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Torino, 17 novembre 2005

 

 

Libreria LegoLibri

 

PERCHÉ LA PAURA.

CONSIDERAZIONI SUL POTERE DELLA PAURA.

 

Intervento di Sandro Degasperi

 

 

Questo è l’ultimo incontro di questa serie dal titolo “La scommessa della psicanalisi”. Ce ne saranno nei prossimi mesi delle altre, ormai siamo diventati degli ospiti fissi di questa libreria. Abbiamo iniziato questa serie con una conferenza di Luciano Faioni sulla retorica e terminiamo con questa conferenza sulla paura, che molto ha a che fare con la retorica.

Prima, però, di iniziare con ciò che ho da dirvi, vorrei leggere con voi alcune righe tratte da un articolo che è apparso stamattina su un quotidiano nazionale, articolo che è molto significativo e che mi dà l’opportunità per avviare con voi una riflessione, entrando immediatamente in medias res.

Questo articolo porta il titolo “Le paure irrazionali che ci fanno angosciare” e inizia così:

“Il cuore incomincia a tamburellare improvvisamente nel petto, il respiro si spezza, le mani tremano, e tutto perché un ragnetto di un centimetro sta tessendo la sua tela in un angolo del soffitto due metri sopra la nostra testa. Ma la stessa reazione può verificarsi davanti a un aereo, una bella ragazza o nel mezzo di uno spazio aperto. Si tratta di reazioni fobiche, di quelle paure angosciose di carattere patologico, quei timori (la parola deriva dal greco fobos, timore) che assalgono irrazionalmente milioni di persone: negli Stati Uniti la percentuale dei fobici è di una persona su venti. E la letteratura medica conia ogni giorno nuovi neologismi sul tema, come partenofobia, paura delle donne vergini, fagofobia, timore di essere divorati, acrofobia, angoscia dell’altezza, sudori freddi. Ce n’è per tutti i gusti.” (La Repubblica, 17/11/05)

Ecco, questo è ciò che passa il convento, il convento mediatico, intorno alla questione della paura. Non è un granché ma tanto ci è dato avere.

Intanto, due elementi emergono e che sono importantissimi: paura angosciosa di carattere patologico, quindi, la paura come malattia; che assalgono irrazionalmente milioni di persone, quindi, la paura come qualcosa di irrazionale. Due significanti che sono stati inseriti così, in modo quasi impercettibile, senza dar loro un particolare peso, come se mostrassero qualcosa di ovvio, di scontato. In realtà, costituiscono esattamente ciò su cui si fonda l’ideologia intorno alla paura. È il luogo comune, né più né meno. L’articolo si riferisce in modo particolare alle fobie, dove l’oggetto che produce la sensazione di paura è identificato, è qualcosa. In un certo senso, la fobia non è altro che una giustificazione della paura, in quanto, laddove io riesca a identificare qualcosa come oggetto della paura, a dare a questo oggetto un nome, ecco che questo in qualche modo mi tranquillizza. Come dire, “ciò di cui ho paura è questo” e non altro, per cui l’unica cosa che mi resta da fare è quella di evitare quella determinata cosa che mi fa paura, ma per il resto posso stare tranquillo.

Al di là di questo, che se avremo l’occasione riprenderemo, la questione verte intorno alla patologia e alla irrazionalità, cercando di fare un passo ulteriore, di andare oltre il luogo comune. In effetti, ciò che mi interessa fare questa sera è mettere in gioco, in discussione, questi due aspetti.

Una persona che ha paura, qualunque cosa sia ciò di cui ha paura, non sa perché ha paura… ha paura, punto e basta. Una persona che ha paura di volare sa che ogni volta che metterà piede su un aereo lo assalirà il panico, comincerà, appunto come diceva l’articolo, ad avere i sudori freddi, le mani tremanti, ma non sa perché ha paura, ed è questo non sapere che porta a pensare la paura come qualcosa di irrazionale. Ma che questa cosa la dica la persona che ha paura, beh, glielo consentiamo; è meno consentita a chi, invece, dovrebbe dirci qualcosa intorno alla paura, tanto che viene il sospetto che questa questione dell’irrazionalità serva a coprire una sorta di ignoranza laddove non si è in grado di spiegare ciò che accade; come dire, ciò che non sono in grado di spiegare è irrazionale. Quindi, ciò che non so spiegare, ciò che per me è irrazionale, non so da dove viene, non so cosa lo produce, so che esiste, ne vedo gli effetti, ma non so qual è l’origine, la causa, il perché di tutto ciò. Prima o poi, come sempre, salterà fuori qualcuno, di solito americano, che dirà di avere individuato il gene della paura, che ne so, dei ragni oppure dei topi. Ci hanno abituato da diverso tempo a questa cosa… “è stato scientificamente provato che…”, provato come? Sulla base di che?

