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LA FORMAZIONE DELLO PSICANALISTA

 

15 ottobre 1994

 

Dicevamo la volta scorsa, parafrasando Lacan, che l’analista si forma soltanto da sé.

Non c’è una formazione nell’accezione dell’addestramento, una formazione a fare, a capire, a comprendere, attraverso uno schema, un codice d’interpretazione per cui se una persona dice una certa cosa allora vuole dire una certa altra.

Tutto ciò non ci interessa. Esistono già dei codici di traduzione molto efficaci, quello ermeneutico, quello esegetico e altri.

Non è, dunque, questo che ci interessa ma una formazione che avviene con la parola. Parola che è, propriamente, sovversiva.

Intendiamo con parola sovversiva la parola in cui ciascuno è preso e che comporta che ciascuna volta ciascuno non sappia dove ciò che sta dicendo lo sta portando. Non sa cosa ne sarà della parola.

Parlando, si trova a dire una serie di cose ma ciò che ciascuna volta viene messo in gioco è una fantasia di padronanza sulla parola. Fantasia di padronanza che, invece, ciascun codice di traduzione vorrebbe porre.

La parola, dice ciascun codice di traduzione, è gestibile in quanto laddove qualcosa non si comprende è possibile spostare su un altro termine più noto o più vero, a seconda dei casi.

Facevamo l’esempio la volta scorsa di un tizio che racconta i fatti suoi e qualcuno gli dice che sì, dice queste cose ma in realtà sta dicendo un’altra cosa. Nulla autorizza a compiere questa operazione salvo una dose di arroganza e di ignoranza.

Quel che interessa lungo una formazione non è l’acquisire un metodo - il metodo è poi sempre interpretativo, come insegna la psicologia e le altre dottrine - ma porre le condizioni perché sia possibile intendere ciò che avviene parlando.

La traduzione, di qualunque tipo sia, non considera assolutamente ciò che avviene parlando, anzi, cancella ciò che si dice a vantaggio di ciò che si sarebbe dovuto dire, una corretta visione delle cose.

La sovversione, di cui dicevamo rispetto alla parola, riguarda questo propriamente: che le cose dicendosi inventano, producono cose assolutamente inattese, inaspettate. Ciò che mi trovo a dire è sempre altro da ciò che avrei voluto dire, da ciò che supponevo di dire.

C’è una distanza, una differenza, appena per avvertire che non ho controllo su ciò che dico mentre parlo.

È un dettaglio tutt’altro che marginale, dal momento che questa assenza i padronanza mi impedisce di dirigere le parole là dove vorrei che si dirigessero. E, oltre a questo, muove anche a un’altra considerazione: che, se non riesco a controllare, se non ho la padronanza sulle parole, c’è l’eventualità che non abbia la padronanza nemmeno sul senso che queste parole producono. E che, pertanto, mi trovi ciascuna volta a dovermi confrontare con degli effetti che non avevo previsto, neanche immaginati, e che sovvertono l’ordine, l’ordine prestabilito, l’ordine che io posso pensare di avere prestabilito.

Ma sovverte anche ciò che io credo di volere dire: io penso di volere dire una certa cosa e mi accorgo che il senso che mi ritorna è differente, un’altra cosa. Sovverte il criterio, per esempio, quello di verità o quello di significabilità, dal momento che, esponendomi al dire, alla parola, questo stesso criterio che io considero è lui stesso esposto alla parola, quindi, agli effetti di senso e di controsenso che intervengono.

Ciò è solitamente considerato un dettaglio assolutamente marginale, d’importanza irrilevante.

Tuttavia, il considerare che qualunque cosa io faccia o dica avviene attraverso un linguaggio, può condurre a riflettere su questo, che, anche laddove io penso che ciò che faccio o avverto è fuori del linguaggio, il fatto che io me ne accorga, e che quindi di ciò che avverto possa dirne e ne so qualcosa nel momento in cui ne dico, tutto ciò fa sì che non ci sia la possibilità di uscire dal linguaggio. Come dire, in altri termini, non c’è modo per fare, o dire, o avvertire qualunque cosa che non sia presa nella parola con tutto ciò che questo comporta, pertanto, con gli effetti di senso, con la sua struttura, con la sua disposizione sintattica, grammaticale, ecc.

Allora, cosa vuol dire la formazione per uno psicanalista?

Occorre che ci sia dello psicanalista perché ci sia formazione.

