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Torino, 17 aprile 2007

 

Libreria LegoLibri

 

Da Freud a Wittgenstein: la logica della psicanalisi

 

lezione VI

 

 

Intervento di Daniela Filippini

 

Wittgenstein si interroga molto sulla conoscenza, su come certe affermazioni vengano poste in termini di certezza, cioè di come alcune proposizioni abbiano caratteristiche di enunciato di verità.

Affermazioni che comunemente iniziano con “Io so…”, dovrebbero parlare di “Io credo che…”.

Infatti non è vero che dalla dichiarazione dell’altro: “Io so che è così” si può concludere alla proposizione “È così”.

Prima si deve dimostrare che lo sa.

Egli distingue il grado della conoscenza da quello della credenza, anche se – per l’appunto – nel linguaggio comune i significati attribuiti a questi verbi si sovrappongono.

Conoscere è riferito a qualcosa che debba essere necessariamente vero.

Credere è riferito a qualcosa che si ritiene degno di fiducia, qualcosa che dovrebbe avere le caratteristiche di verità.

Sarebbe corretto il dire che: “Io credo…” ha una verità soggettiva, mentre “Io so…” non ce l’ha.

Con la parola “certo” esprimiamo la convinzione completa, l’assenza di ogni dubbio e con essa cerchiamo di convincere il nostro interlocutore.

“Io so” si riferisce a una possibilità di provare la verità.

Soggettiva è la certezza, ma non il sapere.

Poiché entrambi i verbi – il credere e il sapere - si riferiscono al concetto di verità, sarà necessario sottoporre la loro corretta applicazione ad un criterio che ne verifichi la condizione.

Il concetto di sapere viene riferito a questioni consolidate, talmente radicate nel nostro sistema di conoscenze, da non essere mai messe in discussione: io so che questa è la mia mano – dice Wittgenstein – come anche so che la terra esiste da molto tempo prima che io nascessi. Non ho un modo per provare la veridicità di queste affermazioni, se non la ripetizione di ciò che ho affermato: So che è così.

Nessuno si pone questioni come queste, perché queste affermazioni sono acquisite, rappresentano le basi del sapere degli umani e non vengono mai interrogate perché farlo significherebbe mettere in discussione ogni elemento del nostro pensiero.

Ogni parola ed ogni affermazione, così come le regole che utilizziamo per costruire le proposizioni, dovrebbero essere sottoposte ad un processo di verifica, una sorta di autenticazione.

Se dovessimo approfondire i concetti di base del nostro sapere, saremmo costretti in una paralisi di pensiero perché nessun elemento potrebbe più essere utilizzato secondo le regole e i significati che abbiamo imparato.

Questo sapere viene fatto risalire all’esperienza che si è fatta di alcune proposizioni, imparate con un certo significato e da utilizzare secondo determinate regole.

Il concetto di esperienza, riferito ad una proposizione, è da intendersi come la sua applicazione all’interno di un determinato contesto, senza che debba necessariamente esserci un effettivo vissuto del contenuto della proposizione.

Wittgenstein si interroga su come, nel discorso comune, molte certezze collettive siano basate su proposizioni generali assolutamente non fondate.

Che a un tizio a cui sia stato amputato il braccio, e il braccio non ricresca, è una di queste proposizioni. Che a un tizio, a cui abbiano tagliato la testa, sia morto e non ritorni mai più a vivere, è un’altra.

Si può dire che l’esperienza ci insegna queste proposizioni.

Ma non ce le insegna come proposizioni isolate. Piuttosto ci insegna una gran quantità di proposizioni tra loro connesse. Se fossero isolate potrei forse dubitarne, perché non avrei nessuna esperienza che le riguardi.

In quale momento si è costruito il sistema basilare delle nostre conoscenze, quelle per le quali riteniamo di poter utilizzare il verbo sapere?

Non può essere altro che il momento dell’installarsi del linguaggio, quando ci è stato insegnato come utilizzare termini e concetti che andavamo apprendendo dai genitori; le relazioni in cui porre questi termini e il contesto in cui dovevano essere utilizzati.

Non si tratta soltanto dell’imparare a parlare, ma di un apprendimento che precede quello della verbalizzazione; è l’apprendimento di come si fa a pensare, cioè a prendere come riferimento un certo elemento e da questo passare ad altri elementi connessi logicamente al primo, fino a concludere in un ultimo elemento che confermi la validità dei precedenti e della premessa.

Un significato di una parola è un modo del suo impiego. Perché è quello che impariamo quando la parola viene incorporata per la prima volta nel nostro linguaggio.

Quando cambiano i giuochi linguistici cambiano i concetti, e con i concetti, i significati delle parole.

Quello che si definisce un sistema inferenziale, la cui condizione è la possibilità di distinguere ciascun elemento da tutti gli altri, e il cui utilizzo è permesso dall’applicazione di certe regole che sono le regole della grammatica e della sintassi.

Si tratta dell’assioma di base della logica:

se A = B  e B = C       allora A = C

in cui viene definita la condizione di base (se A è uguale a B) e il passaggio (B è uguale a C) per cui è possibile giungere alla conclusione in cui risulti vero che A è uguale a C.

Ciò che abbiamo imparato è quindi l’utilizzo di una serie di regole, che non è variato significativamente dall’età della prima infanzia, mentre il contenuto del nostro sapere naturalmente si è modificato con le esperienze, le conoscenze via via acquisite, le variazioni nelle idee, nelle credenze, ecc.

