LA DEPRESSIONE E IL NICHILISMO
Questa sera Vi leggerò un breve racconto di Borges:
Nel suo laboratorio, che comprendeva le due stanze dello scantinato, Paracelso chiese al suo Dio, al suo indeterminato Dio, a qualunque Dio, di inviargli un discepolo. Imbruniva, il magro fuoco del camino proiettava ombre irregolari. Alzarsi per accendere la lanterna di ferro avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo. Paracelso, distratto dalla fatica, dimenticò la sua preghiera. La notte aveva cancellato l'athanor e i polverosi alambicchi quando bussarono alla porta. Insonnolito, l'uomo si alzò, salì faticosamente la breve scala a chiocciola e socchiuse un battente. Uno sconosciuto entrò. Anch'egli era molto stanco. Paracelso gli indicò una panca; l'altro sedette e attese. Per un certo tempo non scambiarono tra loro nemmeno una parola.
Il maestro fu il primo a parlare.
"Ricordo volti d’Occidente e volti d’Oriente" disse, non senza una certa enfasi. "Non ricordo il tuo. Chi sei e che vuoi da me?"
"Il mio nome non ha importanza" replicò l'altro, "Ho camminato tre giorni e tre notti per entrare in casa tua. Voglio diventare tuo discepolo. Ti ho portato tutti i miei beni." Tirò fuori una borsa e la rovesciò sulla tavola. Le monete erano molte, e d'oro. Lo fece con la mano destra.
Paracelso, per accendere la lanterna, aveva dovuto voltargli le spalle. Quando tornò, notò nella sua mano sinistra una rosa. La rosa lo inquietò.
Si chinò, giunse le estremità delle dita, e disse: "Tu mi credi capace di elaborare la pietra che trasmuta gli elementi in oro e mi offri oro. Non è l’oro ciò che cerco, e se è l’oro che ti interessa, tu non sarai mai mio discepolo".
"L’oro non mi interessa" rispose l'altro. "Queste monete non sono altro che una prova del mio desiderio di apprendere. Voglio che tu mi insegni l’Arte. Voglio percorrere al tuo fianco la via che conduce alla Pietra".
Paracelso disse lentamente:
"La via è la pietra. Il punto di partenza è la pietra. Se non comprendi queste parole, non hai ancora incominciato a comprendere. Ogni passo che farai è la meta."
L’altro lo guardò con aria diffidente. Disse, con voce chiara:
"Ma esiste una meta?"
Paracelso si mise a ridere.
"I miei detrattori, che non sono meno numerosi che stupidi, sostengono il contrario, e sostengono che sono un impostore. Non do loro torto, ma non è impossibile che io sia un illuso. So che esiste una via".
Vi fu una lunga pausa e l'altro disse:
"Sono pronto a percorrerla con te. Anche se dovessimo viaggiare per molti anni. Lasciami attraversare il deserto. Lasciami intravedere almeno da lontano la terra promessa, anche se gli astri me ne vieteranno l’accesso. Ma prima di intraprendere il viaggio, io voglio una prova."
"Quando?" Disse Paracelso con inquietudine.
"Subito" rispose il discepolo con brusca determinazione.
Avevano iniziato la conversazione in latino, ora parlavano in tedesco.
Il giovane levò in alto la rosa.
"Affermano" disse, "che tu puoi bruciare una rosa e farla rinascere dalle ceneri, per opera della tua arte. Lascia che io sia testimone di questo prodigio. Ecco ciò che ti chiedo; poi la mia vita sarà tua".
"Sei credulo" disse il maestro. "No so che farmene della credulità: esigo la fede."
L'altro insistette.
"È proprio perché non sono credulo che voglio vedere con i miei occhi l’annientamento e la resurrezione della rosa"
Paracelso l'aveva presa in mano, e parlando giocherellava con essa.
"Sei credulo" disse. "Tu dici che io sono capace di distruggerla?"
"Nessuno è incapace di distruggerla" rispose il discepolo.
"Ti sbagli. Credi forse che qualcuno posa essere reso al nulla? Credi che il primo Adamo nel Paradiso abbia potuto distruggere un solo fiore, un solo filo d’erba?"
"Non siamo nel Paradiso" disse ostinato il giovane; "qui, sotto la luna, tutto è mortale."
Paracelso si era alzato in piedi.
"E in quale altro luogo siamo? Credi che la divinità possa creare un luogo che non sia il paradiso? Credi che la caduta si altro dall’ignorare che siamo nel Paradiso?"
"Una rosa può bruciare" disse il discepolo in tono di sfida.
"V’è ancora del fuoco nel camino" rispose Paracelso. "Se tu gettassi questa rosa fra le braci, crederesti che le fiamme l’abbiano consumata, e che sia la cenere a essere reale. Io dico che la rosa è eterna e che solo la sua apparenza può cambiare. Mi basterebbe una parola perché tu la potessi vedere di nuovo."
"Una parola?" disse stupefatto il discepolo. "L’athanor è spento, gli alambicchi sono coperti di polvere. Che farai per farla rinascere?"
Paracelso lo guardò con tristezza.
"L’athanor è spento" ripeté, "gli alambicchi sono coperti di polvere. In questo tratto della mia lunga giornata uso altri strumenti"
"Non oso domandare quali" disse l'altro con malizia o con umiltà.
