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14 aprile 1995

 

IL BENE, IL MALE E IL BRAVO PSICANALISTA

 

Oggi è venerdì santo, venerdì di passione. Ed è proprio di passione ciò di cui si tratta, visto che dobbiamo parlare dello psicanalista e di ciò che talvolta si intende o si immagina che lo psicanalista faccia o debba fare. La passione, dunque, la sofferenza. La sofferenza, come è noto, è uno degli aspetti più notevoli di cui si suppone debba occuparsi lo psicanalista. Sofferenza altrui, naturalmente. Possiamo fare brevemente un riepilogo delle cose che sono state divulgate intorno alla psicanalisi dopo Freud, visto che l’ha inventata lui. Un sistema, dunque, una teoria che ha la funzione propriamente di individuare ciò che appartiene alla storia della persona cogliendo ciò che non ha funzionato o che ha funzionato male. Quindi, fare in modo che la persona si accorga di queste cose e consentirgli di riprodurle eventualmente o quanto meno di considerarle in un altro modo. E questo come avviene? Avviene così. La persona racconta, racconta gli affari suoi, poi, in seguito a questo racconto, l’analista interviene dicendo che cosa ciò che sta dicendo, ciò che sta raccontando, vuole dire. Questo per esempio nella psicanalisi cosiddetta freudiana, quella della SPI, Società Psicanalitica Italiana, connessa con l’IPA, la società di psicanalisi che ha avviata Freud e proseguita dalla figlia Anna. Dunque, dicevo, si tratta di prendere dei brani del racconto e dare un significato differente rispetto a quello che la persona a quel momento attribuisce. Si tratta di sostituire una formulazione errata con una corretta. Si presenta naturalmente il problema del criterio, cioè quale criterio utilizzeremo per interpretare, per volgere ciò che questa persona avverte nella versione corretta, quella che dovrebbe consentire a questa persona di vivere in modo più appropriato. Un problema, dunque, di interpretazione, ma ancor prima si tratta di stabilire una teoria. Ed è questa teoria, questa dottrina, che mi consente di stabilire che se avviene una certa cosa, se si dice una certa cosa o se si dice in un certo modo, questo allora vuol dire un’altra cosa. Occorre un criterio di interpretazione. Quale? Ce ne sono a disposizione molti. Possiamo fare una brevissima lista: interpretazione freudiana, adleriana, junghiana, reichiana, kleiniana, bioniana, alla Winnicott oppure quella transazionale, lacaniana e altre che adesso mi sfuggono. Ciascuna muove da una teoria che dice, che si pone come una sorta di Weltanschauung, visione del mondo, per cui se il mondo, le cose stanno così, allora chiaramente si tratta di muoversi in questa direzione. Se invece non stanno così, allora occorrerà muoversi nell’altra. Potete leggere ciascuna cosa di queste che ho elencate. Sapere fornire, volendolo, un’interpretazione freudiana, reichiana, junghiana, lacaniana, con assoluta certezza e precisione. Queste teorie, si può dire, possono anche essere tra loro contraddittorie o contrapporsi. Certamente, c’è questa eventualità; anzi, in molti casi è una certezza. Si dice che tutte queste teorie hanno un fine comune, che è quello per cui la persona che si rivolge a questi psicanalisti dovrebbe trarne un vantaggio. Oppure, alcuni considerano che per qualcuno sia meglio una certa cosa, per altri sia meglio un’altra cosa, a seconda dei cosiddetti problemi che uno ha: meglio una cosa più leggerina per qualcuno; per un altro meglio una cosa che va più a fondo, ecc. Ma cos’hanno soprattutto in comune queste Weltanschaungen? Hanno in comune un elemento che è importante, vale a dire, ciascuna di queste teorie suppone che le cose stiano in un certo modo. Come lo sa che le cose stanno così?