Dicevamo, dunque, dell’irrazionalità. Il titolo della conferenza è “Perché la paura” e, in effetti, il nostro intento è quello di spiegare da dove viene la paura, su che cosa si sostiene.

Le persone che provano paura si sentono soggette, come costrette, come se questa paura la subissero e non potessero fare nulla. Riprendendo l’esempio della persona che ha paura di volare, questa cercherà in mille modi di controllarsi, cercherà di distrarsi, magari parla con il passeggero che è vicino a lui, in modo da non pensare alla sua paura, ma, nonostante tutti suoi tentativi, non riuscirà mai a eliminare del tutto questa paura che è sempre lì, sullo sfondo, presente.

Ma perché le persone provano paura? A che cosa serve loro provare paura? È interessante perché solitamente non ci si pone questa domanda, non è in questi termini che si affronta la questione. Ieri sera, durante un incontro con gli amici dell’associazione, si diceva proprio questo: si utilizzano termini, ad esempio come quello di paura, senza sapere esattamente cosa significhino. È curioso questo fatto. Per dirla in altri termini, le persone per lo più parlano di cose senza sapere esattamente di che cosa stanno parlando. Un po’ parafrasando Agostino, il quale diceva: io credo io sapere che cos’è il tempo, nel senso che ne parlo continuamente, lo misuro, ecc., ma se qualcuno mi chiedesse che cos’è esattamente il tempo, di darne una definizione precisa, mi troverei in forte difficoltà, non saprei rispondere. Ed è esattamente quello che accade se chiedete a una persona, che lamenta una paura, che cos’è la paura, ebbene, questa vi guarderà un po’ smarrita e difficilmente vi saprà rispondere, come se questo termine venisse da lei, sì, continuamente utilizzato ma senza sapere esattamente di che cosa sta parlando quando dice che ha paura. Non si pone il problema di che cos’è la paura, di che cosa è fatta, ma semplicemente dice che l’avverte, che la sente, e questo è per lei sufficiente. Alla base di tutto ciò c’è una sorta di certezza, di sicurezza, che è un po’ paradossale perché solitamente la paura si accosta all’insicurezza, ma per la persona è assolutamente certo, assolutamente necessario che una certa cosa produca paura. Tant’è vero che, come dicevo prima, non si può sottrarre a questa paura. Una persona che, ad esempio, è claustrofobica, tutte le volte che si ritrovi in uno spazio aperto, proverà una fortissima sensazione di disagio, non può sottrarsi a questo disagio, e da qui questo carattere di necessità.

Ci siamo questi se è proprio necessario tutto questo. E, se sì, da dove viene questa necessità? Qual è la condizione per avere paura? Intanto, che si avverta una sensazione di pericolo, che si avverta che qualcosa, qualcuno, una situazione, un evento, possono costituire una minaccia, nel senso che possono produrre un danno alla persona, un danno di qualunque tipo, non solo fisico. Ora, ciascuno, bene o male, sa che la paura ha a che fare con i pensieri, perché si accorge che la sua paura altri, per esempio, non l’avvertono e quindi è qualcosa che in qualche modo riguarda lei, il suo modo di pensare. Tutt’al più, può pensare che sia un pensiero strano, una stranezza, un pensiero malato. Tutto sommato, è questo che pensa la psicoterapia, che esistano pensieri malati da curare, da correggere. Ma, al di là di queste fesserie, la persona si rende conto il più delle volte che è qualcosa che viene da lei, che è lei che la produce, ma senza sapere come e il perché. Perché non lo sa? Non lo sa perché questo pensiero è un pensiero che non può essere assolutamente messo in gioco, in discussione, non può essere considerato. Quando prima parlavo di costrittività, di necessità, mi riferivo a una sorta di invalicabilità, nel senso che non si può arrivare a considerare questo pensiero perché questo pensiero è assolutamente inattaccabile, come blindato. Perché non può considerarlo? Perché per lui è un pensiero assolutamente vero. Una verità non può essere messa in discussione per definizione, la verità non è qualcosa che è vera in un certo momento e è falsa in un altro, no, la verità è tale sempre, e deve quindi essere qualcosa di inattaccabile e di immutabile sempre, non può essere qualcosa di discutibile. Ci siamo accorti che questo pensiero non è altro che la conclusione di una costruzione di altri pensieri, altri pensieri che, attraverso un’argomentazione, attraverso una serie di passaggi, ha condotto la persona a considerare che quella determinata cosa produce quella determinata sensazione, per esempio. Il fatto che si tratti di una costruzione, e che quindi sia un prodotto di pensieri, ci fa pensare che la cosa non sia assolutamente necessaria, perché, se si tratta di una costruzione, è evidente che così come l’ha costruita, ci sia il modo per poterla demolire.

