LA POLITICA DELLA PSICANALISI
16 aprile 1993
Introduzione di Sandro Degasperi.
Questa sera diamo inizio al primo di una
serie di incontri su “La politica della psicanalisi”.
È noto come la questione politica stia
raccogliendo molto interesse in questi ultimi anni. Il crollo del muro di
Berlino ha costituito l’atto conclusivo del fondamentalismo ideologico, è stato
la metafora del crollo delle ideologie, del marxismo-leninismo e ha segnato
l’avvio di un percorso di trasformazione che sta attraversando tutta l’Europa.
Questo in un momento in cui si parla di unità europea. L’Europa, potremmo dire,
è la scommessa, è la posta in gioco di questa trasformazione. L’Europa non è
tuttavia l’esito scontato, il risultato naturale di questa trasformazione.
L’Europa è un atto arbitrario, l’Europa non è naturale, non esiste in quanto
tale, è un artificio, qualcosa da inventare. Il no di alcuni paesi al trattato
di Maastricht dimostrano chiaramente come l’Europa non vada da sè, come non sia naturale.
L’Europa resta una scommessa proprio oggi
mentre stiamo assistendo a una microframmentazione di
stati sempre più piccoli e a guerre locali in cui ciascuno dei contendenti
cerca di ritrovare la propria identità nazionale, religiosa e etnica, la
propria origine.
Laddove la separazione fra paesi
occidentali capitalisti e paesi dell’Est comunisti aveva mantenuto
un’immobilità in cui l’Altro, la differenza erano rappresentati dal nemico al
di là del muro, con la fine delle ideologie, con il crollo di questo muro la
scena è divenuta incontrollabile, ingestibile. Si è trattato di trovare ovunque
l’Altro, di individuare a tutti i costi il nemico, di isolare la differenza, di
espellerla, di attaccarla. L’Altro viene personificato, rappresentato e, in
questo modo, la differenza diventa convertibile in diversità. E così viene
rappresentata nel diverso, nell’ebreo, nell’extracomunitario, ecc.
In Italia, la vicenda tangentopoli, il
fenomeno leghe, il dibattito sull’assetto istituzionale segnano il passo di
questa trasformazione.
Con la crisi dei partiti, seguita alla
fine dell’ideologia comunista, fine che ha scosso un equilibrio dualista che ha
retto l’Italia per più di quarant’anni, è esplosa la denuncia della corruzione.
La partitocrazia ha lungamente occupato lo stato assumendo una macchina del
tempo atta a produrre e gestire un’egemonia totalizzante sull’impresa, sulla
finanza e sulla cultura secondo una logica della spartizione retta dal
principio della tangente. Oggi, la denuncia della corruzione dei politici è
così estesa e travalica i confini cittadini, regionali e partitici che dimostra
che in ballo non è l’onesta personale di qualcuno, non è in questione la
correttezza personale o dei partiti, è in discussione l’ideologia della
politica. Questo è l’aspetto più interessante. Tuttavia, anche in Italia si
assiste a un recupero dei vari arcaismi, dei vari provincialismi nel tentativo
di economizzare la trasformazione. Recupero che sembra riuscito laddove si ascolta
un delirio giudiziario e inquisitorio e il dibattito sembra arrestarsi su una
dicotomia purismo-corruzione in cui ancora una volta si tratta di rappresentare
l’Altro nel nemico.
Oggi sembra molto difficile pensare una
politica senza nemico. Una politica senza nemico resta, tuttavia, la scommessa
dell’avvenire.
C’è una politica, la politica della
psicanalisi come scienza della parola, che non è la politica dei partiti, che
non è la politica del discorso comune moralista, che non è la politica delle
visioni del mondo, ma è la politica della parola, la politica del tempo, della
divisione, dell’apertura.
La politica della psicanalisi non toglie
l’Altro, non deve rappresentarlo, personificarlo, ma procede dalla funzione di
Altro, dalla funzione di terzo, dal principio del terzo incluso che sovverte il
bipolarismo ideologico gnostico di cui ha vissuto il sistema politico italiano
e internazionale.
Il discorso occidentale si è retto da
Aristotele in poi sul principio del terzo escluso, sulla necessità dell’eliminazione
dell’Altro, della differenza per garantire l’identità, l’unità.
