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17 novembre 1995

 

COME DIVENIRE SOFISTA

 

Il gioco della ragione

 

Visto che questa sera siamo pochi dirò le cose migliori, giusto per gli amici. In effetti, come divenire sofista è la questione che mi ha impegnato in quest'ultimo anno. Tant'è che mi sono trovato a scrivere delle cose che costituiscono una sorta di manifesto nella Sofistica, manifesto che dice la parola stessa, mostra ciò di cui si tratta. E come lo mostra? Mettendo in atto, ciò stesso di cui parla, cioè non racconta di altro se non di ciò stesso che consente di svolgere ciò che si sta svolgendo. In questi termini, parlare della Sofistica comporta illustrare delle procedure linguistiche, illustrarle nell'atto in cui si utilizzano. In questo senso risulta non negabile ciò che vi si trova scritto, perché non possono negarsi delle procedure linguistiche o meglio non possono negarsi quelle stesse procedure che utilizzo per negare qualcosa. Ma questo non conduce all'immobilità o alla paralisi, nel senso che se nulla può essere negato allora non è più possibile dire nulla, come se il dire potesse procedere soltanto là dove qualcosa può essere obiettato. Talvolta così si pensa, che le cose procedono soltanto per il confronto o il raffronto tra opinioni differenti, ma non è propriamente così che si verifica. Le persone che sono di opinioni differenti, per quanto si scontrino, rimangono di opinioni differenti, ciascuno della sua. L'idea di un confronto tra opinioni è una chimera, posso solo valutare quanto gli altri pensino differente da me. E io penso errato? Non lo penserei se fossi convinto di questo, e quindi necessariamente penso che quello che penso sia giusto. Così come ciascuno fa, evidentemente. Dunque divenire sofista non è altro che questo, trovarsi lungo un percorso dove di fatto ciò che si fa, è il porre in atto delle procedure linguistiche, considerando ciascuna volta che è soltanto questo che faccio, e chiedendomi anche se posso fare altro. Posso fare altro oltre che porre in atto procedure linguistiche? Se si, che cosa che non sia un'altra procedura linguistica? E` un modo in effetti molto strano di procedere, di pensare soprattutto, un modo molto strano perché va contro tutto ciò che è stato pensato negli ultimi tremila anni. Direi che va contro lo stesso pensiero occidentale, ma questo non è che debba trattenerci dal proseguire, che vada contro o vada a favore poco ci importa, ci interessa soltanto porci delle questioni, e intendere dove queste questioni ci portano, tenendo conto, questo è il criterio, a cui ci stiamo attenendo, che non abbiamo intenzione di compiere atti di fede, questo è il solo criterio. Solo che, se non compio atti di fede, questo per una decisione che prendo, non posso utilizzare la quasi totalità del pensiero occidentale, praticamente nulla di ciò che viene affermato dal discorso occidentale, e pertanto mi trovo nella necessità di formulare differentemente, o meglio ancora di riflettere, cioè di pensare altro, che non soltanto non sia pensato nel discorso occidentale ma non sia nemmeno prevedibile all'interno del discorso occidentale, nemmeno pensabile, e non è pensabile perché tutto il sistema su cui è costruito il discorso occidentale, il discorso scientifico ecc, poggia su una struttura che abbiamo indicata con religiosa, non ci interessa discutere di questa o quella religione, non è questa la questione, ma di una struttura del discorso. Abbiamo indicato come struttura di discorso religioso, ciascun discorso che immagini che possa darsi o pensarsi un elemento fuori dalla parola, con questo abbiamo inteso discorso religioso. E dunque il discorso occidentale, come il discorso della religione, il discorso della scienza, sono discorsi che si instaurano, muovono da atti di fede. Un atto di fede non è altro che il concedere come provato ciò che in nessun modo può provarsi, non solo che in nessun modo non può provarsi, ma che non è neppure pensabile un criterio tale che possa compiere questa operazione. Voi sapete che il concetto di prova, di fatto prova soltanto la correttezza del procedimento, niente più di questo, non mi garantisce nulla rispetto a ciò che ho provato al di fuori di questo, né può farlo. Un