Ora, consideriamo due situazioni apparentemente molto lontane tra loro. Immaginate che fuori piova, voi dovete uscire, e allora cosa fate? Prendete l’ombrello. Una fanciulla vede un topo e salta immediatamente sul tavolo in preda a una forte eccitazione. La struttura di quest’ultima azione è la stessa di quella che vi vede prendere l’ombrello perché fuori piove. Vale a dire questo, quando fuori piove non vi state a fare tutto il ragionamento, “se fuori piove, per non bagnarmi è meglio che prenda l’ombrello, ma fuori piove quindi prendo l’ombrello”. No, non fate tutto questo, passate immediatamente alla conclusione di questo ragionamento, prendete l’ombrello prima di uscire, come si suol dire, senza pensarci. Ed è esattamente ciò che fa una persona che ha paura di qualunque cosa, di fronte all’oggetto cosiddetto fobico la sua reazione salta tutti passaggi e immediatamente passa alla conclusione, che è questa: “io ho paura”. Questo non toglie che comunque questi passaggi esistano, Anche se, per via di una sorta di automatismo, non vengono ciascuna volta ripetuti, comunque esistono e quindi, quando si tratta di articolare questo discorso nell’ambito di un’analisi, si tratta proprio di questo, di verificare ciascuna volta quali sono i passaggi che sono stati fatti. È la struttura dell’inferenza: se A allora B, se B allora C, se A allora C. Gli umani pensano a questo modo, tutto ciò che pensano, che dicono, che fanno, che immaginano, qualunque cosa facciano, lo fanno attraverso un sistema inferenziale, non hanno alcun altro strumento. Ora, un’inferenza da che cosa è data? È data da una premessa, da una serie di passaggi più o meno coerenti con la premessa, e da una conclusione.

Ora, perché si giunga a una determinata conclusione occorre che ci siano determinate premesse. Quindi, perché una persona ha paura di qualcosa, perché ad un certo punto conclude “ho paura”? Ciò che ci interessa è non tanto mettere in gioco la conclusione, come dire, “guarda che non devi avere paura perché le cose non stanno così ma stanno cosà”. Se avete conosciuto qualcuno che ha paura di volare, vi sarete accorti che avete un bel dire che non c’è nulla di cui avere paura, che, per esempio, ci sono più incidenti stradali che incidenti aerei, la persona sarà d’accordo con voi, fatto sta che, comunque, quando sale su un aereo, non è cambiata assolutamente una virgola. È senz’altro convinto che voi abbiate ragione ma questo non modifica nulla. Perché? Perché ciò che non sono modificate, in questo caso, sono esattamente le premesse da cui parte per giungere alla conclusione che ha paura di volare. Ora, le premesse sono queste che interessano in un’analisi, perché è lì che occorre arrivare. Se il compito dell’analista fosse solo quello di modificare la conclusione, allora si limiterebbe a sostituire una proposizione vera, quella creduta tale dalla persona, con un’altra, che vera la ritiene l’analista. Ma questo non cambia nulla perché ciò che viene a mancare è la presa in considerazione, la messa in discussione, di tutto ciò che sostiene questa conclusione, che esiste in quanto è il risultato di una costruzione, di un processo inferenziale, e questa costruzione è stata fatta su dei mattoncini, che sono le cose da cui parte la persona per costruire tutte le sue argomentazioni e giungere alle sue conclusioni, ai suoi giudizi. In altri termini ancora, sono le cose su cui la persona costruisce tutta la sua esistenza, in definitiva. Facciamo un esempio, se io sono un fervente cattolico allora avrò paura del castigo divino, avrò paura dell’inferno. La premessa, in questo caso, è il credere in dio, ma se io non credo in dio, posso avere paura dell’inferno? No, è logicamente impossibile. Ecco che allora, possiamo dire che qualunque paura segue a una premessa creduta vera. Abbiamo detto che nel caso della paura dell’inferno occorre che io creda in dio, questa è la condizione, nel caso della paura dei topi, esempio, sarà qualcos’altro ciò in cui credo, ma in ogni caso occorre che ci sia qualcosa in cui io creda e che lo creda vera, assolutamente vera. Perché questo qualcosa sia così costrittiva, così necessaria, occorre che io creda fortemente in questa cosa. E allora, l’analisi si svolge lungo questa direzione, quella di arrivare a mettere in gioco la premessa. Per dire alla persona che ciò in cui crede non è vero? No, non è proprio questa la questione. Ciò che crede non è che non sia vero e sia magari falso, no, non è questo che interessa fare, cioè, convertire qualcuno. Semmai, ciò che fa un’analista è far sì che la persona che si accorga che l’ha costruita lui, che se l’ha costruita ha avuto dei buoni motivi per farlo e che responsabile della sua paura è il suo discorso.