Ciascuno ha fatto delle ricerche, delle osservazioni, ha aggiunto delle considerazioni e è giunto a delle conclusioni, come avviene perlopiù, ce te volte muovendo dalle stesse premesse, altre volte muovendo da premesse completamente differenti. Ma, dicevo, hanno qualcosa in comune queste posizioni, cioè l’idea che ci sia una sorta di teoria a cui attenersi e, in effetti, senza questa teoria non si sa più come interpretare: interpreto così o cosà? Notava una persona, che peraltro non ha nulla a che fare con la psicanalisi perché si occupa di linguistica, che non c’è nessun modo per cui queste varie persona, per esempio, un lacaniano, un reichiano, ecc., non c’è nessun modo per cui possano mai trovarsi d’accordo. Perché? Perché pensano cose differenti, muovono da premesse, da assiomi assolutamente differenti, cioè credono cose differenti. Può avvenire una conversione, uno junghiano può convertirsi in un lacaniano, ma non può avvenire che una persona rimanga perfettamente junghiana e allo stesso tempo assolutamente e perfettamente lacaniana, perché muovono da principi e giungono a considerazioni che sono assolutamente differenti. Provate a pensare a un cattolico che è simultaneamente musulmano: diventa difficile pensare una cosa del genere. Perché è difficile? Perché o credo questo, quindi suppongo che questo sia vero, oppure un’altra cosa e, quindi, suppongo che quest’altra cosa sia vera. Ma se dice la verità su come stanno le cose, allora necessariamente le altre sono un pò più false o sicuramente pongono male il problema o non hanno valutato con precisione le cose. Di fatto, uno junghiano non sosterrà mai che le cose che sostiene siano assolutamente false o senza nessun senso, ma penserà assolutamente che sono vere. Allo stesso modo di un freudiano. Essendo vere è chiaro che se questo è vero dice un’altra cosa e non possono essere simultaneamente vere dicendo cose differenti. Anche la obiezione che potrebbero cogliere aspetti differenti non regge, perché è il modo di cogliere questi aspetti che fa la differenza. Come dire che per uno junghiano significano una certa cosa, per un lacaniano un’altra, assolutamente altra. Visto che la psicanalisi è stata un’invenzione di Freud, c’è un orientamento, alcuni assiomi fondamentali. Per esempio, che esiste l’inconscio e quindi i meccanismi inconsci. La quasi totalità ammette l’esistenza della rimozione, della pulsione; molti sono incerti sulla questione della pulsione di morte ma sono dettagli. Ci sono alcuni elementi che funzionano da base, da fondamento. La credenza, per esempio, nell’esistenza dell’inconscio come una sorta di container, di ricettacolo dove si vanno a depositare tutte le cose che, per qualche motivo, non possono giungere alla coscienza. Alcuni, come Lacan, cominciano a pensare che forse l’inconscio non è un container ma una svista, qualcosa che funziona come una svista. Lui faceva questo gioco fra Unbewüsste e une bevue, svista in francese, quindi come qualcosa che attiene più alla struttura del linguaggio che a qualche cosa di quasi trascendente. Ora, come sapete, alla psicanalisi sono state mosse moltissime accuse di metafisica, di essere una dottrina metafisica. Non a torto, tutto sommato. D’altra parte se, per esempio, questa nozione di inconscio è considerata come un qualche cosa che è messo lì e di cui si deve credere l’esistenza necessariamente, beh per alcuni risulta difficile pensarlo: perché mai dovrebbero credere a una cosa del genere? Perché credere, poi in definitiva? Ma la questione è più sottile. Ciò che Freud ha fatto ha una certa portata, come ciascuno di voi sa. Anzi, molte delle cose da lui dette sono diventate poi delle banalità. Eppure, ha fatto qualcosa di un certo interesse, cioè ha cominciato a dire che, parlando, interviene qualcosa che riguarda delle fantasie, dei pensieri. Come dire che, dicendo, c’è qualche cosa che opera in ciò che si dice o, per dirla altrimenti, che ciascuno è preso dalle sue fantasie. Cosa sono le fantasie? Sono le cose in cui ciascuno crede. In altri termini ancora, ha detto che ciascuno parlando enuncia delle cose in cui crede, delle sue superstizioni, delle sue credenze. Questo è notevole, dal momento che si è considerato per moltissimo tempo, e per buona parte ancora oggi, che ciascuno, dicendo, racconta o esprime le cose come stanno, le descrive senza metterci del suo, cioè espone semplicemente i fatti così come sono. Ecco, Freud ha suggerito che forse non avviene esattamente questo ma che parlando, oltre che a fare molte altre operazioni, dice anche delle sue credenze, delle sue superstizioni e che forse c’è l’eventualità che le cose che racconta, che descrive, che suppone siano quelle, siano addirittura in alcuni casi costruite da queste fantasmatiche. Questo già toglie una certa sicurezza rispetto al discorso, rispetto al dire. Poi, ha tentato di sistemare tutto questo in una teoria, anche se in effetti si tratta di una teoria un po’ particolare perché non risulta da nessuna parte leggendo Freud, per esempio, nessuna indicazione precisa su come stanno decisamente le cose, nessun metodo per praticare la psicanalisi, nessuna indicazione nemmeno su che cosa si debba sapere. Che l’abbia fatto per incuria, per fare un dispetto ai posteri o perché effettivamente non sapeva, questo non ci è dato sapere. Noi leggiamo i suoi scritti e possiamo con lui fare queste considerazioni, cioè sull’intervento delle cose in cui credo in ciò che dico. Ciò che è seguito dopo Freud è emblematico perché, avendo lasciato la questione straordinariamente aperta, si è pensato che fosse assolutamente necessario invece sistemarla, anche perché si trattava di insegnare ad altri a fare questo mestiere. Come insegnarlo? Occorre pure avere un criterio, un sistema, un qualche cosa. Da qui una serie di congressi che avevano lo scopo di stabilire i criteri dell’insegnamento. Ma per fare questo occorre una teoria strutturata, organizzata. E a questo è stato provveduto con rapidità, togliendo tutto ciò che nel testo di Freud interroga, cioè si pone come domanda, come interrogazione, come questione, arrangiando un po’ le cose sostituendole con qualche cosa di molto sicuro, di molto stabile. Pensate al ponderoso trattato di Fenichel, per esempio, su cui si formavano fino a qualche tempo fa in Francia gli psicanalisti senza nemmeno leggere Freud. Lì non c’è più traccia di ciò che interrogava Freud nel suo percorso: tutto sistemato in capitoli, in sezioni, in paragrafi, in commi, ecc.: ogni cosa trova la sua collocazione. Ora, se almeno in parte Freud poteva non porre ciò che andava facendo come una sorta di metafisica, anche se per alcuni versi può leggersi anche in questo modo, ciò che ne è seguito è invece una costruzione fatta e finita. In altri termini, un’ideologia. A che scopo è fatta un’ideologia? Per togliere delle interrogazioni, per togliere del disagio, per togliere delle domande, o per meglio dire, il domandare. Qualunque discorso che voglia porsi come una dottrina necessita, per essere accolto, di essere creduto vero. E, in effetti, questo avviene. In molte scuole di psicanalisi l’addestramento, parlo di addestramento non a caso, viene fatto per persuadere la persona che si tratta proprio di questo, cioè che le cose stanno proprio così. E se non stessero così? C’è questa eventualità. Ma, al di là di questo, comporta necessariamente un atto di fede, un autodafé, come dicevano gli inquisitori. Posso io, per esempio, mettere in atto, avvalermi della teoria freudiana, junghiana, lacaniana, quello che vi pare, senza credere minimamente in tutto ciò? Eh, sarebbe difficile, talmente