La funzione di Altro, la funzione di
terzo, la funzione vuota è ciò che impedisce che la parola sia identica a sé, è
ciò che impedisce la significazione, è ciò che impedisce che il discorso possa
chiudersi formando un’unità, un tutto.
Il discorso politico occidentale ha
creduto di poter esercitare la padronanza sulla parola offrendone lo
spettacolo. Ha creduto possibile controllare la parola, ha creduto possibile
controllare la scena, dirigerla, come se la scena fosse la scena tutta, la
scena delle cose finite, immobili. La psicanalisi dice invece di una parola
infinita, di una scena delle cose infinite, di un’altra scena che si produce
parlando, di una scena non controllabile, non isolabile perché c’è sempre
dell’Altro.
La politica senza nemico dunque è una
politica che proceda dall’Altro, dalla differenza, dalla sua ammissione. In
altri termini, una politica dell’integrazione che consenta d’inventare l’Europa
e da cui possa emergere la pace. Non la pace
dell’armonia cosmica, che è sempre fondata sul terrore, ma la pace come indice
della differenza sessuale, come indice della soddisfazione.
Intervento di Luciano Faioni.
Freud ha scritto dei testi politici,
fortemente politici, solo per citarne alcuni, il Disagio della civiltà,
l’Avvenire di un’illusione, l’Uomo Mosè e la religione monoteista e, se volete,
anche le risposte alle lettere di Einstein.
Un intervento politico e non partitico,
cioè un intervento che non si avvicina né a un partito né a un altro. È una
nozione di politica assolutamente lontana da quella aristotelica, vale a dire
quella attuale, cioè politica come la distribuzione dei beni a ciascuno secondo
i propri meriti, con una valutazione e un criterio ciascuna volta differente,
ma l’impianto resta comunque quello, consente cioè questa distribuzione in modo
che ciascuno abbia il suo. Da allora il pensiero, pur con alcune varianti, è
rimasto lo stesso: la possibilità di una distribuzione, vale a dire di una
misurabilità del bene che deve essere distribuito.
Per Freud la politica attiene
all’immisurabile, a ciò che non è né distribuibile, né partecipabile, né
gestibile. Indicava tre mestieri impossibili: governare, educare e
psicanalizzare.
Una posizione, dunque, di chi non suppone
per nulla che la politica abbia a che fare con la distribuzione e quindi con la
misura, con l’essere più o meno misurati nella doppia accezione del termine. Se
voi leggete alcuni di questi testi a cui accennavo prima, cogliete
immediatamente che l’obiettivo, la direzione è quella di intendere la struttura
di una credenza che è necessaria al mantenimento della supposizione della
necessità della politica nell’accezione di cui dicevo prima.
Se volete dirla altrimenti, l’avvio di un’elaborazione
in termini precisi, scientifici, del gesto di Platone e della sua favola, della
sua nobile menzogna come la chiama nella Repubblica. Ciò su cui Freud si
interroga, in definitiva, è intendere il perché di questa menzogna, da dove
viene, e quali, di questa menzogna, sono gli effetti per ciascuno. La menzogna
è quella di far credere alla necessità di una misura nelle cose, che le cose
debbono essere misurate, pertanto, partecipate e partecipabili.
Freud non si è mai posto nell’ambito di
un discorso religioso, di un discorso che debba necessariamente salvare.
Discorso religioso nell’accezione più ampia del termine. Mi riferisco a una
struttura del pensiero che è religiosa e che si pone, appunto, l’obiettivo di
salvare qualcuno da qualche cosa.
Come salvare qualcuno da qualche cosa?
Due cose sono necessarie: indicare il male e indicare il bene, la via della
salvezza.
Freud non ha mai partecipato a questa
orgia salvifica: non ha mai indicato quale fosse il male e non ha mai detto
quale fosse il bene da raggiungere e quale la via della salvezza. E è questo
che ha suscitato qualche perplessità. A tutt’oggi il dibattito insiste intorno
a questo: Freud non è stato un salvatore.
La psicanalisi non salva, lo psicofarmaco
sì.
Il dibattito, che era presentissimo al
tempo di Freud e ancora oggi lo è, poggiava su questo equivoco, che la
psicanalisi fosse uno strumento di salvezza. L’accusa dice che non lo è.
Infatti, non lo è mai stata, non si è mai posta in questi termini. Non si è mai
posta per Freud. Altri poi hanno preso altre vie.
