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17 marzo 1995

 

La logica dell’invenzione scientifica

 

Ciò di cui parleremo questa sera è qualche cosa che è già stato introdotto negli incontri precedenti. Si tratta del discorso scientifico. Il titolo è una parafrasi del noto libro di Popper, che molti di voi conoscono, La logica della scoperta scientifica. Qui, invece, abbiamo indicato "La logica dell’invenzione scientifica". Che dire, dunque, del discorso scientifico, del discorso che punta al "sapere"?

Da molto tempo gli umani si trovano presi in una fantasia, che è quella di fare un patto con il maligno per ottenere in cambio, in cambio della loro anima in questo caso, il sapere, il sapere assoluto. È noto il Faust di Goethe, ma ancor prima di lui Cipriano di Antiochia ha incominciato a porre la questione. La ricerca intorno al sapere è sicuramente molto antica ed è ciò che gli umani hanno sempre tenuto nella massima considerazione. Ricordate Dante: chi più sa più vale, diceva. Si tratta però di ottenere un sapere che sia quanto meno attendibile, se possibile assoluto, sarebbe l’optimum. Come raggiungere questo obiettivo? Da qui l’invenzione di un certo numero di criteri di prova. Come dire: "Tu dici che questo è vero. Bene, provalo". Pertanto, occorre trovare dei criteri perché questa prova possa funzionare. Cosa deve provare la prova? La verità, come è noto. La verità, per lo più come adeguamento di ciò che si dice a ciò cui ciò che si dice si riferisce: adæquatio rei et intellectus, dicevano i medioevali. Quindi, la prova deve dimostrare questa connessione e, tanto più questa connessione sarà necessaria, tanto più la prova assolverà alla sua funzione. Dunque, il sapere assoluto, già con Cipriano d’Antiochia, agiografo del IV secolo dopo Cristo, famoso per la sua conversione, è quel sapere tale per cui la connessione tra ciò che si dice e il come stanno le cose è assolutamente necessaria, quindi inequivocabile, inconfutabile. Questo è il sapere assoluto. Il problema è sempre stato questo: come stabilire questa connessione o cosa ci garantisce che questa connessione sia così necessaria. Ciò che si fa carico di questa garanzia è la logica, nota quella aristotelica, la logica che, secondo almeno in parte Aristotele ma soprattutto chi ne ha fatto seguito, rende conto e consente di stabilire se un certo passaggio è necessario oppure no, se le cose devono stare in un certo modo oppure no. La logica avrebbe dovuto avere da sempre questa funzione, di stabilire la correttezza dell’inferenza, della deduzione, dell’induzione, quindi consentire di fare quel passo per cui da una certa premessa giunga a una certa conclusione. Non sappiamo se Aristotele fosse veramente convinto di avere trovato questo. Fatto sta che chi ha fatto seguito, in particolare i Padri della Chiesa, hanno stabilito la necessità di un certo sistema logico per cui, se le premesse sono fatte in un certo modo e i passaggi seguono un certo criterio, allora la conclusione deve essere necessaria e, quindi, inopinabile, certa. E questo garantisce che ciò che si dice sia assolutamente vero. Questo sistema è prettamente deduttivo. Sapete che i Greci non avevano una grandissima opinione dell’esperienza, empirìa. Valutavano che poco si potesse trarre dall’esperienza, se non qualche cosetta che serviva giusto per il vivere quotidiano, ma la speculazione in nessun modo poteva fondarsi su questo. Occorre arrivare fino al basso Medioevo con Ruggero Bacone e allora interviene il primato dell’esperienza. Tuttavia, è stato compiuto un passo che, per alcuni versi, può risultare interessante, per altri reintroduce comunque la questione logica, perché anche queste osservazioni, empiriche o no che siano, costituivano un sistema, una teoria, un credo. Queste osservazioni empiriche devono essere sistemate, organizzate in una serie di deduzioni per potere essere utilizzate. E queste deduzioni, queste inferenze sono prettamente logiche. Si è pensato, allora, che questa logica fosse qualcosa di assolutamente naturale e insito