritto che non si limiti a una sorta di regola di numerazione ma, in una prima approssimazione, come il diritto che è nella parola. Perché se il diritto è nella parola può elaborarsene qualcosa; se è fuori della parola, si è costretti necessariamente a credere in dio. Nulla di male, però si può porre la questione in altri termini che non sia necessariamente quella religiosa e, cioè, credere in una ratio naturalis che, perché sia tale, occorre naturalmente che costituisca l’assoluto, il limite estremo, in quanto ciascuno è parte di questa ratio naturalis ma non possiede la ratio naturalis in quanto tale. Pertanto, questo tutto è immaginato necessariamente identico a sé, perché se la ratio naturalis dovesse mentire, non ci sarebbe più la possibilità di poter stabilire né attenersi a alcun criterio. Dunque, la ratio naturalis non mente. Per mentire occorre che sia immaginata fuori della parola, cioè, non presa nella parola, nelle sue trasformazioni, variazioni, ecc.
Questo ordine, che la ratio naturalis stabilisce, è il “giusto ordine delle cose”, cioè stabilisce un ordine, che deve essere quello. Da qui è facile stabilire che chi sovverte questo ordine naturale è contro natura e, quindi, va bruciato. Oggi non usa più, però non è detto che possa riprendersi questa costumanza dato l’andamento generale.
Questo iustus ordo o ordo naturalis è possibile immaginando questa ratio come identica a sé e immutabile, dove ciascuno può avere le sue opinioni, le sue idee. Anzi, occorre che ciascuno abbia le sue opinioni, perché sono tutte opinioni rispetto a qualcosa che non è più opinione ma è verità. Va bene che ciascuno abbia le sue opinioni, anzi, si incrementa questa idea, questa illusione, in cui ciascuno è preso dalle proprie opinioni. Cos’è l’opinione? L’opinione è il limite, è l’enunciazione del proprio limite. “Questa è la mia opinione, cioè, per me le cose stanno così”: quindi, sono limitate a questo, a questo stare così. Pertanto, enunciare la propria opinione è l’enunciare il proprio limite, i propri limiti. Conoscere i propri limiti, secondo questa nota formulazione morale, è attenersi alle proprie credenze, alle proprie superstizioni, senza tentare di metterle in discussione, di fare un passo rispetto a questo: “riconosco i miei limiti, pertanto, mi guardo bene dal mettermi oltre le colonne d’Ercole, che non si sa cosa c’è al di là”.
Non hanno nessun interesse le opinioni, in quanto tali, di chiunque. Ha interesse l’elaborazione, la messa in gioco di un’opinione. “Io la penso così!”, “Va bene. E allora?”. Questo giocare all’opinione, all’opinionismo, peraltro molto diffuso oggi, ha un aspetto sinistro in quanto mantiene immutabile e immutevole la supposizione in un iustus ordo, in un ordine naturale delle cose, che tutte le opinioni non scalfiggono. L’opinione è fatta per non cambiare nulla, per lasciare le cose esattamente come stanno.
Ciascuna dottrina del diritto, anche quella di Kelsen, che è comunque tra le più interessanti, toglie ben altro diritto che è nella parola. Toglie il diritto che è nella parola, toglie il diritto, che è di ciascuno, alla qualità della parola, alla cifra della parola, il diritto alla riuscita, il diritto alla soddisfazione, il diritto al piacere. La qualità della parola è il constatare, il confrontarsi, in prima istanza, che non è possibile togliere la parola, togliere il diritto, ma soprattutto avvertire, per un aspetto, l’infinito nella parola, per l’altro, l’approdo alla qualità della parola, nel senso dell’unico. Due aspetti per cui, qualunque tentativo di stabilire un principio primo, fallisce di fronte all’infinito della parola, per cui nessun elemento è identico a sé, cioè, unitario. In quanto infinito, è impossibile delimitarlo, chiuderlo, isolarlo, localizzarlo e, pertanto, osservarlo. La qualità dice che c’è qualcosa di unico ciascuna volta in ciascun atto. La dottrina del diritto immagina questo unico, questo unicum che è nella parola, come ciò che non può essere ulteriormente indagato o sindacato, salvo andare contro l’ordine naturale delle cose, contro l’ordine naturale delle parole. Se questo ordine è stabilito, un elemento è identico a sé.