A questo punto, ciò che possiamo dire con assoluta sicurezza è che la paura non ha nulla di irrazionale, la paura è assolutamente razionale, segue dei passaggi logici molto ferrei, rigorosissimi. Quindi, se la paura è una costruzione è una costruzione demolibile, ma in che modo? Possiamo fare un esempio. Pensate a un bambino che ha paura del buio. Ora, il bambino difficilmente si chiede perché ha paura del buio, ha paura, punto e basta. Perché ad un certo punto la paura del buio svanisce? A parte il caso di qualcuno che se la porta appresso tutta la vita, ma questo è un altro discorso. Questa paura è connessa con qualcosa, con una qualche fantasia, che ne so, con l’esistenza dell’uomo nero per cui, ogni volta che c’è il buio arriva l’uomo nero. Quando smetterà di avere paura del buio? Quando non crederà più all’esistenza dell’uomo nero, a quel punto la paura si svanisce immediatamente, come d’incanto. Ed è così che la persona che si trova in analisi a mettere in discussione la premessa, che, ricordo, è fatta di un pensiero o di una serie di pensieri in cui lei crede fermamente, nel momento in cui la mette in gioco e si accorge che questa cosa magari si sostiene su nulla perché magari è una fantasia, un ricordo, un’immagine, qualunque cosa, ma che non ha assolutamente nessun carattere di costrittività, di necessità, ecco che allora, in modo automatico come nel caso del bambino che ha paura del buio, la paura svanisce. Come dire che tutta la sua costruzione si è rivelata un castello di carte, tolta la prima carta crolla tutto.

Questa è una considerazione molto veloce su come l’analisi affronta la questione della paura. La paura non è qualcosa che si elimina così, tout court, la paura è un discorso che occorre articolare. Non si tratta di eliminarla, si tratta di intendere a cosa serve, di intenderne l’utilizzo. Abbiamo detto fin qui come si costruisce la paura ma perché lo fa? A cosa gli serve fare tutto questo?

Se questa paura, abbiamo detto, non è irrazionale, non è una malattia, perché non c’è un virus, un microbo della paura, allora occorre che si tenga conto che è la persona, il suo discorso, che l’ha costruita e quindi c’è una sua responsabilità. Con responsabilità non intendo la colpa, intendo che c’è qualcosa nel suo discorso che ha prodotto questa paura e che se l’ha fatto aveva i suoi buoni motivi per farlo. Sono io che ho costruito questa paura, sono io che “voglio” avere paura. Chi sono io? Io sono il mio discorso, sono i miei pensieri, sono ciò che dico, sono linguaggio. Togliete a una persona la possibilità di pensare, cosa rimane? Nulla, non esiste nemmeno, perché non la possibilità di pensarsi esistente e quindi non esiste. È importante lungo un’analisi arrivare a questo punto, alla questione della responsabilità: sono io che ho costruito tutte queste cose. Il passaggio successivo è: perché? A che scopo?