nell’uomo. Anzi, per Tommaso e altri era qualcosa che veniva direttamente da dio. Solo lui poteva garantire che questo modo di inferire, queste deduzioni fossero assolutamente necessarie e inconfutabili. Perché per altri prima di Aristotele, ad esempio per i sofisti, queste conclusioni non erano affatto necessarie, proprio per nulla, tant’è che dalle stesse premesse potevano dedurre qualunque cosa e il suo contrario, con altrettanta facilità e rapidità. Ecco, dunque, la logica, e intendo con questa l’impianto aristotelico tradizionale, come strumento necessario per organizzare delle proposizioni, anche quelle che procedono dall’esperienza. Strumento necessario, pertanto, assolutamente imprescindibile a che questa logica possa considerarsi attendibile. Il discorso scientifico cosiddetto, possiamo considerarlo così come si considera da Galilei in poi, fa un uso continuo e massiccio della logica per trarre qualunque sua considerazione, qualunque sua implicazione, attribuendo alla logica una verità assoluta, come se in effetti non potesse mentire. In parte non ha torto. Tuttavia, che cosa dice la logica, la logica come sistema per trarre delle conclusioni da premesse, anche perché poi la logica è questo, non è niente altro che questo. Cosa dice, dunque? Si basa essenzialmente su alcuni princìpi, che lo stesso nostro amico Guido Sommavilla sottolinea: il principio del terzo escluso, il principio di identità. Impossibile parlare senza questi princìpi? No. Ma questo cosa comporta esattamente? Comporta che questi principi fanno parte della struttura del linguaggio per cui è fatto in modo tale da potere proseguire, oppure che una volontà divina ci ha offerto le cose in modo tale per cui non potessimo sbagliarci? Questione curiosa questa perché in effetti difficilmente si considera che i sistemi di inferenza logica possano non essere naturali ma, per esempio, artificiali. Perché no? Perché se sono naturali è necessario pensare in quel modo e chi non lo fa può commettere varie cose, può commettere un peccato, una leggerezza, un crimine contro la ratio, la ragione. Ecco la ragione. Per ragione generalmente s’intende l’uso corretto di queste regole di inferenza. Uno che sragiona è una persona che usa malamente queste regole di inferenza per cui non si attiene a dei criteri stabiliti. Eppure considerate la cosa altrimenti e cioè che il linguaggio ha una certa struttura grammaticale. Fra le regole grammaticali c’è anche questa del terzo escluso, per esempio. Ora, le regole grammaticali hanno una funzione, che è quella di consentire l’uso del linguaggio, altrimenti non potremmo fare niente. Ma allora è questa struttura del linguaggio che fra le sue regole comporta anche questa. E quindi attenersi al principio del terzo escluso non comporta il modo per raggiungere la verità, quale essa sia, la via regia per raggiungere la verità, ma soltanto un modo per potere proseguire a parlare senza arrestarsi. Arrestarsi, perché è come se dicessi qualche cosa che la grammatica del linguaggio non consente di svolgere in nessun modo, come se dicessi che se questo aggeggio è nero, allora questo aggeggio non è nero. Fatta questa considerazione non andiamo molto lontano, non ci dice assolutamente niente. In questo modo non consente nulla, non consente di proseguire. Altro è il supporre che queste regole di inferenza, così come sono fatte, conducano, se seguite con correttezza, alla verità, una verità già trovata, da trovare, posta come modello ultimo, ciascuno la pone come gli pare, però sempre qualche cosa che funziona come parametro di valutazione, o meglio, l’oggetto cui ciascun parametro si modula. La questione della verità è di notevole interesse, nonostante oggi pochi ne parlino per il carattere sfuggente e assolutamente impalpabile: la verità, la giustizia e altri grandi temi. Eppure, pensate alla nozione di progresso. La nozione di progresso comporta che qualcosa si muova verso un obiettivo. Ciò è implicito nell’uso di questo termine perché non può parlarsi progresso verso niente: sarebbe un andare a caso, a