Il diritto che è nella parola è un diritto che nessuno può togliere perché nessuno lo può dare. C’è qualcosa anche nella dottrina del diritto che allude a tutto ciò, nel senso che il diritto è sempre stato considerato la espressione più alta, più nobile, dell’operato degli umani, come quanto di meglio abbiano fatto. Un modo di avvertire qualcosa di unico. Ma c’è un intoppo: questo unicum è dato come osservabile, è mostrato. In quanto osservabile obbliga all’osservanza.
Rispetto a quest’altra nozione di diritto, che ho avanzato adesso, non c’è alcuna osservanza possibile. Impossibile osservare l’unico, lo si coglie nella parola, né è isolabile dalla parola. Se non posso isolarlo, non posso renderlo osservabile né partecipabile, non posso esibirlo. Cogliere la questione del diritto in questi termini intanto sbarazza dalla necessità, votata al fallimento, di dovere giustificare questo diritto. Questione complicata su cui alcuni tagliano corto e altri pongono la questione in modo tale che non si ponga. In questo modo: io posso formulare qualunque proposizione, secondo un certo criterio, senza dover necessariamente giustificarla. Questo per il semplice fatto che non mi pongo la questione di che cosa possa o debba essere giustificato, perché se la pongo incappo in una serie di aporie infinita. Quindi, non ha nessun senso, secondo costoro, porre la questione nei termini di dover essere giustificata.
Tuttavia, questa affermazione non tiene conto di un fatto tanto che ciò che è fatto uscire dalla porta rientra dalla finestra, nel senso che questa formulazione avviene secondo un criterio linguistico, logico, e questo sì deve essere giustificato. Ed è sempre la stessa questione.
Un tal Jaskowski, polacco, descrisse in modo preciso, a proposito delle logiche paraconsistenti, che sono a tutt’oggi ricavate dalle logiche modali. Ebbene, diceva lui per aggirare la spada di Damocle del terzo escluso, terzo escluso che dice che se c’è A e simultaneamente non A, cioè un elemento e la sua negazione, necessariamente uno dei due deve essere vero ma non possono essere veri entrambi altrimenti si invalida tutto il sistema, come dicevano i latini, ex falsus quodlibet. Invece dal vero no. Dunque, come liberarsi di questa legge del terzo escluso?: immaginate una conversazione fra più persone. Una afferma una cosa e un’altra persona ne afferma un’altra, magari contraria alla prima. Bene, dice lui, noi possiamo accogliere tutte le opinioni. L’importante che ciascuno dei partecipanti a questa conversazione non si autocontraddica, diceva che ciò che viene cacciato dalla porta rientra dalla finestra e cioè la necessità, di un principio che impedisca che io possa affermare una cosa e il suo contrario simultaneamente ma lasciando ciascuno libero di contraddire altri. Questa è la tesi di ..., che lascia il tempo che trova per quanto abbia avuto un certo seguito, per cui all’interno di un sistema logico possono sì coesistere proposizioni che si contraddicono tra loro ma all’interno della proposizione non può esistere contraddizione.
Nessuno ha il diritto di contraddirsi: questo è l’assioma fondamentale del diritto. Come dire che ciascuno ha il diritto di trovarsi un sistema logico non contraddittorio. In effetti, uno degli elementi essenziali di ciascuna teoria del diritto è questa, cioè che gli asserti di questa dottrina non devono contraddirsi tra loro.
