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CHI DIVIENE ANALISTA?

 

14/4/1998

 

Questo è l’ultimo incontro di una serie dedicata all’aspetto, chiamiamolo così, teorico della psicanalisi, in quanto dalla prossima volta inizieranno quattro incontri relativi ad aspetti più clinici, intorno all’ansia, anoressia, depressione e angoscia.

Invece questa sera il tema è "chi diviene analista", che è una questione interessante, dal momento che si tratta soprattutto di stabilire che cosa occorre che un’analista sappia, e quindi che cosa occorre nella sua formazione. Formare psicanalisti è un’attività nobile, degna di essere perseguita dal momento che occorrono psicanalisti, cioè occorrono persone che siano in condizioni di ascoltare un discorso e fare in modo che questo discorso (della persona che ascoltano), giunga a costituirsi come qualcosa di accessibile. Come sapete ci sono tantissime scuole che formano psicanalisti, in vario modo, a seconda delle varie teorie che seguono. Però ciascuna di queste tecniche di formazione non offre un granché, aldilà di una sorta di esercizio a pensare in modo religioso; mi riferisco alle scuole più note come quella della S.P.I., quella degli Junghiani, etc.. Che cosa occorre dunque per formare uno psicanalista? La prima cosa è che questa persona desideri divenire analista, direi che è la condizione fondamentale; altri requisiti non occorrono propriamente: non occorre né una particolare erudizione, né d’altra parte occorrono particolari titoli di studio, dal momento che tutti quelli attualmente riconosciuti non hanno nessuna utilità per chi intenderà praticare come analista. Generalmente si ritiene che per potere praticare come analisti occorra un’analisi personale; c’è l’eventualità che sia così per un motivo abbastanza semplice cioè che si ritiene che sia preferibile che la persona che praticherà come analista abbia avuto l’occasione di confrontarsi in prima istanza con il proprio discorso e quindi valutare in modo più preciso quali sono gli effetti di un’analisi. Anche se poi, di fatto, chi si trova a iniziare una pratica come analista, di analisi conosce soltanto la sua; Freud, come è noto nemmeno quella, perché non essendoci analisti all’epoca non aveva potuto fare una psicanalisi: nonostante questo pare che abbia funzionato come psicanalista, questione tutt’altro che secondaria. Ciò di cui si tratta qui, è intendere che cosa effettivamente occorra per una persona che intende praticare come analista; innanzitutto, dicevo all’inizio che intendo qui con praticare come analista non propriamente un addestramento a una sorta di interpretazione, come talvolta viene fatto soprattutto dai kleiniani (ma non soltanto), i quali si avvalgono di una sorta di codice interpretativo e poi trasformano ciascun enunciato in un altro, che a loro opinione appare più corretto, più confacente. Ecco, non si tratta di questo, né di ricondurre il discorso dell’analizzante, cioè di colui che sta di fatto compiendo un’analisi del suo discorso, alla teoria alla quale si riferisce lo psicanalista; voi sapete bene che un’interpretazione fornita da un freudiano sarà differente da quella fornita da un kleiniano, da un junghiano, da un lacaniano, etc…; saranno comunque sempre interpretazioni differenti: ciascuna di queste interpretazioni volgerà l’enunciato che ascolta in un enunciato che è confacente alla teoria a cui si appoggia, ovviamente. Come dicevo forse all’inizio di questi incontri, non è che una pratica come questa che vi sto elencando non abbia degli effetti; ha degli effetti così come qualunque approccio religioso produce, e cioè una sorta di benessere connesso strettamente all’idea di possedere una nuova verità; l’idea di possedere una nuova verità ha da sempre un effetto terapeutico, così come avviene con qualunque religione: l’abbracciare una nuova fede ha sempre un effetto notevole di benessere. Però non è esattamente questo che intendo con formazione di uno psicanalista, cioè addestrare una persona a volgere ciascun enunciato che ascolta in qualcosa di confacente ad una teoria, quanto piuttosto porre le condizioni