Nella fase dell’installarsi del linguaggio – insieme all’apprendimento delle regole di funzionamento del gioco – alcuni concetti vengono a consolidarsi in modo definitivo e a costituire quello che ci porta ad affermare: Io so…

Concetti come la preesistenza della terra rispetto all’umanità, il valore oggettivo di ciò che viene percepito attraverso i sensi e quindi il concetto della realtà come elemento di paragone assoluto… elaborazioni come queste assumono il carattere di verità per il solo fatto di essere state tramandate dal discorso comune, diventando le premesse da cui verranno elaborate infinite proposizioni successive.

“La realtà delle cose è questa”, cioè “io so che la realtà è questa”.

Quando un tizio si è convinto di una certa cosa dice: Sì, il calcolo è giusto; ma questo non l’ha inferito dallo stato della sua certezza. Dalla propria certezza non si conclude allo stato di cose.

A un tizio cui si insegna a calcolare, s’insegna anche che può fidarsi di un calcolo eseguito dal suo insegnante? Ma una volta o l’altra queste spiegazioni devono pur aver termine. Gli si insegna anche può fidarsi dei suoi sensi – perché in alcuni casi gli si dice che in questo caso particolare così e così non può fidarsene?

Regola ed eccezione.

Così si calcola; in queste circostanze un calcolo viene trattato come incondizionatamente degno di fede, come sicuramente giusto.

Non è sufficiente essere assolutamente convinti di qualcosa per poter affermare che sia vero. È corretto affermare che lo si crede vero, non che lo sia in termini assoluti e validi in ogni circostanza.

L’utilizzo delle regole basilari del sistema operativo linguaggio, appare determinare una sorta di automatismo: le conclusioni elaborate man mano nel proprio discorso diventano la base di successivi rimandi e conclusioni, senza che ad esse venga richiesta una ulteriore verifica di verità. Ciò che è vero in funzione di un determinato gioco linguistico, assume una connotazione di verità assoluta, ormai separata dalle specifiche condizioni che ne hanno determinato l’insorgenza.

Spesso “Io lo so” vuol dire: ho buone ragioni per dire quello che dico. Quindi se l’altro conosce il giuoco linguistico dovrebbe ammettere che lo so. Se conosce il giuoco linguistico, l’altro deve essere in grado di immaginare come si possa sapere una cosa del genere.

Il concetto di sapere è analogo ai concetti credere, congetturare, dubitare, essere convinti, in questo: che l’enunciato “io so…” non può essere un errore. E se è così, allora, da una dichiarazione si può concludere alla verità di un’asserzione.

Wittgenstein pone l’accento sui giochi linguistici che determinano la verità delle affermazioni che elaborano; all’interno di tali giochi è innegabile che la conclusione sia certa, vera e dimostrabile. Ciò che sfugge è che, estrapolata da quel gioco particolare, la conclusione assolutamente vera e dimostrabile, cessa di avere qualsiasi significato.

E questo accade anche quando si parla di teorie illustri, scientifiche o riconosciute da soggetti molto autorevoli.

Ciò che non costituisce una costrizione logica è il fatto che ciascuna teoria si basa su degli assiomi, ai quali però non viene chiesto di essere provati. Ci troviamo di fronte, allora, a complesse elaborazioni teoriche, accessibili soltanto agli addetti ai lavori… nei confronti delle quali occorre un atto di fede!

Questo è il punto in cui si è arrestato il pensiero di Wittgenstein intorno al come si pensa e come si costruisce la propria certezza: i giochi linguistici sono eventi all’interno della realtà; la realtà è un insieme di molteplici giochi linguistici che vengono appresi e ritenuti validi qualora trovino un riscontro all’interno della realtà stessa.

Quella che si definisce comunemente “la realtà delle cose” è un entità che pre-esiste e prescinde da qualsiasi gioco e con la quale vengono rapportate tutte le proposizioni del sapere umano.

Wittgenstein non ha messo in discussione il concetto di realtà, come invece ha fatto chiedendosi perché e come so che questa è la mia mano. Non si è interrogato chiedendosi se anche il sistema che chiamiamo universalmente realtà - intendendolo come l’insieme di ciò che può essere osservato attraverso i sensi - anch’esso non fosse un gioco linguistico al pari di altri.

 

Possiamo definire cosa si intenda per gioco, cioè una serie di istruzioni operative che permettono di interagire con gli elementi con cui si vuole giocare.

Un gioco linguistico, dunque.

Un sistema organizzato da regole e fatto di elementi linguistici che sottostanno a quelle regole per costruire proposizioni.

Proposizioni che indicano che cosa sia l’esistenza e quali ne siano le caratteristiche; cosa si intenda per osservazione e relazione attraverso i sensi; e ancora, proposizioni che definiscano cose, animali ed eventi che – acquisiti all’interno del nostro sapere originario – diventano indiscutibili, effettivi, reali tanto da potervi fare riferimento dicendo “Io so…”.

Se la realtà è un insieme di definizioni condivise dal discorso comune, allora non è più il termine di paragone o il criterio con il quale verificare le affermazioni di un individuo o la fondatezza di una teoria.

La realtà non può più essere considerata come l’ambiente nel quale gli umani muovono i loro giochi linguistici, ma diventa anch’essa uno dei possibili giochi linguistici.

