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LA LOGICA NEL LINGUAGGIO, COSA FANNO LE PAROLE

 

15-12-1995

 

Questa sera c'è la neve, e questo ha dissuaso i più. Questo è l'ultimo degli incontri di questa serie, che potrà proseguire magari nella seconda metà di gennaio e con una modalità differente. Gli elementi che abbiamo acquisiti in questi incontri possono essere posti in atto, fatti funzionare, per esempio leggendo anche dei romanzi, perché no? O anche degli scritti di vario genere come tempo fa avevamo fatto. Ad esempio, avevamo tratto alcuni brani da Dante oppure da Kafka, oppure da Lewis Carroll, avevamo letto Alice nel Paese delle meraviglie, tra l'altro Lewis Carroll era un logico. E quindi vedere come di fatto, ciò che andiamo dicendo non sia una cosa così astrusa e strampalata, ma sia un modo per esporre o per illustrare ciò che di fatto accade ciascuna volta in cui ciascuno parla. In effetti, le cose che dicevamo la volta scorsa a partire dalla retorica ci hanno condotti a una riflessione finale, visto che teniamo conto, come dicevamo, che questa sera diremo delle cose intorno alla logica nel linguaggio. La logica è stata quasi sempre intesa come un elemento che affianca la parola, affianca il discorso, affianca ciò che si dice come una struttura all'interno di una struttura, o a fianco a una struttura. Da Aristotele, che si è occupato di dare alla logica un suo statuto preciso, ciò che ne è seguito e che era assente per esempio tra i Presocratici, è che si è considerata da quel momento la logica come uno strumento, uno strumento per il corretto ragionare, che è una formulazione curiosa tutto sommato. Uno strumento per il corretto ragionare oppure l'analisi del ragionamento così come avviene quando si ragiona correttamente, che è poi la stessa cosa, ma come se si trattasse sempre di una sorta di applicazione, non sappiamo quale fosse l'intenzione di Aristotele, ma sicuramente nel formulare questi tre, chiamiamoli tre principi fondamentali, di non contraddizione, del terzo escluso e di identità, ha indicato qualche cosa che non solo può servire eventualmente, se qualcuno vuole farlo, applicato a qualche cosa, ma sono la condizione perché possa darsi un pensiero che decida di applicare qualcosa. Sto dicendo con questo che la logica non è altro che la struttura che consente al linguaggio di essere tale. Il linguaggio, come sapete, come si usa dire oggi è una struttura, un sistema come diceva De Saussure, che lo indicava come un sistema chiuso. Qualcuno hanno mosso delle obiezioni a questo, ma perché mai? Chiuso nel senso che non c'è uscita dal linguaggio, in questa accezione è un sistema chiuso. Mentre la volta scorsa indicavamo nella retorica ciò che costituisce la premessa ingiustificata e ingiustificabile da cui muove ciascuna deduzione, questa stasera ci occupiamo invece proprio delle inferenze che muovono da un assioma. L'assioma come sapete è qualcosa che letteralmente è degno, degno di essere detto, per la logica non è altro che una proposizione sempre necessariamente vera, per definizione, che si utilizza nelle dimostrazioni. La logica dunque non è soltanto un insieme di regole di inferenza, da applicare per dedurre o indurre o abdurre, come vuole Peirce, correttamente, ma è una delle condizioni del linguaggio, della parola, senza la logica non sarebbe possibile parlare né dire alcunché. Prendete per esempio il principio di non contraddizione, che è stato inteso per lo più come un'esigenza che le conclusioni cui arriva il discorso, il ragionamento, non siano tra loro contraddittorie, posizione legittima ma non sufficiente. È possibile che all'interno di una teoria, quindi di un discorso, possano darsi delle conclusioni contraddittorie tra loro, il sistema ne risulta sicuramente indebolito, ma le posizioni più recenti nella logica, soprattutto da parte polacca, consentono anche una terza posizione oltre al vero e al falso, e cioè vero e falso, e viene utilizzato anche questo nel calcolo proposizionale. Ma dicevo non è tanto questo o non soltanto questo il principio di non contraddizione perché può porsi, ed è forse il modo più interessante, in termini molto più radicali. Se io affermo che il foglio è bianco non posso simultaneamente affermare che il foglio è nero. Non posso per due motivi, prima perché non posso dire simultaneamente due cose, secondo perché anche potendolo fare non direi niente, cioè non fornirei nulla che possa consentire di proseguire, cioè che dia una direzione, il discorso si arresterebbe. I paradossi che ha incontrato la logica fanno un po' il verso a questo, cioè il trovarsi di fronte a una posizione da cui non c'è uscita e quindi non dice nulla, non consente nessuna direzione, si ferma lì. Questo ha interessato moltissimi, il fatto che sia possibile giungere a formulazioni paradossali; ma dove la logica, cioè in definitiva il linguaggio incontra un paradosso? Nell'istante in cui suppone che ci sia almeno un elemento fuori dalla parola e che debba provarlo allora, a quel punto, si trova preso in una posizione in cui