Già Freud parlava del tornaconto, il bisogno secondario della malattia, il motivo economico, come dire, se l’ha fatto l’ha fatto per qualche motivo. È difficile pensare che una persona si costruisca una paura perché vuole costruirsela, al luogo comune suona bizzarra una cosa del genere, però di fatto è così. Una cosa che ci può in qualche modo venire in aiuto per capire meglio è il fatto, noto a tutti, che spesso la paura è cercata. Pensate alle persone che praticano gli sport estremi, per esempio, sanno benissimo di mettere in pericolo la loro vita, ma è proprio questo ciò che cercano, il pericolo, perché è un’occasione per provare quella forte emozione chiamata paura. Oppure, pensate a tutte quelle persone che vanno a vedere i film dell’orrore, anche in questo vogliono provare paura. La differenza qual è? È che nelle persone che lamentano una paura manca quella consapevolezza che c’è invece in quelle che la paura la cercano negli sport estremi o nei film dell’orrore. Quindi, questa paura cercata è connessa a un piacere. E allora, possiamo porci la domanda se anche nel caso della paura non cercata non ci sia una connessione con il piacere, con una differenza, data dalla consapevolezza o, meglio, dalla responsabilità. È come se una persona che prova paura si stesse costruendo il suo film, come se ogni volta che si trova in una situazione, che per lui genera paura, incominciasse la proiezione del suo film, solo che ne può godere, assistere allo spettacolo, solo ed esclusivamente se dice o se pensa che questa cosa non la vuole assolutamente, vale a dire, che non è lui responsabile di quanto sta accadendo. Una persona che pratica sport estremi cerca una forte emozione, gli umani continuamente cercano emozioni e le forti emozioni sono difficilmente rinunciabili, ed è per questo che una persona difficilmente rinuncia a una sua paura, perché rinunciare alla sua paura significherebbe rinunciare alla possibilità di provare queste forti emozioni. E questo rende anche conto del fatto come alcune volte in analisi, laddove si incomincia a articolare in modo interessante la questione della paura, la persona abbandoni l’analisi, come se sapesse che, proseguendo in quel percorso, si ritroverebbe senza quelle forti emozioni che la paura le consente di provare. È un po’ come se la persona immaginasse che, non avendo più paura, la sua vita non avrebbe più alcun senso, non avrebbe più stimoli. Una persona che fa sport estremi, alla domanda “perché lo fai?”, risponde solitamente che è eccitante, stimolante. Stimoli, dunque, ma stimoli per che cosa? Lo abbiamo detto prima, per costruirsi dei film, delle scene, delle storie, dei racconti. Il contrario è la noia, che non produce nulla, tutto uguale, non ci sono stimoli, non c’è nulla, ecco che allora occorrono le emozioni, e le emozioni sono stimoli. La paura è un gioco simile ma con una differenza: perché esista occorre la condizione che la persona non sappia perché lo fa, che non sappia che è lei che l’ha costruita. Solo a questa condizione può mantenersi.

Ancora un’ultima cosa. Un’analisi è un percorso che talvolta può essere molto lungo proprio per questo motivo, perché la persona non rinuncia facilmente alle sue paure, non le vuole abbandonare e non le vuole abbandonare perché non vuole rinunciare al tornaconto di cui dicevo prima. La paura esercita una forte attrazione, se non fosse così basterebbero poche sedute per eliminarla, per smontarla, come dicevo prima. Tecnicamente, sarebbe, in effetti, semplice. Una paura può durare tutta la vita, determinando il corso di un’esistenza. Pensate a una persona che ha costantemente paura di sbagliare o paura di essere rifiutato. Come si relaziona rispetto agli altri? È chiaro che la sua vita è fatta di evitamenti, di scansamenti, insomma… di occasioni perdute. La sua paura costituirà per sempre un limite e questo ha delle conseguenze importantissime.

Per il momento mi fermerei qui. Darei la parola a voi, potete approfittare del fatto che questo è l’ultimo incontro facendo le vostre osservazioni, ponendo delle domande, anche intorno alle cose di cui abbiamo parlato nei precedenti incontri. A voi la parola.