"Parlo di quello che usò la divinità per creare il cielo e la terra e l’invisibile Paradiso in cui ci troviamo e che ci è nascosto dal peccato originale. Parlo della parola che ci insegna la scienza della Cabala."
Il discepolo disse freddamente:
"Ti chiedo la grazia di mostrarmi la scomparsa e la ricomparsa della rosa. Poco m’importa che tu operi per mezzo del Verbo o degli alambicchi."
Paracelso rifletté. Infine disse:
"Se lo facessi, tu diresti che si tratta di un’apparenza imposta ai tuoi occhi dalla magia. Il prodigio non ti donerà la fede che cerchi. Dunque lascia stare la rosa."
Sempre diffidente, il giovane lo guardò. Il maestro alzò la voce e gli disse:
"E inoltre, chi sei tu per introdurti nella dimora di un maestro ed esigere da lui un prodigio? Che hai fatto per meritare simile dono?"
L'altro replicò, tremando:
"So bene che non ho fatto nulla. Ti chiedo, in nome dei molti anni in cui studierò alla tua ombra, di lasciarmi vedere la cenere e poi la rosa. Non ti chiederò altro. Crederò alla testimonianza dei miei occhi."
Bruscamente, afferrò la rosa che Paracelso aveva lasciata sul leggio e la gettò fra le fiamme. Il colore si perse e rimase solo un po' di cenere. Per un istante infinito egli attese le parole e il miracolo.
Paracelso era rimasto impassibile. Disse con strana semplicità:
"Tutti i medici e gli speziali di Basilea affermano che io sono un mistificatore. Forse essi sono nel vero. Qui riposa la cenere che fu rosa e che non lo sarà."
Il giovane si sentì pieno di vergogna. Paracelso era un ciarlatano o un semplice visionario, e lui, un intruso, aveva varcata la sua porta e ora lo costringeva a confessare che le sue famose arti magiche erano vane. Si inginocchiò e disse:
"Ho agito imperdonabilmente. Mi è mancata la fede che il Signore esigeva dai credenti. Lasciami ancora guardare la cenere. Tornerò quando sarò più forte e sarò tuo discepolo e in fondo al cammino vedrò la rosa."
Parlava con passione autentica, ma quella passione era la pietà che gli ispirava il vecchio maestro, tanto venerato, tanto attaccato, tanto insigne e perciò tanto vuoto. Chi era lui, Johannes Grisebach, per scoprire con mano sacrilega che dietro la maschera non c'era nessuno?
Lasciare le monete d'oro sarebbe stata un'elemosina. Le riprese uscendo.
Paracelso l'accompagnò ai piedi della scala e gli disse che sarebbe stato sempre il benvenuto.
Entrambi sapevano che non si sarebbero rivisti mai più.
Paracelso rimase solo. Prima di spegnere la lanterna e di sedersi nella poltrona consunta, raccolse nell'incavo della mano il piccolo pugno di cenere e disse una parola a bassa voce. La rosa risorse.
Jorge Luis Borges, La rosa di Paracelso.
Vi ho letto questo racconto, questo brevissimo racconto di Borges, oltre che per il fatto che è molto bello, perché di questo si tratta in ciò che sto per dire, e cioè credere che dietro, per esempio il maestro in questo caso, ci sia qualche altra cosa, credere in definitiva che ciò che si cerca sia qualcosa di identificabile, di reperibile da qualche parte. Ora quel tale Johannes Grisebach, molto probabilmente è uscito dall'incontro con il maestro preso da depressione perché deluso, cercava la verità, cercava la pietra, la salvezza, cercava lo scopo, cercava il motivo, per vivere magari, e ciò che ha trovato è nulla, nessun motivo, nessuno scopo. Per che cosa faccio? Talvolta qualcuno si pone questa domanda, o per chi faccio? Può accadere che si risponda: per nessuno, oppure per nulla, ed è a questo punto che sorge il problema laddove, postasi questa domanda, la risposta è: per nulla. Sei credulo, diceva al discepolo il maestro, già! Chi è credulo? Chi crede che esista un motivo, uno scopo? Perché no? Potrebbe essere. A quali condizioni una qualunque cosa è un motivo, è uno scopo? Una domanda legittima, il discorso occidentale si è talvolta cimentato con queste questioni, come sapete fino dagli inizi, almeno da quelli che conosciamo, da quelli di cui c'è traccia, ed ha raggiunto molto facilmente questa risposta, e con estrema rapidità, con estrema precisione, e cioè che la risposta a qualunque perché, a qualunque domanda, sospende nel nulla. Nessuna risposta è sufficientemente adeguata alla domanda, questione antica, terribile e semplicissima: che cos'è questo? Questo è altro, evidentemente. Ciascuna domanda comporta un rinvio, non è difficile dimostrare che ciascuna cosa è simultaneamente identica a sé e differente da sé. Più difficile è valutarne le conseguenze, le implicazioni. Come sapete il pensiero occidentale si è arrestato su questo gesto, non a caso dei Sofisti di cui riprendiamo in parte il discorso, si è arrestato perché non può in nessun modo tollerarsi, ammettersi, considerarsi una cosa del genere e pertanto occorre correre ai ripari e quindi credere, ma credere che cosa? Una qualunque, che importanza ha? Importante è credere, credere qualcosa. Qualcosa che mi consenta di potere supporre che questa questione, in un modo, in un qualunque modo è risolta, e pertanto cessa di interrogarmi, cioè non mi interessa più. Posizione altrettanto legittima evidentemente, ora il pensiero occidentale si è arrestato, o meglio ha arrestato il gesto dei Sofisti attraverso una serie di procedure, non ultima