è come se tutto cominciasse a girare in tondo e non ha più modo di venirne fuori, in quanto ciascuna volta per potersi provare necessita di un altro elemento. Facciamo un esempio tratto dalla filosofia, per esempio la nozione di esistenza, uno dei pilastri del pensiero filosofico, quando si dice che una certa cosa esiste che cosa si dice esattamente? Questione non semplicissima, anche perché qualcuno ha domandato incautamente, se l'esistenza esista oppure no, e se si, a quali condizioni dal momento che per parlare di esistenza, per potere dire cos'è, occorre che dica altre cose e quindi necessita di altri elementi per poter esistere, dunque non esiste di per sé, ma esiste per altro. Come ciascun elemento. Ecco che porre l'esistenza quindi ontologicamente costringe a dovere provare la sua esistenza, per esempio, e questo non può farsi. Ma la cosa ha preso una piega ancora più drammatica quando ci si è posti la domanda circa il significato, trovando un paradosso ancora più sorprendente. Ciascun elemento linguistico, ciascuna parola, in nessun modo può essere provata essere identica a sé, perché per poterlo fare occorre che sia ripetibile, devo dare quindi per acquisito che sia ripetibile, quindi devo dare per acquisito che sia identica a sé, se non è identica a sé come posso sapere che sto ripetendo "quella" e non un'altra? Obiezione legittima, e cioè io posso pensare di potere ripetere una parola soltanto muovendo da una petizione di principio, cioè stabilendo che è così, proseguendo con questi argomenti e con altri ancora più potenti fino a mostrare l'assoluta impossibilità non solo di ripetere un elemento, un fonema, cioè la minima unità di suono di cui sono composte le parole, ma anche soltanto di potere dire che è identico a sé. Allora, posta la questione in questi termini, tutto un certo pensiero è stato scosso in maniera non indifferente, perché tutto questo comporta la assoluta e totale impossibilità di potere stabilire un significato. Ma qualcun altro ha obiettato che per potere fare queste affermazioni occorre che un significato sia già presente, se no non potrei nemmeno fare queste affermazioni, e allora come si fa? Perché ciò che importa è che la logica ha i suoi criteri ben precisi, e si suppone che non parli a vanvera, anzi quando uno fa dei discorsi un po' strampalati, generalmente lo si richiama proprio alla logica dicendo: ma logicamente..., si suole dire, è così. Ecco allora, chi si occupa di questo più di altri, cioè il logico, è costretto a seguire un criterio assolutamente rigoroso, e perché occorre che sia rigoroso? Perché constata immediatamente che o segue un criterio assolutamente preciso oppure trova che una qualunque cosa vale una qualunque altra. Dicevo costoro, i cosiddetti logici, sono in una posizione in cui devono seguire con estrema precisione il loro percorso, costatando immediatamente che o seguono questa via oppure possono dire una qualunque cosa o il suo contrario, altrettanto legittimamente, cioè altrettanto infondatamente, però non sarebbero più logici perché il logico, per definizione, si attiene alla logica e la logica stabilisce dei criteri di inferenza più o meno validi. Il più valido tra tutti parrebbe quello della deduzione, il processo deduttivo, dove la conclusione deve seguire necessariamente alle premesse, in quanto ne è contenuta e quindi, se è necessaria la premessa, sarà altrettanto inevitabilmente e inesorabilmente necessaria anche la conclusione, altre inferenze no, non sono così rigide. Ma, dicevo, a proposito del significato, che questo non potendosi stabilire in nessun modo pur tuttavia si mostra in atto nella proposizione che afferma che non c'è significato, questa è la formulazione di un paradosso, come dire che posso affermare che non esiste il significato, se e soltanto se esiste il significato. Ma a questo punto generalmente il percorso si arresta, si arresta perché non si viene a capo di nulla, e allora si abbandona la storia e tutto quanto dicendo: Beh, siamo sempre vissuti bene, dobbiamo andare a romperci la testa e a metterci nei guai soltanto perché non possiamo stabilire l'esistenza del significato? Si, certo, uno vive lo stesso, nessuno è mai morto per questo, tranne un tale, Filita di Coo che narrano morì proprio di paradosso, per non essere riuscito a risolverlo, però la storia è antica, oggi non usa più e quindi tutto sommato la cosa non crea nessun problema, a meno che io mi trovi ad affermare qualche cosa, sicuro di quello che affermo e che qualcuno, incauto, affermi il contrario di quello che affermo io, allora la cosa è seccante, è seccante perché se io dico una cosa e sono sicuro di questa, questa cosa è vera e non può darsi che una cosa sia vera e falsa simultaneamente, ma lui afferma che è falsa, e allora o è vera o è falsa, se è vera ho ragione io, se è falsa ha ragione lui, ma io sono sicuro che quello che dico è vero; in questo caso compio un'operazione che apparentemente è molto semplice ma in realtà è straordinariamente complicata, in quanto do per acquisita, assolutamente acquisita non