A quali condizioni c’è lo psicanalista?

Potremmo indicare questo, per intanto, cioè, il cessare o il trovarsi a non potere più non ascoltare. L’analista è chi non può non ascoltare.

L’ascoltare non è il sentire. L’ascoltare è il cogliere in ciò che si dice i risvolti, le implicazioni, l’equivoco, il malinteso, ciò che, in altri termini, continua interrogare in ciò che si dice, ciò che insiste come domanda in ciò che si dice.

Ciascuno dice un’infinità di cose. Può, all’occasione, accorgersi di cosa domanda, di cosa insiste a domandare in ciò che si dice, che cosa in definitiva gli impedisce di chiudere la questione, di essere definitivamente soddisfatto, tranquillo, di avere trovato finalmente l’ultima parola, un punto fermo.

Il punto resta mobile, non c’è alcun modo di fermarlo.

Chi non può non ascoltare? Chi non può in alcun modo non accorgersi di ciò che accade mentre parla, di un equivoco.

Facevamo un esempio oggi di equivoco, rispetto all’anfibologia. L’esempio più banale è questo: “Ho visto mangiare una lepre”. Che cosa vuol dire? Che ho visto una lepre che mangiava l’erbetta o due tizi che stavano sgranocchiando un cosciotto di lepre?

Entrambe le cose sono possibili grammaticalmente.

Ciò che accade generalmente è che una quantità grandissima di proposizioni che ciascuno si trova a dire funziona in questo modo, cioè può essere colta in moltisime accezioni, però accade, per una serie di motivi, che qualcuno si trovi a potere considerare soltanto un senso, gli altri no. E allora immagina che le cose siano proprio così e magari per altri non è difficilissimo accorgersi che c’è un equivoco e che di fatto ciò che lui coglie in un certo modo può cogliersi benissimo in tanti altri modi senza nessun problema.

Non potere non ascoltare è il non potere non accorgersi dell’equivoco, dell’anfibologia, del malinteso, del controsenso che interviene ciascuna volta parlando.

Voi potete a questo punto valutare che ciò che è impedito è immediatamente e irreversibilmente il credere, il credere qualunque cosa, il credere che sia così come di primo acchito può sembrare che sia e che, quindi, non ci siano altre possibilità e che debba essere proprio così.

No, ciascuna cosa che si dice continua a dirsi, qualunque cosa che si dica non è mai l’ultima ma ciascuna volta ciò che si dice continua a dirsi e non si arresta.

Il codice interpretativo, quello esegetico valga per tutti, punta o illude che sia il contrario, cioè che sia possibile fornire l’ultima parola, quella che chiude, quella che dice esattamente com’è. Anche se questo può valere soltanto per il momento. Non fa moltissima differenza pensare che sia vero per un momento o che sia vero per sempre.

Ciò che importa è la struttura della credenza, come si struttura, come accade che a un certo punto mi trovi a credere fermamente che una certa cosa sia in un certo modo, mentre ho l’occasione, in ciascun istante, di verificare che non è affatto così.

Dunque, dicevamo, chi non può non ascoltare, chi non può non constatare, verificare in atto che le cose non stanno così né altrimenti: non stanno proprio, si muovono, sono prese in una continua anamorfosi, in una continua trasformazione. Queste cose sono travolte da fantasie, da immagini, da ricordi, da un’eco, da una sensazione, da un’infinità di cose che le alterano.

Queste “le” sta al posto di che, propriamente? Sta per chi o per che cosa? se questo elemento è preso in una continua alterazione, potremmo dire che è continuamente altro da sé. Questo pronome sta al posto di che?

Questione ardua a risolversi, dal momento che non ho alcuna chance di poterlo isolare.

Facevamo l’esempio, la volta scorsa, dell’interpretazione rispetto al testo. Anche attendendoci alle teorie di Derrida, la decostruzione, il testo è risolto in una figura. Perché se del testo non posso che aver una interpretazione, allora il testo dove sta? Nel momento in cui lo considero già lo interpreto. Ma questo “lo” che cos’è? È il testo? No, perché il testo ogni volta è un’interpretazione. Ci sarebbe qui da divertirsi con la famosa regressio ad infinitum senza potersi mai fermare da nessuna parte.