la religione, che ha risposto a questa domanda, fornendo l'unica garanzia possibile all'assenza totale, assoluta e irreversibile di senso, potremmo dire di motivo, e cioè instaurando l'esistenza di dio, non ce ne sono altre. Qualunque altra risposta voi poniate vi condurrà esattamente al punto da cui siete partiti, questa no, no perché impone l'atto di fede e cioè l'affermare che è così perché è così e tanto basta. Può non essere sufficiente, ma generalmente lo è, è straordinariamente difficile che non sia sufficiente una risposta del genere. Cosa dice il nichilismo? Il nichilismo è l'altra faccia, dice che se non è possibile dare un motivo alle cose allora nulla ha motivo, e allora "muoia Sansone con tutti i filistei" e dunque ciascuna cosa è nulla, in una sorta di malinconia per il motivo, per il senso perduto. E se questo motivo, questo senso così importante non fosse stato perduto ma non ci fosse mai stato, allora non avremmo perso niente. Ma che cos'è un motivo, cosa potremmo dire di un motivo? Così, in prima istanza potremmo dire che è qualche cosa che induce a muoversi in una certa direzione anziché in un altra, certamente, però si pretende dal motivo che sia anche qualche cosa di più, e cioè che costringa a muoversi in una direzione anziché in un altra, perché se no, una vale esattamente quell'altra. Ciò che dunque è indispensabile supporre è che il motivo sia necessario e cioè che necessariamente io debba andare in quella direzione. Darsi un motivo è costringersi a pensare che quella sia la direzione necessaria e che pertanto qualunque altra sia errata, errata in qualunque accezione vi piaccia pensarla e cioè come approssimata, inadeguata, come preferite. Il nichilismo dunque afferma che la ragione ha distrutto se stessa e cioè il nulla impera, se vi interessa leggere una delle posizioni più recenti rispetto al nichilismo, potete leggere Emanuele Severino e molti altri, adesso qui in Italia, come vi dicevo non è difficile dimostrare che ciascuna cosa è se stessa e anche altro da sé, ma se qualcuno seguisse questa via sarebbe indotto a pensare che non c'è più nulla per cui valga la pena, per così dire, di fare qualcosa, nulla che risulti credibile, nulla che risulti sostenibile, che risulti accreditabile per qualunque motivo, per qualunque scopo, ed è qualcosa di prossimo a ciò che indicavamo la volta scorsa in modo un po' parodistico dicendo che non c'è più speranza, anche la speranza precipita nel nulla. Sperare che cosa? E perché? Parrebbe che tutto ciò non abbia più, in questo caso, alcuna possibilità di sostenersi, tuttavia siamo ancora, con il nichilismo, in una sorta di pensiero religioso, che lamenta l'assenza di qualcosa che suppone necessario, che suppone debba esserci per forza, e perché? Dicevamo la volta scorsa che qualcuno può lamentarsi che la propria esistenza non abbia alcun motivo, ma perché dovrebbe averne uno? Ma se pensate al nichilismo, pensate immediatamente alla struttura del discorso religioso e immediatamente considerate che la struttura del discorso religioso per definizione suppone, istituisce e consolida l'eventualità, anzi in questo caso la certezza, che esista da qualche parte, in qualche modo, in qualche senso, qualcosa che sia identico a sé, che sia la verità. La verità in questo caso come l'essere, l'essere identico a sé. Dunque l'unica cosa che non mente è dio, per definizione, non può mentire, se no, se si mettesse a contare storie anche lui, non ci sarebbe più religione, effettivamente. Dunque non mente, per non mentire occorre che non sia altro da sé. Tutto ciò che è altro rispetto a questa sorta di ordine perfetto e immobile, come giustamente Agostino ci suggerisce, è male, è male oppure è inadeguatezza, oppure è alterazione o è corruzione, malessere, è disturbo e tutti gli attributi che vi piace aggiungere. Ma allora, qualunque discorso che presupponga di andare in una direzione che è quella giusta, presuppone in qualche modo di andare verso qualcosa che ritiene il bene, che ritiene vero e che ritiene pertanto di dovere farsi. Posta in questi termini chiaramente la questione si allarga, perché allora non più ciò che comunemente si intende con religione ma qualunque discorso, che per qualunque motivo si ritenga fondato oppure fondabile, è un discorso religioso, in questa accezione. In altri termini ancora, ciascun discorso che immagini per qualunque motivo, per qualunque circostanza, che possa darsi un elemento, anche uno solo fuori dalla parola, perché dico "fuori dalla parola", perché se ciascun elemento non può non considerarsi fuori dalla parola, allora proprio per questo motivo è vincolato alla combinatoria linguistica in cui è inserito, è vincolato a ciò che lo precede, a ciò che lo segue, non esiste di per sé, se non, appunto, preso in una combinatoria infinita e dunque molto difficilmente isolabile, se cerco di isolarlo, un elemento linguistico mi sfugge e più cerco di afferrarlo e più si sottrae, preso in un continuo rinvio ad altro e dunque sempre menzognero, sempre altro da sé, sempre rinviante ad altro. I Padri della chiesa, che erano saggi, avevano inteso perfettamente la questione, Tommaso in prima istanza, e molto si sono dilungati proprio sulla questione del