Questa affermazione può sembrare assurda, quanto chiedersi, come Wittgenstein, come so che questa è la mia mano. La realtà è sotto gli occhi di tutti e ciascuno ha ben presente cosa sia perché per il vivere quotidiano non è necessario interrogarsi su questioni come queste. Tuttavia, nell’ambito di una ricerca teorica sul sapere e sulla fondatezza delle conoscenze, anche la realtà diventa oggetto di interrogazione e deve dimostrare la necessità dei criteri che utilizza e la verità delle conclusioni alle quali giunge.

Se la realtà è un gioco linguistico al pari di altri, allora funzionerà secondo le regole del linguaggio e sarà costruito dagli umani come una serie di proposizioni valide e certe all’interno di quel gioco. E le regole quali sono? Le regole del linguaggio, appunto: il poter distinguere un elemento da un altro (questo è questo), la non contraddizione (questo è questo e non è contemporaneamente il suo contrario), la relazione inferenziale di un elemento con il suo conseguente.

Queste sono i fondamenti del come si pensa e si organizza qualsiasi pensiero perché non vi è altra alternativa: o qualcosa è un elemento linguistico oppure cosa sarà?

Non siamo in grado di dirlo, in quanto occorrerebbe uscire dal linguaggio e da lì valutare. Ma con cosa valuteremmo se non, di nuovo, con una serie di proposizioni, cioè di elementi linguistici?

Freud, anche se con modalità diverse da Wittgenstein, si è anch’egli posto il problema di come e quando vengono acquisite le conoscenze di un individuo.

Freud ha attribuito importanza prioritaria alle prime esperienze emotive dell’individuo, esperienze che hanno da subito una connotazione sessuale di confronto e antagonismo con il genitore dello stesso sesso, e di seduzione rispetto al genitore di sesso opposto.

Le pulsioni (desideri) sessuali sono il vero motore della curiosità infantile e il termine di paragone rispetto al quale si colloca qualsiasi emozione.

Potremmo dire che per Freud la realtà delle cose è permeata di desideri sessuali che le necessità culturali costringono a rimuovere, spostare, sublimare, rinnegare.

I veti sociali costringono a nascondere i desideri sessuali con affermazioni e comportamenti consoni ai costumi dell’epoca, senza averne la consapevolezza né tantomeno la responsabilità. Allora, per colui che ascolta il paziente affetto da strani sintomi non giustificati da alcuna patologia, è necessaria l’interpretazione di ciò che afferma il paziente; le sue proposizioni intendono significati occulti e rimandano a intenzioni diverse da quelle apparenti.

Detto in altre parole, ciò che una persona afferma, crede, agisce, non è sempre ciò che realmente desidera e di cui è responsabile. Esiste un non detto, un fra le righe, un inconscio appunto, qualcosa che è originato altrove e per altri motivi da quelli espressi.

Tutto sommato questa visione non attribuisce molta dignità all’individuo pensante, considerandolo incapace di intendere e volere.

Incapace di intendere, in quanto non consapevole dei proprio reali desideri.

Incapace di volere, in quanto vittima di pulsioni ed emozioni non controllabili e fuori della propria responsabilità.

Come se l’individuo non fosse in grado di gestire i propri pensieri e la propria condotta, come se qualcos’altro lo tenesse in suo potere.

Questo “altro” non è l’opinione comune, non sono le tradizioni, non è la realtà delle cose, non è la volontà di Dio e neppure il karma.

Questo non è, e non dovrebbe essere creduto tale.

Ma il problema è proprio questo: ciò che si crede vero, lo diventa; acquista il valore e la potenza di un enunciato di verità, come afferma Wittgenstein.

Ciò che si crede vero è il motore delle proprie azioni, la misura e il criterio con cui si valutano gli altri ed ogni azioni quotidiana.

L’unico vero percorso obbligato cui siamo costretti nel nostro pensare è dettato da una delle regole del linguaggio: la sola direzione possibile del pensiero è quella della verità: ogni affermazione (che sia chiedersi se è il caso di comprare il pane, oppure se continuare a vivere…) procede dalla risposta ad un criterio di vero / falso.

Se è vero, il discorso – cioè il pensiero, cioè l’azione – può proseguire; se è falso, il discorso immediatamente si interrompe.

La via è sbarrata nel momento in cui un elemento non è ritenuto vero – non in termini assoluti – ma all’interno del gioco linguistico nel quale è stato costruito.

Da queste considerazioni sembra affacciarsi uno spiraglio positivo: io sono l’artefice di ciò che penso e scoprire le ragioni per le quali oggi giungo a determinate considerazioni, rappresenta l’opportunità di non attribuire ad altri la responsabilità delle mia sventura, piuttosto che della mia fortuna, così come della mia felicità.

Io sono ciò che penso, io lo decido in quanto giudico vero qualcosa piuttosto che altro, in base ad un criterio di verità preferito rispetto ad innumerevoli altri possibili.

È il percorso a ritroso dell’analisi, in cui le affermazioni di un individuo debbono trovare una giustificazione nei passaggi che le hanno originate. Quale premessa, quale convinzione ha motivato la mia situazione professionale attuale? Lo stato civile? La condizione economica e le relazioni affettive?

Oggi sono il risultato di ciò che ho creduto vero forse dieci anni fa, senza mai saperlo e senza mai chiedermi per quali motivi si fosse formata questa convinzione.

In questi termini è difficile affermare che il funzionamento del linguaggio sia una conoscenza marginale nella vita di una persona.

