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VERITÀ vs SCETTICISMO

 

16/3/1999

 

Questa sera incominciamo una serie di incontri dedicati alle controversie dialettiche e cioè metteremo in atto tutto ciò di cui abbiamo parlato negli incontri precedenti per quanto riguarda la retorica in particolare. I due corni del dilemma di questa sera sono la verità e lo scetticismo. Come sapete, generalmente si oppongono lo scettico, per lo più nei confronti della verità, e il sostenitore della verità che fugge dallo scetticismo, dal dubbio. Lo scetticismo ha e ha avuto moltissimi sostenitori con ottime ragioni. Sapete che è una controversia antichissima quella tra verità e scetticismo e di volta in volta ha avuto la supremazia l’una e poi l’altro. Oggi lo scetticismo pare avere moltissimi seguaci che sostengono che la verità in quanto tale non può essere reperita e, pertanto, chiunque si professi sostenitore della verità o peggio ancora portatore della verità viene guardato malamente e considerato ancora peggio. Ma dicevo che lo scetticismo ha buoni argomenti a suo favore. In prima istanza, almeno lo scetticismo più recente considera due argomenti molto forti; il primo è che una qualunque cosa che si proclami la verità non può essere provata tale per via di una sorta di regresso all’infinito in quanto qualunque prova possa fornirsi a vantaggio della verità necessiterà di un’altra prova che verifichi la prova e così via all’infinito; il secondo argomento altrettanto robusto è che una qualunque definizione possa darsi di verità sarà arbitraria, vale a dire non potrà provarsi in nessun modo che tale definizione sia necessaria. In questo modo lo scetticismo elimina ogni possibilità di potere stabilire da parte di chicchessia una verità ultima; considera eventualmente la nozione di verità come relativa e cioè decide che la definizione di verità non sia altro che l’essersi attenuti con precisione e scrupolo alle regole di formazione stabilite in precedenza per definire la verità di una proposizione e quindi la accoglie unicamente nell’ambito di un gioco particolare. Tutta la filosofia o comunque il pensiero in questo ultimo secolo (anche il precedente) sempre più si è volto in questa direzione. Pensate alla famosa crisi dei fondamenti, a cavallo fra il secolo scorso e questo, che ha indotto ad abbandonare la possibilità di potere garantire l’esistenza di qualcosa di certo, di sicuro, di costrittivo a vantaggio di una posizione più relativistica e cioè relativa, come dicevo prima, alle regole del gioco che si sta giocando. In altri termini ancora, pare che la nozione di verità che cercavano per esempio i filosofi medioevali, come adæquatio rei et intellectus, sia stata abbandonata e relegata nell’ambito della fede e cioè di quel movimento del pensiero che esclude per definizione la prova. Credo quia absurdum diceva già Tertulliano, tanti anni fa. Ma in che modo giunge a stabilire che la verità non può essere stabilita in nessun modo? Supponiamo che la verità sia P e debba essere comunque secondo la definizione più antica ciò che è e che non può non essere. Ora, a partire da questa definizione lo scettico inizia a demolire qualunque considerazione o qualunque argomentazione a favore della verità chiedendo per esempio continuamente la prova di ciò che si sta affermando. In questo modo costringerà il sostenitore della verità a una ricerca continua di una verità o comunque di un criterio superiore, cadendo nella trappola dello scettico il quale gli dimostrerà l’inesistenza della verità, proprio per questa costrizione a cercare sempre un criterio di livello superiore. Dunque la verità in quanto tale non soltanto non può essere né trovata né provata ma l’idea che se ne dia una è risultata una fra le cose più dannose per l’umanità. Non soltanto il cercare la verità è un’inutile perdita di tempo ma se qualcuno dovesse mai credere di averla trovata questo costituirebbe un problema e un danno. Un problema perché a questo punto cessa l’indagine, la ricerca. Chiaramente la verità si pone, per definizione, come l’ultimo termine della ricerca o quell’elemento presso cui la ricerca tende, dunque se pensassi di averla trovata la ricerca si arresterebbe perché non potrebbe darsi nessun elemento superiore. Dunque, un danno per il pensiero che sarebbe mortificato necessariamente e un pericolo, un pericolo perché tutti coloro che suppongono o comunque credono di averla trovata o di possederla si trovano nella posizione e nella