perché chi si trova a praticare coma analista possa fare in modo che la persona che sta ascoltando giunga a considerare che tutto ciò che fa o che costituisce il supporto di tutto ciò che è considerato il malessere o il disagio, possa cessare di essere creduto; in termini differenti potremmo dirla così: non si tratta di sostituire qualcosa che crede l’analizzante con un’altra, ma di porre le condizioni perché non abbia la necessità di credere. Operazione molto più complessa, molto più difficile, perché spostare una persona da una religione ad un’altra è molto semplice o relativamente semplice: primo, perché ciascuno già di per sé è propenso a credere moltissime cose; secondo, perché ciò che dice l’analista generalmente è creduto, non sempre a ragione, e quindi la persona sarà molto disponibile ad accogliere una qualunque teoria che gli sia proposta: però con questo la questione non è né intesa né elaborata, è soltanto spostata. Dire che una persona può cessare di credere, per esempio, di essere abbandonata e incomincia a credere a queste cose che l’analista dice, cioè per esempio, che pensa di essere abbandonata perché è successo quel tale fatto. Ma che io creda di essere abbandonato perché credo di essere una persona ignobile oppure credo di essere abbandonato perché da piccolo ho avuto un sentore di abbandono da parte della mamma, non è che faccia alcuna differenza, è la stessa cosa, credo soltanto una cosa diversa. Solo che, nel primo caso immagino che non sia vera o comunque non sia sufficiente, nel secondo sì, penso che sia la verità; ed è questa supposizione, questo immaginare che sia la verità ad avere effetti terapeutici, non il fatto di sapere, di pensare di essere abbandonato perché la mamma da piccolo mi ha fatto qualche torto. Ora, questo è ciò che generalmente avviene in una psicanalisi e cioè una sorta di traduzione; che la verità o l’abbracciare un qualche cosa che si suppone sia la verità abbia effetti terapeutici, è una questione molto interessante che abbiamo già affrontata, ma adesso non è questa la questione. L’addestramento degli psicanalisti nelle varie scuole è molto semplice; prendete per esempio quella più nota come la S.P.I: la Società Psicanalitica Italiana, affiliata alla L.I.P.A: L’International psychoanalytic association, (quella fondata dalla figlia di Freud): qui i requisiti sono un certo numero di ore di analisi da farsi con un analista didatta, dopodiché a giudizio insindacabile di una commissione, questa persona inizierà dei casi con la supervisione di un analista didatta, il quale di nuovo, dopo un certo numero di ore di sedute esporrà le sue valutazioni alla solita commissione d’inchiesta e se verrà ritenuto che questa persona ha le condizioni per potere praticare, verrà iscritto all’Albo degli psicanalisti. Nel frattempo dovrà seguire alcuni corsi nei quali apprenderà la teoria della scuola a cui si rivolge; se si rivolge ai freudiani apprenderà la teoria freudiana, se si rivolge ai kleiniani apprenderà la teoria kleiniana e così di seguito; è una cosa abbastanza semplice e molto dispendiosa, costa moltissimi milioni una cosa del genere: perché costa molto? Aldilà dell’interesse personale, delle varie persone, c’è un altro aspetto e cioè questo: che pagando moltissimo, una persona è più facilmente persuasa di fare una cosa importante. Mi viene in mente un aneddoto che mi raccontò un amico fumatore di sigari: vi sono dei sigari che si chiamano Cohiba che sono i migliori del mondo e costano in media tre volte tanto di qualunque altro sigaro: chiesero un giorno al proprietario della fabbrica, un cubano, come mai costassero così tanto, che non era giustificato un prezzo così elevato; perché, rispose lui, così ciascuna volta che ciascuno fuma un sigaro Cojba, sa che sta fumando il migliore sigaro del mondo; non c’era nessun altro motivo, in effetti potrebbe costare un quinto, ma i prezzi sono tenuti altissimi per questo motivo, una questione che chiunque si occupi di mercato conosce molto bene. Però aldilà di queste amenità, resta una questione che invece non è così amena e cioè quella che riguarda il tipo