linguaggio, avvertendo perfettamente che o si trovava il modo di attribuire a dio la padronanza del linguaggio, oppure tutto sarebbe rovinato immediatamente e definitivamente perché, o dio è padrone della parola, cioè è la parola, oppure è una produzione della parola, e questo a Tommaso non piaceva, e allora, avvalendosi della Sacra Scrittura che afferma che "in principio era il Verbo", è necessario che ad un certo punto il Verbo abbia incominciato ad essere; oppure è sempre stato, ma chi è il Verbo? Dio naturalmente, non può essere che lui, oppure, oppure dio è una produzione linguistica, è un significante, niente più di questo e questo ai Padri della chiesa non piaceva per nulla. Cosa fa il nichilismo? Dice che non è vero, che non possiamo dimostrare che dio è il padrone della parola, davvero? E allora? E allora che succede? Assolutamente nulla, perché continua a supporre, in qualche modo, che della parola sia possibile essere padroni. Cos'è padroneggiare la parola? È una questione complicata a farsi, sicuramente più a farsi che a dirsi, significa supporre, in definitiva, per farla breve, che ciò che si dice non sia sospeso sempre e soltanto a ciò che si è detto e che si dirà, ma a qualche cosa che è fuori dalla parola e che da lì ne garantisca la portata, la validità, in definitiva l'essenza stessa. Ora si può pensare che questo sia, perché no? Si può pensare qualunque cosa, ma curiosamente lo si può fare sempre e soltanto attraverso il linguaggio, cioè attraverso la parola. Questione, come abbiamo detto in varie occasioni, straordinariamente semplice ma di cui è sempre stato assolutamente preferibile non tenere conto, perché allora in questo caso il senso non è più già dato, ma si produce mentre parlo, allora in questo caso accade una cosa intollerabile, e cioè che tutto ciò che credo si dissolve, si dissolve in quanto creduto, in quanto credenza, in quanto superstizione, badate bene, qualunque cosa, anche esattamente le cose che sto dicendo in questo momento. Poco interessa chiedersi: ma allora perché si parla? Anzi, non importa assolutamente niente, è una domanda assolutamente stupida, perché rinvia a quello che gli antichi chiamavano il tropo del diallele, e allora perché mi chiedo perché parlo? Posso andare avanti all'infinito, senza arrestarmi mai e allora ci si rende conto immediatamente, o quasi immediatamente, di che cosa ci si sta chiedendo chiedendosi questa o qualunque altra cosa, compresa che senso ha quello che faccio, che senso ha la mia esistenza, che senso ha l'esistenza dell'esistenza di questa domanda? E così via. Che cosa faccio, cioè che cosa si mette in gioco, che cosa implicano queste domande? Come direbbe Wittgenstein, che abbiamo citato qua e là, che gioco si sta facendo nel domandarsi queste cose? Senza sofferenza e senza depressione. Perché senza depressione? Perché senza religione non c'è depressione. Adesso spiego perché. Perché la religione è la "condicio sine qua non" perché ci sia depressione o nichilismo cioè quella situazione in cui mi accorgo che non posso in nessun modo fondare né stabilire nessun motivo, nessun senso, né a me, né alle cose che mi circondano. Ma questa idea, che debbano queste cose, me compreso, essere fondate o fondabili, da dove viene? Quale demone mi ha ispirato un pensiero simile? Apparentemente nessuno. Eppure è uno dei pensieri più diffusi, più accreditati più seguiti, più consolidati e più sostenuti. Viene da una certa struttura di pensiero che dice che qualche cosa, non sappiamo ancora che cosa, ma qualche cosa deve essere fondata, e perché? Non lo so, ma è così. Una delle cinque famosissime vie o prove di Tommaso, verte proprio su questo, non è possibile la regressio ad infinitum, e dunque ci deve essere almeno un elemento che è fondato, su cui il pensiero deve arrestarsi, non spiega Tommaso il perché. però è stato comunque ufficialmente e ampiamente accreditato, senza sapere assolutamente dire il motivo eppure...eppure è curiosissimo questo fenomeno, pensate al discorso occidentale, è fatto in modo tale da richiedere, ciascuna volta in cui si fa una affermazione, che questa affermazione sia provata, la caricatura di tutto questo la fa il discorso scientifico, come è noto, ciascuna cosa deve essere provata, per ciascuna asserzione, dalla conversazione più banale fino alla discussione più sofisticata, ciascuno deve necessariamente fornire delle ragioni, delle prove a quello che dice, solo a questa condizione può sperare nell'assenso, non è garantito, però può sperarlo, se no, no. Ecco uno potrebbe anche sostenere che il pianeta sul quale abitiamo è fatto come un grappolo d'uva, nessuno glielo proibisce, però se afferma una cosa del genere la prima cosa che avviene, se l'afferma in un consenso scientifico, è questa, gli si chiederà di provare questa sua affermazione. Ma come dicevo, anche in una qualunque conversazione banalissima, al bar, con gli amici, uno fa una affermazione e immediatamente gli si chiede di provarla, perché dici questo? Ed è curiosissimo che avvenga questo fenomeno, di fatto così come è strutturato il discorso occidentale è una domanda assolutamente fuori luogo, perché? Perché uno dovrebbe dare una giustificazione di quello che dice? Per quale