Wittgenstein disse un giorno “verrà un giorno in cui potremmo contraddirci!”. Come dire, in altri termini, che il diritto fonda e stabilisce in primissima istanza delle leggi di non contraddizione linguistica, vale a dire che non è possibile, né può avvenire, che qualcuno sia libero di autocontraddirsi. Si può notare, anche nelle più moderne teorie del diritto, come di fatto si tratti di leggi che regolamentano le proposizioni che possono formularsi da quelle che non possono formularsi. Con questo, naturalmente, si pongono delle questioni immense, dal momento che riguardano un modo di pensare. Però, pongono una chance, in quanto dicono che questo modo di pensare non è naturale, non segue una ratio naturalis, non discende da un ordo naturalis, ma una precisa serie di divieti stabiliti in accordo a un criterio che è stato stabilito per mantenere possibile il pensare. Sembra paradossale ma il pensare non è possibile. Ciascuno pensa ma non può farlo, cioè non lo controlla. In questo senso non è una possibilità, in quanto non può gestirlo. Io penso ma non posso pensare, non è una mia facoltà.
Poste queste condizioni si tratta di elaborare ulteriormente la questione del diritto unitamente a quella del linguaggio, alla logica, alla retorica. Mano a mano vedremo come si connettono, ci sono vari aspetti della stessa questione.
Si aggiunge, quindi, a questo progetto di cui parliamo, cioè porre le condizioni perché possa darsi un altro modo di pensare, perché possa darsi un modo non debitore di nessuna teodicea, di nessuna ratio naturalis, di nessuna synderesis. Se non segue nessuna ratio naturalis, donde viene? Questa è una questione che ha creato non poche preoccupazioni. Se so da dove viene la lingua che parlo, posso immaginare il luogo d’origine. Come avviene nell’orientamento, se so da dove vengo posso localizzare l’origine, considerando la posizione che ho adesso, e so qual è la direzione. Invece, le teorie intorno al caos avvertono proprio questo, che, non essendo localizzabile il punto di origine, non è possibile stabilirne la traiettoria, quindi, non sappiamo dove andrà a finire.
Il linguaggio in cui mi trovo è ciò che mi consente di stabilire da dove vengo. “Mi consente” paradossalmente perché di fatto non mi consente proprio nulla, ma l’idea del linguaggio umano, riconducibile a qualche cosa consente di pensarsi il prodotto di un’evoluzione. Questa è, per esempio, l’idea di Darwin. Se quattro milioni di anni fa c’erano gli ominidi, piccoli, brutti e pelosi, che si aggiravano per il pianeta prendendosi a sprangate l’uno contro l’altro, e dopo quattro milioni di anni gli umani eretti, senza pelame, continuano a andare in giro a darsi sprangate, qual è la direzione in cui stiamo andando? Ciascuno può trarre le considerazioni che vuole ma è l’idea, la fantasia, che possa, localizzando il punto di origine, stabilirsi una traiettoria, una finalità, un fine ultimo, un télos delle cose. Altrimenti, gli umani restano sguarniti di un motivo per esistere e questo può creare un certo smarrimento in qualche circostanza. Può accadere che qualcuno si chieda “che senso ha la mia vita! o, all’occorrenza, “che senso ha la mia vita senza di te!”. C’è qui una domanda intorno al senso con la sicura e certa consapevolezza che ne esista uno, senza mai considerare una questione semplicissima: perché mai dovrebbe esisterne uno?
La questione è poi quella stessa del diritto, cioè gli umani si comportano in un certo modo perché seguono un ordine naturale delle cose, perché esiste una ratio naturalis che li costringe a non potere letteralmente non pensare così come fanno con tutte le implicazioni di questo modo di pensare. Noi stiamo considerando l’eventualità che non sia così, ma che ci sia un’altra chance per gli umani oltre quella di essere condannati alla ratio naturalis.
Domanda intorno alla possibilità di pensare.