Tolto, quindi, il progetto di salvezza,
la politica non è più pensabile nei termini di un’equa e giusta distribuzione
del bene.
I terapeuti, di cui parlavamo qualche
tempo fa a proposito di Filone alessandrino, immaginavano il bene come
l’essere. Era una tesi che traevano anche da Aristotele. Si tratta nel pensiero
politico, così come è passato fino a oggi, di una giusta, corretta, equa
distribuzione dell’essere: che ciascuno abbia la sua parte e ne sia quindi
partecipe.
Non tutto, però, perché l’essere tutto,
in quanto tale, nel cristianesimo è posto come irraggiungibile, è sempre al di
fuori, è dio. Per la posizione gnostica, invece, è ottenibile attraverso un
certo percorso che occorre fare seguendo alcune regole.
Dunque, dicevamo della distribuzione
dell’essere, del bene. Chi più del terapeuta si occupa di questo, della
distribuzione del bene? I terapeuti di cui parla Filone alessandrino era una
setta che operava intorno al I sec. d. C. e che aveva come obiettivo la
salvezza non soltanto psichica ma anche morale, etica. E, in una parola, anche
quella politica. C’entra Aristotele, occorre leggere Aristotele perché una
quantità considerevole di questioni che oggi sono date come acquisite,
scontate, ovvie, naturali, sono un’invenzione di Aristotele. Non sono né
naturali, né ovvie, né evidenti, proprio per nulla.
I terapeuti, dunque, sono coloro che
sanno quali siano esattamente i bisogni del prossimo e sanno che il prossimo,
finché non abbia soddisfatto i propri bisogni, è insoddisfatto e sanno come
soddisfare questi bisogni. Tutto questo sa il terapeuta. Come lo sa? Questa è
una questione molto spinosa su cui si glissa con estrema disinvoltura. Nella
migliore delle ipotesi lo sanno perché direttamente ispirati da dio. Dico nella
migliore delle ipotesi perché la peggiore è, invece, quella di ritenersi la
mente, la mente del popolo, la voce del popolo, idea che è comunque sempre
connessa a dio. Vox populi, vox dei. La questione di dio va molto al di là del
cristianesimo, evidentemente.
Il terapeuta qui è il politico ideale,
l’uomo politico, l’homo politicus, colui che si occupa di togliere il disagio
in quanto non essere, come ciò che non è e, quindi, si fa anche fautore del
vero indicando ciascuna volta il falso.
Tutto ciò che vado dicendo è certamente
molto noto ma comporta l’invito, oggi, a una riflessione intorno a ciò che sta
avvenendo, non tanto oggi in quanto stanno avvenendo cose più o meno
spettacolari, ma come per ciascuno, si ponga la questione politica, come
ciascuno la incontra e come funziona.
Può avvenire che si immagini che l’uomo
politico sia in effetti il terapeuta, cioè colui che deve soddisfare i bisogni
di ogni genere, demandando pertanto a altri, sempre e necessariamente, la
possibilità e la capacità di togliere il proprio disagio.
Se voi state male, questo è il motivo.
C’è una prontezza, una facilità, una rapidità nell’attribuire, di volta in
volta, il male a qualcosa o a qualcuno.
Il male coalizza sempre, si fa sempre
fronte comune di fronte al male o, se preferite, di fronte al nemico. Quando
c’è una guerra tutto il popolo si fa uno contro il nemico. Pochissime cose,
quanto la guerra, hanno la capacità di coesione della popolazione. Di colpo
scompaiono tutti i dissidi interni, tutti i problemi svaniscono. Addirittura,
diceva Freud in un modo un pò umoristico, persino le
nevrosi, durante una guerra, scompaiono: tutti stanno perfettamente bene.
Oggi, con l’ampliarsi dei mass-media, la
spettacolarità ha avuto una portata sempre maggiore. Anche i processi diventano
spettacolari. Purtroppo la gogna è in disuso, ma se si potesse ... Le
esecuzioni avvenivano sempre in pubblico, l’aspetto spettacolare ha sempre
costituito una componente fondamentale, perché unisce.