di addestramento di queste persone. Non so se voi avete mai avuto l’occasione di leggere dei testi di psicanalisti, sia freudiani, kleiniani lacaniani; fatelo se vi capita l’occasione oppure fate in modo che vi capiti l’occasione: trarrete degli elementi interessanti, per riflettere intorno a come sia possibile dire qualunque cosa intorno alla psicanalisi senza alcun timore che nessuno ponga la minima obiezione. Il caso ha voluto invece che mi trovassi a porre delle obiezioni a ciascuna di queste teorie, compresa quella con cui mi sono formato. Obiezioni che vertevano e vertono intorno agli assunti, ai principi su cui ciascuna di queste teorie si fonda e trae la sua giustificazione. Ciascun principio su cui è fondata ciascuna di queste teorie risulta assolutamente arbitrario, gratuito, potrebbe essere quello come qualunque altro; nulla al mondo costringe una persona a credere, per esempio, che un bambino nascendo sia un perverso polimorfo come vogliono gli junghiani, o sia invece purissimo e si guasti con il crescere come vogliono gli junghiani o via dicendo, si potrebbe fare un elenco sterminato di affermazioni assolutamente gratuite. Questo mi ha indotto a riflettere su ciascuna di queste teorie dopo averle considerate molto attentamente, giungendo alla conclusione che forse non c’era nessun bisogno di nessuna di queste teorie, cioè di nessuna dottrina, di nessun dogma da cui muovere, perché di fatto possono farsi alcune considerazioni moto semplici, molto banali, connesse anche con il disagio o con ciò che ciascuno avverte come tale. Farò un riassuntino brevissimo di questo percorso: innanzitutto, qualunque disagio una persona provi, questo disagio è connesso con delle sensazioni, il più delle volte: queste sensazioni sono prodotte da altri elementi, ma perché questi altri elementi possano produrre delle sensazioni particolari occorre che siano provvisti di senso. Faccio un esempio banalissimo: se una fanciulla mi dice che mi abbandona, occorre che ci sia una relazione con questa fanciulla e che ci sia dell’affetto da parte mia perché questo annuncio abbia degli effetti; se non c’è nessuna relazione, non conosco questa fanciulla, la sua dichiarazione di abbandono mi lascerà completamente indifferente, in caso contrario no, come mai? Può apparire una questione molto banale ma non lo è, perché nell’un caso questo annuncio è fortemente caricato di senso e quindi è provvisto di senso, nell’altro no. Dunque, se nell’un caso posso provare una sensazione di abbandono è perché ci sono degli elementi, provvisti di senso che producono questa sensazione. Ho fatto un esempio molto banale così per intenderci, ora immaginate la stessa cosa rispetto a qualunque situazione in cui ciascuno può provare del disagio; questo disagio procede da elementi che sono carichi di senso. Se io potessi togliere o variare il senso di questi elementi che producono la sensazione di disagio, cosa avverrebbe? Avverrebbe che cesserebbe il disagio, inesorabilmente. Ma quali sono questi elementi che producono le sensazioni? Elementi carichi di senso, ma il senso che cos’è propriamente? È una proposizione; una proposizione che afferma qualcosa. Come dire che tutto ciò che produce degli effetti di senso non sono altro che proposizioni costruite in un certo modo le quali per una serie di questioni sono strettamente connesse ad un senso, per cui ciascuna volta che si verifica una certa cosa, accade un certo effetto. Come se io avessi paura del buio, una terribile paura del buio, allora tutte le volte che mi trovo nel buio avrò paura. È un funzionamento semplice; detto così può apparire semplice, poi è chiaro che intervengono un numero notevole di varianti che rendono la questione molto complessa, ma la struttura rimane semplice. Dunque, proposizioni, cioè sequenze di significanti provvisti di senso; inserire una variante in questo senso lo varia, chiaramente, non è più lo stesso. Supponiamo che io abbia paura del buio perché al buio connetto la presenza di una persona che mi vuole nuocere; in questo caso la struttura è molto semplice, c’è un’equazione: buio = presenza di una persona