L. Faioni: Una questione a margine, e cioè l’utilizzo sociale e politico della paura. La paura è fondamentale, già gli antichi sapevano che senza la paura non si governa. Quindi, occorre instillarla sin da piccoli, in modo che ciascuno impari, sappia di che cosa deve paura e che soprattutto impari a provarla. È uno dei modi che nell’educazione dei bambini non è sicuramente il migliore ma di sicuro il più efficace, il più rapido e il più economico. Questo funziona anche più in là negli anni, non soltanto con i bambini, non c’è più la paura che venga sottratto il giocattolino ma magari è il terrorismo. Dunque, a che cosa serve la paura in questo caso? A impedire che l’altro faccia quello che vuole, perché se fa ciò che gli passa per la testa può diventare un problema. Quindi, la paura, come diceva Degasperi, costituisce un limite, fino a qui puoi arrivare, più in là no. Ci sono moltissimi modi per provare la paura, questo però non ci interessa quanto considerare l’eventualità che ciascuno utilizzi la paura come limite. Limite a che cosa? A ciò stesso per cui viene costruita la paura, a impedire di fare ciò che si vuole. In molti casi, in effetti, la cosa è quasi evidente, per esempio nella vertigine, uno avverte la paura di che cosa? Del desiderio di buttarsi giù, ha paura del suo desiderio, cioè ha paura di ciò che vuole fare, da una parte, dall’altra se è saggio non lo fa. Oppure, in molti casi è la paura della madre, così come accade di ascoltare, di fare del male ai propri figli. Perché dovrebbe farlo? Evidentemente, c’è qualcosa che la muove in quella direzione. Ora, l’essere mossi in una certa direzione è ciò che comunemente si chiama desiderio, che ha a che fare non sempre con ciò che consapevolmente si dice di volere fare, ma è qualcosa che muove in una certa direzione, che sia consapevole oppure no. E allora la paura argina, limita, impedisce di fare ciò che si vuole. Ora, in alcuni casi è evidente, in altri può esserlo meno, bisogna verificare ciascun caso. Anche la questione del topo, per esempio, che Freud accostava al membro maschile, c’è la paura del topo e quindi c’è il desiderio del membro maschile, però viene bloccato comunque questo desiderio dalla paura, lo si impedisce. Ora, perché ci si debba impedire qualcosa è una questione su cui discutere ma rimane il fatto che la paura ha sempre questo utilizzo, lo stesso che ha il governo, lo stesso che ha la religione. Certo, se uno non è credente non ha paura dell’inferno, ovviamente. Di fatto, è necessario avere paura di qualcosa, è possibile non avere paura di nulla, anzi, è auspicabile. Certo, può accadere di diventare dei sovversivi, perché a questo punto non si temono i governi, ma sia come sia, rimane il fatto che questo limite che ci si impone, di impedire di fare ciò che si vuole, ha la sua funzione da sempre ed è efficace, funziona. Poi, ci sono delle persone che utilizzano questa paura anche al di là delle paure più comuni, il terrorismo, l’incidente, la finanza … però, il trovarsi a costruire, a inventare una paura, perché viene inventata dal nulla in realtà, cioè la paura viene prima insegnata, poi ciascuno la utilizza secondo i suoi criteri. Gli attacchi di panico, che vanno di moda, per esempio: una persona all’improvviso comincia ad avere tutti quei sintomi di cui si parlava: tremore, pallore, sangue alla testa, con tutti gli annessi e connessi. Anche in quel caso la paura serve a impedire qualcosa? Ci sono buone probabilità. È vero che non è immediatamente accessibile, soprattutto per la stessa persona, sapere che cosa vuole impedirsi, però, volendo, può venire a sapere che cosa vuole impedirsi e magari rendersi conto che non è necessario impedirselo, che se non lo fa non succede niente. Questo si aggancia anche con il discorso che è stato fatto intorno alle proprie emozioni, che danno un enorme contributo. L’emozione più forte è quella di ritrovarsi faccia a faccia con il proprio desiderio, che è inibito, bloccato, non deve nemmeno essere menzionato nel modo più assoluto, anzi, non deve neppure essere saputo. E allora, sì che funziona. In effetti, una persona che ha paura mostra le stesse caratteristiche di una persona fortemente eccitata, non è casuale. È anche uno spettacolo, ciascuno sa quanto attrae la scena di un crimine, di un incidente, oppure i film, come si diceva, più fanno paura e più attraggono. Già Aristotele, rispetto alla tragedia, evocava questo fenomeno. La paura è importante, tutti i governi lo sanno bene, in tutti i modi si tratta sempre di bloccare qualcuno, di farlo stare buono, fermo, tranquillo. Il modo più rapido è quello del ricatto: se fai questo allora muori… evidentemente è anche attratto perché se no non ci sarebbe la necessità di instillare la paura per evitare di fare cose che nessuno farebbe mai, non è proibito darsi ditate in un occhio, non c’è nessuna legge che lo vieta, eppure, ci si procura un danno gravissimo, si può anche morire, ma non è proibito perché a nessuno viene in mente di fare una cosa del genere. Invece, si proibisce ciò che si desidera, la paura serve a questo, a impedirsi di fare ciò che si desidera…