marchingegno sorprendente il discorso occidentale, o discorso scientifico o religioso, che impone, dicevamo forse la volta scorsa, che impone la credenza, che impone credere qualche cosa senza tuttavia fornire nessun elemento per potere certificare questa credenza. Per un motivo semplicissimo, e cioè che la prova non può provare se stessa. Dice: e perché dovrebbe farlo? Perché non dovrebbe e soprattutto perché non può? Se non può allora sono totalmente libero di credere una cosa oppure no, non può essere provata, quindi, posso credere quello o il suo contrario altrettanto legittimamente. Divenire sofista non è altro che cessare di dare il proprio assenso incondizionato, cioè cessare di credere, qualunque cosa sia, non ha importanza. Più propriamente ancora, cessare di trovarsi nella condizione in cui sia possibile credere. A questo punto, ciò che si incontra è una struttura che si mostra per quello che è, e cioè mostra ciò che non può non dire di sé e soltanto questo, niente di più. Ciascuna volta ciò che non può non dire, e non può non dirlo perché non dicendolo non direbbe nulla, quindi annullerebbe sé stesso, dunque ciò che non può non dire non è altro che ciò che necessariamente deve essere accolto. Che cosa non posso non accogliere per esempio in ciò che dico? In prima istanza il fatto che sto dicendo, intanto questo non posso non accoglierlo, perché non accogliendolo negherei di fare ciò stesso che sto facendo. Questo non è che sia proibito, né male, soltanto non mi dice nulla, è la formulazione del paradosso, per esempio quella che afferma che in questo momento non sto parlando, per poterlo affermare devo dirlo. Ecco dunque ciò che non può non accogliersi, che non può non dirsi, muovere da questo, sospendendo almeno provvisoriamente qualunque altra cosa. Una questione di metodo anche, un metodo che impedisce di accogliere tutto ciò che mi è assolutamente arbitrario accogliere oppure no. La quasi totalità che vengono proposte possono essere credute oppure no, a piacere, nel senso che nulla mi costringe a credere, se non altre superstizioni, altre credenze, altre certezze. Solo che se incomincio a mettere in gioco questa struttura, allora proprio per la struttura stessa del discorso occidentale incomincio a esigere che ciò che deve essere creduto debba anche essere provato. Ed è lì che il discorso occidentale mostra la corda, perché non può farlo. Impone di credere soltanto se qualcosa è provato, ma non consente di farlo, non consente di provare nulla, allora si trova di fronte a una struttura che è paradossale, che tuttavia funziona in modo straordinario, è straordinariamente potente, anzi la famosa frase di Tertulliano: credo quia absurdum sembra proprio lo slogan del discorso occidentale, forse occorre che sia assurdo per essere creduto, e in effetti "assurdo" non è soltanto ciò che non può essere provato, ma nemmeno verosimile, nemmeno credibile. E meno è credibile più è creduto, più è strampalato più è creduto vero. Come avviene una cosa del genere? Che cosa rafforza la fede più di una persecuzione? Se io credo questa cosa e tutti mi danno contro, generalmente la mia fede si rafforza, perché immediatamente ho la certezza di essere unico, almeno tra i pochi a fare una certa cosa, e quindi sono differente da altri, e quindi mi riconosco, immagino che questo sia una sorta di identità. Credere ciò che in nessun modo può essere provato è una prova d'amore tutto sommato. Una prova d'amore che in molti casi è quasi imposta dal discorso occidentale. La dimostrazione scientifica è una prova d'amore? Parrebbe. Dico la dimostrazione scientifica per indicare qualche cosa che generalmente non è affatto considerata come una prova d'amore, anzi semmai qualcosa che è agli antipodi. Eppure chiede di essere accolta senza in nessun modo potere fornire le prove della sua esistenza, e cioè una prova definitiva della sua verità. Come dire: fornisco un criterio, cioè una certa serie di procedure all'interno delle quali questa cosa può inserirsi, ed è inseribile, e questo sia sufficiente. Dice: e di questa serie di procedure cosa ne facciamo? Che cos'è? "Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare" Accontentati di questo, non puoi retrocedere all'infinito, e perché no? Dice: perché altrimenti questo non avrebbe più nessun senso. E già, infatti... Allora perché abbia un senso debbo credere necessariamente? Parrebbe di si, da come si pone il discorso occidentale. Le cose significano esattamente ciò che credo che significhino, né più né meno. Potremmo dire che la prova scientifica o la prova dell'esistenza di dio, per alcuni aspetti non c'è molta differenza, sono una vera e propria prova d'amore, come dire: devi accogliermi così come sono, senza fare tante obiezioni, senza fare tante storie, perché se uno comincia a fare obiezioni e storie non la accoglie più. Così sono e così devi prendermi, se mi vuoi. Però stiamo parlando dell'ideologia connessa alla scienza, non tanto con la ricerca che ciascuno può fare, ma con l'ideologia del discorso scientifico, che oggi ha preso effettivamente il posto di quello religioso, e con estrema facilità perché sono fatti dello stesso materiale, il passo non è stato né arduo, né difficile, era assolutamente inevitabile. Così come dalla scienza si può passare con estrema facilità a qualunque superstizione, molti scienziati sono superstiziosi, se a qualcuno la cosa può sembrare strana, di fatto è assolutamente normale anzi, perché lo scienziato, il cosiddetto scienziato sa che la scienza può arrivare fino ad un certo punto, oltre...oltre c'è la credenza, c'è quello che credo, c'è dio, c'è quello che ciascuno preferisce pensare e quindi è fondamentalmente religioso e superstizioso, perché per sostenere le cose che crede deve necessariamente pensare che esista, chiamiamolo un "dio" tra virgolette e cioè una spiegazione che lui non può dare, ma non può soltanto perché la scienza non ha ancora raggiunto una sufficiente abilità o un grado sufficiente di perfezione o di sapere, perché è la struttura del linguaggio attraverso cui compie queste ricerche che gli impedisce di potere arrestarsi ad un certo punto, senza che questo arresto non sia una petizione di principio, cioè: mi arresto qui perché stabilisco che è così e tanto basta. Per dirla così, molto rapidamente: chi dimostrerà la dimostrazione? O quale criterio dovremo utilizzare per provare la prova? E così via all'infinito. Sono solo procedure linguistiche quelle che impediscono che una prova sia definitiva. La regressio ad infinitum che ha sempre spaventato sia i filosofi sia i teologi, di fatto dice soltanto questo, questo spauracchio della regressio ad infinitum, che non c'è uscita dal linguaggio, non dice nient'altro che questo, e che qualunque tentativo io faccia per compiere un'operazione del genere, la farò necessariamente in un linguaggio, quindi non posso uscirne, solamente questo. Ora per tornare al gioco della ragione, della ratio, gioco nel senso che si trova presa nel gioco del linguaggio, gioco in cui si svolgono le procedure linguistiche, le regole grammaticali, questo non possiamo non dire. Il resto possiamo dirlo o non dirlo a piacere. Dire una cosa e il suo contrario, dire una cosa o un'altra, possiamo farlo, nessuno ce lo proibisce, possiamo dire che dio esiste, che la scienza va verso la verità delle cose, possiamo dire che...qualunque cosa ci piaccia, non c'è nessun problema, l'unico problema che c'è è questo: che cosa stiamo dicendo esattamente con questo? Nulla. Assolutamente nulla. Questo potrebbe essere un problema, poi di fatto non lo è. Non lo è in quanto nessuno se ne preoccupa minimamente. Eppure dispone, in un certo senso, di tutti gli strumenti per potere accorgersi immediatamente di tutto questo. E cioè dicendo, per esempio, che la ricerca scientifica va in una direzione tale per cui un giorno sarà possibile scoprire tutte le serie di cose, quindi raggiungere certezze intorno alle cose, ecco ha tutti gli strumenti per potere dire che dicendo questo non sta dicendo assolutamente niente. Però, questo, generalmente non avviene, come mai? Non avviene perché una considerazione come questa, per altro molto banale, andrebbe immediatamente...tempo fa facevamo una sorta di allegoria del virus del computer, andrebbe a infettare altri programmi, per usare questa allegoria, programmi che sono quelli di cui ciascuno vive, cioè le cose in cui crede, le cose di cui è fatto in definitiva non diventerebbero più utilizzabili. Allora credere a