difficile da risultare impraticabile. Tant’è che in effetti funziona esattamente in questo modo. Rispetto a ciascuna dottrina, a ciascuna scuola c’è un criterio di interpretazione a cui lo psicanalista si attiene. C’è uno scritto molto spiritoso scritto da Ottiero Ottieri dal titolo Diario di un seduttore passivo, dove racconta cose molto divertenti e anche molto acute intorno alla psicoterapia. Ciascuno, dicevo, si attiene a questo criterio, al suo naturalmente, a quello che ha appreso. Cosa dicono questi criteri? Si attengono, nel migliore dei casi, al buon senso comune. Reperire l’invidia del fratellino che vede la sorellina, più piccola di lui, accudita dalla mamma con affetto, non mi sembra un granché come scoperta. Certamente è una cosa rilevante, molto rilevante al punto che è stata rilevata tremila anni fa con estrema precisione. E così una quantità sterminata di cose, che oggi passano con il nome di psicologia in effetti sono antichissime e in molti casi anche elaborate in modo più preciso, più acuto, non sommario. La psicologia tende a tagliare corto. Ma questa è un’altra questione. L’interpretazione è una sorta di sostituzione di una proposizione che, ritenuta errata per qualche motivo, viene sostituita con una corretta. Il criterio che viene utilizzato è quello che abbiamo detto, cioè ciascuna volta è quello della scuola cui si appartiene. Ora, il fatto che le cose avvengano per lo più così non è affatto confortante. In molti casi la persona si sente dire le stesse cose che gli ha detto la nonna, solo che vengono dette in modo più autorevole e in modo non necessariamente più articolato. Non c’è nei testi di psicanalisi, per lo più anche se con qualche eccezione, nessuna considerazione rispetto a ciò con cui avviene un discorso, una conversazione e di che cosa è fatta questa conversazione. Nessun considerazione per una constatazione che può farsi e che è molto semplice. Questo fu merito di Lacan e cioè di essersi accorto per la prima volta che una psicanalisi avviene parlando. Constatazione banalissima che però prima di lui nessuno aveva fatta, per cui occorre sapere che cosa avviene parlando, quand’anche non si intenda sostituire propri pezzi del discorso con altri, facendo un’operazione di conversione, come quella isterica di cui parla Freud. Vale a dire, convertire le cose da un significato a un altro, come una conversione religiosa. Se una persona cattolica si converte all’islamismo, le cose acquistano per lui un altro significato, non è più quello di prima. Se sia meglio o peggio, questa è un’altra questione. È più probabile però che sia la stessa cosa. Lacan si accorge di questo, che qualcosa avviene parlando, quanto meno si accorge che ciò di cui si dispone lungo una conversazione analitica è la parola. Allora incomincia a suggerire di leggere i linguisti, de Saussure in prima istanza, e anche riprendere il testo di Freud perché, tutto sommato, mantiene una certa freschezza, pone delle questioni che sono sempre da considerare. Freud, non avendo la voglia, il tempo, l’ardire, l’intenzione di fornire un sistema, ha lasciato delle questioni aperte su cui è possibile riflettere. Se qualcuno, invece, vuole fare credere che, per esempio, l’inconscio è collettivo a tutti i costi, allora non mi resta che credere a una cosa del genere oppure no, evidentemente. Anche perché non posso, tutto sommato, nemmeno chiedere delle spiegazioni o i motivi per cui dovrei credere a una cosa del genere, salvo appunto la fede in qualche cosa. Certamente, questo può avvenire per qualunque altra formulazione. Prendete ciò che Lacan diceva in un suo saggio, quello più celebre, del 1939, conferenza che tenne a Marienbad in un congresso di psicanalisi, il saggio sulla fase dello specchio. In questo saggio la questione è posta in termini tali per cui la sua tesi è che l’identificazione avverrebbe attraverso il riconoscimento del bambino, il quale in braccio alla mamma vede la mamma e qualcuno che è in braccio alla mamma, si accorge che è lui e constata per la prima volta che quello è lui. Ma questo riconoscimento avviene attraverso lo specchio, quindi attraverso un’alienazione che da quel momento sarà strutturale. Anche qui potremmo muovere delle obiezioni, perché parlare di questa alienazione strutturale immagina che da qualche parte esista qualche sorta di Io non alienato, sennò non possiamo di alienazione, non avrebbe alcun senso. Anche qui, dunque, c’è qualche cosa cui occorre credere, che occorre dare per buono, cioè occorre credere che effettivamente avvenga così. Ciascuno formula una sorta di origine delle cose da cui tutto è partito, cioè, in definitiva, l’origine della nevrosi, l’origine dei mali: è una sorta di cosmogonia. Ma perché, per quale motivo dovremmo pensare che sia proprio così? Dicevo prima che si tratta di un atto di fede, un autodafé, senza il quale tutto ciò non può avvenire, non sarebbe possibile, non è possibile credere né in una cosa né nell’altra. Allora, che ne è della psicanalisi a questo punto? Perché parrebbe dissolversi nel nulla. In un certo senso sì. Se dobbiamo considerarla come una dottrina, come una Weltanschauung, come un significato delle cose, come una spiegazione delle cose, un’interpretazione delle cose, ebbene allora non ha alcun interesse, assolutamente nessuno. È un criterio ermeneutico, neanche fra i più interessanti, sicuramente neanche fra i più sofisticati, ce ne sono molti di più elaborati, complessi. Non è un caso che per molti sia diventato un luogo comune il dire che lo psicoterapeuta è il prete di un tempo. Una volta le persone andavano dal prete (il quale almeno dava la assoluzione, adesso nemmeno più quello), dove si raccontano delle cose e c’è in effetti una sorta di soluzione. Qual è la soluzione? Sarebbe la giustificazione per qualche cosa. Ciò a cui mirano la quasi totalità delle psicoterapie è, come si dice comunemente, il farsene una ragione. Lo stesso Carotenuto, in un’intervista apparsa qualche mese fa, diceva questo, che occorre fare in modo che si convinca e si rassegni al suo destino, convivere con le proprie magagne, appunto, farsene una ragione. Però, questo lo diceva anche mia nonna, non c’è bisogno di grandi cose, è il buon senso comune. Come fare un passo, se è possibile fare un passo, rispetto al senso comune o rispetto a una quantità sterminata di banalità, nel migliore dei casi, se non proprio idiozie colossali che non stanno né in cielo né in terra. Prendete dei testi di psicanalisi, anche recenti, Menninger, Bion, Klein, Fenichel, Kojut. Trovate una sequenza di affermazioni assolutamente gratuite che non dicono assolutamente niente, se riflettete su che cosa vogliono dire queste cose. Così come la psicanalisi americana, che è poi quella prodotta dalla cosiddetta trojka newyorkese, come la chiamava scherzosamente Lacan, cioè Kris, Hartman e Löwenstein: analisi dell’Io, rinforzare l’Io. Rinforzare l’Io dando per acquisito che l’Io sia quella cosa che loro immaginano che sia e che questo debba essere rinforzato contro i colpi dell’avversa fortuna. È un Po’ il modo di pensare americano: l’uomo forte, il self made man, l’uomo che non deve chiedere mai. L’Io forte, che poi paradossalmente è la psicosi, che è fortissima, indistruttibile. Ma di che cosa stanno parlando esattamente? Viene da chiedersi qua e là leggendoli se abbiano la più pallida idea delle cose di cui stanno parlando. Eppure, sono travolti da un furore religioso, mistico in alcuni casi, dove ciascuna cosa sembra essere un tutto autoevidente, come qualcosa che va assolutamente da sé, che sarebbe assolutamente superfluo mettere in discussione.