che mi vuole nuocere; ma in questo caso la connessione fra il buio e quella persona che mi vuole nuocere è molto stretta, non c’è la possibilità che io possa pensare altrimenti, cioè buio = non c’è nessuno, e sto tranquillo. Come mai questa connessione così stretta e quasi obbligata, cioè perché questo significante buio si è caricato di questo senso e soltanto di questo al punto di escludere qualunque altro, perché ciascuno potrebbe cercare di persuadermi che anche se c’è il buio non corro nessun pericolo; nonostante tutti i suoi sforzi, ogni volta che mi troverò al buio avrò paura. Cosa fa sì che a un significante si connetta un senso e una solo e necessariamente quello? Come sapete ciascuna volta , ciascuno fa una qualunque cosa per un motivo, non perché sia un opportunista, ma per una questione molto più semplice e la questione più semplice, almeno apparentemente è che ciascun elemento linguistico cioè qualunque cosa dica è un elemento linguistico in quanto ha un utilizzo, è utilizzabile in qualche modo da qualcuno; se non avesse nessun utilizzo non sarebbe assolutamente nulla. Dunque anche questo senso che mi dice che al buio occorre un pericolo, ha un utilizzo, serve a qualcosa; cioè la paura del buio serve a qualcosa così come qualunque altra paura, qualunque altro timore; ha un utilizzo, altrimenti non avrebbe nessun interesse, nessun senso; ma quale utilizzo? Ce ne possono essere infiniti; ciascuno può utilizzare le cose di cui dispone, le cose che incontra nel modo più opportuno: Freud aveva considerata la questione e Freud per quanto riguarda l’esplorazione di molte fantasie ha detto delle cose interessanti: lui parlava di tornaconto. Per quanto possa apparire paradossale, una paura, un disagio, ha un tornaconto, se non lo avesse non esisterebbe, ha un’utilità. Certo può apparire bizzarro che un malessere abbia un’utilità, tuttavia se non lo avesse non servirebbe a niente e quindi non sarebbe lì. Il compito dell’analista dunque, e a questo occorre che si eserciti, è intendere esattamente a che cosa serve il disagio, ciascuna volta, di ciascuna persona che si rivolge a lui, qual è la sua utilità; come se chiedesse (anche se non lo chiede in questo modo) a una persona che enuncia un disagio perché? "Io sto male". "Perché?" Non c’è bisogno, non c’è bisogno apparentemente e invece questa persona ne ha bisogno, per così dire di questo malessere. Ne ha bisogno certe volte al punto tale da opporsi con tutte le sue forte all’eventualità che tale disagio possa dissolversi; questione che già Freud aveva avvertita in modo molto preciso, non senza una certa sorpresa. Dunque qual è il tornaconto, a che cosa serve? Inteso questo, si instaura una posizione rispetto al proprio discorso totalmente differente; perché accorgendosi di qual è l’utilizzo di un disagio, qualunque esso sia, si constata anche la presenza nel discorso di una sorta di gioco linguistico e più propriamente, delle regole di un gioco linguistico. Potete immaginare questo esempio che facevo prima della paura del buio e della connessione strettissima tra il buio e una persona che mi vuole danneggiare, come un gioco: un gioco che ha una regola molto precisa, la quale stabilisce che ciascuna volta in cui c’è il buio c’è questa reazione. Intendere qual è la connessione tra questi elementi non è latro che intendere qual è la regola di quel gioco che si stava giocando senza sapere fosse un gioco, immaginando che fosse una cosa molto tragica e finché non ci si accorge che è un gioco, in effetti, può accadere che lo sia. Come una persona a cui viene riportata la notizia di una tragedia terrificante, alla quale dopo viene detto invece che non era vero, era un gioco. Cioè viene a sapere qualcosa che prima ignorava e cioè che tutto ciò che dice, che fa, che pensa non è, ne può essere altro che un gioco linguistico, del quale tuttavia può trovarsi a vivere un’estrema tragicità se non lo sa: sapere questo è esattamente ciò che occorre che sappia un analista; non occorre che sappia molto altro; certo, se vuole poi può divertirsi a sapere molte altre cose che poi gli vengono come curiosità, ma