una cosa o all'altra poco importa, l'importante è che io possa credere che indipendentemente dal fatto che io ne dica, non posso provarlo in nessun modo, non ha nessuna importanza: credo quia absurdum e più è absurdum e più ci credo. Ma forse perché dà una sicurezza credere? Si e no. L'unica sicurezza che fornisce è che dal quel momento dovrò adoperarmi moltissimo per sostenere, per mantenere questa sicurezza, per difenderla da tutto ciò che la minaccia e quindi l'unica certezza è che da quel momento mi impegnerò in una battaglia senza fine, contro qualunque cosa insorga a minare la mia certezza, di questo posso essere sicuro, di tutto il resto, molto meno. Se allora in definitiva ciascuna cosa in cui credo è una prova d'amore, allora si tratta di considerare questo amore come qualcosa strutturato in un modo un po' terroristico, nel senso che crede si, ma a condizioni ben precise, una sorta di contratto, cioè: io ti credo, ma tu non mi devi tradire. Questo in definitiva chiede alle cose in cui crede, tant'è che se mai dovesse accorgersi che le cose in cui crede sono false, si porrebbe come un amante tradito. Pensate alla famosa crisi che accade a una certa età lungo la vita, quando uno si accorge che tutti gli ideali che aveva, le cose in cui credeva non sono più sostenibili, non si sostengono più, non riesce più a crederci, allora ha un tracollo, si sente tradito e abbandonato, e da che? Semplicemente da ciò in cui credeva, ma mica l'ha ordinato il medico di crederci, perché ci ha creduto? Perché gli umani hanno bisogno di credere, dicono taluni, tali altri dicono il contrario. Porlo come una necessità, il credere qualcosa, è un'idiozia, è un'altra di quello proposizioni che non dicono assolutamente niente. Come sostenere che l'atto di fede è necessario, è un altro atto di fede, una petizione di principio. Ecco il divenire sofista, lungo quanto andiamo dicendo, questo è già il quarto incontro forse, è un discorso che si va svolgendo, divenire sofista è incominciare a praticare tutti questi aspetti, tutti questi elementi e accorgersi che, come dicevamo l'altro incontro, è un percorso senza ritorno, nel senso che ciò che acquisisco mi impedisce di non tenerne conto, di non tenere conto di sé. Esattamente allo stesso modo in cui se mi accorgo che una cosa che so essere vera, si mostra assolutamente falsa, da quel momento non posso più credere. Con tutti gli sforzi che posso fare, se so che non è vera non posso più crederla, e che cosa me lo impedisce? E` un divieto per così dire grammaticale. L'idea che possa essere un fenomeno psichico, non è altro che il pensare che al di là delle regole, delle procedure linguistiche, esista un qualche cosa che le governi, ma una affermazione del genere che senso ha? Se io dicessi che il linguaggio è voluto da dio che differenza farebbe? Come diceva Tommaso, il quale si accorgeva nel suo percorso che la parola è molto difficilmente gestibile, ci sono grossi problemi se si incomincia a svolgerla, da qui la necessità di stabilire che sia stata data da dio, e allora qui la cosa ci tranquillizza perché se è stato lui, allora è fatta in un certo modo e non inganna ed è gestibile almeno da lui, almeno. Dicevo, dunque, praticare tutto questo potrebbe non essere semplice oppure essere semplicissimo. Che cosa rende tutto questo difficile? Una superstizione antichissima ma molto efficace, e cioè l'idea che ciascuna cosa che si dà, che esiste, debba necessariamente avere una causa. Pochissimi si sono chiesti che cosa si stavano chiedendo chiedendosi questo. La più parte ha immaginato che fosse una domanda più che legittima e che dovesse necessariamente avere una risposta, quasi naturalmente, se una cosa c'è è perché ha una causa. E perché mai? Cosa sto dicendo con questo? Sto enunciando un fatto naturale? E` incredibile come il discorso occidentale sia infarcito di ingenuità simili che, dicevo, non significano assolutamente niente. Dire che ciascuna cosa deve avere una causa non dice nulla, salvo enunciare una regola, una procedura linguistica, niente più di questo. Posso dirlo, ma posso pensare che questo pensiero mi venga da dio, come volevano i padri della chiesa, o posso pensare di affermare una cosa del genere perché la riscontro in natura, come