condizione di imporla ad altri, perché la verità escludendo per definizione qualunque altro elemento in quanto falso, costringe chi la possiede, chiamiamolo così, a considerare tutti gli altri, cioè tutti coloro che non la accolgono, come persone necessariamente nel falso o per mancanza di informazione o per malafede e pertanto farà di tutto, così come è avvenuto da sempre, per costringere quest’altra persona ad accogliere la sua verità alla quale non può rinunciare. La verità è costrittiva, costrittiva in quanto costringe a muoversi in una certa direzione se io so che quella direzione è vera. Non è il caso nemmeno di menzionare tutte le guerre che sono state fatte, i massacri inenarrabili in nome della verità, per lo più religiosi, e dunque ci sono ottimi motivi logici e non soltanto per abbandonare non soltanto l’idea della verità ma per dissuadere chiunque sia dal cercarla sia dal pensare di averla trovata. Cosa comporta la supposizione di possedere la verità? L’intolleranza e l’arroganza. L’intolleranza per tutto ciò che di falso, cioè che non collima con ciò che è ritenuto essere la verità, e l’arroganza che immagina di possedere qualcosa che ad altri sfugge, una sorta di superiorità. La più parte delle persone che sono fondamentaliste, integraliste, di qualunque religione, mostrano questo lato arrogante come se il fatto di possedere questa o quella verità costituisse una sorta di elezione. È appena il caso di citare il popolo eletto. Dunque, la ricerca della verità è stata abbandonata per lo più a vantaggio, come vi dicevo, di una verità relativa e cioè di qualcosa che mostra una certa utilità. Potremo dire che l’idea di verità assoluta è stata abbandonata a vantaggio di un’altra nozione di verità e cioè quella che riguarda l’utile, l’utile per sé e per la comunità, ovviamente. In questo lo scetticismo non ha torto e non è un caso che abbia moltissimi seguaci, una sorta di relativismo del pensiero. Capita spesso di ascoltare la frase "tutto è relativo" "questa è la tua verità" o "la sua verità ma non la verità assoluta" cioè non quella che costringe all’assenso, "tu credi che questa sia la verità" o "lo credi in questo momento però non è la verità assoluta". Sì, perché la verità assoluta è quella che cercavano gli antichi, i filosofi, i sofisti, ma non soltanto…la quale doveva avere questo potere costrittivo, cioè costringere all’assenso. Però non ha torto lo scettico, come trovare la verità? Dove e con quali strumenti? E quale criterio utilizzeremo per sapere che è la verità? Chi ci garantirà che il criterio che stiamo utilizzando è quello giusto? Dovremo già avere una nozione precisa di verità per potere stabilire che il criterio che utilizziamo è quello giusto altrimenti come lo sappiamo? Infatti, come sappiamo che la ricerca scientifica tende alla verità? In base a quale criterio? Se non c’è nessuna verità qualunque direzione va bene, è assolutamente indifferente ma, se esiste, come reperirla? In effetti è un problema, quale criterio utilizzeremo mai? E poi, come abbiamo visto, occorre già avere la nozione di verità per potere trovare un criterio che ci consenta di trovarla. Ci troviamo quindi in una sorta di circolo vizioso, ciononostante ultimamente anche la verità è piuttosto bistrattata e abbandonata dalla più parte dei filosofi, degli scienziati, dei logici, tuttavia mantiene una certa valenza nel discorso di ciascuno. Chi per esempio non preferirebbe che gli si dica la verità anziché una menzogna? Molto spesso accade di domandare "ma è vero quello che stai dicendo?" "è vero quello che mi racconti?" oppure "è falso?". A che scopo questa domanda? Propriamente, se io so che una certa informazione che mi viene fornita è vera la utilizzo in un certo modo, se so che è falsa in un altro. Se mi dicono che ho vinto un miliardo, e so che questa informazione è vera, la utilizzo in modo differente di come la utilizzerei se sapessi che è falsa. Come è rientrata qui la nozione di vero e falso? In che modo e perché? Abbiamo appena detto che non soltanto non ha nessuna possibilità di essere reperita se non all’interno di un gioco ma basta cambiare le regole del gioco e cambia tutto. Ma è proprio così? Oppure qualunque sia il gioco che io vado giocando, comunque preferisco che mi si dica la verità anziché mentire e perché? Sì, abbiamo detto, perché le utilizzo in un modo differente, ma perché le utilizzo in un modo differente anziché utilizzarle esattamente allo stesso modo? È una questione, perché