Che è poi stesso che ciascuno incontra, magari in modo meno esplicito, ma ciascuna volta che si trova, per qualche motivo, costretto a affermare qualche cosa o a cercare un punto fermo, solido su cui appoggiare il piede e fare il passo successivo. Cioè, quando ciascuno incontra la necessità di essere sicuro di qualche cosa. È in quella occasione che ha l’eventualità di accorgersi che non riesce a fermare alcunché, perché se non ci pensa può anche supporre che tutto sia fermo. È quando ci prova a fermarlo che si accorge che tutto si dissolve.

Se il trovarsi incessantemente a non poter tenere conto di questo è ciò che intendevo per formazione, allora, è il praticare questo impossibile connesso alla parola, che produce, determina la formazione, che si dà propriamente solo a queste condizioni. Dicevamo che non è una sorta di addestramento. Avevamo indicato come emblematico quello di Pavlov.

Questo per incominciare a dire che la formazione è dell’analista, ma questo “dell’analista” è da intendere con una determinazione soggettiva. È l’analista che si forma, non altri che formano lui. Cioè, occorre che ci sia dell’analista perché ci sia formazione.

Praticare, dunque, l’impossibile della parola è ciascuna volta trovarsi nella disposizione all’ascolto, quindi, a poter accogliere tutto ciò che si produce nella parola. Cosa che generalmente non avviene in quanto accade di trovarsi molto presi nel tentativo di dare un significato, per cui “se succede questo, succede quest’altro”. Potremmo dirla così, che laddove ci sia un’implicazione, qualunque essa sia, l’antecedente non giustifica né implica affatto il conseguente, ma ne è soltanto l’esca, l’occasione.

Praticare, dunque, questo è il trovarsi nella condizione ciascuna volta di accogliere ciò che si produce parlando. Perché se dicendo delle cose voglio dire queste cose a qualcuno ma, facendo questa operazione, si produce dell’altro che non avevo previsto e mi ritorno in un senso non atteso, quindi, come controsenso, mi trovo allora di fronte a almeno due eventualità: o accolgo ciò che avviene oppure no. Sennò elimino tutto ciò che interviene come controsenso come se si trattasse di un errore, di un difetto. La stessa cosa di cui parlava Freud rispetto al lapsus: qualche cosa interviene a fianco di ciò che dico ma non era ciò che pensavo sarebbe dovuto accadere. E allora, o lo considero un errore e viene cancellato oppure lo accolgo.

Ma cosa accolgo? Accolgo propriamente un’altra scena, la considerazione che sto dicendo produce una scena. Sta producendo una scena che non avevo prevista ma che, tuttavia, mi riguarda visto che l’ho prodotta io.

Mi riguarda nel senso che dice quali connessioni, quali risvolti, che cosa c’è a fianco di ciò che sto dicendo.

Questo illustra qualcosa di straordinario, vale a dire che le cose che dico stanno dicendo molto più di quanto io vorrei che dicessero o di quanto immagino che dicano.

È un pò su questo che Freud ha inventato la psicanalisi. Giocando su questo, sul fatto che ciascuno dice molto di più di quanto vorrebbe, che lo voglia o no, che lo sappia o no.

È proprio approfittando di questo aspetto ha posto le condizioni perché chi si trovava con lui a parlare potesse accorgersene e, quindi, verificare che le parole non dicono soltanto ciò che immaginava volessero dire.

Cosa dicono? Una quantità sterminata di cose, cose che costituiscono la ricchezza infinita, senza limiti. Come in una sorta di caleidoscopio: ogni volta che si gira la rotellina c’è un’immagine nuova e che merita di essere accolta.

Non c’è altra possibilità. Parlando posso supporre di trovarmi a illustrare delle cose, cioè che le parole che uso siano, come diceva Aristotele, “i segni, le affezioni dell’anima”.

Posso pensare naturalmente questo o qualunque altra cosa ma posso anche tenere conto che dicendomi questo di fatto sto parlando e di nuovo torno al punto di partenza.

Qualunque giustificazione, qualunque spiegazione, qualunque causa io trovi, per quanto convincente, credibile, plausibile, di fatto la dico e, quindi, di nuovo mi trovo nel linguaggio.

Qualunque elemento io mi trovi a dire, anche i più importanti, per quanto riguarda almeno il discorso occidentale, la verità, il bene, l’essere, beh questi elementi sono in prima istanza dei significanti. Poi, possono essere eventualmente qualunque altra cosa che io immagini che siano, qualunque cosa e il suo contrario.