vogliono i fisici, posso pensare qualunque cosa o il suo contrario va sempre bene. L'unica differenza è che a l'una credo e all'altra no, ma questo è affar mio. Dunque, con tutto questo stiamo dicendo che non è possibile stabilire un significato che anzi, chiedendoci qual è il significato di qualche cosa non ci stiamo chiedendo propriamente nulla. Il significato o la causa, che talvolta sono sovrapposti uno all'altro. Ma allora che cosa intendiamo dire quando diciamo che chiedendoci qualcosa ci stiamo chiedendo qualcosa, e che cosa esattamente? La difficoltà estrema sta nell'uscire da una struttura che tende a ricondurre ciascuna volta ciò che espone a qualcosa che è immaginato fuori dalla parola, che pertanto ciò che io enuncio esprimo o faccio dicendo qualcosa, sia qualcosa che non è in ciò che dico, ma è da un'altra parte, ed è lì, esiste di per sé in quanto tale. Ed è in effetti di una difficoltà estrema, qui sta l'aspetto difficile. L'aspetto semplice è che se di fatto io mi attengo rigorosamente a ciò che il discorso occidentale impone, cioè la struttura del linguaggio mi impone, non posso non pensare altrimenti che così. Così come sto enunciando e cioè che qualunque asserzione possa farsi questa segue soltanto a procedure linguistiche, non enuncia nulla fuori di questo, assolutamente nulla. Uno chiese: allora tutto qui? Anziché che altro? Ciascuno può provare a pensare altro, ma come? Attraverso che cosa? E a partire da che? Naturalmente se vogliamo attenerci esclusivamente a ciò che il linguaggio che stiamo utilizzando per fare queste considerazioni ci consente di fare, LF

o meglio ci dice, che non possiamo non accogliere, poi possiamo utilizzarlo per fare sterminate altre cose. Ma possiamo non accoglierle? Si. Come e quando ci pare. Possiamo provarle confutarle, giustificarle a piacere, non c'è nulla che non sia confutabile, tranne ciò stesso che mi consente di confutare o dimostrare, e cioè appunto, come dicevo prima, delle procedure linguistiche. Ma non si tratta nemmeno di confutare qualcosa, ma di considerare ciò che non posso negare, non posso andare contro una procedura linguistica, non posso farlo perché per andarci contro devo utilizzarla. Necessariamente e quindi...ciò che faccio è confermare ciò che immagino di confutare, e questo dicevamo all'inizio non ci porta da nessuna parte. Ecco allora praticare questo pensiero è ciò che mano a mano indicando come II SOFISTICA, seconda in quanto riprende il gesto della I, avvenuto duemilacinquecento anni fa. Purtroppo non è rimasto moltissimo dei sofisti, pochissimo, qualche frammento, tra le cose migliori che possano leggersi oggi dei sofisti, scritti su i sofisti, sono gli scritti di Calogero, Studi sull'Eleatismo, e I Sofisti di Untersteiner, quanto di meglio, ma dicevo è rimasto molto poco, frammenti qua e là, e poi la testimonianza di altri, in particolare Sesto Empirico e Diogene Laerzio, Aristotele e qualche altro, quindi cose riportate. Ma nonostante questo è rimasta un'impronta formidabile del loro pensiero, in tutto il pensiero che ne è seguito, come dire che da allora tutto il pensiero non ha fatto altro di cercare di evitare, di aggirare, di risolvere i problemi che i sofisti avevano mostrato. Stabilire l'essere, stabilire l'ente, l'essente, in definitiva cercare di stabilire che cosa possa darsi in modo inequivocabile, in modo assoluto, cioè fare esattamente ciò che i sofisti, già allora, avevano indicato, come non possibile. E` solo che, se non è possibile, non è possibile stabilire nulla, non è possibile credere, e se la gente non crede, come faccio a governarla? Con che cosa governerò? Già Platone aveva inteso la questione, nella Repubblica annuncia, la necessità, e denuncia anche, di una menzogna per governare, occorre mentire, cioè sopratutto fare credere che il governo sia necessario, ad esempio, e se nessuno lo credesse? Cosa succederebbe? Sta qui, la necessità assoluta di sbarazzarsi dei sofisti, sbarazzarsi dei sofisti, come la più pericolosa, tra le minacce pensabili. Forse anche per questo e in buona parte anche per questo non è rimasto nulla praticamente dei sofisti, nulla di ciò che hanno scritto, è rimasto soltanto l'accenno, delle famose Antilogie di Protagora, non c'è rimasta