soltanto l'esistenza del significato ma anche la sua forma, eppure in teoria tutto questo non potrei farlo, cosa mi autorizza a farlo? Nulla, assolutamente nulla, solo che lo credo con non minore vigore, con non minore fermezza, ma se in nessun modo posso provare l'esistenza del significato né la sua assenza, la questione non può neanche porsi. Ma possiamo dire di più: questo paradosso che ho formulato prima, se il significato non esiste non c'è, nel senso che non può essere stabilito, allora non c'è nemmeno il paradosso, cioè non c'è nessun paradosso, va da sé che occorre provare a riflettere sulla nozione di significato, ed è ciò che la logica per lo più si trova a fare, direttamente o indirettamente, stabilire con certezza il significato di qualcosa. Stabilire per esempio se qualcosa è vera o falsa è stabilire un significato preciso, determinato, anzi potremmo dire che la logica formale si è costruita, esiste proprio per potere definire il significato in modo non ambiguo, non equivoco, ma attraverso appunto i linguaggi formalizzati che sono stati inventati per questo, se no non serve a niente, i linguaggi simbolici, dove il tentativo è quello di ridurre al minimo almeno l'intervento di tutto ciò che non è assolutamente necessario al processo inferenziale. Che la cosa sia riuscita oppure no poco ci interessa, ma ciò che interessa di più è questo, che anche questo paradosso che viene enunciato rispetto al significato, che di per sé potrebbe fare crollare nel nulla tutto il pensiero occidentale, perché per potere stabilire che qualche cosa sia qualche cosa occorre che sia provvisto di significato, in assenza è niente, assolutamente niente. Poi tutte le teorie dell'aggiustamento, dell'approssimazione, sono approssimazione a che? Se non ho nulla a cui approssimarmi è una follia, posso parlare di approssimazione o di aggiustamento se e soltanto se ho qualche cosa di ben preciso e fermo e stabile a cui approssimarmi o avvicinarmi, se no non so, né se mi avvicino né se mi allontano, né se vado in una direzione oppure in un'altra, né ho alcun modo per saperlo, tuttavia continuiamo a dire, per potere fare tutte queste affermazioni, occorre che le parole che io sto dicendo abbiano un significato. Ma allora dicevamo, che cosa intendiamo per significato a questo punto? Che è una bella questione, che è quella che la logica si è sempre posta, fin dall'inizio, che cosa vogliono dire le parole? Sono una nomenclatura oppure ciascuno fornisce un suo personalissimo senso? Se fosse una nomenclatura ciascun elemento sarebbe isolato a se stante e inamovibile, fermo e molto difficilmente utilizzabile, dal momento che ciascun elemento posto in questi termini difficilmente entrerebbe in relazione con un altro, occorrerebbe un terzo elemento e poi un altro, tra il primo e il terzo e così via all'infinito, che è esattamente ciò che accade quando uno fa quell'esercizio dei bambini piccoli, cercare una parola sul vocabolario, questo vuol dire queste parole, e questa? Questa vuol dire queste altre parole. E questa? E così via all'infinito. Oppure ciascuno si costruisce un significato suo personale, cioè questo è il significato che do io, come faceva Socrate, chiedeva continuamente: cosa intendi con questo? Questione che conduce a una sorta di solipsismo assoluto fino a Wittgenstein, dove di fatto ciò che si incontra e si mostra di fronte agli occhi è la assoluta impossibilità della comunicazione, cioè a fil di logica la comunicazione non è in nessun modo possibile, eppure gli umani comunicano, almeno così si suole dire. Vedete che sono questioni quelle che la logica si trova ad affrontare che non sono semplicissime, diciamo che ne va della stessa nozione di logica o della stessa esistenza delle logiche e della stessa nozione di esistenza tutto sommato, che segue a ruota. Ciò che in parte i logici hanno tentato di fare, almeno ultimamente, è proprio la risoluzione dei paradossi. Il paradosso come dicevo prima è una formulazione che impedisce di proseguire e quindi laddove in un sistema si incontra un paradosso, tutto il sistema diventa non utilizzabile. Inutilizzabile per fini teorici chiaramente, poi in pratica uno fa quello che gli pare, ma esiste questa necessità di trovare una soluzione alle cose che tolga ogni dubbio, una necessità prettamente logica, se voi riflettete, dicevamo prima che uno dei principi che è quello di non contraddizione, è una delle condizioni per potere parlare e ciascuno a modo suo cerca di porre in atto questo, cercando di non contraddirsi almeno in una singola conversazione, di non contraddirsi almeno non tante volte, e se qualcuno gli fa notare che si è contraddetto non può non tenerne conto, si accorge che qualcosa non va nel suo discorso. Come mai accade tutto questo? Perché uno non si contraddice e poi contraddice la contraddizione continuamente senza nessun problema? Perché non avviene questo? Perché si immagina che qualche cosa che sia non autocontraddittoria sia vera, un po' come voleva Kant, ciò che è vero, è ciò che non è autocontraddittorio, e quindi può