Sapere come e perché un individuo pensa le cose che pensa, diventa un imperativo che ha come opportunità quella di agire la propria vita e come controindicazione la scelta del vittimismo più sterile.

Intervento: qual è la verità assoluta che tutti possono vedere?

La verità in termini assoluti sta nel poter credere qualsiasi cosa cioè nell’unica cosa che è necessaria per costruire qualsiasi convinzione, qualsiasi credenza e cioè che esista un sistema operativo che permette appunto la possibilità di pensare qualsiasi cosa, di farsi una domanda e di darsi una risposta perché al di fuori e senza questo elemento non sarebbe possibile nient’altro…

Intervento: lei dice che deve essere sottoposto a verifica?

Qualcosa che vuole essere definita come verità assoluta deve essere sottoposta a una verifica, deve essere fondato altrimenti diventa un’opinione al pari di infinite altre possibili quello che si sta cercando di trovare è quale sia… dove sia questa condizione di verità assoluta senza la quale non sarebbe possibile nient’altro e questo è quello che chiamiamo linguaggio cioè non la verbalizzazione di un pensiero, la teoria della propria specifica verità rispetto a qualsiasi argomento ma rispetto alla possibilità di pensare, la condizione di qualsiasi pensiero. Vuole aggiungere qualcosa Luciano Faioni?

 

Intervento di Luciano Faioni

 

È una questione interessante questa della verità e va presa seriamente: ora forniremo la verità assoluta. Innanzi tutto bisogna stabilire che cosa stiamo cercando, è importante se voliamo muoverci in una direzione anziché in un’altra, e allora diamo una definizione di verità, naturalmente come abbiamo appena detto non può essere un’opinione e cioè la verità particolare a ciascuno, ma qualcosa che deve potere essere riconosciuta da chiunque, comunque e necessariamente, cioè deve avere una caratteristica, quella della necessità nel senso che una volta stabilito cos’è la verità questa deve essere ciò che è e non può in nessun modo e per nessun motivo essere altro da ciò che è. Questi sono i criteri basilari e a questo punto la nozione di verità si accosta a quella di necessario, come ciò che è necessario che sia e che non può non essere in nessun modo ché se no non è una verità assoluta, è una verità particolare. Dunque dobbiamo cercare questo qualcosa che è assolutamente necessario che sia e che in nessun modo possa non essere, se la troveremo potremo chiamarla la verità assoluta, alla lettera senza soluzione, dove la cerchiamo e soprattutto con che cosa? Con il pensiero naturalmente, e chi ci garantirà che il nostro pensiero ci fornisca ciò che cerchiamo? Dovremo avvalerci di un criterio, di un metodo di ricerca, e qui si pone immediatamente un primo problema: come sapremo che questo criterio è vero se ancora non sappiamo cosa sia la verità? Questo è un primo quesito, allora la nostra attenzione verte intorno al criterio, trovare un criterio potente solido, inattaccabile, indubitabile, quale? Come sapete da sempre gli umani hanno cercato qualcosa del genere e ogni volta hanno dovuto abbandonare al ricerca perché il criterio si rilevava parziale e insoddisfacente, inadeguato. Ma tutti questi criteri che da duemila e cinque cento anni sono stati di volta in volta elaborati, hanno qualcosa in comune? Forse sì, sono stati costruiti tutti quanti con un sistema che è quello che permette di costruire un criterio, lo diceva prima Daniela in modo molto preciso, qualcosa che consente di pensare qualunque criterio e cioè una struttura che consente di distinguere un elemento da un altro e di dedurre un elemento da un altro, per il momento diciamo solo questo, però a questo punto abbiamo già una direzione di ricerca e cioè quella cosa che è comune in qualunque ricerca di qualunque criterio e pertanto anche di un criterio per stabilire cosa sia la verità. Si tratta di un sistema che deve essere alla base di tutto, che in definitiva è quello che consente a ciascuno di pensare e senza il quale non potrebbe pensare, se esistesse una cosa del genere avremmo fatto un notevole passa avanti, avremmo se non altro un’indicazione circa un criterio. Vediamo se riusciamo a trovare qualcosa che è comune a tutte le ricerche di qualunque criterio, come si costruisce un criterio? Si parte da qualcosa che si ritiene vera dopodiché si deduce una conseguenza che deve essere coerente con la premessa, in fondo l’unico requisito che si richiede è che ciascun passaggio che muove dalla premessa non la contraddica, se la contraddice c’è un problema, ma se non la contraddice può proseguire, può andare avanti fino a stabilire un’altra affermazione vera, se segue dalla premessa e i passaggi sono coerenti ciò che concludo dovrà essere vero, e questo è un elemento in più, però che cos’è che mi costringe ad usare questo sistema? E cioè muovere da una premessa, costruire dei passaggi che siano coerenti con la premessa, perché devono essere coerenti con la premessa? Non posso costruirli assolutamente incoerenti, anzi contraddittori con la premessa e di lì proseguire? Sì o no? Se sì allora abbiamo risolto ogni problema perché come già gli antichi avevano avvertito ex falso quodlibet e cioè da una conclusione falsa può trarsi qualunque cosa e il suo contrario indifferentemente, e a questo punto il problema della ricerca della verità si annullerebbe da sé perché la verità sarebbe qualunque cosa e il suo contrario; dunque escludiamo una delle due possibilità e allora dobbiamo rispondere alla domanda precedente: no, non possiamo accogliere una conclusione che muova da una certa premessa e che sia contraddittoria con la premessa, dobbiamo necessariamente accogliere quella che è coerente con la premessa, ma chi ci costringe a fare questo? Quella stessa cosa che costringe e che ha costretto gli umani da sempre a cercare la cosa alla quale tengono di più, per la quale come dicevamo forse anche la volta scorsa sono pronti a morire o a uccidere a seconda dei casi: la verità. Ma ancora dobbiamo trovarla, quindi dobbiamo fare qualche passo indietro. C’è qualche cosa che sta alla base, qualche cosa che sembra non potersi in nessun modo e per nessun motivo contraddire e che deve esserci necessariamente in qualunque percorso che punti ad essere coerente, per il momento non tocchiamo ancora la verità parliamo solo di coerenza, che cos’è? Perché siamo costretti, perché gli umani sono costretti a pensare in un certo modo? Per cui, per esempio, se rilevano che ciò che hanno pensato, immaginato, congetturato, è falso allora non lo seguono più e vanno in un'altra direzione e cercano qualcosa di vero, cos’è che li costringe a fare una cosa del genere? In teoria non dovrebbe esserci niente però sembra, e questo anche i logici lo hanno riscontrato, c’è qualche cosa che appare come intuitivo, e cioè che le cose debbano essere così e che non possano essere altrimenti perché se fossero altrimenti cesserebbe la possibilità stessa di pensare cioè di trarre qualunque conclusione, senza la quale gli umani cesserebbero di essere in grado di concludere qualcosa, quindi di prendere una decisione, quindi di pensare qualcosa, quindi di decidere, di scegliere. Al punto in cui siamo non ci resta che un passo da fare, perché abbiamo tutti gli strumenti. Riassumiamo il percorso che abbiamo fato fino ad ora: abbiamo individuata una struttura che è alla base non solo di ogni pensiero ma della possibilità stessa di pensare, che è quella che ci dice che un elemento deve essere differente da un altro, e quella che ci consente di dedurre un elemento da un altro, questa è la base, il fondamento, senza questo non c’è nessuna possibilità di pensiero. Supponiamo di chiamare questa struttura fondamentale di cui vi ho parlato “linguaggio”, supponiamo di chiamarla così, potrei anche chiamarlo “sistema lambda”, ma creerebbe solo delle complicazioni. Dunque decidiamo di chiamare questo sistema “linguaggio”, che potrebbe apparire a prima vista una sorta, per usare una metafora informatica, di sistema operativo, cioè quello che consente di potere muovere qualunque cosa e senza il quale non si muove niente perché non si pensa, perché come abbiamo detto non si è nelle condizioni di trarre una benché minima conclusione. Se non si possono trarre conclusioni non si può pensare, quindi non si possono fare domande, non potendosi fare domande è ovvio che non si danno neanche risposte.