tentoni. E, dunque, l’obiettivo, l’ideale del progresso è comunque la verità, sempre come adeguamento della parola, del pensiero alla cosa. Può anche pensarsi che questo non si raggiunga mai, lo si può pensare. Resta imprescindibile comunque l’idea che debba esserci necessariamente, pena la vanità di tutto l’agire umano, necessariamente e immediatamente. Questo secondo la struttura del discorso occidentale. La logica ha assunto nel pensiero occidentale un ruolo che è straordinario. Non soltanto, come dicono alcuni che la insegnano, un modo un po’ buffo, come il corretto modo di pensare quando si pensa correttamente, ma come un sistema di inferenze che consente di fare asserzioni vere. Ciascuno, quando fa un’asserzione, vuole o pretende che la sua asserzione sia considerata vera se lui la considera tale, salva veritate, come direbbero gli antichi. A meno che uno non dimostri il contrario. Pertanto, questa asserzione è considerata assolutamente come ciò che si adegua a ciò che è vero. C’è qui un modo abbastanza curioso di pensare la verità, perché una persona che considera assolutamente vera una cosa è dispostissimo poi a cambiare opinione per una serie di circostanze anche magari piuttosto banali e ritiene a quel punto che altro sia vero. Al di là di questo, questa che stiamo chiamando logica è uno strumento, così come viene inteso, formidabile, perché consente in effetti di pensare di dire la verità. Attraverso quale percorso consente questo? Attraverso questo, molto semplicemente: consente di produrre qualche cosa, un’asserzione, una proposizione che, stando alle regole di inferenza, non è confutabile. Solo questo. Per cui se dico che questo oggetto è nero o non è nero, questa mia asserzione non è confutabile. Io dico "O è nero o non lo è": come posso confutare se necessariamente delle due l’una. Dunque, ciò che si produce è un’asserzione, una proposizione che è inattaccabile dalle stesse regole di inferenza. Perché è inattaccabile dalle regole di inferenza? Perché sono loro stesse che l’hanno prodotto. Anzi, propriamente è il prodotto il fatto che delle regole di inferenza si escludano a vicenda. Per dirla altrimenti, questa asserzione che io produco, questa cosa di fatto è consentita nella sua esistenza dal linguaggio in cui io l’ho prodotta. Il fatto che questa asserzione sia anche una cosa, perché qualcosa che io dico è anche una cosa, tutto sommato. John Austin ha scritto un saggio che io suggerisco Come fare cose con le parole. Austin è uno dei più attenti linguisti dell’ultimo scorcio di secolo. Avverte che ciascuno, parlando, produce delle cose che poi gli si mettono lì e con le quali deve prima o poi confrontarsi. Questa cosa, in quanto non confutabile, risulta indistruttibile, eterna, proprio in quanto indistruttibile, in quanto strutturalmente inconfutabile, pertanto, supposta fuori dal tempo. Così come la verità matematica si suppone che sia, per qualche bizzarria, eterna: due moltiplicato due darà quattro in qualunque mondo possibile e immaginabile e non ci potrà mai essere un giorno in cui questo potrà avvenire. Questa cosa che si è prodotta e che mi trovo lì e che non posso, non riesco a demolire, quindi, immagino che sia inattaccabile e inossidabile dal tempo, produce un’altra proposizione che è quella che mi dice che è eterna e quindi indipendente da me. Posso dirlo perché si opera questo passaggio per cui qualcosa che non si riesce a demolire è necessariamente vero. Quando non riesco a confutare qualche cosa, quando non riesco a demolirla, a distruggerla, una proposizione in questo caso, allora diventa necessariamente vera, necessariamente presente e esistente. Il che è una cosa abbastanza bizzarra: perché mai dovrei pensare una cosa del genere, perché non riesco a dimostrarla falsa? Questo dimostrare il falso potrebbe essere impedito dalla stessa struttura di inferenza che mi consente di dimostrarla vera, molto semplicemente. Eppure, l’elemento che consente di immaginare questo fuori da quel che avviene nel linguaggio è proprio questo, il fatto che si prende