è questo che occorre che sappia e che non possa non sapere in ciascun istante: che ciascuna affermazione, ciascun evento, ciascun atto, è necessariamente quanto inesorabilmente un atto linguistico con tutto ciò che questo comporta, che non è poco. Allora, come vedete, non si tratta di ricondurre, di riportare ciascun enunciato da qualunque altra parte, ma semplicemente fare in modo che possa considerare ciò che in nessun modo potrebbe non essere e cioè che sia un gioco linguistico. Considerare questo non è che porti a togliere, sbarazzare tutte le emozioni, le sensazioni, tutto ciò di cui tutti gli umani vivono, assolutamente no; l’unica cosa che risulta non più credibile è la tragicità delle cose; questo non impedisce aduna persona che se vuole soffrire di farlo. Abbiamo fatto l’esempio tantissime volte che alcune persone amano soffrire e possono farlo, non è proibito; tutta la filmografia riferita a films drammatici o comunque "strappa lacrime" vive di questo e cioè che le persone amano assistere ad uno spettacolo che li faccia soffrire e quindi in definitiva amano soffrire. In effetti, sbarazzare della sofferenza non è semplice, ma non è semplice proprio per questo motivo, altrimenti sarebbe semplicissimo; siccome è un modo di provare delle sensazioni molto forti, ciascuno mal volentieri rinuncia ad una cosa del genere anche se afferma di volere rinunciare, ma per un motivo, perché se affermasse il contrario, sarebbe palese ed evidente il suo desiderio di soffrire, invece così no, e se risultasse così evidente e palese il suo desiderio di soffrire, cesserebbe anche buona parte dell’effetto di sofferenza. Se fossi io a sapere, che mentre soffro sono io che voglio soffrire e che quindi posso cessare praticamente in qualunque momento, allora tutto il pathos perderebbe molto di tutta la sua portata. Ecco, quindi porre le condizioni perché cessi di essere così necessario il passaggio fra il suo elemento e il suo senso ma possano inserirsene altri. Come dicevo è questo che occorre che un analista sappia. Come dunque, tenendo conto delle cose dette fin qui, formare un analista? Innanzi tutto direi che si tratta, nella formazione dell’analista, di porre in modo massiccio alla prova il discorso della persona che vuole praticare come analista; intendo dire questo, che per potere considerare che ciascuna volta ciascun atto è un atto linguistico e non potere non farlo occorre un notevole esercizio, dal momento che tutto ciò che comunemente circonda un persona la induca a pensare esattamente il contrario: quindi un esercizio logico e retorico soprattutto, senza acquisire nessuna dottrina particolare, ma un esercizio logico cioè incominciare ad imparare come funziona la logica del discorso; che cosa il discorso impone necessariamente e che cosa nel discorso è assolutamente arbitrario e quindi non può essere posto come necessario; e poi un esercizio retorico cioè imparare a sapere provare e confutare qualunque affermazione: le proprie in prima istanza. Una propria opinione "io penso che sia così", e "adesso provo che è esattamente il contrario di quello che penso". Potere compiere questa operazione con assoluta facilità, questo occorre che sappia, perché se io so, di una qualunque mia opinione provare che è vera così come so altrettanto bene provare che sia falsa, allora mi sarà molto difficile credere in questa opinione, non ci crederò, la considererò esattamente per quella che è: un gioco linguistico, né più, né meno, mi sarà assolutamente impossibile credere questa, come qualunque altra cosa. E se, avvenisse che una persona cessasse di credere, potrebbe stare male? Se sì, come? Ma c’è una forte probabilità che non possa, non può più; in questo il processo che andiamo facendo è irreversibile, si tratta di stabilire una sorta di "benessere" irreversibile. Irreversibile perché non c’è più la possibilità stessa di stare mele per quanto una si possa sforzare, come talvolta accade, solo che generalmente se si sforza ci riesce; in questo caso anche sforzandosi non potrebbe riuscirci perché non sono più credute e credibili le cose che sostengono il