Detto questo, possiamo cominciare a riflettere su queste istanze, che sapete anche Freud ne ha inventate un certo numero. Alcune le ha prese dal discorso comune, l’Io, cosa comunissima, l’Es un po’ meno, il Super-Io è nuovissimo. Queste istanze, che Freud inventa per indicare delle cose che gli servono, questo passaggio che fa tra la prima e la seconda topica, tra il sistema conscio-preconscio-inconscio e poi l’Io, l’Es, il Super-Io, che cosa rappresentano propriamente? Di che cosa sta parlando quando, per esempio, ci parla dell’Es? Di che cosa sta parlando esattamente? Ne ha un’idea oppure no?

Sapete che lui descrive l’Es come un’istanza che parrebbe avere per lui una certa funzione, quella più antica, cioè risponde alle esigenze più primitive, ciò che muove ciascuno nel modo più antico. Poi, a questo si aggiungono le cose che mano a mano è costretto a cancellare perché il mondo esterno lo costringe. Perché l’Es non è fatto solo di cose antiche, è fatto anche di cose più recenti che vengono rimosse e che sembrano ritornino nell’Es, il quale è prevalentemente inconscio. Questo Es, dice Freud, cerca di uscire e di mettersi in contatto con ciò che lo circonda, con le richieste del mondo esterno, ecco che allora questo es sarebbe costretto a istituire una sorta di altra istanza, quella dell’Io, che deve tenere conto sia di ciò che avviene nell’Es, delle sue richieste, sia delle richieste che vengono dal mondo esterno, ecc. Perché dovrebbe essere proprio così? Qualcuno potrebbe anche domandarselo. Freud ha inventato questo sistema, io potrei inventarne un altro, volendolo, non meno bello, non meno divertente. A meno che non si sappia con precisione a che cosa si riferisce o, se volete dirla così, qual è il referente dell’Es, cioè, quando parlo dell’Es, di che cosa parlo esattamente? Se, come ci dice Freud, è inconscio, cioè non ha accesso alla coscienza, per cui non posso saperne nulla, allora come posso saperne? E se non posso saperne come faccio a dire che c’è? In base a quale criterio?