Dunque, la necessità è quella di far
fronte comune o, comunque, fare di tutto perché i cittadini siano uniti. Ecco,
allora, lo scandalo politico. Lo scandalo politico comporta che tutti siano
d’accordo nel dire che c’è un tizio che è uno sciagurato. Non ci interessano le
valutazioni morali, ci interessano gli effetti di un discorso, gli effetti di
un percorso. Sono importantissimi gli effetti, intendere ciascuna volta dove
conduce un discorso. Questo perché da ciò che produce può intendersi moltissimo
rispetto a ciò che ha mosso un certo dire, un certo fare. È la questione del
lapsus, dell’atto mancato, questione elaborata da Freud in termini molto
precisi.
Ecco, allora, lo scandalo politico
avvicina, almeno per un aspetto. Ciò che importa è che ciascuno incominci a
riflettere, come dicevo prima, su varie questioni. La questione politica è la
questione della divisione quindi dell’impossibilità di misurare. La divisione
non è gestibile, non è arginabile, nel senso che le cose si dividono da sé e
pertanto sono immisurabili. In questo senso, ciascuno può riflettere intorno alla
politica del proprio discorso.
Certamente, questo non toglie una
riflessione anche intorno agli avvenimenti attuali, avvenimenti che possono
intendersi non soltanto attenendosi rigorosamente al pensiero politico così
come è strutturato ma anche e soprattutto cogliendo come lo scandalo politico
abbia una funzione di normalizzazione. Lo scandalo ha questa funzione,
nessun’altra: indicare che è tempo che le cose diventino normali, che le cose
cambino, che bisogna fare in un certo modo. E è così da sempre, lo si può
leggere nello scandalo relativo a Verre, accusato da Cicerone di concussione,
attualissimo. Le questioni sono le stesse, anche il processo si svolge negli
stessi termini. C’è un progetto, non sempre consapevole, non sempre del tutto
noto e che attraversa ciascuno scandalo politico.
Lo scandalismo dice che qualcosa deborda
rispetto alla normalizzazione. Ma al di là di questo, vale a dire della portata
morale, importa come ciascuno reperisce queste questioni rispetto al proprio
discorso, cioè che cosa fa scandalo nel proprio discorso, che cosa interviene
come inammissibile, come insostenibile. Come dire tutto, ma questo no, questo
proprio non può passare, non deve avvenire. Lì si intravede lo scandalo, che è
il modo più corrente e diffuso di avvertire come qualcosa sia funzionale al
discorso comune in quanto è soggetto a essere ricondotto sulla retta via.
Dicevo all’inizio che il messaggio di
Freud allude a una questione straordinaria nel senso che indica nell’ordinario,
nel misurabile, nella supposizione più o meno metafisica che qualcosa sia
misurabile, pertanto partecipata o partecipabile, una delle illusioni più
sorprendenti, più curiose e bizzarre che si possano immaginare. Tant’è che la
esplora lungo tutta la sua elaborazione. Non c’è in Freud né pessimismo né
ottimismo, non gliene importa nulla. Ciò che lo interroga è come le cose
avvengono, non come porre dei rimedi. Il terapeuta è, invece, colui che pone
dei rimedi perché sa qual è il bene.
Freud non si è mai chiesto che cosa fosse
il bene, cioè qualcosa a cui ricondurre sempre tutto, necessariamente. Aveva
altro da fare. Non ci credeva, non era né ingenuo né sprovveduto. Quando
Einstein gli chiede cosa fare perché le guerre cessino, Freud non risponde
nulla, non ha alcuna ricetta. Non è un terapeuta. Non ha la ricetta, non si
pone come l’uomo politico, prova soltanto a formulare delle questioni, che
riguardano lui, come potete leggere nell’Interpretazione dei sogni. Si domanda
come mai qualcosa avviene in un certo modo anziché in un altro.
Questo non è andato a genio. Il discorso
di Freud non è funzionale al regime, alla normalizzazione. Non andava a genio a
Stalin, a Gramsci, a Mussolini, a padre Gemelli, non andava a genio a nessuno
che si ponesse come terapeuta, di volta in volta.
Ciò che andava inventando Freud non era
propriamente una tecnica di guarigione ma un primo modo di avviare
un’elaborazione intorno alla nozione di guarigione e, quindi, di male. Non è
mai partito dal concetto di sacro, cioè che ci fosse qualcosa di assolutamente
intoccabile e di cui non si dovesse parlare, ha provato a interrogare questi
concetti su cui si fonda il discorso occidentale quali il concetto di
sofferenza, di sacrificio, di male necessario, ecc. Ciascuno può ritenere che
ciò che lo angustia o lo angoscia sia necessario,
oppure, no. Ciò che si chiede Freud è: se sì, allora, come mai? Forse, non va
da sé, per cui questa idea può essere connessa con altri elementi e trovare
così una fantasmatica che la sostiene. Già Cristo sosteneva che la sofferenza
non è necessaria.