questa proposizione come una cosa, una cosa fra le altre, al pari di qualunque aggeggio io mi possa trovare di fronte. Il fatto che non possa fare nulla per variarla ha indotto alcuni a pensare che fosse opera degli dei. Prima tra tutti Pitagora, che sui numeri, come è noto, costruì una religione misterica, dove alcune cose venivano proibite perché avrebbero messo in difficoltà la credenza nell’armonia degli dei. Per esempio, l’esistenza di un numero quale la radice di -1, che è una cosa che ha sempre creato qualche problema. Problema nel senso che era possibile che esistessero cose del genere, così come i paradossi, le antinomie. Come è possibile che il pensiero possa produrre questi mostri, così come li chiamano gli inglesi, che non hanno nessuna soluzione? Famosissimi i paradossi, vale per tutti quello del coccodrillo: c’è un coccodrillo che rapisce il figlio al padre e se lo porta via. Arriva il padre che dice al coccodrillo "Ridammi il mio bambino". E il coccodrillo rispose "Te lo ridarò soltanto se indovinerai quello che farò". Cosa farà il coccodrillo se il padre gli risponderà "Non me lo darai"? È un bell’inghippo. Perché se non glielo dà, allora il padre ha indovinato e il coccodrillo deve dargli il figlio. La costruzione di queste bizzarrie del pensiero è qualche cosa che ha la stessa struttura di ciò che consente di pensare di raggiungere la verità, asserendo che questo aggeggio è nero o non lo è. È la stessa cosa. Si tratta di riflettere in un altro modo rispetto al come funziona la logica, questo aspetto del linguaggio, aspetto imprescindibile che consente di assettare le proposizioni in modo tale che da un certo numero di proposizioni possa crearsene un’altra. Per Carnap è un aspetto della sintassi logica del linguaggio, quindi della sintassi. Asserendo una di queste verità inconfutabili, come "questo aggeggio è nero o non lo è", che cosa dico di fatto? Enuncio una verità reale, qualcosa che è nella natura delle cose? O formulo, molto semplicemente, una proposizione che enuncia una delle regole del linguaggio? E qui torniamo da dove siamo partiti, cioè dalla necessità di pensare che ciò che dico sia un’espressione di ciò di cui dico. Almeno questo. Peirce, per esempio, si è sbizzarrito con la sua teoria dei segni. È di grande interesse Peirce, leggetelo. In Italia è stato edito pochissimo mentre la sua produzione letteraria è sterminata. Di cosa si accorge a proposito del segno? Dell’impossibilità di stabilire una connessione tra ciò che è designato e il designante senza la necessità di un tertium comparationis tra i due che li connette. Si è accorto che se fosse andato avanti a quel modo sarebbe stato necessario un quartum, un quintum e via all’infinito. Allora, di fronte a una cascata inarrestabile di semiotiche si è trovato di fronte al quesito antichissimo di Achille e la tartaruga, della possibilità di dividere l’intervallo in un infinito numero di punti. È un altro paradosso, il quale che cosa dice? Soltanto questo, che un’asserzione, qualunque essa sia, non è fondabile. E se non è fondabile, questo cosa comporta? Apparentemente nulla, perché di fatto le cose si muovono comunque. Comporta soltanto un problema laddove per qualunque motivo c’è la necessità di fondare qualcosa, cioè la necessità di trovare un punto di arresto, che garantisca tutto ciò che si è costruito a partire da questo. Solo allora ci si scontra con la non fondabilità di un’asserzione. L’equivoco è che in moltissimi casi, invece, l’asserzione viene utilizzata come assolutamente fondata, indiscutibilmente fondata. Questo porta degli equivoci, dal momento che la fondatezza di una certa asserzione può essere mostrata fino a un certo punto. Oltre questo punto ci sono accuse di tendenzIosità, di faziosità, di aberrazione. Esattamente come fa Guido Sommavilla che dice che, di fronte per esempio alla regressio ad infinitum, non c’è modo di cavarsi d’impaccio e chi sostenesse una cosa del genere non è sano di mente: la regressio ad infinitum deve essere eliminata. Eppure, è qualche cosa che fa parte della