(cambio cassetta)

Credere che debba esserci questa cosa, che lui chiama inconscio, dove avvengono queste altre cose, che cosa mi costringe a pensarlo?

Perché, se anche noi volessimo fare il verso al discorso scientifico, noi potremmo dare un sacco di altre spiegazioni, non meno attendibili, non meno credibili, non meno articolate, ben formulate. Perché proprio questo o qualunque altra?

Ma ora basta dire che cosa non è. Non ci interessa propriamente.

Possiamo cominciare a dire qualcosa di positivo. E lo diciamo subito.

Riflettiamo su cosa propriamente avviene in una psicanalisi.

Avviene questo. Come ciascuno sa, una persona si rivolge a uno psicanalista e incomincia a parlare. Può o cominciare a raccontare i suoi malanni, se ne ha, se non ne ha racconta altre cose, cose che lo interessano, che lo interrogano, di cui vuole sapere di più. Si può anche iniziare un’analisi per curiosità, per sapere. Per sapere che cosa ancora non si sa, però... è sicuramente un modo per venire a sapere con maggiore precisione qualcosa che mi riguarda. E quindi comincia a parlare, comincia il racconto. Una delle regole fondamentali, diceva Freud, è proprio questa: dire ciò che si pensa. Cosa che già di per sé è una formulazione paradossale: impossibile dire ciò che si pensa. Però, si dice.

Cosa succede quando comincia a parlare. Intanto, una cosa anomala e cioè che la persona che ha lì accanto non si precipita né a rispondere, né a dargli man forte, né a persuaderlo di qualche cosa, ma, anzi, inizialmente lo lascia per lo più solo con il suo discorso. Avviene una cosa sorprendente, cioè il cominciare a accorgersi che si parla, cosa che non è così automatica. Cioè, parlando qualcosa ritorna, c’è una sorta di eco. Ora, che farne di queste cose che la persona racconta?

Interpretarle? Se sì, in base a quale criterio? Quello che stabilisco io? Sì, certo, posso farlo, abbiamo visto che posso farlo in almeno una dozzina di modi, a seconda che voglia fare il freudiano, lo junghiano, ecc. Ma non so se rendo un buon servizio se faccio questo, facendo questo indottrinamento, cioè "tu vuoi dire per questo motivo" oppure "le cose che stai dicendo vogliono dire questo", ecc. Perché mai dovrei fare una cosa del genere? Per convertirlo? Per persuaderlo?

Nella supposizione che l’analista non sia sufficientemente religioso per farlo, occorre che trovi un’altra via. Dunque, che fare di ciò che ascolta?

Intanto, ascoltare. Ma non soltanto questo.

Ciascuno parlando si trova preso in una serie di parole, evidentemente. Che cosa fa mentre parla? Cosa sta facendo?

Sta facendo letteralmente, come direbbe Austin, delle cose con le parole. Sta, per esempio, cercando di dimostrare qualcosa, sta cercando di definire qualcosa, di precisare qualcosa, può cercare di fare una quantità sterminata di cose. Qual è l’obiettivo del suo discorso, cioè che cosa sta cercando di fare?

Questo: trovare una soluzione, una spiegazione, una soddisfazione, una conclusione, trovare cioè qualche cosa che dia un senso, un significato alle cose che sta dicendo, che sta facendo. Vale a dire, sta cercando di fare ciò che ha sempre fatto da quando esiste.

Questo saggio di Austin è straordinario per questo aspetto.