Torniamo al criterio. Gli umani hanno considerato in questi ultimi duemila e cinquecento anni che qualunque criterio è risultato arbitrario, vale a dire che richiedeva necessariamente un qualche cosa che lo giustificasse, il problema è sempre stato trovare qualcosa che si giustificasse da sé, e cioè trovasse in sé la propria completezza e la propria coerenza e non dovesse cercarla altrove, se no si innesca immediatamente quella cosa che per gli antichi era una maledizione e cioè la regressio ad infinitum e non se ne esce più, dunque qualcosa che abbia in sé il motivo della propria esistenza, qualche cosa di molto simile a ciò che Aristotele chiamò il motore immoto, qualcosa che non ha bisogno di altro per essere mosso, i cristiani ci hanno messo dio, però a un’analisi attenta tutta la questione è risultata poco sostenibile se non come un atto di fede, e a quel punto ogni argomentazione si interrompe. Dunque tutti i criteri sono risultati arbitrari, inadeguati e insostenibili, ma se noi ponessimo a fondamento quella cosa che è la base per costruire qualunque criterio avremmo risolto il problema perché a questo punto è come se fossimo giunti a una sorta di fine corsa, in questo senso abbiamo indicato il linguaggio come una struttura, un sistema operativo che è fatto di un paio di istruzioni e cioè: qualunque cosa deve potere essere distinta da altre e qualunque cosa deve potere dedurre un’altra cosa, mettiamola così adesso, provvisoriamente. Mettendo dunque il linguaggio a fondamento di un criterio allora costruiamo un criterio che ha come regole unicamente quelle che fanno funzionare il linguaggio, qualunque definizione avremo data di verità sarà stata costruita attraverso questo sistema operativo, quello che chiamiamo il linguaggio, cioè sarà lui che l’avrà costruita e quindi lui deciderà che cosa è vero e cosa no in base al criterio di cui è fornito che è esattamente quello che lo fa funzionare per cui, diciamola in modo molto spiccio per il momento, poi eventualmente vedremo se è il caso di approfondire: è vero tutto ciò che gli consente di funzionare e chiama falso ciò che glielo impedisce. In fondo è un sistema binario, lo stesso sistema con cui funziona il computer vero/falso una porta aperta, una porta chiusa, di qui si passa di lì no, non è che il linguaggio funzioni come i computer, sono i computer che funzionano come il linguaggio, essendo stati costruiti da noi gli abbiamo immesso il nostro modo di pensare ovviamente, quindi il vero e il falso non sono altro, come direbbe Jakobson, degli shifters, e come indicatore indica semplicemente se la direzione è percorribile oppure no, è percorribile se non nega il funzionamento del linguaggio, se la nega allora non è percorribile per un motivo, adesso vi dico anche questo, può il linguaggio negare se stesso? Nell’istante stesso in cui lo fa, necessariamente afferma la propria esistenza perché per poterlo fare deve costruire una proposizione che lo neghi, costruendo questa affermazione già è attivato, cioè già sta funzionando, per potere negarsi deve necessariamente confermarsi, ecco perché di fronte a qualcosa che nega la propria esistenza si arresta, non può proseguire trova, quella curiosa struttura nota da sempre come paradosso, una proposizione che afferma di sé che è vera se e soltanto se è vera la sua negazione. Il paradosso più antico e forse più famoso è quello di Epimenide cretese, che dice: “tutti i cretesi mentono” mente o dice la verità? In quanto cretese mente, però mentendo dice la verità perché tutti i cretesi mentono. Ecco questa è la forma più semplice e più comune e più antica di paradosso e cioè un’affermazione che è vera se e soltanto se è falsa, potremmo dirla così, ecco che negandosi il linguaggio costruisce questa bizzarra struttura e cioè il paradosso, e l’origine di tutti i paradossi è la proposizione che afferma che qualcosa è fuori dal linguaggio, il linguaggio non può negare se stesso in nessun modo, non lo può fare perché costruisce una proposizione che dice di sé di essere vera ma per poterlo affermare deve stabilire che è falsa, allora non sa che direzione prendere e di conseguenza non prosegue. Allo stesso modo come farebbe lei se mi chiedesse “dove ha parcheggiata la macchina?” e io rispondessi indicando due direzioni opposte, cosa se ne farebbe di questa informazione? Niente, sarebbe un’informazione totalmente inutile, e per il linguaggio negare se stesso costruisce una proposizione che è totalmente inutile per il suo proseguimento perché non sa dove andare e per proseguire ha bisogno di una direzione: questa è l’unica cosa che sa fare il linguaggio, costruire proposizioni, non sa fare nient’altro, è limitato costruisce solo proposizioni e naturalmente deve seguire quella direzione che non nega il suo funzionamento perché se lo nega abbiamo visto che si arresta, e per questo deve seguire quella direzione che noi comunemente chiamiamo vera; chiamiamo vera quella direzione nella quale il linguaggio prosegue, semplicemente. Abbiamo visto prima che la logica stessa non fa altro che applicare le regole del funzionamento del linguaggio, la logica ha posto questo, e cioè un principio fondamentale, vale a dire che la conclusione non deve negare la premessa, se la nega sono aperte tutte le direzioni, qualunque direzione è percorribile quindi nessuna, ecco perché ha bisogno di quella cosa che si chiama verità cioè di una direzione. La prima domanda che ci siamo posti cercando la verità era qualcosa che fosse assolutamente necessario, che non potesse non essere in nessun modo e abbiamo visto che l’unica cosa che poteva rispondere a un requisito così potente era qualcosa che fosse la condizione di questo stesso domandare, supponiamo ora che io affermi che qualsiasi cosa è un elemento linguistico…