struttura logica del linguaggio, delle sue regole, così come il principio del terzo escluso, allo stesso modo, allo stesso titolo. Cosa potremmo dire di questo, che le asserzioni non sono fondabili? Ovviamente, nemmeno questa, va da sé. Ma perché dovrebbe essere fondata? Per garantire che cosa? La sua necessità. E qui sta l’intoppo. Non è necessaria ma contingente. Vale a dire, che è ciò che la struttura del linguaggio produce qui, in questo momento. Nulla, dunque, di eterno, di inconfutabile, di indistruttibile. Dunque, non necessario ma contingente. Un’asserzione è contingente. In questo Wittgenstein non ha tutti i torti quando sottolinea l’uso che viene fatto di un termine all’interno di un discorso e questo lui lo indica come il significato. Qual è il significato di una parola? L’uso che ne faccio in quel momento. Un uso che si avvale certamente di figure, che possiamo chiamare figure retoriche, luoghi comuni più propriamente. Cos’è un luogo comune? Ciò che è creduto dai più. E essendo creduto dai più non necessita ciascuna volta di essere provato, ma può essere utilizzato ciascuna volta come assioma o come premessa per una serie di deduzioni. È importantissimo il luogo comune. È stato assunto a quasi nefandezza. Originariamente il luogo comune aveva una sua dignità, cioè erano tutte le cose che erano ritenute vere dai più e quindi non era necessario darsi un gran da fare per dimostrarle vere. Dire che "una cosa è o non è" è un luogo comune, qualcosa che è accolto dai più, non necessariamente da tutti ma dai più, cioè una cosa che coinvolge il consenso generale. Ecco, allora, il discorso scientifico. Abbiamo chiamato così quello che procede da Galilei in poi, avvalendosi delle inferenze logiche. Cosa trova il discorso scientifico? L’idea di fondo, che viene anch’essa da Galilei, è quella reperire delle leggi universali: riuscire a intendere come sono le cose. Ma quali cose esattamente? Queste leggi che io stabilisco legiferano su che cosa, esattamente? Su dei fenomeni che avvengono, che sono osservabili, almeno parzialmente, così come vuole un certo empirismo ingenuo. Le obiezioni di Einstein a Popper restano valide, tutto sommato, e cioè che è impossibile stabilire proposizioni che non sono matematiche e perfettamente logiche, non confutabili dall’esperienza, in nessun modo. Al di là di questo, su che cosa si legifera? Su qualcosa che si incontra. Già l’incontro con qualche cosa è inserito in una struttura, per cui posso dire che c’è un certo fenomeno, fatto in un certo modo. Poi, potrò, se lo voglio, cercarne delle regole, ma intanto questa cosa che mi si para innanzi viene accolta in un certo modo. Quale? È una domanda interessante, perché qualunque forma di esperienza, perché io possa dirne, perché possa essere tale, perché io possa dire che è un’esperienza, è organizzata in una struttura. Una struttura che è esattamente quella che abbiamo descritta, cioè una struttura logica, una struttura linguistica. È questa che mi consente di dire intanto che questo è un aggeggio, intanto dirmi che è, qualunque cosa sia dirmi che è. Cosa che non è poco. Da qui posso articolare una serie di proposizioni. Come abbiamo detto all’inizio, organizzarle in un sistema, pilotato da questa struttura che è logica, la quale mi dice che una certa cosa non posso dirla. Non posso dire che se cade allora non cade: questo mi è impedito dal linguaggio che utilizzo. Come dire che "Vedo che cade" non significa assolutamente niente, proprio nulla. Posso anche dire che vedo qualunque cosa, ma ciò che vedo assume una portata, esiste proprio perché inserito in una struttura. È questa che mi consente tra l’altro di dire che lo vedo e di trarre delle conseguenze, delle implicazioni. Che cosa dice, allora, una legge, sia essa fisica, naturale o altra? Stabilisce una connessione logica tra proposizioni, in prima istanza. E che altro fa? Che cosa rivela oltre a questo? Dice come stanno le cose? E quali cose? Quelle che noi abbiamo già inserite in questa struttura. Allora, noi potremmo dire che inserite in questa