traccia. Magari può succedere che ad un certo punto si trovi, come è accaduto per alcuni testi gnostici, che non esistevano, che si pensavano perduti, distrutti, però se ne conosceva l'esistenza perché altri li citavano. Invece furono trovati nell'immediato dopo guerra a Nagammadi, il vangelo copto di Tommaso e tantissime altre cose gnostiche, perfettamente conservati i rotoli, dentro a delle anfore, per cui...ogni tanto trovano qualche cosa scrostando qualche manoscritto, si accorgono che sotto c'è altro. Per dire che non è casuale che tutto ciò che i sofisti andavano dicendo, andavano facendo, sia stato cancellato, come una sorta di virus, che potrebbe in qualunque momento insinuarsi nel discorso e dissolverlo, distruggerlo, o almeno renderlo impraticabile. Rendere impraticabile il discorso occidentale, è rendere impossibile credere una qualunque cosa, a questo punto avverrebbe la dissoluzione del discorso occidentale, con tutto ciò che questo potrebbe comportare. Ma è fortemente improbabile che questo possa accadere, tuttavia rimane, è sempre rimasta nei secoli a tuttoggi, in un cero senso la consapevolezza di questo pericolo, di questa minaccia. In effetti nelle scuole che cosa si insegna perlopiù? A tenersi al riparo da queste antilogie, da questi paradossi, da queste antinomie, da questi mostri, come li chiamano i logici, che la parola produce e che non possono togliersi, con tutti gli sforzi che sono stati fatti, ma non c'è modo, come dicevo prima, non c'è modo, perché non c'è uscita dalla parola, questo non può farsi, non potendosi fare, qualunque affermazione che ponga se stessa fuori dalla parola, è sempre necessariamente paradossale, cioè incontra un paradosso, un'antinomia. I paradossi sono questi, null'altro che questi, affermare che qualche cosa è fuori dalla parola. A partire dal paradosso del mentitore, fino agli ultimi la struttura è questa. Dunque ancora trovarsi nella condizione di non potere non fare tutto questo. E quando non posso non farlo? Quando parlando ho di fronte a me, ciò che sta accadendo, ciò che sto facendo, ciò che ho di fronte è in prima istanza, il fatto che sto parlando. In prima istanza, poi parlando posso immaginare di fare mille cose, ma questa proprio non la posso togliere di mezzo, sto parlando e quindi cosa comporta quindi cosa comporta questo? Cosa implica necessariamente il fatto che io sto parlando? Di questo il sofista non può non tenere conto. Non tenere conto di questo è come dire, di non tenere conto che sto parlando, ma è proprio ciò che sto facendo, come posso non tenerne conto? Il gioco della ragione di cui abbiamo detto nel sottotitolo è proprio questo, in effetti stiamo parlando di questo, la ragione gioca le regole del linguaggio, la ragione fuori dal linguaggio non esiste. Ma dice anche che non è possibile giocare questo gioco, cioè non c'è chi possa decidere di giocarlo oppure no, già questa decisione che venga presa oppure no, è all'interno di un gioco che è quello del linguaggio, in accezione molto prossima a quella che intendeva Wittgenstein. Dunque il sofista è chi non può, non accogliere il gioco che è nella parola, non che gioca con le parole, non ha nessun interesse giocare con le parole, accoglie il gioco che si da, che avviene mentre parlo e che costruisce, sta letteralmente costruendo ciò che dice. Lo accoglie nel senso letterale cioè non lo rifiuta, rifiutarlo varrebbe a pensare che non sto parlando, o che questo, comunque non implichi nulla, non comporti nulla. Non comporta nulla, perché il parlare non è altro che l'esprimere o mostrare cose che sono fuori da quello che dico. Questo è ciò che il pensiero occidentale ha pensato perlopiù, incappando naturalmente in paradossi insormontabili. Questa asserzione banalissima e semplicissima che afferma che non c'è uscita dal linguaggio. Di per sé sarebbe più che sufficiente a sconquassare tutto il discorso occidentale, se presa alla lettera. Non avviene. Non avviene perché tutto questo è impedito, cioè non avviene che possa considerarsi, questo è impedito perché, effettivamente il discorso occidentale, evita di considerarlo, il discorso occidentale vieta di considerare che di fatto sto parlando, e che non c'è uscita dal linguaggio, anzi è strutturato...