Intervento: anche il mio raffreddore lo è?

Il suo raffreddore, pensi un po’, se non fosse mai esistito il linguaggio lei non avrebbe nessuna possibilità ovviamente di sapere che è un raffreddore, non avrebbe nessuna possibilità di avvertire qualche cosa. Facciamo un’ipotesi per assurdo, usiamo un gioco che fanno i matematici talvolta, supponiamo che non esista il linguaggio, facciamo questa ipotesi, lo cancelliamo, non c’è più, anzi non è mai esistito, è un problema, a questo punto ci troviamo in una situazione bizzarra dove non possiamo costruire nulla, nessun pensiero naturalmente, con che cosa lo costruiremmo? Quindi nessuna considerazione, nessuna conclusione, non posso neppure pensarmi esistente e neanche pensare tout court, non mi posso pensare, posso considerare che esisto? Con che cosa? Posso affermare la mia esistenza? No. Esisto lo stesso? A questo punto se io non posso né nessun altro al mondo né prima né dopo di me può considerare la mia esistenza, ha un senso chiedermi se esisto? Visto che per altro non posso nemmeno farlo, non ha nessun senso cioè è, come direbbe Wittgenstein che prima Daniela citava, un non senso, è una domanda che non ha possibile risposta così come la domanda che chiede “cosa c’è prima del linguaggio?” oppure “come saremmo se non ci fosse il linguaggio?” queste domande sono dei non sensi, significa che posso metterci qualunque risposta e la sua contraria e va sempre bene perché non c’è una risposta che risulti vera, qualunque risposta è totalmente arbitraria, vera, falsa, quello che vi pare tanto non c’è nessun modo per verificarla perché si dovrebbe uscire fuori dal linguaggio e da lì considerare la questione, ma se è fuori come fa? Certo gli umani sono particolarmente affezionati a questa nozione di realtà e quindi di verità, ciò che è reale si considera per definizione vero, cionondimeno la nozione di verità ha creato molti problemi mentre la nozione di realtà molti meno, perché la verità è un termine che ha occupati i filosofi, i logici in parte anche i matematici, la realtà no, qualche filosofo ma di sicuro non i logici che non si occupano di realtà, mentre della realtà si occupa ciascuno nel quotidiano “è reale tutto ciò che si vede” questo è il criterio fondamentale come diceva giustamente Daniela, tutto ciò che cade sotto i nostri sensi lo chiamiamo reale, e va bene questo gioco, ché è un gioco, ha molti utilizzi ma il fatto che abbia molti utilizzi non lo rende per questo necessario, tant’è che questo criterio può essere sostituito da un altro, per esempio: esiste tutto ciò che dio desidera che esista perché se dio cessasse di desiderare che in questo momento esista questo aggeggio lo farebbe scomparire, quindi è lui che fa esistere le cose, non esistono di per sé e quindi sì, io le vedo certo, ma è dio che vuole che io le veda e quindi permette la mia visione. È un criterio anche questo, non è né migliore né peggiore di infiniti altri, né è più o meno dimostrabile di infiniti, altri l’unica cosa che è dimostrabile è quella che risalendo nella scala della gnoseologia, cioè della scienza della conoscenza arriva fino all’elemento che è condizione di tutti quanti e cioè quella cosa che abbiamo chiamato linguaggio, allora torniamo alla domanda originaria: affermare che qualunque cosa è un elemento linguistico risulta necessario, se non fosse un elemento linguistico sarebbe fuori dal linguaggio, se fosse fuori dal linguaggio non sarebbe conoscibile in nessun modo, sarebbe fuori da ogni portata né si potrebbe porre la possibilità della conoscenza perché per potersi conoscere deve appartenere a questa stessa struttura che chiamiamo linguaggio, allora affermare che qualsiasi cosa è un elemento linguistico appare quella cosa che gli umani hanno cercata da sempre e cioè la verità assoluta, quella cosa che non può essere negata. Ci sono molti modi per mostrare come e quanto questa affermazione “qualsiasi cosa è un elemento linguistico” sia solida e inattaccabile, ci sono argomentazioni logiche, retoriche a seconda di quelle che preferisce, quelle logiche sono quelle che convincono, quelle che piegano la ragione, quelle retoriche quelle che muovono la passione per fare una distinzione di massima, ma ho soltanto aggiunto una nota a margine all’intervento di Daniela e all’interno del dibattito…