abbiamo mostrato l’inutilità di questa nozione che tuttavia invece sembra insistere a dispetto di quanto stiamo dicendo. Si tratta di definirla in un altro modo oppure mantenendo la stessa definizione ci è forse sfuggito qualcosa? Se la verità in nessun modo posso trovarla, posso reperirla, posso stabilirla, a che serve che io sappia se una cosa è vera o falsa? Niente, assolutamente niente. Oppure, oppure siamo stati un po’ frettolosi nel liquidarla questa verità dal momento che c’è un qualche cosa che non possiamo eludere in tutto ciò che andiamo dicendo. Intanto riprendiamo la definizione che abbiamo fornita, quella più antica, quella più accreditata, e cioè come ciò che è e che non può non essere. Se da una parte abbiamo visto che non è possibile stabilire nulla che risponda a questo criterio, d’altra parte dobbiamo quanto meno considerare che per giungere a questa considerazione abbiamo utilizzati degli strumenti, per esempio, la deduzione, l’induzione, varie forme di inferenza insomma, queste è necessario che siano oppure no? Parrebbe di sì perché in assenza di questi elementi non avrei potuto giungere alla conclusione, appunto quella per cui non c’è la verità. In altri termini ancora, per potere stabilire che non c’è la verità necessito di alcuni strumenti, questi strumenti occorre che ci siano e non possono non esserci. Sono strumenti oserei dire fondamentali e se la verità, così come l’abbiamo indicata, non è altro che ciò che è e che non può non essere, questi strumenti di cui ho detto rispondono a questi requisiti. Parrebbe, perché se non ci fossero non potrei considerare né concludere alcunché, né questa cosa né nessun altra. Tuttavia, resta la considerazione, che abbiamo fatta all’inizio, piuttosto potente, che non c’è nessun modo per reperire la verità, perché qualunque definizione io dia sarà sempre arbitraria. Non potendo in nessun modo trovare una definizione necessaria, qualunque definizione, rimanendo arbitraria, sarà nulla e quindi, non potendo stabilire con precisione esattamente che cos’è, non la potrò trovare perché non saprò che cosa sto cercando. Questa affermazione che ho fatto è vera o falsa? Potremmo dire che è logicamente vera ma non lo possiamo fare perché abbiamo appena detto che la definizione di verità è arbitraria, quindi potrei dire che è una verità soltanto legata al gioco che sto facendo, dunque fuori da questo gioco non ho più niente, ma il gioco che sto facendo è un gioco tratto della logica per cui se A allora B e se B allora C e allora se A allora C, semplice! È vero o è falso? È vero in base a un criterio ovviamente, questo criterio possiamo dire che è falso? È un problema, perché per farlo utilizzeremo lo stesso criterio, come dire che per demolire un certo criterio necessito di quello stesso criterio, che è un bell’impiccio….o ne utilizzo un altro? Quale? Quale che non sia una strumento logico, chiamiamolo così? Come dire che per affermare in modo categorico che la verità non esiste occorre che io assuma un criterio, mi attenga a questo criterio e questo criterio possiede, che lo voglia oppure no, un criterio di verità, necessariamente. È una sorta di gioco degli specchi antico. Prendete per esempio la deduzione, ciascuno di voi sa che è un sistema inferenziale molto utilizzato, molto semplice. Ebbene, esiste una dimostrazione che prova la validità della deduzione, tuttavia fra i vari passaggi per la dimostrazione del teorema di deduzione è necessario l’inserimento dell’induzione; lo stesso vale per provare l’induzione, come dire che per provare l’induzione occorre la deduzione e per provare la deduzione occorre l’induzione. Ciò che stiamo incontrando è qualcosa di simile, per provare la non esistenza della verità pare che occorra un certo criterio e questo criterio ha fra le sue regole l’esistenza della verità. Questione bizzarra dal momento che la questione appare come una sorta di impasse, di impossibilità a proseguire, in modo non del tutto differente da ciò che accade molto spesso in qualunque discorso che svolga questioni magari apparentemente meno astratte, il quale discorso si trova in un’impasse, incontra cioè una sorta di impossibilità a proseguire, è come se fosse costretto a scegliere delle due l’una, perché una sola può esser accolta, perché se una è vera, l’altra è necessariamente falsa. Possono essere vere due proposizioni contraddittorie? Aristotele sosteneva di no, o A oppure non-A, non può darsi un terzo, tertium non datur, dicevano