Invece, curiosamente, si ascolta da parte
di molti, anche sui giornali quando intervengono, come la psicanalisi debba
essere il modo per imparare a convivere con la sofferenza. Questa è una forma
di rassegnazione desolante. Un mondo di rassegnati, di sconfortati, di
avviliti. La psicanalisi non dice questo. È Jung che aveva quest’idea, che
ciascuno, per farla breve, occorre che si accetti per quello che è. Freud no,
semmai Freud pone delle obiezioni proprio intorno a ciò che ciascuno crede di
essere.
Ecco la distanza dall’ermeneutica, cioè
dall’interpretazione. Freud è lontanissimo da ogni codice interpretativo, vuoi
semantico, esegetico o ermeneutico. L’interpretazione è del terapeuta, è lui
che interpreta, naturalmente sempre per il bene dell’altro. Il terapeuta,
ovvero l’homo politicus. Non c’è terapeuta, o tiranno se preferite, che non
faccia qualunque cosa sempre per il bene dell’altro. Ciascuna guerra è sempre
fatta per la pace. Ciascuna guerra è l’ultima. Si fa la guerra perché non ce ne
siano più. Quando mai si è fatta una guerra semplicemente per il gusto di
farla? No, ciascuna volta è l’ultima. Anzi, è una necessità tremenda ma
inevitabile, perché non ci siano più guerre.
E così il terapeuta dice che è l’ultima
sofferenza, che è l’ultimo sforzo, l’ultimo sacrificio. Diceva Sade “Francesi,
ancora uno sforzo!” per poi liberarsi. Ma chi ha l’idea di liberarsi da
qualcosa già parte male perché parte dalla certezza che ci sia un quid, un
qualcosa in quanto tale da cui allontanarsi. Ma non sarà, forse, proprio questo
a istituirlo come tale, questa credenza, questa certezza che sia proprio così?
Nulla è più funzionale a un gruppo, di
qualunque forma sia, che la trasgressione del ribelle. I ribelli sono necessari,
assolutamente. Sono le persone che più di altri credono in un’istituzione, per
abbatterla.
Si tratta ciascuna volta di un’opera di
pulizia e di polizia. Di pulizia, cioè, togliere il marcio, il male. Tolto
questo ci sarà il bene. Tolto, aristotelicamente, il non essere, l’essere è
finalmente totale, è il tutto. La purificazione, il purismo, costituiscono una
questione importantissima da svolgere, da elaborare e da intendere. Che cosa
sostiene l’idea di purezza e, quindi, dello sporcarsi le mani, del lavarsi le
mani, dell’avere le mani pulite. È sempre questione di mani, la mano insiste in
varie configurazioni.
Il purismo, come forma di pulizia, è il
supremo obiettivo del terapeuta. Il terapeuta è sempre l’uomo dalle mani
pulite, colui che è innocente, vale a dire colui che non nuoce. E, non
nuocendo, si pone fuori, è colui che non c’entra.
È una questione straordinaria quella
dell’innocenza, che muove da una supposizione che il nocumento sia la
prerogativa di qualcuno. Chi nuoce, propriamente? C’è un nocumento, nel senso
di qualcosa che altera nella parola. Ciò che si dice ciascuna volta si altera,
nuoce, non è innocente. Le parole non sono innocenti.
Chi è l’innocente? Per definizione, è
l’infans, colui che, guarda caso, non parla. Chi non parla, chi è fuori della
parola, è innocente. La questione dell’innocenza è ancora tutta da elaborare,
magari partendo da alcune considerazioni che ha fatto Freud intorno al crimine.
Criminali per senso di colpa, scrive
Freud, come qualcuno giunga a ammazzare qualcun altro per finalmente riuscire a
dare un senso a un senso di colpa che insiste e che non riesce a sistemare.
È, quindi, la questione della
confessione. Theodor Reik scrive un libro che fornisce materiale interessante e
che si chiama “L’impulso a confessare”, impulso che è tipico del discorso
ossessivo.