Intervento: va bene… si tratta di una ginnastica intellettuale ancor prima di capire che cosa si intenda con linguaggio, però uno può dire qualsiasi cosa con le parole, dire delle verità… però adesso ho cominciato a capire che la verità assoluta non esiste…

Come? L’ho appena mostrata…

Intervento: cioè il linguaggio

Esatto, allora ha visto che ha inteso perfettamente, l’unica cosa che è a fondamento di qualunque cosa sulla quale si costruisce anche, per esempio, un’argomentazione che dice che questa affermazione è falsa necessita del linguaggio, quindi ha colta la questione centrale, in realtà l’ho fatta lunga per essere più chiaro se non avrei potuto dire quello che ha detto lei e bell’e fatto. Qualcun altro?

Intervento: subito dopo quello che è stato esposto diciamo la teoria del linguaggio, diciamo la sintesi che ha comportato anche un lavoro di diversi anni giungere a queste considerazioni ecco che il passo successivo è la psicanalisi perché… porre i fondamenti della teoria del linguaggio ha posto la questione a che cosa serve… ovviamente bisogna tenere conto del fatto che questa teoria viene dalla psicanalisi cioè viene da persone che si sono occupate di psicanalisi…

Sì anche perché io faccio lo psicanalista, il mio interesse è la psicanalisi, il pensiero, quindi il modo in cui funziona il pensiero…

Intervento: sembra persino banale dirlo ma proprio perché lo psicanalista si occupa di parole, discorsi, di racconti, vicende è assolutamente essenziale che conosca la teoria del linguaggio proprio perché in questo modo sa anche che cosa ascoltare, impara ad ascoltare perché per porla in termini molto banali il sapere per esempio che la condizione di qualunque cosa è il linguaggio e quindi qualunque cosa è un elemento linguistico comporta questa semplice e banalissima conseguenza che ciò che si ascolta non occorre riferirlo o riportarlo a qualche cosa che non è linguaggio ma che si immagina che esista da qualche parte parliamo della struttura psichica, parliamo dell’inconscio, parliamo della mente, parliamo di qualunque cosa che si è inventato e sulla quale alcune discipline hanno sopravissuto, non vissuto… ovviamente se non si coglie da dove viene la questione anche rispetto a un qualunque discorso che si ascolti se ci si accorge che la questione viene dal linguaggio quindi viene dal modo di pensare, dalla struttura di discorso che comunque è condizionata da quello che è il suo fondamento il linguaggio a questo punto se si ascolta il referente in qualcosa che non è linguaggio, è chiaro che non si coglierà mai la questione…