Non è difficilissimo dimostrare qualunque cosa e il suo contrario. È la struttura del linguaggio che lo consente. Non è che occorrano particolari funambolismi, basta seguire l’andamento del discorso. Questa non è una cosa strana né una novità. Semplicemente, è l’andamento di cui è possibile tenere conto laddove interviene un pensiero fisso per cui si suppone che una cosa sia proprio quella. Come dire che logicamente posso affermare questo e il suo contrario. Nessuno me lo proibisce, la logica meno che mai. Anzi, è proprio ciò che me lo consente.

Ogni tanto si ascoltano questi appelli alla razionalità, alla ratio.

La razionalità è quella cosa che consentirebbe di ragionare in modo corretto fino a giungere a una conclusione logicamente necessaria. Ma se io posso necessariamente raggiungere una conclusione assolutamente contraria, come la mettiamo? Che è poi ciò che avviene sempre.

Considerazioni che possono farsi e che ciascuno può divertirsi a svolgere per i fatti suoi.

È chiaro che l’itinerario intellettuale lungo cui si produce dell’analista comporta intanto questo, almeno il confrontarsi con l’eventualità che ciò in cui io credo non è necessario, che non l’ha stabilito nessuna autorità, nessun dio. Meno che mai dalla logica.

E allora perché lo ritengo necessario, appunto da attenermi con tale scrupolo a questo pensiero, a questa idea da alcuni casi mettere in gioco la mia stessa esistenza o, comunque, condurla magari malissimo.

L’idea è in molti casi che non possa essere che così, perché se questo, poi questo e questo, inevitabilmente quest’altro ancora.

Ma non è affatto così. L’itinerario intellettuale gioca anche su questo, il porre le condizioni perché ciascuno possa accorgersi che le conclusioni a cui si attiene così saldamente non sono affatto necessarie, anzi, sono del tutto gratuite, per così dire. Con quelle stesse premesse, infatti, può concludere qualunque altra cosa, per cui in definitiva, non c’è alcuna costrizione a credere a alcunché.

La supposizione che debba esistere l’ultima parola, qualcosa che comunque deve chiudere la questione, con tutte le varianti che la retorica suggerisce. Per esempio, non credo che sia così, ma suppongo che sia così. Se suppone che così, potrebbe anche non essere affatto così, quindi, sono assolutamente libero di muovermi in una direzione oppure nell’altra. Il fatto è che credo che sia così.

Dicevamo di questo itinerario che produce dell’analista. Un itinerario in cui è possibile cominciare a accorgersi degli effetti di ciò che si dice. Chi si trova nella posizione di analista, chi ascolta qualcuno che sta parlando, che sta analizzando il proprio discorso,quindi, lo sta interrogando, si trova nella posizione di ciò che fa ostacolo alla chiusura del discorso. Cioè, impedisce di tagliare corto, di chiudere rapidamente una questione. Laddove il discorso dell’analizzante tenta di chiudersi con una credenza, con una supposizione, con una certezza, con quello che vi pare, ecco, proprio lì interviene a riaprire la questione. Come dire, no, la questione è aperta. Dunque, continua a interrogare e, pertanto, occorre parlare ancora, non si è terminato di parlare, anche di questa questione.

Come dire che instaura, in questo modo di intervenire, l’impossibilità di chiudere fino al punto in cui ciascuna questione, ciascuno discorso rimane aperto, non trova mai la conclusione per cui si possa dire “ecco, è così!”. No, non è così, sembra sia così, è così ma non soltanto, altri duemila “così” sono altrettanto legittimamente deducibili.

Se la questione non si chiude, allora, continua a dire.

Ma che cosa interroga, propriamente, nella questione? Qual è la domanda che insiste?

Una domanda che non ha risposta, nel senso della chiusura. Qualcosa che attiene a ciò che Freud indicava come pulsione, una domanda pulsionale. Una domanda intransitiva, una domanda di niente tant’è che non è soddisfatta da alcuna risposta. Come dire che ciascuna risposta continua a comportare questa domanda.

Ciascuna risposta che ciascuno può darsi - non è che non si debbano fornire risposte, non è proibito - interviene come rilancio della domanda anziché come chiusura. La rilancia, la rigetta in campo. Costringe a riconsiderare la questione.

È questa l’unica costante, come diceva Freud, ciò che non può togliersi.