gli antichi. Non del tutto a torto in effetti, se si desse questo terzo, se cioè potesse valere tanto A quanto non A, simultaneamente allo stesso modo, c’è l’eventualità che il linguaggio cesserebbe di funzionare dal momento che un qualunque elemento varrebbe un qualunque altro. Come dire che in qualunque momento io sto dicendo ciò che sto dicendo e allo stesso tempo, simultaneamente, io dica qualunque altra cosa compreso il suo contrario, capite facilmente che in questo modo il linguaggio non potrebbe funzionare. Immaginate che un singolo lessema, un singolo elemento linguistico, una parola, significasse simultaneamente e ciascuna volta qualunque altra parola, provate a parlare, diventa arduo. Già, in effetti il linguaggio funziona per lo più attraverso regole di esclusione e cioè un elemento esclude gli altri. Dunque, per tornare alla questione della verità, dicevo che questa impasse, questa impossibilità a proseguire, è possibile reperirla in moltissimi discorsi. C’è l’eventualità, forse non così remota, che ciò che Freud ha chiamato nevrosi, psicosi a seconda dei casi, sia esattamente ciò che vado illustrandovi e cioè un’impossibilità a proseguire, con tutto ciò che ne segue, e cioè l’arresto, la paralisi, che poi può comportare una sterminata sintomatologia, come diceva Freud. Ma se il discorso non può proseguire, non può proseguire perché i due corni del dilemma sono entrambi veri ma autocontraddittori, allora devo costruire una sorta di terza via. Ecco, vi invito a considerare se questa terza via non sia esattamente ciò che Freud indicava come nevrosi, una terza via che non elimina affatto l’intoppo, cerca soltanto di conviverci oscillando ora da una parte ora da quell’altra, una sorta di bilico fra i due. C’è una questione da considerare, tuttavia. Di fronte all’impossibilità di risolvere il dilemma occorre intervenire forse in un modo differente anziché bloccarsi a metà fra i due corni del dilemma. Il dilemma sorge, come vi dicevo prima, quando i due corni del dilemma risultano entrambi veri, ma lo sono oppure no? Perché se risultasse che questi due corni del dilemma sono veri ma soltanto all’interno di un certo gioco per cui non significano nulla fuori da quel gioco, allora c’è l’eventualità che io possa accoglierli entrambi…. Vi faccio un esempio. Supponiamo che io desideri fare una certa cosa ma al tempo stesso consideri fare questa cosa come moralmente riprovevole e non degna di me, supponiamo anche che questa seconda considerazione non tolga nessuna forza alla prima e che cioè io continui a desiderare fortissimamente di fare una cosa che però non posso fare. È la situazione più tipica della cosiddetta nevrosi, cioè sono attirato simultaneamente, così come l’asino di Buridano, da due parti in eguale misura. Ecco che allora costruisco quella formazione di compromesso, così la chiamava Freud, e cioè mi costruisco una certa cosa che in parte soddisfa il desiderio e in parte soddisfa la condanna morale, una via di mezzo, il desiderio mitigato che comporta una condanna minore, la via di mezzo più battuta, diciamo così dalla nevrosi, naturalmente insoddisfacente perché il desiderio rimane molto forte per quella cosa che non posso fare. Ora, come posso accogliere entrambe le cose? Chiaro che se le due cose rimangono assolutamente identiche, e rimangono identiche le regole del gioco, non ci sarà nessun modo di modificare alcunché, e in effetti la psicanalisi opera in questo modo, perciò fa esattamente ciò che fa nevrosi soltanto che avalla e avvalora questa via di mezzo con quella figura retorica nota come auctoritas: siccome lo dice lo psicanalista allora è così! È un modo anche quello, ma supponiamo che non sia sufficiente, può darsi questa eventualità, allora occorre un altro modo… Dunque, dicevo, desidero una certa cosa, la desidero fortemente, e interviene a questo punto ciò che abbiamo indicato le volte scorse come il sofista o analista della parola, colui cioè che non trova la via di mezzo, ma la soluzione estrema. La soluzione estrema, in questo caso, consiste nel portare questo desiderio di cui si tratta e la condanna morale alle estreme conseguenze. Intendo dire questo: supponiamo per esempio che prenda la condanna morale e la porti alle estreme conseguenze, comincio cioè a interrogarla, interrogando questa, come qualunque posizione morale, giungo a considerare che non ha nessun motivo di essere, che propriamente non è sostenibile né sostenuta da alcunché, come dire che dire che è un "no" che suona come un "no, perché no?" e tanto basta. Sapete, la morale non è sostenibile se non da una convezione la quale prima o poi risulta arbitraria, ma se io perdo la riprovazione morale allora questo desiderio, per esempio di sparare in testa a tutti quelli che sono antipatici - adesso faccio il caso limite, potrebbe essere anche qualcosa di più soft - ecco non avendo più nessun limite, nessun argine, mi indurrà apparentemente a compiere questa operazione, però di fatto io ho detto che anche questo desiderio viene condotto alle estreme conseguenze e cioè viene reperito a forza che cosa lo sostiene. Perché io abbia un desiderio come questo sono necessarie alcune condizioni, una fra queste è che per esempio ciò che faccio io è bene e ciò che fanno gli altri è male, poi con tutte le infinite varianti, ciò che io dico è giusto e ciò che altri dicono è sbagliato, oppure gli altri si muovono e agiscono unicamente a mio danno, come se il loro obiettivo non fosse altro che quello di nuocermi. Una affermazione del genere, sempre per portarla alle estreme conseguenze, può essere sostenuta a sua volta a quali condizioni? Che siano credute altre cose e cioè, per esempio, che si dia una mia ragione, che si dia una mia migliore condotta e quindi che si dia un certo criterio e il quale certo criterio è sostenuto da che? Se da una parte la condanna morale, e quindi la posizione morale, viene eliminata, al tempo stesso viene eliminato il desiderio di cui sopra o più propriamente non è che viene cancellato, così come non viene cancellata una condanna morale ma viene accolta sia l’una cosa che l’altra come la favola di Cappuccetto Rosso alla quale nessuno, che abbia superata una certa età, è propenso a credere, la conosce ma non ci crede, non ci crede perché non ha più la necessità di farlo, perché ritiene che sia una favoletta, nulla che costringa all’assenso. Qualunque cosa io desideri più o meno fortemente cessa in questo modo non di essere desiderato o desiderabile ma di agire in modo costrittivo, esattamente così come la verità, nell’accezione che indicavo prima, terroristica che costringe a muoversi in una certa direzione, la struttura è la stessa. Il fondamentalista islamico che mette le bombe dentro ai cinematografi, perché il cinematografo è il segno del maligno, si muove mosso da una necessità "logica", cioè se ciò che lui crede è vero allora necessariamente gli altri sono in errore, ucciderli è solo un modo per purificarli. Se io credo dunque vera tutta una serie di cose che mi induce a desiderare fortemente di mettere in atto una certa cosa la metterò in atto in un modo o nell’altro, se invece il modo in cui ci credo non è dissimile dal modo in cui credo la favola di Cappuccetto Rosso allora è più difficile, molto più difficile… È esattamente questo ciò a cui punta l’analista della parola, non cerca le vie di mezzo, cioè non istituzionalizza la nevrosi, né percorre la stessa via ma porta alle estreme conseguenze i due corni del dilemma per considerare che può, se vuole, accoglierli entrambi o nessuno dei due ma nessuno né nulla lo costringe a farlo, è un modo differente e comporta un modo di pensare differente. È un modo di pensare non religioso e per questo è straordinariamente difficile da percorrere. C’è soltanto una proposizione che voi siete costretti ad accogliere ed è quella che afferma l’esistenza di regole del linguaggio, regole di esclusione e di formazione di proposizioni, qualunque altra proposizione voi potete negarla, voi potete se volete provarla falsa oppure vera, mentre quella che afferma l’esistenza di quelle stesse regole che mi consentono di affermare quello che sto affermando, quella no, non la posso negare perché negandola, dovrei per negarla utilizzare ciò stesso che affermo di negare. Abbiamo detto dunque i due corni del dilemma, di fatto non sono altro che due posizioni entrambi insostenibili ed entrambi sostenibili. Ciò che ho inteso dirvi questa sera è che c’è l’eventualità che possano non costringere all’assenso e quindi costringere alla paralisi in quanto possono essere accolti e rifiutati entrambi… Se c’è qualcuno che vuole che riprenda qualche cosa, io sono andato un po’ rapido su alcune questioni che invece meritano di essere considerate più nel dettaglio, per "minuto" diceva il Manzoni nei Promessi Sposi, le suore dicevano a noi piace sentire la storia per "minuto" (nel dettaglio, nel minuto) … c’è qualcuno che vuole chiarimento oppure aggiungere degli elementi?