essere accolto come certo, come sicuro, mentre ciò che è autocontraddittorio per definizione non è vero, non è vero perché non lo posso provare. Questo della prova è un altro degli aspetti che la logica impone, chiunque faccia un'affermazione che poco poco esca dal luogo comune, immediatamente è richiesto di provare quello che dice, che sia una sua idea, qualunque cosa, gli si chiede di esibire, di mostrare delle prove, perché mai? Perché se qualcuno mi dice che quello è un vagone ferroviario io non gli credo immediatamente? Potrei farlo, cosa me lo impedisce? Perché so che non lo è? Questo di per sé non è che ci dica moltissimo, anzi mette in gioco questioni di una tale complessità che alla fine effettivamente, potrebbe anche essere un vagone ferroviario, se socraticamente ci continuiamo a chiedere che cosa intendiamo esattamente, ma se non lo facciamo rischiamo di trovarci nel più assoluto e irreversibile degli intoppi. Dunque per farla breve, possiamo sottolineare due aspetti di tutto ciò che andiamo dicendo, uno è questo cioè che o consideriamo ciascun elemento, il significato stesso, come una procedura linguistica e pertanto la parola come non provvista di significato, cioè occorre che diciamo che le parole non hanno un significato, ma sono un significato, e cioè le procedure linguistiche, oppure non se ne viene fuori in nessun modo e il secondo aspetto è questo e che forse ci interessa di più, quello per cui ciascuno incontra quello che ciascuno cerca per quanto può e per quanto gli riesce di non contraddirsi e di provare che ciò che dice è vero. Come dicevo prima vi siete mai chiesti perché una cosa del genere? Di fronte all'assoluta non possibilità di stabilire un significato questo provare sarebbe totalmente vano, né avrebbe alcun senso, eppure lo si fa, anzi lo si fa proprio molto intensamente e si accusa continuamente qualcuno di giungere a conclusioni non vere o di avere dimostrato in modo non sufficientemente convincente ecc., ma se la dimostrazione in quanto tale è soltanto un gioco linguistico, che sia convincente oppure no può essere in teoria un vezzo, cioè non è solo bella è anche convincente, però è una cosa marginale e invece no, sembra che sia una cosa centrale e quello che ci interroga è il perché, ma che interroga non tanto o non soltanto per quanto riguarda una riflessione teorica intorno al linguaggio, ma per quanto riguarda il vivere quotidiano di ciascuno, che continuamente è preso da questioni che lo interrogano, che lo muovono, che lo sollecitano a rispondere e a provare quello che dice o cogliere vari segni che trova come prova di qualche cosa che immagina: questa persona è così perché ha fatto cosà. Utilizza un procedimento logico, un po' squinternato ma più o meno funziona. Funziona l'idea che per esempio da un certo elemento debba necessariamente seguirne un altro. Perché mai? Perché se quella persona fa così, allora vuol dire che è fatta cosà? O più propriamente che cosa sto dicendo, dicendo questo. Se io tengo conto di questi aspetti, non tanto per quanto riguarda la lettura di un testo, può leggere uno scritto dai presocratici fino agli ultimi e trovare degli elementi che lo convincono, ma lo convincono non tanto perché pensa altrimenti, ma perché l'argomentazione muove da assiomi, da principi che in nessun modo sono giustificati, né giustificabili, quindi tutto ciò che segue è assolutamente arbitrario, anche se segue una sequenza inferenziale corretta, cioè si attiene al gioco tutto sommato. Per giocare il gioco del linguaggio direbbe Wittgenstein, occorre attenersi a queste regole, se no non si può giocare, ma non lo si può non giocare, ma le cose che io penso, le cose che credo, le cose che immagino, quelle che mi circondano tutti i giorni, quella persona che mi da fastidio, quella cosa che è andata storta, quell'altra che mi ha guardato male e quell'altro che fa così anziché fare cosà...ecco in tutto questo io posso reperire con estrema facilità, in teoria con estrema facilità, poi di fatto è la cosa più difficile che possa immaginarsi, posso reperire immediatamente tutte le bizzarrie della logica che in qualche modo costruisco. Bizzarrie perché immagino che da un elemento debba seguire necessariamente quest'altro, e nulla al mondo mi dice che sia così oppure perché do per acquisito un principio e faccio seguire a questo principio tutta una serie infinita di cose, ma questo principio risulta assolutamente...