La parola, dicendosi, si divide. Non è unitaria, apre a una divisione tale che risulta incolmabile. Risulta differente da sé perché non la fermo, non la isolo.

Lungo una seduta avvengono molte cose, pertanto anche cose che non sono verbalizzate. Uno ha gli occhi arrabbiati, a quell’altro casca l’ombrello, un altro inciampa. Beh, come porsi di fronte a tutto ciò?

Certamente lo si può fare notare ma in molti casi la persona l’ha già notato da sé. C’è qualcosa che mi autorizza a interpretare questi gesti? Nulla, assolutamente niente. Come dire, che posso darne un’interpretazione, anche due, anche mille, quante ne voglio. Ma tutto ciò che accade risulta preso nella parola, in ciò che si dice, in un’immagine, in un’eco, in controsenso, in tutto ciò che si produce quando parlo o penso. Per cui un gesto, in quanto tale, non è interpretabile.

Freud coglie la questione.

Dice che del sogno si fa un racconto. Questa interpretazione del sogno giunge a un punto che è una sorta di punto vuoto, l’ombelico del sogno, dove non è più possibile interpretare, non ha più alcun senso.

E, come dicevamo la volta scorsa, è forse improprio parlare di interpretazione. Interpretazione di che? Del sogno?

Del sogno ne so soltanto ciò che ne dico e dicevamo che è un’interpretazione. Per cui c’è un rinvio all’infinito.

A che cosa ci si attiene parlando? A che cosa si tenta di attenersi parlando?

Generalmente avviene che c’è qualche cosa che in modo un pò indistinto si avverte sotto forma di pensiero e poi si incomincia a parlare. Ciò che accade da quel momento in poi è difficile a stabilirsi, un po’ come dice de Saussure della parola che fino al momento in cui la penso solo per me posso supporre di gestirla, di controllare; una volta che l’ho detta, dio solo sa che ne sarà di quella parola, quali effetti avrà, soprattutto per me che la dico, dove mi condurrà. Come accade a qualcuno che sta parlando di accorgersi, senza che lui sappia né perché né per come, il suo discorso lo sta portando da un’altra parte. Quando se ne accorge fa tentativi disperati di ricondurlo là dove voleva che andasse e più si sforza di condurcelo e meno ci riesce.

Come dire che c’è un qualche cosa, chiamiamolo così provvisoriamente, che lo muove in una direzione. Cosa abbastanza curiosa perché non è lì che voleva andare. E allora perché ci va? Nessuno lo ha costretto a andare da nessuna parte, ha fatto tutto da sé.

Cosa è avvenuto propriamente?

Buona parte del lavoro svolto da Freud è stato indirizzato lungo questa via, a intendere che cosa interviene continuamente a sviare. Ma a sviare da che cosa?

Freud avverte che è lo sviare che è strutturale, che non può togliersi dalla parola. Ma uno sviare non tanto da una retta via che a un certo punto viene smarrita, ma in quanto le parole seguono un itinerario che non è controllabile. Questo itinerario è mosso dalle parole stesse, dal modo in cui si connettono, si legano, per assonanza, per paranomasie, allitterazione, evocazioni, resti, che intessono una struttura tale che non solo non gestisco ma che non so. Posso venirne a sapere qualcosa dopo. È soltanto dopo che ho detto che so cosa pensavo e non il contrario.

Ecco qui la sorpresa ciascuna volta che si parla, sorpresa che ciascuno può accogliere oppure no, che può anche darsi da fare per ricondurre la sorpresa al già noto. E qualche volta può sembrare che questa operazione riesca.

Sono le occasioni proprio in cui non si riesce, quelle che si possono verificare nel sogno, nel lapsus, nella dimenticanza, nell’atto mancato, dove mi accorgo che c’è una logica differente da quella che io comunemente accolgo e che sovverte un’intenzione, una supposizione, una certezza.

L’inconscio, già così come lo descrive Freud, è sovversivo. Non accetta di essere ricondotto a alcunché. Ma c’è l’eventualità che questo inconscio sia di fatto la logica che interviene parlando e di cui per buoni motivi non tengo conto.

Facevamo prima l’esempio dell’anfibologia: per quale motivo sono costretto a pensare che ciò che dico significhi soltanto questa cosa, necessariamente. C’è qualcosa che mi conduce a pensare a questo e soltanto a questo. E mi avvalgo anche della logica, magari in modo un pò sommario, però immagino che se avviene una cosa e ne avviene un’altra a fianco, allora necessariamente deve avvenire quest’altra.