Intervento: … l’esempio di quella ragazza che aveva paura dei topi e tutte le volte che vedeva un topo c’era un ragazzo vicino a lei e lei impaurita si abbracciava a lui…

Cambio cassetta

Intervento: … la paura come autopunizione…

Certo, può anche intervenire questo, non è una legge universale ovviamente. È la questione del rovesciamento, accade, talvolta. La paura della morte, per esempio, può intervenire come il rovesciamento di un desiderio di morte, per cui non sono più io che desidero la sua morte ma sono io che temo la mia morte. Qui, interviene come una sorta di autopunizione, come dire, ho desiderato la morte di qualcuno e quindi merito di morire… in un certo senso, la paura di morire è il desiderio di morire e, come dicevamo prima, la paura interviene solo a impedire che si realizzi questo desiderio.

La questione politica, di cui parlava Faioni, è estremamente importante, in effetti. Mentre parlava riflettevo su questo, non è tanto che i governi producano paura, certamente l’alimentano ma, in effetti, si trovano già un terreno fertile su cui lavorare, come se ci fosse la necessità della paura. Pensate, per esempio, alla questione della sicurezza, che è molto importante in termini politici, quando per esempio in nome della sicurezza si arriva a limitare le libertà di ciascuno in modo molto importante. La sicurezza è qualcosa che attiene alla paura, il bisogno di sentirsi sicuri, di qualcuno o qualcosa che protegga, il bisogno della protezione come se questa protezione riguardasse gli effetti della propria paura, come se ogni volta si avesse bisogno di papà e mamma, perché loro dicono ciò che si può e non si può fare, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ecc.

Intervento: …

È una questione che riguarda la responsabilità, quand’è che ho bisogno di papà e mamma, come dicevamo prima? Quando ho bisogno di qualcuno che mi che cosa è bene e cosa è male, ecc., poi sono i governi, le religioni, le ideologie, qualunque cosa, è come se io dovessi sempre affidarmi a qualcosa o a qualcuno e non tenessi conto di ciò che il mio discorso produce o potrebbe produrre. Questo affidarsi, questo fare atto di fede nei confronti di qualunque cosa è qualcosa che, per esempio, limita moltissimo quella che è la ricchezza che il discorso di ciascuno può produrre. Qualunque credo, non solo religioso, qualunque forma di credenza limita. Il luogo comune, invece, dice che bisogna credere, bisogna pur credere in qualcosa…

Intervento: …

Basterebbe accorgersi che non è necessario credere. Qui si tratterebbe di introdurre tutto un discorso sulla verità, che è molto complicato e lungo. Chiaramente, se credo, che cos’è in ballo? La verità, ovviamente, in quanto posso credere solo qualcosa che penso essere vero, non posso credere a qualcosa che so essere falso. Il discorso occidentale si regge su questi due aspetti: la credenza e la paura. Occorre innanzitutto credere in qualcosa; secondo, occorre la paura perché questo credere si mantenga, nel senso che, prendiamo come esempio ciò che sta accadendo ai giorno nostri, occorre che le persone temano che i propri valori, cioè le cose in cui credono, siano in pericolo. Se io riesco a convincerle di questo, che i valori sono in pericolo, che c’è un nemico che li vuole distruggere, che c’è uno scontro di civiltà, ecc., allora ci sono buone probabilità che facciano quello che io desidero che facciano. Quando dico che non è necessario credere intendo dire questo, che ci sia la possibilità per ciascuno di non essere ricattabile, non persuadibile.

Dicevamo all’inizio, spesso non ci si interroga sui termini, per cui si immagina che le cose siano codificate in un senso unico, in un solo modo e che quel solo modo sia comunque da difendere, mentre invece non c’è un senso unico ma, anzi, i termini possono essere utilizzati in modi infiniti, i giochi linguistici sono infiniti. È questo lo scopo dell’analisi, quello di mettere in gioco le proprie certezze, le proprie credenze, perché sono certezze che non si sostengono su nulla, sono certezze credute o immaginate tali, che però, prese per vere, determinano parecchie cose, tra le quali anche la paura o i vari disagi. E quindi, smontare queste credenze comporta che la persona si trovi nella possibilità di potere utilizzare il suo discorso, i suoi pensieri, in un modo che non è solo quello che quelle credenze prima determinavano, quel senso unico di cui parlavo, ma può utilizzarli in infiniti modi, godendo quindi di una libertà molto più ampia. È chiaro che una persona che ha paura di volare, torno a ripetere, eviterà se può di prendere l’aereo, andrà in macchina, in treno o in nave, ed è la stessa per quanto riguarda tutte le altre paure, cercherò di evitare tutte quelle occasioni in cui il mio discorso è costretto a confrontarsi con questa cosa. È una cosa che limita moltissimo.