è nulla, è niente, è qualcosa che io credo così come potrei crederne qualunque altro. E allora a che cosa mi attengo? Mi attengo a delle superstizioni, cioè i principi fondamentali cui mi attengo hanno la struttura della superstizione, per questo motivo sono fermamente creduti. Mentre qualunque cosa che si opponga alla superstizione, cioè la metta in difficoltà, la metta in discussione, tutto questo viene altrettanto fortemente osteggiato. Questo da sempre, non solo da adesso. Ma allora la logica diciamo che, a questo punto, non è tanto nelle parole o nel linguaggio, come l'abbiamo detto qui anche se è un modo di dire, potremmo dire che la logica è il linguaggio, se noi togliamo dal linguaggio la logica il linguaggio non è più nulla, se togliamo il linguaggio dalla logica, la logica non esiste, semplicemente. È una condizione, è una delle condizioni della parola, di cui la parola è fatta e non può togliersi né isolarsi, si può soltanto constatare in atto il suo funzionamento, tenendo sempre conto che è sempre questa stessa logica che ci consente di coglierne il suo funzionamento, senza la logica noi non potremmo pensare, né formulare alcun concetto, dunque nemmeno chiederci se la logica è nel linguaggio oppure altrove. Questione che va tenuta in considerazione, il non farlo può condurre a trovarsi costretti a compiere una sorta di atto di fede. Ma per il momento non ci interessa. Allora cosa fanno le parole? Le parole costruiscono letteralmente se stesse, dicendosi. Le parole, cioè come dicevo prima i significati, le parole non hanno un significato, se noi diciamo che le parole hanno un significato ci troviamo nei guai immediatamente. Ce l'hanno, e chi glielo attribuisce? E come? E attraverso che cosa? Cos'è una parola che non ha significato? È una parola? È nulla. Allora cosa fanno le parole? Si dicono evidentemente, è quanto di meglio possiamo fare, forse anche la sola cosa. Si dicono e quindi si pongono in atto, mettendosi in atto si pongono come significato quindi come logica. Inevitabilmente e necessariamente. Considerare, come dicevamo prima, che il significato non è isolabile dalla parola in nessun modo è considerare che, come dicevo prima, la parola senza significato non è più tale, cioè cessa di essere qualunque cosa. Significato qui, allora non è altro che potere utilizzare qualche cosa, una parola per essere tale occorre che sia utilizzabile, diceva De Saussure, che circoli, se no è niente. Ma perché possa circolare occorre che altri riconoscano qualche cosa. IL problema che indicavo prima consiste nell'impossibilità di provare questo riconoscimento. E d'altra parte la logica impone che debba provarsi, tutto ciò che non può provarsi cos'è? Curiosa questione perché ciò che non può provarsi rimane in sospeso. Che cosa può provarsi? Nulla. Non c'è una sola cosa che possa provarsi. Se ci atteniamo alla nozione di prova, nella sua accezione più rigorosa, la prova non prova assolutamente niente, quindi perché mai dovrebbe provare qualcosa. Se mai provare a reperire come elemento da cui muovere per una riflessione elementi che necessariamente sono presenti in ciò che sto dicendo, e per il fatto che sto dicendo. Cioè elementi, non che debbano essere provati o confutati, ma elementi che non posso non ammettere se sto parlando. Cioè ciò di cui in nessun modo non posso non tenere conto, perché è lì, per esempio il fatto che nel fare queste considerazioni stia parlando, di questo non posso non tenere conto, né posso non considerarlo, né posso non ammetterlo. Lo vieta quel principio di cui dicevamo prima, di non contraddizione, non posso affermare di tacere, poiché per farlo devo parlare, quindi nego ciò che ho affermato. Ecco in questo caso vi trovate di fronte a un paradosso, nella sua forma più essenziale, quella che impedisce di prendere una qualunque direzione. Se per negare che sto parlando devo dirlo, è come quella barzelletta, di quel tizio che chiede al ragazzino: Di, elefante! Lui: Non posso. Quell'altro: Non puoi che cosa? Non posso dire elefante. La stessa storiella di cui la retorica si avvale ma nei cui confronti la logica è disarmata, si arresta. Ecco allora, reperire qualche elemento giusto per incominciare, per non partire da nulla o da qualche cosa che sappiamo già essere opinabile. Opinabile è qualunque cosa che può essere quello che dice o il suo contrario, con la stessa legittimità, quindi nulla. Qualche cosa di cui possiamo dire che necessariamente è qualcosa, rispetto alla struttura del linguaggio, cioè qualcosa che non possiamo non dire nel momento che stiamo dicendo, e cioè appunto che stiamo dicendo. Eppure, potrà sembrare un criterio bizzarro ma è straordinariamente più solido e potente di qualunque altro, qualunque altro può essere smontato, in pochi minuti con estrema facilità, questo no. Apparentemente dice pochissimo, ma quanto basta per innescare una serie di deduzioni, di riflessioni, implicazioni tali da comportare l'eventualità di trovarsi di fronte alle proprie parole, senza avere la garanzia, le spalle coperte da un referente o da una verità o da una certezza o da qualunque altra cosa si supponga esistere in questo senso, ma semplicemente "soli" tra virgolette, una solitudine particolare, con ciò che si sta dicendo. Se dicessimo che ciascuno è esattamente quello che dice? Oltre a dire qualcosa che in nessun modo è confutabile, diremmo forse anche qualcosa di più, cioè qualcosa che può spingere a riflettere sul fatto che ciò che dico, di fatto mi costruisce e che non ho moltissimi altri elementi per muovermi, per pensare, per fare qualunque cosa voglio fare o non fare. Detto questo evidentemente, la questione potrebbe apparire molto semplice, e lo è....