Ciò di cui non sempre ci si accorge o si valuta è che con grandissima frequenza in ciò che si dice c’è un altro aspetto, che per qualche motivo non considero. Ciascuna parola non significa assolutamente niente, com’è noto. Comincia a avere effetti di senso quando è inserita in una combinatoria, è inserita in circostanze, contesti, in una quantità sterminata di elementi, di cui i linguisti si sono sbizzarriti a fare una lista più o meno esaustiva. A queste condizioni dice qualcosa altrimenti non dice nulla.

Dunque, dicendo qualche cosa questo qualche cosa apre a moltissime altre cose. E, allora, perché non ascoltarle?

Tanto che nulla mi costringe, salvo una superstizione, mi costringe a pensare che debbano essere intese solo in quella maniera.

Nei casi più manifesti, come quello della paura, della fobia, della depressione ... So che domani a Torino ci sarà la festa della depressione, un grande banchetto, verrà festeggiata. Perché no?

Anche nel caso della depressione, si tratta forse di affrontare la questione in un altro modo, che non passa necessariamente per la violenza. Ché la depressione passa in moltissimi modi, anche con lo psicofarmaco, anche con il whisky, anche con un calcio negli stinchi, oppure brucia la casa.

È noto che durante i grandi conflitti mondiali o durante cataclismi, crisi, pestilenze, inondazioni scompare tutto, non c’è nevrotico neanche a cercarlo con il lanternino. Perché laddove ciascuno è costretto a darsi un gran da fare per salvare la pelle, evidentemente, non ha tempo per occuparsi delle proprie magagne, deve occuparsi a scappare, fuggire, mettere in salvo la propria pelle, deve fare una serie di cose per cui la depressione scompare immediatamente. Ora non è che dobbiamo creare cataclismi per debellare la depressione.

Sono pensieri che intervengono in alcune occasioni preferenziali, cioè quando una persona non ha niente da fare, come ad esempio la domenica. Allora sta lì e pensa, si trova a pensare. Accade che questi pensieri, che cominciano a affollarsi, non riesce a fermarli, a gestirli, a controllarli. Comincia a essere preda di implicazioni terribili: è successo questa cosa l’altro giorno; allora quel tizio avrebbe potuto dire questo; dimodoché io non valgo niente, e altre cose del genere.

Certamente il benessere ... ma non per questo sarebbe di qualche interesse far stare malissimo le persone per impedire loro di essere depresse perché avrebbero comunque altri problemi. Durante la guerra non c’è la depressione ma ci sono i bombardamenti ... però non c’è l’occasione di fermarsi a riflettere o,come si suol dire oggi, non c’è l’occasione di rimanere soli con se stessi. Non so cosa voglia dire... però lasciare che i pensieri si affaccino, si dicano e quindi ascoltarli. E perché se lascio che i pensieri si dicano mi viene la depressione? È un fenomeno ben bizzarro.

Non è quindi con un’azione di forza che si risolve.

Anche con lo psicofarmaco o qualunque altra cosa si arresta la depressione.

Ma forse dice qualche cosa la depressione.

Forse non è necessario che ciascun disagio debba essere arrestato immediatamente. C’è l’eventualità, peraltro notissima, che l’essere preso da questi pensieri comporti anche delle invenzioni, anche delle cose notevoli, che con lo psicofarmaco vengono segate sul nascere.

I pensieri di una persona non sono cosa da poco, sono degni di essere ascoltati, di essere intesi, di essere proseguiti. Il fatto che questa persona si spaventi, come può accadere, per questi pensieri, forse è possibile fornire qualche strumento perché questo spavento non sia poi così devastante.

Nella depressione talvolta c’è questa paura: siccome non c’è più nulla che importi allora potrei fare qualunque cosa, anche togliermi di mezzo. Siccome non c’è più nulla che importi, nulla che significhi: ma perché dovrebbe esserci qualche cosa che significa? Chi l’ha detto?

La depressione è l’ultimo stadio, per dirla così, del nichilismo. Lo scetticismo conduce al nichilismo e questo conduce immediatamente all’accidia, perché tanto nulla importa, nulla vale, nulla merita di essere fatto.

Il che è verissimo, non c’è nulla che meriti di essere fatto, cioè che abbia questo merito particolare. Le cose si fanno, dicendosi.