Intervento: …paura come limite… ciascuno si ritrova a fare un unico gioco, quello che conosce, fino a chiudersi in casa… è interessante come la paura mostra come il desiderio, il piacere, abbiano la necessità di essere gestiti, controllati dall’alto, proprio per via di questa impossibilità di accogliere i propri pensieri, come sono fatti i propri pensieri, accogliere il proprio desiderio senza la necessità di nasconderlo…. È come il bambino che gioca sempre con la stessa paletta, fino a che non si accorge che ci sono giochi più interessanti, non accoglie tutte le possibilità…

L. Faioni: Come eliminare una paura? Se una persona ha paura, che si fa? In effetti, tecnicamente, eliminare una paura è straordinariamente semplice. È sufficiente porre una sorta di uguaglianza: paura = desiderio, ho paura di questo, quindi, desidero questo. Ora, perché non posso ammettere questo desiderio? Semplicemente, perché quella fantasia che ha costruito una cosa del genere è connessa con un godimento ingestibile, che deve rimanere tale, perché se lo metto in atto mi accorgo che non è così. È un po’ come l’amore ideale, che deve rimanere ideale, perché se diventa reale non è più ideale. Quindi, tecnicamente la questione è molto semplice. Può diventare lunga la questione perché intanto non lo sa e poi non sa soprattutto che cosa desidera, ma il percorso è questo, non ce ne sono altri. Si può sostituire una paura con un’altra ma non è questo il compito di un analista, quindi, la paura si dissolve nel nulla mentre, nel caso contrario, si sposta da una cosa all’altra. Così come il bisogno di fede, se una persona ha bisogno di credere in qualcosa necessariamente, se cessa di credere in una certa cosa perché la sa falsa, se continua ad avere bisogno di credere crederà in un’altra cosa. E così come avveniva con Freud rispetto all’ipnosi, si toglie la paura dei topi, questa persona non ha più paura dei topi ma incomincia ad avere paura degli scarafaggi. Ma avviene così anche senza l’ipnosi, il più delle volte, perché è come se permanesse la necessità di avere paura di qualcosa; finché questa permane, la paura continuerà, inesorabile, è matematico. Invece, il modo per eliminarla è accorgersi di che cosa si desidera, poter accogliere ciò che si desidera. A questo punto, cessa la necessità di avere paura, scompare del tutto.

Intervento: … la necessità della paura … come insegnante mi accorgo che è difficile insegnare senza provocare la paura, è utile, è veloce, se non ci fossero i voti, se non ci fosse la paura della bocciatura…

La scommessa è proprio quella di inventare una formazione che non  abbia bisogno della paura per potersi sostenere. Penso che sia la scommessa di una ipotetica scuola nel futuro. Dubito che possa avvenire una cosa del genere, non ne vedo i presupposti, siamo qui solo noi, in poche persone, a pensare in questo modo… Vede, la psicanalisi non ha nulla a che fare con la terapia ma ha più a che fare con la formazione, una formazione dove si tratta di non avere più necessità della paura. Parlo di formazione nell’analisi perché c’è anche un insegnamento che riguarda il pensare, si impara a pensare lungo un’analisi. Nel discorso comune, per esempio, nessuno pensa che la paura sia necessaria a chi la prova, nessuno pensa che la paura sia qualcosa che è costruita dalla persona, dal suo discorso, no, la paura è pensata come qualcosa che la persona subisce, che si ritrova ad avere così, in modo inspiegabile, irrazionale, per cui l’unico intento è quello di eliminarla così come si può eliminare un dente cariato. Abbiamo visto che, invece, la questione è ben diversa.

Bene, direi che possiamo concludere qui il nostro incontro. Vi ringrazio per la vostra numerosa partecipazione e vi do appuntamento alla prossima serie di incontri che inizieranno a gennaio. Inoltre, ricordo che ogni mercoledì, alle ore 21, nella sede della nostra associazione, in Via Grassi 10, si tengono incontri di carattere teorico, quegli incontri che ci hanno visti impegnati, da vent’anni a questa parte, nella costruzione della scienza della parola. Sarete i benvenuti. Grazie a tutti, buona notte.