motivo? Per rendere ciò che dice più credibile? Ma allora dovrebbe giustificare anche la giustificazione, oppure no? Oppure questa è autoevidente? E se è autoevidente lo è a partire da quale criterio che a sua volta non debba necessariamente essere interrogato. Dunque, a rigore di termini, a una domanda qualunque può seguire una risposta qualunque, altrettanto legittimamente di qualunque altra. Ma questo come sapete non avviene, non avviene mai. Eppure dicevo è curiosa questa struttura del discorso occidentale. Allora vi dicevo, perché mai una domanda intorno ai motivi dell'esistenza, quando posso trovarne uno qualunque che va altrettanto legittimamente bene di qualunque altro? Ciò che sorprende allora è la portata di questa domanda, alla quale il depresso, cosiddetto, non trova risposta, al punto che se nulla ha importanza, nemmeno lui, nemmeno la sua vita, e allora l'unico gesto provvisto di senso è quello che arresta questa assenza di senso. Albert Camus diceva qualcosa del genere, il suicidio è l'unico atto fornito di senso perché arresta un percorso che è assolutamente privo di senso. Lo si può pensare, perché no? Certo, ma la necessità che qualcosa abbia un senso, abbia un motivo, viene da una struttura di pensiero che è esattamente quella che indicavo come il discorso religioso. Se io cesso di credere, cesso di credere anche alla necessità che le cose debbano avere un motivo, evidentemente. Sbarazzato di questo ingombro, non mi chiederò se la mia esistenza ha un motivo oppure no, e pertanto non potrò dirmi che non ce l'ha, perché questa risposta, così come la contraria, è assolutamente priva di senso. E come potrei essere depresso? Non mi riuscirebbe. Ecco perché vi dicevo, per essere depressi occorre essere religiosi, senza religione non c'è depressione. Ci si può provare, ma non succede, non più di quanto non accada di credere una qualunque altra cosa. Perché non si può più credere? Possiamo intenderlo come il supporre che questa cosa che io credo sia così come credo che sia, ma come può essere così, se esiste in quanto presa in una combinatoria, in una struttura cioè, in altri termini, nella parola, e dunque presa nella parola esiste in quanto inserita in un gioco linguistico; e se la disinserisco da questo gioco linguistico, che succede? Niente, scompare, molto semplicemente. Cioè è nulla, anzi più che non esistere, non è mai esistita. Ora ciò che vi ho letto inizialmente, così giusto per avviare la conversazione di questa sera, pone delle questioni curiose proprio rispetto al discorso religioso, cioè all'attesa che l'altro o altri sappia rispondere alle domande che io mi faccio. Una persona depressa è anche generalmente molto noiosa. Per questo motivo cerca ininterrottamente da altri una risposta oppure un rimedio al suo malessere. Ora qualunque risposta lui ottenga, qualunque rimedio gli si proponga, non è quello e quindi continua a domandare. Altri dunque sa, esattamente come il discepolo che si rivolge al maestro perché gli indichi la via e dice esattamente come i cosiddetti depressi, se trovassi qualcuno che risolve il mio problema, potrei fare qualunque cosa per lui. Falso naturalmente, perché non è affatto così, però da a credere questo. Freud, che ha esplorato a lungo le fantasie, almeno quelle più ricorrenti presso gli umani o, se preferite chiamarle così, i luoghi comuni più accreditati, ha a lungo discusso intorno a questa struttura che lui ha indicata come discorso ossessivo, che ha una certa prossimità con la malinconia e con la depressione, cogliendo che di fatto il cosiddetto, dico cosiddetto perché non è che esista in quanto tale il depresso, il depresso è una persona che è difficilmente accessibile e, racconta Freud, per quanto ci si adoperi per distogliere questa persona da questa condizione è come se per nulla al mondo volesse discostarsene, in effetti è così, perché il vantaggio che ne trae è superiore a qualunque altra cosa gli si possa proporre, suggerire. Il vantaggio è prodotto da sensazioni, emozioni molto forti, e perché mai dovrebbe rinunciarci? Tempo fa, non ricordo se qui o altrove, dicevamo qualcosa di molto simile rispetto alla questione della droga, così come è comunemente intesa, e cioè del fatto che in linea di massima chi si droga difficilmente smette, perché difficilmente trova qualcosa che gli dia la stessa soddisfazione, molto semplicemente, e andare a coltivare patate nell'orto di qualcuno potrebbe non essere una sensazione altrettanto forte e altrettanto attraente, poi ci sono molte altre questioni che adesso non ci interessano, ma per quanto riguarda la questione della depressione, come molto probabilmente qualunque altra forma di sofferenza, pare essere fortemente, strettamente vincolata alla struttura del discorso religioso nell'accezione che abbiamo indicata prima, cioè di un discorso che immagina che debba esserci almeno qualche cosa che sia fondato o fondabile. In questa accezione il discorso scientifico non si discosta in nulla dal discorso religioso, né la cosiddetta ragione si discosta in nulla dai cosiddetti sentimenti. Ragione o sentimento? Che differenza fa? Se ci riflettete bene, vi troverete in difficoltà a distinguerli, se invece non ci si riflette magari