Dunque, è l’homo politicus, come il
terapeuta per antonomasia, come il normalizzatore, che si avvale,
aristotelicamente, della politica come concetto normalizzante. Leggete la
Politica di Aristotele e troverete il concetto espresso in modo preciso. E da
Aristotele si può giungere a altri autori, fino a Rousseau e fino a Hegel.
Forse, solo Machiavelli prende le distanze da questo dicendo che nella politica
non si tratta di una misurazione, di una distribuzione equa. Dice che è vano
immaginare tutto questo e che, anzi, forse proprio questo pensiero è quello che
ha causato i peggiori massacri.
La politica della psicanalisi, dunque. La
politica come l’innumero, l’innummerazione che la psicanalisi incontra.
Abbiamo accennato all’etimo del termine
psicanalisi: psiché come soffio, leggerezza, analysis come non soluzione.
Questo va dicendo Freud in tutte le sue pagine, che non c’è soluzione, che è
inutile cercarla, inutile supporre di rendere le cose misurabili, partecipabili
e confortanti perché non lo sono.
Nell’Avvenire di un’illusione Freud
indica che l’illusione è strutturale, comporta il gioco, il gioco in cui
ciascuno si trova, gioco linguistico, fantasmatico e in cui è preso
continuamente da ciò che si trova a dire, a fare, a pensare.
L’illusione, quindi, non può togliersi ma
non può nemmeno darsi. Nessuno può dare a altri l’illusione, né
può togliere l’illusione in quanto è strutturale. La delusione interviene là
dove si suppone di poter gestire il gioco. In questo caso, la delusione è
sicura.
L’illusione di cui parla Freud è la
speranza in quanto apertura, l’apertura che ciascuno incontra nelle cose
continuamente. Le cose non si chiudono ma si aprono. Anziché chiudersi e
comporre il circolo, che è sempre vizioso, si aprono. Quindi, alludono e
illudono, letteralmente, cioè portano verso il gioco e si strutturano nel
gioco. E non c’è chi sappia fare né condurre il gioco. Il terapeuta è, invece,
colui che suppone, o fa credere, di sapere giocare e, quindi, sa quali sono le
regole del gioco.
Al contrario, Freud indica che le regole
sono mano a mano strutturate dal gioco e non lo preesistono. Ciascuno le
incontra e può attenervisi. Le incontra trovandosi preso lungo questo gioco.
Perché ho accostato il terapeuta al tiranno?
Sono tre le figure di cui possiamo parlare: il despota, il tiranno e il
vampiro.
Il despota è colui che gode del suo
potere, è colui che, in quanto despota, dispone di tutto e di tutti. È una
figura vicina al discorso isterico. Il despota è il soggetto supposto godere.
Il tiranno, invece, non gode ma soffre.
Soffre perché desidera il bene dell’Altro. Anche nell’accezione antica il
tiranno è colui che governa per il bene e, quindi, sa qual è l’ultimo
sacrificio da fare. È colui che dice, per l’appunto, che oggi dobbiamo
sacrificarci e soffrire affinché il domani sia migliore. Si avvale della nobile
menzogna. Qual’è la menzogna di Platone? Che ciascuno
deve stare necessariamente al suo posto. Chi è figlio del tale occorre che
resti tale, perché deve essere così, perché non può muoversi dalla sua
posizione.
È questa la questione che pone il
tiranno. Il tiranno si fa carico della sofferenza di tutti, è sempre oberato da
tutti i mali del mondo, ma sempre per poterlo liberare dal male.
Il despota è sempre stato accostato
all’orientale, al sultano, al pascià, al califfo, al soggetto gaudente. Il
tiranno, invece, è più un’immagine cristiana.
Il vampiro è infine colui che è supposto
dire la verità. Il vampiro si nutre della sostanza, vive della sostanza, della verità.
Sono figure di un modo di pensare la
politica.
Il despota non è un homo politicus, è
sempre al di fuori di tutto. Come il vampiro, il tiranno, invece, indica la
direzione da seguire, una direzione, però, che è sempre sofferta, travagliata.
Nel ‘68 si scriveva sui muri “Vogliamo
tutto e subito”. Non avevano torto. L’intoppo sta nel supporre che siano altri
a doverlo dare. In questo caso, sorgono dei problemi perché si suppone che ci
sia un tutto, pertanto, un essere, un bene che qualcuno possiede e che può
distribuire.