Intervento: La terza via è quella che dà lo psicanalista?

Nell’accezione che indicavo come analista della parola sì, se no ciò che fa generalmente percorre la stessa via della nevrosi cioè cerca il compromesso. (…) Trovare quell’equilibrio che la nevrosi raggiunge in qualche modo anche se rimane sempre molto instabile cioè trova una giustificazione per entrambe le posizioni (per cui accomodo) mentre portandole alle estreme conseguenze si dissolvono non c’è più bisogno di accomodare nulla, cerca l’accomodamento perché rimangono entrambe simultaneamente vere cioè credute tali necessariamente… Cesare qualche questione?

Intervento:

Lo stesso blocco su cui si è arenato il pensiero occidentale, tutto il pensiero occidentale, cioè l’impossibilità di fronte ai paradossi di stabilire con certezza cosa sia vero. I paradossi sono noti da sempre, uno dei più antichi è quello di Epimenide il quale, cretese, si dice, affermasse che tutti i cretesi mentono e nessuno ha saputo stabilire con certezza se affermando questo stesse mentendo oppure no. E poi da lì tutta una infinita serie di paradossi che mostrano lo scacco del pensiero occidentale laddove pone come necessario o meglio necessariamente vero uno dei due corni del dilemma, tanti giochetti antichissimi come quello di Achille e la tartaruga, la possibilità di dividere all’infinito uno spazio determinato o un segmento… è possibile dividerlo all’infinito? Dipende, se accolgo un certo gioco in cui compare una regola che afferma che questo è possibile allora è possibile, se no no è un disastro, in quanto posso provare che è così e posso provare che non lo è… Questa è una questione che interverrà spesso anche negli incontri successivi, visto che sono sempre due corni del dilemma, fede e ragione, magia e religione, ecc. sempre due corni del dilemma. Come dicevo questa impasse del discorso occidentale è quella che ciascuno accade che possa incontrare lungo la sua esistenza, posizione che in aereonautica chiamano stallo (…)quando un aereoplano non ha più la velocità sufficiente per stare in aria va giù.