struttura mostrano queste proposizioni, queste asserzioni. Che altro potremmo dire che abbia un certo senso? Il fatto dell’utilità di una certa serie di asserzioni intorno, che ne so, alla caduta dei gravi o alla resistenza dei materiali, cosa dovrebbe necessariamente dirci? Nulla più di questo, che l’uso che tutto sommato ne facciamo è un uso è consentito, che si svolge lungo una struttura di pensiero, lungo una ratio che è quella stabilita dal linguaggio. Dicevamo che non c’è uscita dal linguaggio. Questa è una delle considerazioni più banali che possano farsi dal momento che qualunque modo per uscire dal linguaggio avviene in una struttura che è comunque di linguaggio. Non resta che prendere atto che ciascuno, qualunque cosa faccia, si trova in questa struttura. Può trarne delle connessioni, dei risvolti, delle implicazioni. Qualunque legge che può stabilirsi non può che legiferare che su se stessa, in quanto dice che una certa asserzione, che è possibile per via di una struttura per cui esiste, rende necessaria, in questa stessa struttura, l’asserzione successiva. Così come è necessario che io dica che questo aggeggio è nero o non lo è. Detto questo non ho detto assolutamente niente, ho enunciato una regola del linguaggio in cui mi trovo. Poi, l’utilizzo che io posso fare di questa asserzione è un’altra questione. Posso fare tutti gli usi che voglio. Ma una cosa è l’utilizzo che io faccio di un’asserzione, altro è l’eventualità, l’opportunità, la necessità di fondarla. Io posso anche dire che una certa persona mi è simpatica e fare un grande utilizzo di questa asserzione: questo non significa che la mia asserzione è fondata e necessaria. Proprio per nulla, è solo un’opinione. Si dice che la matematica non sia un’opinione e, in effetti, non lo è. Non è opinabile. Se si accolgono delle premesse, le conseguenze non sono opinabili ma necessarie. Questo naturalmente non toglie nulla né alla ricerca scientifica né al lavoro che fa ciascuno scienziato che è per lo più di notevole interesse, ma coglie un aspetto che invece non ha nulla a che fare con questo e che riguarda un’ideologia connessa con il discorso scientifico. L’ideologia è ciò che vorrebbe che la scienza fosse lo strumento ultimo e necessario in possesso degli umani per raggiungere il bene, il vero, il giusto o qualunque altra cosa. Per Wittgenstein non sarebbe altro che un gioco linguistico, il cui utilizzo viene fatto da chiunque come gli aggrada, ma niente più che un gioco. Per esempio, per Popper non è proprio così. Per lui la ricerca scientifica non è soltanto un gioco, ha un fine, che non è quello di divertire quello che lo fa, ma quello, molto semplicemente, di approcciarsi, di avvicinarsi alla verità. Non potrebbe parlare di progresso, di approssimazione. Come può falsificarsi qualche cosa se non rispetto a un criterio di verità oppure prettamente a un criterio logico? Ma in questo caso non va da nessuna parte, rimane appunto, come direbbe Wittgenstein, un gioco linguistico. È questo che fa riflettere, il come queste cose, queste asserzioni che si producono parlando, incontrino questa sorte, di essere pensate, immaginate come cose non più prodotte dalla struttura che le ha prodotte ma eterne, inossidabili nel tempo. La verità, rispetto cui Popper vuole orientarsi, è evidentemente fatta a questa maniera. Non può essere una verità che cambia di colore e di forma ogni due secondi. Come sapremmo altrimenti che andiamo nella direzione giusta? E giusta rispetto a che? Abbiamo perso ogni criterio e ogni timore di dio. Resta questo, il gioco, il che cosa accade mentre formulo delle proposizioni, mentre formulo delle asserzioni, che cosa è in gioco, che cosa implicano. Resta cioè l’eventualità di poter confrontarsi con ciò che si dice, anziché sbarazzarsene come se fosse soltanto una emanazione di qualche cosa, per cui le cose stanno così e io mi limito soltanto a enunciarle, a trasmettere un’informazione. Non si trasmettono mai informazioni. Se fosse solo questo l’obiettivo gli umani non parlerebbero praticamente mai.