“Se non me lo vogliono dare non mi resta
altro da fare che ammazzarli.” Da qui vari conflitti. Come dicevo, la guerra è
sempre l’ultima perché se sono loro che hanno il bene, una volta eliminati me
ne impossesso e finalmente ne godo. Freud incomincia a avvertire l’eventualità
che non sia proprio così. Certamente occorre che ciascuno voglia tutto e
subito, ma può accorgersi che forse ce l’ha già. Si tratta solo di
accorgersene: ciò che desidera non c’è chi possa darglielo. Questione che apre
a un’elaborazione straordinaria, apre, cioè, alla ricchezza di cui ciascuno
dispone, una ricchezza senza limiti, inesauribile. Freud la intravede,
soprattutto nello scritto intorno ai sogni, laddove si accorge che il desiderio
non è affatto il volere. C’è una distanza immensa, incolmabile tra qualcosa che
lui individua come il desiderio e ciò che si vuole. Distanza che il terapeuta
suppone e fa credere di essere in grado di colmare. Freud dice, invece, che è
incolmabile, che non c’è nessun modo di togliere il desiderio, cioè sovrapporlo
al volere. Facendo questo toglie ogni possibilità, ogni eventualità di potere
supporre di togliere il bisogno. Indica, piuttosto, nel bisogno il significante
del malinteso, lontanissimo, quindi, dal poter essere tolto o soddisfatto.
Non è un caso che, come dicevo
all’inizio, Freud indichi il governare come uno dei tre mestieri impossibili.
Dicendo questo non fornisce nessuna ricetta. Non dice “gli altri fanno male, io
vi dico come dovete fare”. Non gliene importa assolutamente nulla. Incomincia a
trovarsi in una posizione dove, propriamente, non crede. Non crede al male,
pertanto, non crede neppure al bene. Con questo passo, con questo gesto, ha
aperto tra lui e il terapeuta una distanza che è e rimane assolutamente incolmabile.
Non crede al bene, dunque, non crede alla salvezza, alla salute mentale. In che
cosa crede? Non crede. Non crede ma interroga, interroga le questioni.
Interroga in un modo differente dal modo in cui avviene l’interrogazione nel
Menone di Platone, dove lo schiavo sa già tutto, e si tratta solo di far
ricordare ché, se interrogato correttamente,
risponderà.
La dottrina della corretta
interrogazione. Come interrogare per sapere ciò che voglio sapere? Questa è
l’interrogazione che fonda la risposta. È il sistema giudiziario. Un sistema
che si avvale dell’interrogazione per stabilire i fatti. Dico sistema
giudiziario e non giuridico non a caso. Il diritto si interroga molto su queste
cose e avverte che il fatto in quanto tale non esiste. È una produzione che
avviene lì, in tribunale. Si inventa lì, sul momento. Tant’è che c’è tutta
un’arte per fare in modo che ciò che si produce lì, e che si costruisce proprio
dal nulla, abbia una certa forma e sia, pertanto, verosimile, credibile. Già
dall’antichità ci sono indicazioni per come soddisfare una giuria.
Nel discorso occidentale l’interrogazione
fonda la risposta sulla scia del Menone. La fonda in quanto sa già qual è la
risposta giusta. Ciascuna volta il domandare vale soltanto per confermare. La
domanda cerca una conferma, non altro. Si dice che la domanda cerchi la verità.
In questa accezione la verità è un concetto metafisico, l’essere, l’essere
tutto, l’essere di cui parlano i filosofi. In effetti, dire la verità è dire le
cose che “sono”.
Della verità abbiamo detto alcune cose in
altre occasioni, prendendo le distanze dalla metafisica, dalla verità come
essere. La verità è un effetto del discorso, ciascuna volta effettuale,
assoluta e non relativa. Non c’è nulla di relativo, propriamente e
contrariamente a Einstein che voleva sempre rapportare una cosa a un’altra.