CAMBIO CASSETTA.

...angoscia, depressione, la fobia, ansie di ogni sorta. Pensate a tutto ciò, bene. Se c'è un'ansia per esempio, o un'angoscia, sono angosciato perché immagino che debba accadere questo, supponiamo che le cose che io sto dicendo non siano provviste del significato che io attribuisco, perché è questo che mi fa stare male, allora starei ancora male? Riuscirei ancora a stare male? Potrei farlo? No, non potrei più. Esattamente allo stesso modo in cui non posso più credere a una cosa che prima sapevo vera e che adesso so inesorabilmente falsa. Faccio un esempio banalissimo: uno vi fa un assegno, andate in banca e l'assegno è a vuoto. Ecco, prima pensavate che quell'assegno fosse un assegno buono, dal momento che il cassiere della banca vi comunica questa mala notizia, non riuscite più a pensare a questo assegno come se fosse buono, in nessun modo. Potrete eventualmente cercare di convincere qualcuno che lo sia per...questo si, ma sapendo perfettamente che è falso. Ecco, allo stesso modo risulta impossibile continuare a pensare vera una certa cosa quando si sa non esserla, oppure quando si sa perfettamente non avere alcuna portata la nozione di vero o di falso applicata soprattutto a questi elementi e dunque se non posso più provare angoscia allora è avvenuto qualcosa di sorprendente, e cioè considero effettivamente che cosa stanno facendo le parole che dico. Dico una certa cosa, e in genere detta questa cosa mi prende l'ansia, può succedere, ma se io posso tenere conto di ciò che faccio dicendo questo, di cosa si mette in moto in tutto ciò che opera, anziché immaginare o essere costretto a pensare che queste parole magicamente producano ansia (spesso accade, uno lo sa che quando comincia a pensare che gli verrà quell'agitazione, poi si agita, è quasi matematico), allora non può più credere, e la logica da un contributo a questo, ma occorre prenderla molto seriamente, cioè portarla alle estreme conseguenze allora diventa, più che uno strumento, una constatazione inevitabile, come se la logica giungesse a demolire...che cosa? Non tanto se stessa quanto ogni tentativo di costruire in nome della logica qualunque edificio. La logica direi che per definizione smonta qualunque edificio, perché il richiamo al rigore logico per potere asserire una proposizione, comporta che asserita questa proposizione non mi fermi alla sua asserzione, ma voglia provarla, se l'asserisco allora mi dico che è vera, bene provalo, come? Bella domanda. Perché costruisco una dimostrazione? Si, certo, dimostrazioni posso costruirne quante ne voglio, più o meno sofisticate, più o meno articolate, elaborate ecc.. E allora uno potrebbe anche chiedersi di provare la dimostrazione, potrei trovarmi nei guai, eppure la prova per essere tale, per essere certa, verrebbe a essere quasi necessaria, perché non può essere altrimenti che così. Quando mai? Qui il discorso occidentale, forse il linguaggio stesso, consente questo doppio messaggio direbbero i seguaci di Watzlawick, quelli che sono a Palo Alto, double bound, doppio legame, in quanto dice, prova, costringe a provare un'asserzione per poterla spacciare come vera e al tempo stesso impedisce letteralmente di farlo, perché come lo prova? Qualunque strumento utilizzi dovrà a sua volta essere provato oppure penso che me lo ha dato dio? Oppure penso che sia vero necessariamente. Quindi mi costringe a dimostrare una cosa e al tempo stesso mi proibisce di farlo. Una curiosa posizione questa. Ecco cosa fanno le parole, si dicono, con tutto ciò che questo comporta. Più che dicono, si dicono, cioè dicono se stesse, e dicendosi sono parole, prima di dirsi non lo sono, ne possono essere alcunché. Qualunque cosa che io voglia che siano o possa pensare che siano, occorre pure che lo dica. Un'altra questione bizzarra che la logica, quella strutturale impone, e cioè che anche per potere dire che qualcosa esiste fuori dalla parola (posso dirlo, posso dire questo come qualunque altra cosa, nessuno me lo proibisce) devo dirlo evidentemente e quindi è nella parola, posso pensare qualcosa fuori dalla parola, posso anche pensarlo, ma sempre attraverso un procedimento logico, quindi linguistico, attraverso una struttura. Ma non tutto è parola e allora? Detto questo cosa abbiamo detto? Assolutamente niente. Non tutto è formaggio, non tutto è un libro, non tutto è registratore, bene, e quindi? oppure tutto è dio, tutto è demonio o come preferite. Non c'è nessuna differenza. Intendo dire questo, che posso credere qualunque cosa o il suo contrario, nessuno me lo proibisce e fin qui in effetti non sorge nessun problema, il problema sorge laddove per qualche motivo mi trovo a pensare, e allora pensando comincio a considerare a constatare in atto la struttura del linguaggio in cui penso. Qualunque altra cosa, si, posso pensarla, costruirla, immaginarla, inventarla, certamente, se voi considerate il pensiero degli umani da quando c'è qualche traccia di un certo interesse, cioè da circa tremila anni, ne sono state dette e pensate di tutti i colori, qualunque cosa. Con questo sappiamo soltanto che la struttura che è il linguaggio consente di fare questo. Questo sappiamo, nient'altro che questo. Dice: ma queste cose esistono. Bene, incominciamo a considerare la nozione di esistenza. Dicendo che qualcosa esiste, diciamo qualcosa o diciamo nulla? Diciamo pure qualcosa. E perché? Perché l'esistenza ha un significato. Benissimo. Quale? Possiamo applicarla a sé l'esistenza? dicevamo all'inizio, quando ci chiedevamo se esista l'esistenza. È un esempio di questione che può porsi ma non tanto così, come passatempo, anche se non è neanche dei peggiori tutto sommato, ce ne sono di peggio di passatempi, ma è per riferirlo, all'inizio abbiamo continuato a dirlo, è per riferirlo a ciò che accade, a ciò che avviene continuamente, nel quotidiano, adesso, in questo momento, tra un'ora, due ore fa, sempre incessantemente e ininterrottamente, perché ininterrottamente e incessantemente ciascuno parla, pensa e quindi c'è una struttura, senza questa struttura, non esisterebbe. È questo che invita a considerare la questione con una certa attenzione, potremmo dire che ne va della mia esistenza, tutto sommato. Letteralmente. E quindi ecco, provare a muovere da qualche cosa che non sia necessariamente opinabile e arbitraria perché a quel punto, come dicevamo prima, potremmo partire da qualunque altra cosa, qualunque cosa o il suo contrario, altrettanto legittimamente. Come diceva qualcuno giustamente, la mia opinione non è migliore ne peggiore di qualunque altra, certamente. In effetti un'opinione non è una cosa così interessante, anzi direi che non ha nessun interesse. L'opinione, l'opinione altrui. Una persona crede questo e allora cosa ne ho? So soltanto qual è la sua opinione, va bene, ma detto questo non è che andiamo molto lontani. Posso opporre la mia opinione alla sua certo, possiamo anche spararci a vicenda, come spesso accade. Sapremmo qualcosa di più rispetto al vero? Se la mia opinione è più giusta della sua o viceversa? Non lo sapremo mai, perché non abbiamo nessun parametro, se non l'utilità, ma siamo daccapo: la mia o la sua? Certe volte fa una differenza sostanziale. Bene intanto sentiamo anche Voi, così proseguiamo sotto forma di dibattito. Ho detto alcune cose prenatalizie, in modo che lungo le festività natalizie ciascuno di Voi possa riflettere. Non che non riflettereste, ma aggiungere un elemento è sempre interessante, dare magari anche un solo elemento che consenta di riflettere ancora. La logica, è curioso...perché se Voi leggete i manuali di logica, ce ne sono a bizzeffe, siete indotti a pensare che la logica sia una sorta di qualcosa di applicato al linguaggio, il che non è propriamente, è ciò che consente, è l'esistenza stessa del linguaggio, senza la logica non è possibile formulare nessun pensiero, perché la logica non è altro che l'escludere che qualcosa sia e non sia se stessa simultaneamente, se volete dirla così, poi tutto il resto segue. A è differente da A oppure A non è A, questo è ciò che...