Queste sono le considerazioni che accade di fare lungo un itinerario intellettuale, che produce come effetto dell’analista. Si tratta di incominciare a considerare che ciò che si dice non è sempre necessariamente ciò che si vorrebbe che fosse o ciò che si suppone che dovrebbe essere. È sempre tutt’altro, ciascuna volta.

 

 

Risposte lungo il dibattito.

 

D. Sulla depressione.

 

R. C’è della pressione, quella che Freud chiamava pulsione, che insiste, che non si gestisce. Tant’è che lui immaginava, e questa può essere una fantasia che interviene, che la depressione proceda da una sorta di impotenza, di rabbia impotente. Supponiamo che io ce l’abbia con qualcuno, però non posso in nessun modo dire questa, devo tenermela per me. La rabbia diventa talmente forte che a un certo punto sono costretto a fermare tutto. Ecco che allora questa rabbia, dovendo frenarla, comporta un arresto totale. Ogni cosa si ferma, ogni cosa perde di importanza, perché fino a quando non riesco a fare questa, di tutto il resto non me ne importa assolutamente nulla.

È come nel caso dell’innamoramento: si innamora fortemente di una persona e tutto il resto non importa più niente.

 

D. Se c’è questa pulsione e se l’analista è un atteggiamento che uno ha, perché invece di andare dall’analista non si crea una scuola dove poter insegnare a tutti questo atteggiamento?

 

R. Questa è una questione di straordinaria importanza che ha coinvolto, interrogato moltissimi. Lacan diceva che l’analisi è tutto sommato un percorso lunghissimo, faticosissimo, costosissimo, ma è quanto di meglio possediamo in questo momento.

Certo, porre le condizioni perché ciascuno si trovi a fare questo percorso.

Non tutti. Potremo dire che l’analisi non è per tutti, ma unicamente per ciascuno che lo voglia fare. Occorre volerlo fare. Non può imporsi, per esempio. Se una persona inizia un’analisi perché è stato obbligato a farlo non succede niente.

Occorre che ci sia la disposizione a mettersi in gioco e a accogliere ciò che accade nella parola. Altrimenti, non succede niente.

Lei pone una bella questione. Una scuola. Una scuola non di professionisti ma una scuola di artisti.

In effetti stiamo riflettendo su questo, su come inventare una scuola di artisti. Dico artisti anziché professionisti in quanto non professano nessuna fede, non c’è nulla da professare. Ma una scuola di artisti, così come può essere una scuola di pittura, di musica, di arte, dove anziché il marmo, le note o altro, sono le parole. Artisti delle parole. Forse non lontanissimi da ciò che erano un tempo i sofisti.

Avviare una scuola di artisti è un obiettivo che è molto prossimo a quello che abbiamo maturato in questi ultimi mesi: una scuola dove ciascuno può cominciare a giocare con le parole e accorgersi che esiste un gioco. Non nel senso che lui sia padrone del gioco, ma che è preso in un gioco, un gioco che produce una quantità enorme di altri giochi. Giochi linguistici.

Wittgenstein si era avvicinato alla questione, poi le è sfuggita cercando comunque di stabilire una sorta di regolamentazione di questi giochi.

Ecco, porre le condizioni perché ciascuno che si avvicini a questa scuola possa cominciare a accorgersi del modo in cui funzionano le parole. Quindi, trovarsi a praticare questo impossibile.

Certo, questa è la cosa migliore che si possa fare: consentire a ciascuno questa occasione. Che è la cosa più interessante perché ciascuno preferisce parlare con persone che sono aperte, disponibili, intelligenti, svelte, anziché con una persona che è durissima, inchiodata su un’unica cosa e che da lì non si muove. Certo che no perché è impossibile proseguire.

Talvolta, accade di parlare con persone prese su una questione su cui assolutamente è irremovibile. Può essere una questione religiosa, politica, etica, quello che vi pare, ma funziona sempre allo stesso modo.

Quella che indicavo come struttura del discorso religioso, che non riguarda le religioni cosiddette ma una struttura di pensiero per cui c’è la certezza che ci sia la verità, che sia già stata data, come suppongono i monoteismi, e che è pertanto solo da accogliere. Oppure, che sia da reperire, come suppone la scienza, il discorso scientifico.