Dunque, il discorso, qualunque esso sia, ha un inizio, ha qualche cosa che lo muove, non è che parte da niente. Può essere qualunque cosa: il fatto che gli sia caduto l’accendino mentre saliva le scale, il fatto che ha incontrato una vecchia zia oppure che ha visto morire un bambino. Qualunque cosa sia, dunque, dalla più futile alla più drammatica, costituisce l’avvio della conversazione, parte da lì, quindi da qualche cosa. Questo qualche cosa lo ha mosso a parlare per qualche motivo. Quale? Ciò che possiamo dire è intanto questo, che ciò che lo ha mosso a parlare sta producendo dei significanti, delle parole. Dove vanno? Se un elemento muove a parlare è perché interroga, c’è un’interrogazione, qualcosa che questiona. Ora, cosa fa il suo discorso? Muovendo da questa interrogazione fa ciò per cui è addestrato, cioè cerca di rispondere a questa interrogazione, di togliere la questione, di risolverla in un modo o nell’altro, cioè di concludere "Ah, ecco, è questo". Anche quando evoca dei ricordi o racconta un sogno c’è qualcosa che questiona, qualcosa da cui parte, dunque un’interrogazione, un questionare che lo muove. Dove va? Dove sta andando? Cosa sta facendo?

Ma, visto che non ci interessa tradurre quello che dice in un altro codice, possiamo attenerci a ciò di cui non possiamo non tenere conto. Intanto questo.

Le cose di cui non possiamo non tenere conto sono queste: ciò che avviene lì e cioè che incominciato a parlare, che se ha incominciato a parlare c’è qualche cosa che lo ha mosso a farlo e ciò che muove a fare è qualcosa che crea, che produce uno spostamento, produce un fare. Questo fare va in una certa direzione, la incontra mano a mano. Almeno di questo possiamo tenere conto.

Allora, perché il discorso di ciascuno tende a chiudersi, cioè a trovare il significato, l’ultima parola, la spiegazione, la giustificazione?

Così hanno fatto anche le teorie intorno alla psicanalisi, trovare la soluzione, la conclusione, per cui se questo allora quest’altro.

Dunque, c’è qualcosa che muove e che mira a concludere, a chiudersi. Questo avviene per una questione linguistica e grammaticale molto semplice, che fa supporre che tutto ciò che domanda possa avere una risposta. Perché questo? Come è venuta in mente una cosa del genere?

È venuta in mente considerando la struttura del linguaggio, che è fatto in modo tale per cui, rispetto a qualunque questione, io posso dire che dicendo faccio qualcosa. L’idea è che questo qualcosa sia effettivamente un qualche cosa che ha una sua esistenza fuori da ciò che io dico. Questo ha consentito di pensare che a ciascuna domanda è possibile non solo formulare ma che esista una risposta, vale a dire che esista, per dirla in altri termini, un’origine, una causa.

Sulla nozione di causa occorrerebbe trattenervi qui moltissimi giorni.

Dunque, la causa, l’idea che esista la causa, cioè il punto di partenza, l’origine delle cose, il da dove vengono le cose, quello che gli antichi chiamavano cosmogonia, da dove viene il tutto, il cosmo. Dunque, ogni cosa ha una causa perché ha un principio: se esiste ha avuto un principio. Questa considerazione aristotelica che cosa dice? Niente di più di quello che dice.

Ma cosa corrisponde quello che dice? Ha un referente da qualche parte? c una bella domanda.

È stato pensato in effetti che esista un referente da qualche parte: questo referente è stato chiamato Dio. Almeno più recentemente, prima era chiamato motore immoto, prima in altri modi ancora. Vale a dire, il nome del principio. È esattamente questo che ciascuno cerca, ma causa, il perché, l’origine, qualunque cosa faccia. Perché fa questo? Ché potrebbe fare anche altre cose a fianco. Fa questo perché la supposizione è che, trovando questo, possa trovare ciò che consolida, garantisce, ferma, assicura e, quindi, rassicura. Non trovandolo si smarrisce.

Certo, questa causa è per lo più attribuita comunque a qualche cosa oppure si pensa che qualche dottrina possa trovarla. A questo proposito facevamo tempo della distinzione tra religione e scienza: l’una immagina questa causa già trovata, l’altra la immagina da trovare. Però, entrambe la danno come ipostasi, necessariamente. Altrimenti, entrambe non saprebbero cosa stanno facendo.

Ecco perché il discorso di ciascuno va in questa direzione. E più è sicuro di avere trovato la causa e più deve crederci forzatamente, per difenderla da tutto ciò che potrebbe metterla in crisi, con le armi se necessario, oppure va incontro a uno smarrimento terribile quando avverte l’eventualità che potrebbe non essere così. E allora si rivolge a chi? In genere si rivolge allo psichiatra, allo psicanalista o alla chiesa. Lo psichiatra pratica la lobotomia e chiude il problema, oppure somministra psicofarmaci. Gli psicofarmaci hanno la virtù di sedare gli animi, fanno in modo cioè che ciascuno cessi di farsi queste stupide domande. Oppure, si rivolge allo psicanalista. E che fa questo psicanalista a questo punto? Fa in modo che questa si trovi sì nelle condizioni di accorgersi che c’è l’eventualità che le cose non siano come pensa che siano ma questa eventualità che, mano a mano che prosegue, trova sempre più ineluttabile, costituisca non la tragedia degli umani di cui occorre assolutamente farsi una ragione, ma la sua chance, la sua fortuna. In questo senso, che se sono costretto a ricondurre ciascuna cosa che penso, che immagino, che faccio a un significato già prestabilito, cui devo attenermi per le ragioni che indicavo prima, se sono costretto a ricondurre ciascuna cosa a quella in cui credo per evitare che possa evitare di metterla in gioco, a evitare che ci siano discrepanze, cose che stridano, dissonanze. Quindi, ciascuna volta sarò io a dare , a fornire un’interpretazione sempre unidirezionale.