-Intervento: il silenzio è fuori dal linguaggio?

Se ne fosse fuori ne sapremmo qualcosa? È una domanda. Come potremmo saperne qualcosa? O dirne o pensarne? Non sarebbe il silenzio. Non sarebbe. Non si potrebbe porre questa domanda, perché non sarebbe accessibile in nessun modo. Intendo dire questo, che il tacere è già inevitabilmente nella parola per il fatto stesso che ne sto parlando, cioè che è inserita l'idea stessa di silenzio nel tacere, cioè la riconosco, so che cos'è, tutto questo lo so perché è inserito in una struttura, fuori da questa struttura in nessun modo potrei nemmeno pormi la questione, cioè non avrei nessun modo per farlo, non saprei neanche quale questione pormi. In questo senso dicevo che, parafrasando Gorgia, nulla è, fuori dalla parola.

-Intervento: Io comunque posso, anziché affermare di tacere, posso tacere.

Legittimo, cioè non parla, non dice niente. (Taccio, dimostro) Che cosa? Che esiste il silenzio? Certo che esiste è compreso anche nel vocabolario, il silenzio cioè fa parte del linguaggio, forse non ho capito bene la domanda? Si posso parlarne, posso farlo. (...) Si tutto questo non potrebbe esistere fuori dalla parola quindi taccio perché esiste la parola. Questo dovrei dire propriamente, se no non potrei dire nulla, né questa né qualunque altra cosa, non si porrebbe il problema...

-Intervento: (sulla contraddizione)

Contraddizione in quale accezione, strutturale? (qualsiasi...) La usiamo soprattutto contro il prossimo, quando ci capita l'occasione, nel senso che si coglie nell'altro, una contraddizione. (....) In che modo si usa la contraddizione? (....) Si incontra, si, certo, alcune volte è anche vissuta male, si desidera una cosa ma allo stesso tempo la si rifiuta. Una cosa frequentissima, come se dicesse: la voglio, ma non la voglio. Ecco in questo caso non è ciò che intendevo, propriamente, come contraddizione strutturale, perché esistono effettivamente entrambe le cose, soltanto che delle due una, per qualche motivo non è ammessa, l'unica differenza è questa. Come dire: voglio questo ma non posso ammetterlo, per motivi miei personali più disparati, allora il più delle volte si formula proprio così: lo voglio ma allo stesso tempo non lo voglio, se ce l'ho, lo rifiuto. Allora, soltanto in alcuni casi, non è una regola evidentemente, in alcuni casi è soltanto una questione connessa con una difficoltà ad ammettere per qualche motivo il proprio desiderio. Perché da fastidio, perché va contro qualche cosa,(...) Si, infatti, la superstizione è il credere fermamente qualcosa che non può essere provato? Bella domanda. Perché no? Posta in questi termini la superstizione dilaga, però è la struttura della superstizione che è interessante. Si, si avviene così. Nel discorso occidentale qualunque struttura religiosa vive di questo, senza questo crollerebbe tutto. Forse può intendersi anche così l'invito alla nobile menzogna di Platone. (....) Dicevo che forse può intendersi anche in questo modo la questione che pone Platone nella Repubblica, la famosa nobile menzogna: non è vero che è così, non è vero che le cose esistono, sono reali, sono concrete e quindi sono provabili, però occorre che la gente lo creda, se no non è governabile, questa è la questione. (....) Non è una questione da poco. C'è qualcun altro che voglia aggiungere un elemento?

-Intervento.