Intervento:…

Apparentemente sì, poi in effetti… vi faccio un esempio dove apparentemente la razionalità non c’entra assolutamente nulla. Immagini una fanciullina che si chiede rispetto al suo fidanzato "lo amo o non lo amo?", apparentemente non è una questione razionale e di fatto la fanciullina non utilizzerà il calcolo vero proposizionale per stabilire se lo ama oppure no, né utilizzerà sistemi matematici sofisticatissimi, è un dilemma. Come risolvere il quesito? Qui apparentemente di razionalità non c’è nulla, sono appunto le sensazioni, le emozioni, però la questione viene posta comunque e si pone esattamente come un dilemma. Come verrà risolto il dilemma? Generalmente viene risolto secondo la modalità della via di mezzo, oppure dell’atto di forza, generalmente sono questi due, però prima di giungere a questa soluzione cerca di compiere un procedimento che apparentemente invece è proprio razionale cioè considera tutti i lati, tutti i pro e tutti i contro, come se "mi ama per questo motivo perché ha fatto questo, questo e quest’altro…poi non mi ama perché invece non ha fatto questo, questo e quest’altro" fa una sorta di analisi della situazione e ciò che utilizza per analizzare questa situazione è un sistema logico anche se magari non lo sa, deduttivo o induttivo per lo più. Chiaramente se si chiede non sa dire se utilizza l’uno o l’altro, né magari che cos’è un sistema deduttivo, ciononostante lo utilizza, la conclusione cui giunge, se giunge a una conclusione ché può anche decidere di rimanere in sospeso, lasciare che gli eventi decidano per lei, per esempio, la questione non cambia di granché, anche in quel caso ci sarà una conclusione, e la conclusione come giunge, da dove arriva? Dal nulla oppure arriva da qualcosa? Può arrivare da sensazioni, certo, ma io ho una certa sensazione se penso una certa cosa, se non la penso no, quando penso il modo in cui mi guarda ho una certa sensazione, se non ci penso, no, perché se penso al modo in cui mi guarda ho una certa sensazione anziché quella contraria per esempio? Perché ovviamente associo al suo modo di guardare un certo sentimento da parte dell’altra persona, il fatto di associarlo per me è vero, cioè è vero che se mi guarda così, di me pensa questa cosa, tant’è se lo pensasse falso mi muoverei in tutt’altra direzione e cioè anche nelle cose apparentemente più irrazionali come quelle emotive funziona in modo massiccio un sistema logico inferenziale tra i rigorosi. Si può eventualmente discutere la precisione delle deduzioni sulla validità delle conclusioni però rimane che il sistema che ciascuno utilizza per stabilire le cose che stabilisce, sia che la partner lo ami quanto se ha soldi sufficienti in banca per acquistare una macchina nuova, muovono attraverso un sistema che è sempre lo stesso, della logica inferenziale. Già occorrerebbe considerare però le emozioni perché il più delle volte si considerano fuori dalla ratio, dalla razionalità. Tuttavia, posta così come sto ponendo la questione, c’è l’eventualità che senza questa ratio non ci siano neppure le emozioni. È necessario che io creda che se una persona mi guarda in un certo modo allora vuol dire che mi ama e allora provo quell’emozione, se ritenessi che invece guardandomi in quel modo né mi ama né non mi ama probabilmente quell’emozione non ci sarebbe. Certo occorre un discorso un po’ lungo da fare intorno alle emozioni, potremmo anche riflettere su una sorta di retorica delle emozioni… perché no? La retorica delle emozioni può occuparsi delle figure dell’emozione può provarsi anche a definirla eventualmente ma ciascuna di queste figure retoriche in quanto varianti, ciascuna figura retorica è una variante è sempre sostenuta da qualche altra cosa che invece variante non è, è possibile costruire una figura retorica perché qualcosa non varia, se tutto variasse non potrebbe costituirsi nessuna variante. Che cosa non può variare? Le regole che mi consentono di costruire queste figure retoriche. È antica questa distinzione fra le emozioni e la razionalità, così come fra la logica e la retorica, la fede e la ragione, ricalca un po’ la stessa struttura, c’è un Papa l’ultimo mi sembra, il quale usa una enciclica l’ultima, che è su questo argomento. Magari ne parleremo quando ci occuperemo… ecco magari la volta prossima, fede e ragione, se è il caso potremmo considerare qualche passo di questa enciclica, perché no? Questa enciclica verte un po’ sulla questione che stiamo ponendo della ratio contro il sentimento, la questione che vi propongo, sulla quale vi lascio riflettere nei giorni che seguiranno, è se sia possibile provare delle sensazioni senza la ragione e se sì, come ?

Intervento:…..

Sì, il linguaggio… la ratio non è altro che tutto ciò che le regole di costruzione, che sono poi ciò che chiamiamo linguaggio certo! Regole di formazione di proposizioni e di esclusione… (…) ma il fatto che dopo abbia acquisito il linguaggio… (…) diciamo pure che per provare quelle emozioni necessita di quello strumento. Una questione importante che proseguiamo il 3O di marzo, partendo da un altro dilemma, fede o ragione? Va bene per il momento ci fermiamo qui, ci vediamo fra quindici giorni. Grazie a tutti e buona notte.