si può pensare che siano cose assolutamente differenti, ma al di là di questo, ciò che a noi interessa questa sera è intendere la straordinaria prossimità tra la depressione e il nichilismo, in effetti entrambe sono modi di pensare, strutture di pensiero. Allora dicevamo dunque che il cosiddetto depresso a un certo punto si accorge che tutte le cose che ha intorno hanno perso quella brillantezza, quella vivacità, quell'attrazione, quell'interesse che avevano prima, mano a mano lo perdono sempre di più e non riesce più a dare un senso alle cose, non riesce più a dimostrare, come faceva prima con tanta facilità, che la vita è bella, che tutto è rosa. Il pensiero filosofico ha percorso lo stesso cammino, e non è detto che l'abbia fatto sempre in modo interessante, per giungere alla stessa conclusione e cioè che nulla è provabile, e allora? Perché dovrebbe esserlo? Che cosa diciamo con questo? La questione straordinaria è che, anche tenendo conto di questo fatto, pur di per sé semplicissimo, sembra che sia assolutamente impossibile, impraticabile, intollerabile, inammissibile poterne accogliere le inevitabili conseguenze, implicazioni e porle in atto. Questo pare che non possa farsi, in nessun modo e per nessun motivo, almeno così è avvenuto negli ultimi tremila anni. La scommessa di cui ci stiamo occupando riguarda anche questo, proprio questa eventualità che ciò che in nessun modo sembra potersi praticare, perché va contro ogni buon senso, ecco proprio questo invece possa cominciare a considerarsi, se non proprio a praticarsi. Per quale motivo? Per niente, assolutamente niente, o se volete dirla così, per il piacere di farlo, niente altro che questo. Il piacere che si incontra ciascuna volta in cui ci si accorge che le cose che si pensano, si fanno, rinviano ad altro e alludono a un'apertura, cioè si prospetta altro, altro che muova a dire, a fare, a pensare, poi può anche essere che l'unico piacere praticabile sia questo, comunque sia, è sicuramente una delle cose che da sempre ha attratto di più gli umani e allo stesso tempo più li ha respinti. Mentre il discorso religioso attrae e non respinge, anzi, dice a ciascuno che non deve preoccuparsi, che c'è un buon motivo per tutto e che quindi non è solo, ma in buona compagnia e quindi ha una certo successo, Ha avuta una certa portata da sempre l'idea che, in definitiva, gli umani non sono soli ma c'è qualcuno che li assiste, anche l'idea degli Ufo non è poi così lontana, in quanto dice che gli umani non sono soli, c'è qualcun altro che tiene compagnia. Anche questa è una bella questione, la solitudine, questione paradossale perché in effetti ciascuno avverte, a modo suo, la inesorabilità e ineluttabilità della solitudine parlando anche tra sé e sé, o con altri, e si accorge, se proprio non vuole non saperne nulla, si accorge che le cose che dice sono intese da altri altrimenti e che le cose che pensa, come suole dirsi più intimamente, non può né riesce a dirle, né trasmetterle ad altri e magari neanche a se stesso e pertanto cerca di eliminare in tutti i modi qualche cosa che pare essere assolutamente strutturale. Un'altra bizzarra questione in effetti perché la compagnia di cui dicevo è sempre una compagnia particolare, cioè fondata sull'attesa che altri sappiano rispondere o semplicemente sappiano ciò che a me sfugge. Esattamente come nel racconto che vi ho letto di Borges: indicami la via e da quel momento la mia vita sarà tua. Cosa che non si verifica, non si verifica perché c'è sempre l'eventualità che l'altro ponga delle obiezioni e dica: ma è proprio sicuro che sia proprio questa la via? Magari ce n'è un'altra. Occorre tenere conto anche di questo aspetto. È noto da sempre che le persone più credule sono quelle meno affidabili, appunto perché credono qualunque cosa e il suo contrario. Ora considerate questo, se per essere depressi occorre credere, almeno alla propria depressione, se questo credere fosse impossibile, strutturalmente impossibile, potrebbe darsi l'opportunità di essere depressi? È una questione che può sembrare molto banale posta in questi termini, però forse pone una questione che così banale non è, e cioè ci rinvia di nuovo alla domanda iniziale e cioè a quali condizioni qualcuno è depresso? Non perché, perché di motivi uno ne trova quanti ne vuole, chiunque qui dentro potrebbe trovare una quantità sterminata di motivi per essere depresso e altrettanti per essere felice, altrettanti ancora per essere indifferente, e così via per così dire. Ma quali sono le condizioni perché sia possibile credersi depressi o esserlo, che poi è la stessa cosa. Riflettere su queste condizioni ci ha condotti a riflettere intorno al discorso religioso come condizione, vale a dire la possibilità che qualche cosa risponda, ma se io non credo a questo, non credo che qualcuno possa rispondermi né che io stesso possa rispondere alla domanda circa i motivi per cui esisto, o per cui debba fare una certa cosa. Può diventare molto più difficile essere depressi, o soffrire per qualunque cosa e per qualunque motivo. Però vorrei sentire delle questioni, se no parlo solo io, chi ha qualche questione da porre in modo che discutiamo intorno alle cose dette questa sera o la volta precedente?