È complessa però la questione, perché io descrivo un rapporto in un certo modo, poi lo vedo in un altro, ma questo vederlo non è di nuovo un'altra descrizione? Che io lo descriva in un modo, come dire, è un aspetto, poi che lo veda in un altro è un'altra descrizione, è un altro aspetto, posso dire che questo rapporto non è cambiato perché vedo che è lo stesso pur descrivendolo in un altro modo, ma il fatto che io dica o che veda che non è cambiato, di per sé che cosa sta dicendo? Che cosa vedo? Perché il rapporto in quanto tale è nulla, è ciò che è per me, lo faccio essere qualche cosa, e allora potrei domandarmi come mai lo faccio essere ad un punto una cosa e ad un certo altro punto un'altra. Per cui non è molto distante da ciò che dicevamo prima del desiderio o di qualcosa che si ammette o che non si ammette, desidero questa cosa, posso desiderare che un rapporto vada a catafascio senza ammetterlo, per esempio, e allora posso saperlo, anche se non è facilissimo, posso saperlo tenendo conto non tanto di ciò che dico in questo caso, ma di ciò che faccio, che comunque è sempre una stringa di proposizioni anche ciò che faccio, non è fuori dalla parola in cui mi trovo, e se ciò che faccio va in quella direzione, cioè del mandare il rapporto a catafascio, allora è esattamente questo che mi rinvia la mia intenzione o se volete ciò che desidero effettivamente. Dico che non voglio, però è quello che faccio, occorre tenere conto di entrambe le cose. Non è che una abbia il sopravvento su quell'altra, esistono entrambe, cioè esiste il desiderio di mandarlo a catafascio e allo stesso tempo di questo desiderio non voglio saperne niente. (...) Si, non è fuori dalla parola, se io per esempio dico: voglio salvare questo rapporto con questa persona, però mi accorgo che ciascuna volta che faccio qualcosa le cose vanno malissimo, che cosa sto dicendo con questo? Merita di essere ascoltato tutto ciò, sto dicendo cioè che voglio una cosa ma che ciò che accade che io faccia è il contrario. Con tutti le sfumature, le varianti (...) Non parlerei tanto di contraddizione quanto di non ammissione di qualche cosa che si sta imponendo in ciò che faccio. Come la struttura che Freud descrive rispetto all'atto mancato, al lapsus, cioè faccio una cosa, butto per terra un bicchiere pieno d'acqua: non volevo farlo. Si, certo non volevo, ma è quello che ho fatto e allora occorre che tenga conto di entrambe le cose, del fatto che ho rovesciato il bicchiere d'acqua per terra e di ciò che sto dicendo adesso, e cioè che non lo volevo fare. Ma allora come lui suggerisce c'è si, il desiderio di rovesciare questo bicchiere per qualche motivo, ma al tempo stesso questo desiderio per qualche altro motivo è impedito, cioè non posso riconoscerlo, non posso riconoscere che nel volere buttare per terra il bicchiere intendo bagnare i piedi a Beatrice, perché oggi mi ha fatto uno sgarbo, è una banalità evidentemente, ma il non potere riconoscere passa attraverso questo, cioè faccio quel gesto ma dico che non lo voglio. In molti casi l'unico modo che ci si concede per fare delle cose è dire che non le si vogliono ma tuttavia farle, però se lo faccio e non lo voglio non mi si può attribuire la responsabilità, io mi sono già premunito dicendo che non lo voglio, quindi badate bene tutti che io non lo voglio, poi lo faccio, però non lo volevo e così ho salvato, come direbbe qualcuno, capra e cavoli, in quanto mi sono sbarazzato della responsabilità del gesto che ho fatto, perché ho detto non soltanto che non era mia intenzione, ma che proprio non lo volevo, non mi si può imputare nulla. È stato Freud...

-Intervento

Si, diciamo comunemente che ciò che si intende come malessere è in buona parte un modo per dirsi che qualcosa è riuscito, che qualcosa è andato proprio là dove volevo che andasse. Stare male non è mai obbligatorio, né necessario, come una conclusione logica è assolutamente arbitraria, facoltativa, non è però comunemente posta in questi termini, anzi generalmente non lo è affatto. Dicevamo proprio all'inizio di questa serie di incontri, quando parlavamo della malattia diplomatica, che ha una funzione ben precisa, e si tratta di verificare (qualche accenno lo facemmo già allora) perché c'è l'eventualità che il malessere abbia anche questa funzione, ma in questo caso non consapevolmente come il diplomatico, ma assolutamente non consapevolmente. E allora posso stare male perché altri si occupino di me, per risolvere un problema, per attirare l'attenzione, per provare eccitazione, per qualunque motivo. E c'è chi riesce anche ad ammazzarsi per questo. Per un lapsus il più delle volte. L'intenzione era quella però, per un lapsus, si ammazza effettivamente.

-Intervento: Come è possibile per attirare l'attenzione?

Occorre cominciare a interrogare questo stare male, non è che sia così d'acchito, occorre un percorso dove si metta in gioco questo stare male, io mi trovo di fronte allo stare male e comincio...come se mi chiedessi di che cosa è fatto e allora posso incominciare a costatare che a fianco ci sono altre cose, e costruire letteralmente la scena in cui questo male può essere funzionale, non è necessario che lo sia se per strada qualcuno mi da un pestone e mi fa male a un piede, non è che mi interroghi più di tanto. Posso mandargli un accidente, ma in altri casi può essere anche facilmente reperibile ciò che fa star male, o la funzionalità del malessere. Così come è facilmente reperibile nel caso della malattia diplomatica, con la stessa facilità.