La realtà fuori dal linguaggio è un mito come l’unicorno, un mito che è stato molto utile certo perché ha sempre costituito il maggiore richiamo per i cittadini, per i sudditi ad attenersi alla realtà delle cose senza grilli per il capo, come diceva mia nonna, ma con i piedi per terra, il che si riduce ad uno slogan di qualche decennio fa “credere, obbedire, combattere” e cioè in definitiva adeguarsi a ciò che si stabilisce che sia la realtà, che di volta in volta si può modificare e una volta stabilita ci si attiene al criterio ufficiale, però in fondo è quella realtà quella che esponeva Platone: “tu sei figlio del ciabattino e quindi da grande dovrai fare il ciabattino non potrai mai diventare uomo di stato perché il figlio del ciabattino dovrà fare il ciabattino”. Lo stesso Platone sapeva che era una menzogna, nobile l’ha chiamata, perché nobile? Perché è quella che consente di mantenere l’ordine sociale, e come si mantiene l’ordine sociale? Con persuasione, poi con l’avvertimento e infine con la pena, anche la mafia fa così. Dunque la realtà, seppure questo concetto ha come dicevo prima un utilizzo continuo da parte di ciascuno, è uno dei giochi più utili e più praticati, basta sapere che è arbitraria, solo questo, in fondo ho parlato tutto questo tempo per dirvi solo questo: che la nozione di realtà, ciò che comunemente si chiama realtà è un gioco linguistico, un concetto arbitrario, cioè non è necessario, e il fatto che non sia necessariamente vero comporta una cosa importante: non è necessario crederci. Non essendo necessario crederci allora ciascuno si assume la responsabilità di quello che sta facendo, del fatto di crederci per esempio, portando la cosa alle estreme conseguenze anche il fatto che io stia vivendo è un gioco linguistico del quale mi assumo al responsabilità, io decido se vivere oppure no, se voglio vivere, vivo, se non voglio vivere non vivo e quindi il fatto di essere qui, di respirare etc. è frutto della mia decisione che è quella di continuare a vivere, ma non è necessario, è una decisione anche questa, e della quale sono responsabile, e a cascata tutte le altre decisioni che ciascuno prende durante l’arco della giornata. Diceva bene Daniela, la psicanalisi, o meglio buona parte della psicanalisi, non tutta fortunatamente, ma per esempio lo junghismo ha posto degli archetipi, strutture originarie uguali per tutti e dalle quali nessuno può uscire. Per questo dicevamo forse qualche tempo fa l’analista junghiano cerca di persuadere l’analizzante che le cose stanno così e non ci possiamo fare niente, facciamocene una ragione tanto non possiamo fare niente, come dire che veniamo da un archetipo che è quello e quello è il nostro destino. Però Jung vedeva anche la madonna e quindi non è così attendibile, sì aveva delle visioni, è un fatto poco noto. La questione della responsabilità dunque, una psicanalisi punta soprattutto a fare in modo che la persona incominci ad accogliere la responsabilità del suo dire, dei suoi pensieri, di ciò di cui e per cui vive anziché attribuire la responsabilità all’altro, alla cattiveria dell’altro, ai mali del mondo, possiamo anche attribuirglieli ma non cambia una virgola. Che cosa è cambiato nel mondo in questi ultimi duemila e cinquecento anni a parte qualche aggeggio tecnologico? Il modo di pensare non è cambiato, non è cambiato assolutamente niente. Se qualcuno avesse voglia di farlo, adesso dico un dettaglio, avesse voglia di andare a prendersi il famoso processo intentato dallo stato di Roma contro Verre, è esattamente il processo cosiddetto Mani pulite, né più né meno, stesse accuse, stessi fatti, situazioni, stessa difesa, o prendete i testi degli antichi, le domande sono le stesse, il modo di pensare è esattamente lo stesso e fino a quando non si modifica il modo di pensare non ci sarà nessun modo perché cambi assolutamente niente, fra cinque mila anni sarà tutto esattamente come adesso, con qualche aggeggio in più forse, ma il modo di pensare sarà lo stesso…

Intervento: gli stessi conflitti, le guerre gli umani pensano che basti mettere le bandierine con pace alle finestre credendo di poter esaudire a questo desiderio di pace e non si accorgono che finché non si cambia il modo di pensare, non si muta il modo di pensare sono i conflitti che forniscono lo spettacolo più grande e irrinunciabile…

È noto che affinché la pace sia definitiva e duratura occorre l’ultima guerra, qualunque guerra è sempre l’ultima guerra, combattuta perché non ci siano più guerre. Dunque cambiare il modo di pensare, è questa la scommessa, è questa la posta in gioco, un modo di pensare che non è più debitore del vero e del falso creduti necessari, di un vero creduto necessario e che tale non è ma è assolutamente arbitrario per cui non è più necessario uccidere o uccidersi per questo poiché vale quanto la sua contraria, è un gioco, se invece si crede che sia vero, che sia reale, che sia necessario allora sì, allora vale la pensa mettersi una cintura di esplosivo etc. Cambiare il modo di pensare in modo radicale e definitivo e irreversibile è forse la scommessa più importante che abbiamo posta in essere una quindicina di anni fa, un modo di pensare che punta alla libertà assoluta, libertà assoluta dalla possibilità stessa di avere paura di qualunque cosa e non avendo paura non si reagisce di conseguenza…

Intervento: forse che serve a qualcosa riflettere sulla condizione per cui qualsiasi esista e cioè il linguaggio? riflettevo sul non avere paura, io ho paura dell’ascensore…

Cosa le ha fatto?

Intervento: paura di rimanerci dentro…

È seccante se si hanno degli impegni urgenti rimanere chiusi dentro delle ore, è molto seccante, però lei dice che ha paura, che è diverso. C’è forse qualche cosa che lei ritiene assolutamente vera e tale per cui questa eventualità le mette paura? Se lei ritenesse che quella cosa che le mette paura, che non è tanto rimanere chiusa in ascensore ma ciò che il rimanere chiusa in ascensore per lei rappresenta, se questa cosa cessasse di essere vera e fortemente creduta lei cesserebbe di avere paura…