- Intervento: Sono un depresso!...Allora tutto questo da dove ha origine?
E la nozione di origine da dove ha origine?
- Intervento:....per deduzione logica chi è ateo non è depresso?
Chi è senza dio? Nell'accezione che ho indicata, inevitabilmente. Però non senza dio in quanto non crede in dio...
- Intervento: Ma anche chi non crede, crede in ciò che crede.
Non necessariamente, non è così semplice, si può essere atei...
- Intervento: se tutte queste belle parole sono delle "realtà" effettive o se sono solo delle mere invenzioni dell'uomo.
Che differenza fa?
- Intervento: Sono un idealista...se non credo in nulla cosa faccio?...Cercare la verità, se non c'è verità che senso ha cercarla?
Nessuna assolutamente nessuna. Allora poniamola in questi termini, occorre che riflettiamo su questa nozione di motivo, cosa dobbiamo intendere con motivo? (Uno scopo) Questo non ci porta molto lontano, ma in termini più precisi, il motivo è qualche cosa, dicevamo prima quando cercavamo di dare una definizione più ampia possibile, che muove in una certa direzione e credere che muoversi in quella determinata direzione sia una cosa necessaria. Ora posso porre la questione anche in termini più radicali e cioè inscrivere tutta la questione connessa con il motivo in qualcosa di più ampio, e cioè tutta una serie di processi così detti di causa effetto, per quale motivo casca questo orologio se lo lascio andare? Perché c'è la legge di gravità. È una risposta legittima.
- Intervento: È una risposta scientifica.
Occorre provare a cominciare a riflettere su questa nozione e soprattutto su quali siano le condizioni per cui possiamo riflettere su queste nozioni. Esiste qualche cosa attraverso cui io posso pensare una ricerca scientifica o fare una valutazione empirica? Qual è la condizione per cui io possa da una certa causa giungere ad un certo effetto o viceversa, cosa mi consente di pensare tutto questo? Occorre che i pensieri si organizzino in un certo modo, perché se non fossero organizzati, se fossero totalmente disorganizzati mi sarebbe impossibile pensare che da una certa cosa ne proceda un'altra. Ora questa organizzazione di cui stiamo parlando è una struttura, che comunemente è nota come linguaggio, e allora cosa possiamo dire? Che tutte queste proposizioni, queste affermazioni esistono per via di questa struttura che le rende possibili, e fin qui non abbiamo detto nulla di straordinario, ma le rende solo possibili o fa qualcosa di più? Esistono tutte queste cose fuori dal linguaggio? Per esempio...
- Intervento: È un discorso religioso. Parlare di strutture è parlare di ordini razionali ergo da cose create dall'uomo in base a studi...quindi questo discorso o lo rigettiamo con una affermazione della prevalenza della religione sulla materia o crolla tutto...
Si non è che dobbiamo salvare necessariamente qualcosa ma la questione che stavo ponendo è più radicale, cioè è una riflessione intorno alle condizioni perché tutto ciò possa pensarsi. La stessa nozione di esistenza, dicevamo forse la volta scorsa, io posso chiedermi se qualcosa esiste oppure no, perché ne sto parlando, ma se non potessi fare questa operazione cioè se non esistesse una struttura tale che mi consentisse di chiedermi se esiste l'esistenza, l'esistenza esisterebbe oppure no? No, in nessun modo e per nessun motivo, anzi non sarebbe mai esistita, ne avrebbe mai modo di esistere. Perché non c'è nessuno che possa dirlo? Esattamente. E ci sono altre condizioni di esistenza? No, quindi non esistono.
- Intervento: L'esistenza ci viene provata o dai discorso o da letture...
Io non mi sto chiedendo che cosa prova l'esistenza, prove dell'esistenza posso trovarne quante ne voglio, mi chiedo a quali condizioni io possa parlare e quindi pensare l'esistenza. La domanda è più radicale, non le prove dell'esistenza, anche le prove dell'esistenza di dio, se vuole possiamo anche provare l'esistenza di dio in modo inconfutabile
- Intervento: il problema è provare la prova.
Il problema è provare la prova, certo.
- Intervento: È un processo a ritroso all'infinito.
E allora? Come San Tommaso il quale giustamente diceva che non è possibile, ma la questione è che possiamo fare qualunque cosa, non è proibito, non è proibito neanche essere depressi, come non è proibita qualunque altra cosa, ciò che stiamo considerando è se la depressione, così come viene comunemente intesa, e cioè come sensazione abbia, così come molti altri elementi, come condizione, la struttura del discorso religioso così come l'ho indicata precedentemente, solo questo, non stiamo ponendo nessuna soluzione al problema, nessuna panacea, né ci interessa fare nulla del genere. Semplicemente considerare delle questioni. Che poi come effetto uno cessi di credere...