Come diceva Freud, il cosiddetto psicotico fa una caricatura, è uno che prende talmente sul serio il discorso occidentale da risultare insopportabile. Come i bambini piccoli quando fanno il gioco dei perché, perché?, perché?, perché?... È il gioco che fanno gli scienziati, solo che, anziché rompere l’anima ai genitori, s’interrogano da sé. Ma è la stessa cosa solo che nel caso dei bambini è una caricatura, è caricaturale, come nei psicotici.

Dunque, se non ha questa necessità di dover ricondurre, senza saperlo e senza volerlo, a ciò in cui crede, allora si può instaurare una mobilità di pensiero tale da cessare di avere la necessità di credere. Naturalmente, le cose in cui crede non funzionano in questo modo come le cose perlopiù, come le cose di cui sa di credere, e sono prese per la realtà dei fatti. Questo, per tornare a ciò che dicevamo all’inizio, è la portata del gesto di Freud: considerare che ciò che si ritiene comunemente la realtà dei fatti è qualcosa in cui io credo, una struttura psichica, religiosa, che funziona appunto come una religione.

Che succede se non ho più la necessità di credere? Per ciascuna istituzione, per ciascun governo, per il discorso occidentale succede una catastrofe, letteralmente. Pensate a che cosa potrebbe accadere se gli umani cessassero, per esempio, di avere paura. Vi siete mai chiesti una cosa del genere? Cosa accadrebbe? Quale catastrofe di proporzioni immani, bibliche, si metterebbe in atto.

Freud si accorse che senza il senso di colpa gli umani non sarebbero governabili. Non per questo lui ci dice che occorre il senso di colpa. Constata questo fatto semplicissimo, che gli umani sono governabili attraverso il terrore, il ricatto. Ma se non avessero paura? Non è neanche pensabile una cosa del genere. Eppure, è esattamente questo ciò di cui si tratta in una psicanalisi: cessare di avere paura, cessare di essere ricattabili, non tanto da altri quanto dal proprio discorso, cioè dalle proprie credenze, dalle proprie superstizioni. Non essere più ricattabili dalle cose in cui si crede.

Cosa avviene a questo punto? Non lo so, non è ho la più pallida idea, ciascuna volta avviene qualcosa, ciascuna volta ciascuno si trova responsabile di ciò che dice. Le cose che dice si trovano senza alcun referente. Potremmo dirla così con un aforisma: le cose, cioè le parole non hanno nessun referente fuori di sé.

Con questo avremmo detto tutto ma evidentemente la cosa non è così semplice, perché risulta qualcosa che non è pensabile. Sul fatto che risulti così arduo pensare una cosa del genere si può certamente discutere ma, in effetti, per fare qualcosa di differente dal trovarsi a estendere e divulgare dei credi religiosi, ciò da cui occorre muovere da alcune considerazioni di cui non è possibile non tenere conto per proseguire a parlare. Una di queste è che sto parlando: questa è già una delle cose di cui non posso non tenere conto. Sembra una cosa banalissima che però ha degli effetti, una portata tale che va oltre ciò che io posso immaginare.

Fare questo in una psicanalisi è fare qualcosa che non muove necessariamente da un credo, perché se vi trovaste in una situazione del genere non avreste da inculcare nulla, da tradurre nulla, da persuadere di nulla, da convincere di nulla: vi attenete unicamente a ciò che si sta dicendo e ponete l’accento su ciò che si dice e sul come ciò che si sta dicendo, lungo questo racconto, sta cercando di eliminare se stesso, cercando un significato, un ultima parola, una causa. Dico "eliminare se stesso" in quanto, trovando la causa, un fine, tutto ciò che si dice è perfettamente giustificato. Essendo giustificato, io mi trovo nella posizione di chi riferisce, del portavoce, Lacan diceva il portaparola, non faccio altro che dire come stanno le cose.

No, non sto affatto dicendo come stanno le cose, sto facendo ben altro. E di questo c’è l’eventualità che io mi accorga oppure no.

La prossima volta il titolo del mio intervento sarà "L’avvenire della comunicazione". Parleremo in effetti di questo: cosa si comunica lungo una psicanalisi, lungo una conversazione analitica? Cosa dobbiamo intendere per comunicazione? L’accenno che ho fatto stasera è molto rapido, molto veloce, giusto per dare un suggerimento per riflettere.

Porre la psicanalisi in questi termini è porla in termini assolutamente e radicalmente differenti da quelli più noti. Ho considerato a un certo punto che la psicanalisi forse non necessariamente deve essere un’operazione religiosa e ho provato a riflettere intorno a questo. Le cose che vi ho dette sono alcune considerazioni che ho fatto lungo questa riflessione.