disagio, quindi tutti quegli elementi ai quali si attribuisce un unico senso; questo unico senso non è più uno, è molteplice e cioè il buio non significa più solo e unicamente che c’è una persona che mi vuole danneggiare, ma anche una persona che mi vuole favorire e poi ci sono infinite altre cose bellissime nel buio, tutte altrettanto credibili; dunque non è più sostenibile la paura del buio. È un aspetto complesso ed è per questo che un’analisi talvolta offre qualche complicazione; consiste nella difficoltà di abbandonare per un verso la sofferenza, per l’altro ciò che la sostiene, anche se può apparire paradossale dal momento che ciascuna persona risulta per lo più fortemente aggrappata alle cose in cui crede, come se di fronte all’eventualità di perdere, di abbandonate questi supporti si trovasse difronte all’abisso, al nulla; può essere anche così, ma non è nulla di spaventoso, è un altro atto linguistico. Ma tutte le parole che io dico hanno una certa utilità, ma allora quale può essere la differenza di utilità fra un significante quale il buio e il significante di qualunque altra parola? Come il buio ha un tornaconto nel mio discorso, ciascun elemento ha un’utilità, ha un uso, quindi quello che mi fa soffrire non è esattamente l’utilità del buio, perché allora anche altre cose mi dovrebbero fare soffrire perché hanno un’utilità nel mio discorso. Certo, in questo caso c’è un aggancio particolare, perché se io immagino che una persona voglia nuocermi, allora avverto quella sensazione di angoscia che non è altro che l’attesa di un pericolo, da qui il disagio, il malessere; se invece dal buio mi attendo delle cose bellissime, allora hanno pur sempre un’utilità, ma è diversa l’attesa. Non è che una pratica come quella che viene messa in atto da queste varie chiese o scuole non abbiano degli effetti; le persone stanno molto meglio, ma non è esattamente questo che io qui intendo con intervento analitico. C’era chi accostava tra alcuni filosofi la figura dello psicanalista a quella di un prete laico e in effetti posta nei termini in cui alcuni la pongono è esattamente così, è una sorta di confessione solo che invece di dare l’assoluzione viene data l’interpretazione, ma è lo stesso effetto, è la stessa funzione e la persona si sente molto sollevata così come un fervente cattolico si sente molto sollevato dopo la confessione. Però forse nell’analisi ci possono essere in gioco delle cose molto più interessanti che spostare da una religione ad un’altra; quelli che abbandonano per esempio il Cristianesimo, per abbracciare, adesso va di moda il buddismo, o in alcuni casi l’islamismo, stanno tutti benissimo e cioè hanno trovato la via, la vita, la verità; vivono in una condizione meravigliosa: la religione fa questo, è nata per questo non ha nessuna altra finzione. Questo percorso può esser fatto da chi non è particolarmente interessato da un discorso religioso; ciascuno può fare ciò che ritiene più opportuno, perché non è che questo percorso sia meglio o peggio di qualunque altro, è differente; muove da un presupposto differente: un percorso da fondamentalista islamico non è peggiore neanche migliore, è diverso. Perché si sceglie di diventare analisti, perché si sceglie di fare questa professione? Diciamo che può accadere che una persona si ponga un obiettivo di divenire analista in due circostanze: o questa idea sorge ad un certo punto lungo un’analisi, ma non era partito con questo obiettivo, poi lungo l’analisi si accorge che ascoltando il suo discorso è in condizioni di ascoltare anche il discorso altrui e allora si accorge che può praticare come analista; oppure è mosso fin dall’inizio da questo obiettivo. Allora in questo caso, motivi per cui si desideri divenire analista possono essere molti; generalmente c’è una curiosità oltre che una commessa, anche intellettuale; spesso è la sorta di insoddisfazione a generare un desiderio del genere, come se ciò che si è venuto a sapere non fosse sufficiente, si volesse sapere molto di più, riguardo non soltanto al proprio pensiero ma anche al pensiero in generale; uno riflette sul suo modo di pensare e