Ciò che ho detto tiene conto di una nozione di possibile per cui, già con Aristotele, possibile è ciò che ancora non è ma accadrà oppure non accadrà. Cosa ci dice il possibile? Non ci dice nulla, salvo stabilire un criterio logico di esclusione del terzo; come dicevo prima, infatti, una cosa accadrà o non accadrà. L’elaborazione di questa questione, che Aristotele fa soprattutto nel Perì Ermeneias, verte intorno a questa eventualità, come nell’esempio che fa quando dice che “domani ci sarà oppure non ci sarà una battaglia navale. Domani saprò se ci sarà stata oppure no.” Il possibile è ciò che in quel momento non è in atto, è in potenza, ma lo sarà, sarà vero, sarà incontestabilmente vero. Come dire che è un criterio che lui utilizza per stabilire, per istituire, la certezza del vero.
Dire, dunque, che non è possibile pensare è porre la questione in questi termini. Per esempio, lei può dirsi “fra dieci minuti penserò questa cosa”. Poi avviene che lei si trova a pensare. Si trova a pensare a che cosa? Supponiamo che voglia pensare a un’amica o a un amico. Lei può immaginare di prevedere questo pensiero. Ciò che accadrà propriamente è che, anche se lei pensa eventualmente a questo fanciullo, ciò che lei penserà sarà altro da ciò che ha pensato prima, da ciò che ha immaginato prima. Perché altro e non la stessa cosa? I logici porrebbero la questioni in questi termini: per potere stabilire che è esattamente lo stesso occorrono almeno un paio di criteri. Uno, che è quello di identità, l’altro è quello di una riproducibilità di un elemento, riproducibilità dell’identico, quindi un criterio di uguaglianza. Così direbbero i logici. E allora comincerebbero a cercare di stabilire un criterio di identità. Direbbero così: come posso stabilire questo pensiero identico a sé, perché stabilire che questo è uguale a questo è un problema terribile perché devo prendere una cosa che sta lì e tenerla ferma; a fianco metterci un’altra a cui sarebbe uguale, che è se stesso, e in mezzo eventualmente metterci un segno uguale. Però, se io la considero di qua e poi la considero di là, mi trovo di fronte a due cose, non più una. Come dire che quell’una, che doveva essere identica a se stessa, si è moltiplicata in due e posso fare questo lavoro all’infinito. E così già il primo criterio, quello d’identità, viene messo in gioco. Ci fu un matematico, Giuseppe Peano, piemontese di Spinetta Marengo, dalle parti di Cuneo, che disse che, per stabilire un criterio di identità tra due elementi, per esempio A = A, posso dire che sono uguali quando tutte le proprietà dell’uno sono tutte le proprietà dell’altro. Però, già uno sta a sinistra e l’altro sta a destra e, quindi, c’è già una proprietà che non collima e se comincio a fare eccezioni sulle proprietà diventa un problema, non veniamo più a capo di niente.
Non è possibile pensare perché ci si trova a pensare senza che questo sia possibile, senza che questo pensare sia gestibile. Ciò che si tenta di gestire è altro da ciò che ci si trova a pensare.
Il problema verte intorno alla nozione di identità e di uguaglianza. Io ripenso a questa cosa ma come che è la stessa? In nessun modo. I logici direbbero che non c’è nessun criterio per potere stabilire che è lo stesso pensiero, assolutamente nessuno. È la questione del tempo, che generalmente viene definito come una successione di stati, quindi misurabile, controllabile. Però, già come abbiamo detto rispetto alla nozione di identità e di riproducibilità, il tempo, piuttosto che la misurazione di una successione di eventi, è una divisione incolmabile tra un elemento e se stesso. Laddove voglio considerarlo come identico a sé, trovo che il tempo interviene come divisione che, non solo non è colmabile, ma non è misurabile. Qualunque tentativo di misurabilità mi rimanda di nuovo allo stesso problema.
Questo appena per dire che soltanto avvalendosi degli strumenti stessi di cui si avvale la ratio naturalis è possibile accorgersi delle aporie inevitabili su cui è costruita. Questo consente di approcciarsi a un’altra chance, cioè un altro modo di considerare le cose che non ho agganciato a nulla di stabile, anzi, considera ciascun elemento come trasformazione, variazione, una sorta di anamorfosi continua, quindi, sempre fonte di sorpresa, fonte di altro che continuamente si produce.