Il relativismo è una posizione un po’
voyeuristica, immagina sempre un osservatore da qualche parte che guardi come
le cose si svolgono senza avvertire, come poi avvertiranno altri, che l’osservatore
non è poi così innocente. È impossibile osservare, impossibile porsi come punto
di vista, il panottico che tutto contempla, tutto vede. Non c’è il punto di
vista. Non essendoci punto di vista non c’è nulla di relativo. Non c’è
“relativo a me”, a me chi, propriamente? Questo me, questo io che sta parlando
non va da sé che mi sia noto, che io ne sappia al riguardo. In altri termini,
il riferire le cose a sé o a altri cambia poco, nel senso che non so nulla
dell’altro, esattamente quanto so di me. So quello che penso mano a mano che ne
parlo, vengo a sapere delle cose ma è un sapere che non fonda, che non è
fondante o fondato.
Ecco, allora, tutto questo per introdurre
la questione dicendo del discorso che avanza Freud in questa sua ricerca che ha
chiamato psicanalisi. Questo termine è oggi molto inflazionato, qualunque cosa
diventa psicanalisi al punto che è da verificare se è ancora interessante
attenersi a questo termine.
Dicevo, dunque, appena per accennare la
distanza che pone Freud dal terapeuta, da colui che salva, dall’homo politicus,
come colui che sa il bene, colui che si muove per soddisfare i bisogni. Per
Freud il bisogno è il malinteso, non è possibile soddisfarlo, in nessun modo.
C’è soddisfazione, ciascuno può incontrare la soddisfazione ma non in quella
direzione.
Ecco, mi fermo qui provvisoriamente,
anche per lasciare spazio a delle questioni che possano formularsi.
Risposte lungo il dibattito.
Il bisogno, negli anni ‘70, ha una certa
accezione, una certa portata, riguarda i bisogni del popolo. Il terapeuta pone
tale bisogno come necessità. Freud avverte una distanza tra ciò che si enuncia
di volere e il desiderio. Indica come desiderio qualcosa che resiste, che
resta, che non è soddisfatto dall’ottenimento di ciò che si vuole. Come trova
questo? Non soltanto nell’Interpretazione dei sogni ma lungo la clinica,
soprattutto nell’analisi del discorso isterico che di questo desiderio fa una
caricatura. È un modo in cui l’isteria avverte che il desiderio non è
esauribile, in nessun modo. Qualcosa insiste, resiste a qualunque tentativo di
toglierlo di mezzo. Il discorso isterico ha creato un modo, in alcuni casi
anche drammatico, con cui avverte l’impossibile connesso al desiderio. Freud lo
trova lì, in ciò che resiste e che fa ostacolo alla chiusura. Qualcosa continua
a lasciare a desiderare. Lo reperisce in uno spostamento continuo, strutturale.
Questo desiderio è tutt’altro che marginale per ciascuno perché è ciò che lo
muove, insieme a altre cose. Costituisce un aspetto determinante nella vicenda
di ciascuno per il modo con cui tenta di porre rimedio a questo impossibile
costruendo varie strutture, vari marchingegni che dovrebbero toglierlo,
definitivamente, come l’ultima risposta al desiderio.
Nel discorso occidentale, hegelianamente
o come vuole il discorso ossessivo, l’ultimo desiderio è la morte, quello che
toglie finalmente il desiderio, dopodiché non si desidera più. Da qui tutta la
questione del discorso ossessivo intorno alla morte.
La connessione tra desiderio e bisogno è
una questione importante rispetto al discorso politico, poiché da questa o su
questa coincidenza, sull’idea, sulla supposizione di questa possibile
coincidenza, si istituisce ogni promessa politica.
Che cosa funziona? L’idea che,
rispondendo al bisogno o a ciò che si avverte come tale, si risponda anche al
desiderio. Ma il soddisfacimento di questo bisogno già sposta la questione
perché comporta altre immagini, altri pensieri. Non è che l’impossibile
soddisfacimento del desiderio sia un male, anzi, è una fortuna. Ma in questo
caso la supposizione, la suggestione è che rispondendo in questo modo si chiuda
una domanda e, quindi, non ci sia più del disagio, l’inquietudine, qualcosa che
interroga e che continua a domandare.
Ci si pone qui di fronte alla questione
della domanda, domanda che attiene anche al desiderio, anche se non è la stessa
cosa. Domanda pulsionale inestinguibile che comporta il disagio, il disagio
della civiltà, che è strutturale. Il disagio non è lo stare male. Lo stare male
è la rappresentazione, la messa in atto dell’impossibilità di togliere il
disagio.
Il dare soddisfazione a un bisogno
comporta ogni volta un malinteso così come togliere un equivoco comporta ogni
volta un altro equivoco, inevitabilmente.