poi si trova inesorabilmente a riflettere su come funziona il pensiero; in genere è una forte curiosità intellettuale a muovere in questa direzione. Però poi, può anche accadere che uno inizi un’analisi per divenire analista e molli tutto, non è che questo sia una garanzia; spesso però avviene anche come dicevo nel primo caso, cioè l’accorgersi a mano a mano che si procede lungo un’analisi che si sono acquisiti tali elementi da potere affrontare anche il discorso altrui; perché difficilmente si può ascoltare un discorso se si è assordati dal proprio, cioè se ciascuna cosa che una persona dice viene interpretato o scatena cose terribili, si è molto assordati e quindi non si ascolta più nulla, ci si difende o si attacca o si fanno tutte le operazioni che si fanno di solito quando uno è infastidito da qualcosa che ascolta, non dalla persona ma da ciò che ascolta: ecco, è preferibile che questo non avvenga. Come scarica, come si libera la mente un analista? In nessun modo, perché la questione è che non è che scarica tutto, ma non carica niente, nel senso che nel momento in cui si trova nella posizione di analista, più che una persona con tutti i sui problemi, ciò che ha di fronte è come se fosse una stringa di significanti, parole, un discorso. Un analista avverte tutto ciò che nel discorso della persona costituisce un problema in vario modo e di vario genere; per esempio può accorgersene per via di continue ripetizioni di una questione, oppure una questione si accorge che l’analizzante cerca di eliminarla molto rapidamente; ciò che fa l’analista è impedire che questa operazione riesca e cioè che una certa questione venga eliminata o che non si consideri un certo aspetto; è come se obbligasse una persona a fare esattamente ciò che di per sé eviterebbe di fare. Non è né una spugna, né un filtro, ma semplicemente impedisce ad un discorso di arrestarsi, e si arresta quando una persona per esempio cerca o di cambiare completamente questione oppure non si accorge che continua a ripetete una certa cosa, allora interviene a fare notare ciò che sta avvenendo nel proprio discorso oppure ad impedire che un discorso si arresti. Un analista non si carica di tutte le cose che ascolta, anche perché effettivamente di ciò che ascolta l’analista non gliene importa assolutamente niente: occorre che sia così necessariamente; qualunque cosa ascolti è assolutamente indifferente, per questo può ascoltare la struttura del discorso, per questo non è coinvolto dal contenuto. Se lo fosse sarebbe partecipe di quello che viene lì e non ascolterebbe più niente, non si accorgerebbe più di nulla, invece occorre che si accorga di tutto, di tutto ciò che avviene nel discorso, cioè della sua struttura, del modo in cui il discorso si fa; è molto più attento al modo che al contenuto, il contenuto molte volte è marginale; è un pretesto per dire altro che a volte la persona ignora. Quindi ascolta e consiglia poco? Generalmente non consiglia nulla, non dà delle indicazioni; che l’analizzante faccia in un certo modo oppure nell’altro è marginale e comunque sarebbe indirizzare una persona in una direzione e fargli aggirare il più delle volte un ostacolo, ma non un ostacolo reale, un ostacolo nel discorso della persona; allora in quel caso prenderei la questione molto realisticamente come se il problema fosse quello e glielo risolvo, bene o male che sia. E invece no, ciò che importa non è tanto il problema contingente, ma da dove sorge questo problema, che cosa mette in moto, che cosa implica quindi non dico di fare né in un modo né nell’altro, faccia ciò che ritiene più opportuno; ciò che a me interessa è il modo in cui si pone e si dispone nei confronti, per esempio, di un problema, che cos’è questo problema nell’economia del suo discorso: se risolvessi i problemi non gli farei un buon servizio. Anche perché potrebbe creare una dipendenza tutte le volte che ciascuna persona ha un problema, spostando la responsabilità? Certo perché potrei dare dei consigli, ma anche risolvendo tutti i problemi la persona non intenderebbe niente di quello che io faccio, ma questo non è il mio mestiere.