- Intervento:...
Cioè lei accetta un discorso senza limiti.
- Intervento: Non lo so, non mi sono mai posta questa questione.
Come accetto un discorso senza limiti?
- Intervento: Nel senso che le sue teorie non hanno limiti né in positivo, né in negativo.
Diciamo che si interrogano sulla nozione di positivo e di negativo, le considero in quanto significanti e quindi con tutto ciò che è connesso a questi elementi dal discorso occidentale.
- Intervento: Obiezione: queste sue teorie derivano da strutture del pensiero, quindi anche lei è portato a credere, ad organizzare questi suoi discorsi in un certo qual modo.
Certo, ed è esattamente questo che sto interrogando, proprio questo...
- Intervento: ed affermando lei sta smontando tutto quello...
Che cosa affermo? Una sola cosa, che non è né provabile, né confutabile e cioè che non c'è uscita dal linguaggio, per il momento solo questo, poi in seguito vedremo, e sto valutando quali siano le implicazioni di questa proposizione che di per sé non può negarsi, come dicevamo, salvo negare la possibilità stessa di negare alcunché.
- Intervento: io ho usato tante parole per tante cose, poi ad un certo punto le parole, stanche di essere sfruttate si sono ribellate.
E allora?
- Intervento: E allora questo nella presentazione più concreta della sua ipotesi per cui una cosa può essere se stessa e il suo esatto contrario...
E quindi?
- Intervento: e quindi non c'è più nulla!
Questa è la tesi del nichilismo, da qui la depressione. Ecco perché lei è depresso.
- Intervento: Sul Nichilismo. Emanuele Severino, Vattimo e altri filosofi.
Certo è una questione, non mi sembra di essere molto vicino a Vattimo, lui sostiene il pensiero debole, io sostengo il pensiero forte, potente, anzi, il più potente che sia mai stato pensato. Perché più potente? Perché molto semplicemente si avvale della stessa struttura del linguaggio, attraverso cui può pensarsi qualunque tipo di pensiero, e cioè muovendo da proposizioni che, come dicevo prima, non possono essere negate, non possono essere negate perché negarle varrebbe l'impossibilità di negare alcunché. Quindi non posso non accoglierle. Ora perché un pensiero forte? Perché si avvale di alcuni principi, ma portati alle estreme conseguenze, prenda per esempio quelli antichissimi, l'aristotelico principio di non contraddizione, bistrattato negli ultimi secoli, provi a portarlo alle estreme conseguenze. Troverà qualcosa di sorprendente e cioè che aveva inteso qualcosa di straordinario. Lei può negare qualunque cosa e il suo contrario, come dicevo prima non è difficile, ma provi a negare che sta parlando, può farlo, ma nega qualcosa che sta facendo, nega di fare qualcosa che sta facendo, non soltanto, ancora di più, nel negare queste cose lei utilizza dei significanti, dei termini, questi termini sono quelli e non altri, nessuna possibilità che siano stati altri, sono stati quelli e quelli soltanto e con quelli si confronta, quelli ha detti. Come dire che ci sono delle procedure, una serie di procedure che consentono qualunque cosa tranne uscire da queste stesse procedure. Indicavo in effetti la struttura o la formulazione della contraddizione, come l'affermare di uscire dal linguaggio, lei per affermare questo deve utilizzare il linguaggio necessariamente, e quindi fa esattamente ciò che sta dicendo di non fare. Questa come struttura della negazione. E allora il pensiero debole, che lei ha un po' sintetizzato, in effetti Vattimo lo elabora un po' di più, muovendo dall'ermeneutica, suppone certo che ciascuna cosa sia dipendente, ma badi bene, dipendente da che cosa? Perché anche in questo caso porta il discorso alle estreme conseguenze, quello ermeneutico, intendo dire? L'ermeneutica gira intorno a un testo nella supposizione di potercisi avvicinare e nella certezza di non raggiungerlo mai. Ma da dove viene questa idea così strana? Perché mai un pensiero del genere? Pensando una cosa del genere è chiaro che si vota alla debolezza, cioè non potremo mai raggiungere ciò che cerchiamo. Ma ciò che cerchiamo è ciò che noi stessi abbiamo stabilito oppure esiste di per sé? Se lo abbiamo stabilito, lo facciamo esistere nel momento in cui lo cerchiamo, se esiste di per sé è Dio, né più, né meno, come dire che l'ermeneutica, e così anche il pensiero debole, hanno necessariamente a fondamento, per potersi pensare, ciò stesso che ritengono di avere evitato, cioè la metafisica, metafisica nell'accezione più corrente del termine, cioè il discorso sui fondamenti, sull'origine. Ecco perché invece proporre un pensiero forte, forte di che? Forte del linguaggio di cui è fatto, forte della consapevolezza che in nessun modo può uscire dal linguaggio e che col linguaggio può fare qualunque cosa, tranne appunto uscirne, cioè non può violare le procedure linguistiche, che sono quelle di cui è fatto il discorso, anche perché, cercando di violarle, dovrebbe utilizzarle comunque per parlare e quindi sarebbe daccapo. Ecco, provare a pensare un pensiero forte, straordinariamente forte. Non perché sostenibile, ma perché non negabile in nessun modo. È una bella trovata.