Entrambe, la religione e la scienza, muovono da un unico ceppo. Poi, divergono. L’una suppone una verità già acquisita, l’altra da acquisire. Entrambe ci credono fermamente.

 

D. Non tutti gli indirizzi della scienza vogliono puntare a una descrizione della realtà completa. La realtà esiste ma non è conoscibile.

 

R. Come fa a dire se non è conoscibile? Cosa l’autorizza a affermarlo?

Si ricorda di Gorgia? Diceva “Nulla è, se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe trasmissibile”, bloccando, come diceva Colli, il pensiero occidentale in un modo inesorabile alla sua stessa logica su cui si è costruito. Pensare alla realtà senza poterla conoscere è una sorta di contraddizione. Come dire che esiste un X assolutamente vago e inconoscibile. Allora, perché dobbiamo supporre che esista. E poi che cos’è l’esistenza? Sono tutte domande che occorre porsi.

 

D. Dipende dall’uso.

 

R. Sarebbe l’uso che determina il significato. Certo, questa era anche la posizione di Wittgenstein.

Ma questa è una sorta di escamotage che lui fa. Di fatto, l’uso, per poterlo conoscere, per poterlo afferrare, per poterlo isolare, occorre che anche lui sia identico a sé.

Sono questioni molto sofisticate.

Ci sono alcuni che hanno avuto anche un certo successo, come Feyerabend, che a un certo punto glissa sulla questione dicendo che tutto sommato “Tutto va bene”. Ma “tutto va bene” rispetto a che cosa? Che vada tutto bene o tutto male non ci porta molto lontano. È qui che se per un verso le tesi di Feyerabend sono di un certo interesse, poi su questo punto, quando è costretto a ammettere che non c’è nulla che possa sostenersi, lì, invece, l’itinerario di cui sto parlando prende un’altra direzione. Che c’è qualcosa che non possa conoscersi ma con cui occorre che mi confronti e è ciò che dico. Che non è vero né falso. Non è sottoposto nessun criterio verofunzionale.

Se dico una cosa è quella.

Come nel lapsus: io dico una cosa anziché un’altra. Però questa l’ho detta. Con questo occorre che mi confronti.

Quindi, non c’è alcun richiamo alla realtà, a un criterio verofunzionale, a nessuna certezza. Confrontandomi con ciò che ho detto con tutto quanto ciò comporta.

La stessa logica che ha prodotto la filosofia, la scienza, la matematica, qualunque altra forma di pensiero, è la stessa logica, sono gli stessi strumenti che consente di dissolverli.

Ha questa virtù il linguaggio, di cui occorre tenere conto.

Le costruzioni logiche, anche quelle più ferree e ineccepibili, sono costruite attraverso uno strumento che è lo stesso che consente, in modo altrettanto ineccepibile e ferreo, di provare il contrario.

 

Ciò che fa un ricercatore in un laboratorio è spesso di un notevole interesse.

Ciò di cui ci stamo occupando qui è l’ideologia connessa alla scienza. Così come quando parliamo di medicina, parliamo dell’ideologia. La ricerca scientifica in quanto tale è spesso grande interesse.

Però, talvolta, suppone o fa supporre di appoggiare su qualche cosa di fermo o presuppone, magari senza accorgersene, un elemento fermo e stabile. Questo non può darsi. Non può darsi perché è un elemento linguistico preso nella parola.

La ricerca scientifica, certo, va lungo una direzione che non sa ma che prosegue. Ecco, in questo senso un’analisi è una ricerca scientifica. Segue qualche cosa che man a mano incontra e segue delle direzione che il suo stesso discorso impone. Perché trova degli elementi e li accoglie. Di alcuni se ne avvale e di altri no. Ma è esattamente come fa un ricercatore. Solo che invece di avere a che fare con altri aggeggi ha a che fare con la parola, con il suo funzionamento, con i suoi effetti.

Ha una prerogativa la parola, che è necessaria in qualunque altro tipo di ricerca. O, si può dire che qualunque altra ricerca si avvale della parola o comunque di una struttura di linguaggio, qualunque linguaggio sia.

La ricerca intorno alla parola è una ricerca intorno alle condizioni di qualunque altra ricerca.

Qual è la prima condizione per una ricerca, per esempio, intorno all’atomo? Che esista un linguaggio in cui io possa fare le cose. Altrimenti non posso fare niente, non posso neanche domandarmi intorno all’atomo, non posso neanche dire che c’è.