Dunque, se c’è un obiettivo, se di obiettivo è ancora possibile parlare, lungo una psicanalisi è sicuramente questo: consentire al discorso una maggiore mobilità, ricchezza e, in definitiva, occasioni. Vi sarete senz’altro accorti che qui il bene e il male sono lessemi, parole, elementi linguistici. Qualcuno può anche credere nel bene e nel male o in qualunque altra cosa. È chiaro che parlando si troverà prima o poi a mettere in gioco questa credenza fra le altre. Non è né prioritaria né secondaria. Non importa in che cosa creda, importa porre le condizioni perché si possa accorgere di che cosa sta facendo credendo. Solo questo.

D. Se la psicanalisi viene definita così come lei ha fatto non può essere definita come scienza.

R. La psicanalisi non può essere definita una scienza? Tuttavia, forse, proprio in questi termini possiamo invece definire la nozione di scienza. Anziché definire o no la psicanalisi come scienza, può provarsi a definire la scienza, cosa debba intendersi con scienza.

Questa è già una questione interessante. Se lei provare a sbarazzare la scienza da ciò che attiene a credenze, superstizioni, cosa che peraltro già molti altri hanno fatto, si accorge che in effetti diventa sempre più difficile accampare qualunque diritto di esistenza. Cosa diceva Benedetto Croce? Diceva che le teorie scientifiche sono come ricette di cucina. Chiaramente, la cosa è più complessa. La cosa che lei introduce è di tale vastità... Però sicuramente rispetto alla nozione di scienza, così come è comunemente intesa, quella popperiana tanto per capirci, la psicanalisi non è scientifica, perché non è falsificabile ... esattamente come la dottrina popperiana.

Lei dice delle cose ma dicendo, mentre parla, non riesce a pensare a quello che dice. Parlando, è presa, per esempio, dalla sua voce. Certe volte succede, per esempio, quando si danno degli esami uno parla e mentre parla sta cercando di pensare alla domanda che gli è stata fatta per vedere di combinare, ecc. e succede il più delle volte un macello, perde il filo, non riesce più a seguire quello che sta facendo, perché è come se dovesse seguire due discorsi effettivamente discorsi. È difficile seguire due discorsi simultaneamente. Allora, lei pensa, poi può dire delle cose. ma sono esattamente quelle che lei ha pensato? Questa è una questione che molti si sono posti. Oppure sono due discorsi che, pur avendo qualcosa in comune, sono però differenti. I più radicali si chiedono addirittura come potremmo sapere che sono le stesse cose, quelle che ho pensate e quelle che ho dette. Possiamo saperlo?

Il discorso che si fa mentalmente, se lei lo riproduce altrove, si trova preso, come dicevamo prima, in due discorsi. Ciascuno di questi due discorsi si trova inserito in una serie di elementi, di pensieri, di sensazioni, di emozioni, di considerazioni, in altre parole in una catena combinatoria che è assolutamente particolare e irripetibile. Come a voler ripetere, per esempio, una stessa parola, prima la dice poi la ripete. I linguisti si sono dati da fare molto per potere stabilire, per esempio, la permanenza del fonema come minima unità di suono: almeno quello, dicevano, sarà identico a sé, potrà ripetersi allo stesso modo. E, invece, sono risultati dei problemi notevoli anche rispetto a questo e cioè ciascun suono ciascuna volta ha una tonalità, ha un’onda che non riesce a riprodursi allo stesso modo, per cui si è portati a considerare la non ripetibilità delle cose.

Perché, in effetti, possiamo anche dire che si ripetono ma ciascuna volta con una differenza. Non è identico, c’è una differenza o, se preferisce, un’eccedenza, c’è qualcosa in più. Ed è su questo che Freud ha inventato tutta la sua elaborazione intorno al lapsus o al motto di spirito, tenendo conto di ciò che eccede. Potremmo definire il lapsus come un’eccedenza rispetto alle intenzioni, qualcosa che va al di là di ciò che intendevo. Quindi, qualcosa si ripete ma c’è qualcosa in più che prima non c’era. Di questo non possiamo non tenere conto e, quindi, se c’è qualcosa in più non è pù esattamente la stessa cosa. Ha subìto una variazione, che può essere minima a livello fonetico. Ma, a livello di discorso, rispetto a ciò che si pensa, anche perché è difficile dire che cosa si pensato propriamente. Il pensiero si trasforma, è difficilmente isolabile da una sua combinatoria, da una struttura: risulta arduo. Lo stesso discorso che si fa: perché gli antichi imparavano i discorsi a memoria? Per poter essere liberi dal pensiero e potere, quindi, dedicarsi completamente alla declamazione, quindi all’intonazione, all’accentuazione, al gesto, alla quinta parte della retorica. È chiaro che anche lì le cose non è che funzionassero perfettamente in quanto comunque parlando c’è il rimbombo della propria voce, c’è un’eco e inoltre intervengono immagini, sensazioni che non si controllano.