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13 novembre 2011

 

Luciano Faioni

 

La formazione analitica: una formazione sovversiva

 

 

 

Per formare uno psicoanalista occorre un’analisi, l’analisi cosiddetta personale, qualunque tipo di istruzione istituzionale, statale, non ha nessuna possibilità di formare alla pratica analitica, nessuna. Una persona potrebbe avere una laurea in psicologia o in ingegneria meccanica, per quanto riguarda la formazione analitica, è totalmente irrilevante.

Il percorso analitico è quel percorso che mostra alla persona di che cosa sono fatte le sue decisioni, le sue scelte, le direzioni che prende, indicandogli che tutto ciò fa, che pensa o che non fa, o che non pensa, comunque è pilotato dalle sue fantasie, fantasie che la persona, almeno in buona parte, non reputa tali ma reputa essere la realtà delle cose, il mondo che lo circonda, e quindi ovviamente ritenendo che queste fantasie siano la realtà non ha nessun motivo né per interrogarle, né per metterle in discussione. Questo è uno dei motivi per cui occorre che ci sia qualcuno che faccia notare una cosa del genere, in caso contrario è fortemente improbabile che una persona si accorga di essere pilotato, diretto, mosso dalle sue fantasie. La fantasia si suppone comunemente essere qualcosa che si contrappone alla realtà. La fantasia, letteralmente, ciò che appare, la realtà ciò che è, ma che cosa “è”? La realtà è ciò che ha interrogato da sempre gli umani, per avere un qualche cosa su cui appoggiarsi, qualcosa di stabile, di fermo, di immobile, ciò che i filosofi chiamano l’Essere. Che esista questo tavolo io lo vedo, e lo vedo perché ho imparato che è un tavolo, so come è fatta la sua composizione chimica, molecolare, ma tutte queste cose che dico intorno al tavolo non sono il tavolo propriamente. Questa realtà che il discorso occidentale ha inseguito e insegue da circa tremila anni, di fatto risulta inafferrabile, si sottrae, e più cerco o immagino di essermici avvicinato, più mi accorgo che si allontana. Tutto ciò che dico intorno a questo tavolo non è il tavolo, ciò che dico del tavolo sono parole, parole che rinviano, che traggono il loro senso da altre parole, queste da altre parole. Dunque non solo il tavolo, ma anche ciò che ne dico sfugge alla presa, al controllo, travolto da una sorta di caduta libera e inarrestabile di rinvii, di rimandi, in una voragine senza fine. È questa voragine che ha costituito la dissoluzione della metafisica, cioè del pensiero che immagina che le cose esistano di per sé, magicamente. Ciascuna parola è tale perché presa nella combinatoria che la fa esistere, questo è ciò che Freud ha incontrato: ciascun elemento rinvia a un altro elemento, ecco l’inconscio di cui parla, una rete di connessioni.

Ma questa realtà di cui vi dicevo da dove arriva? Perché c’è? È la domanda che si poneva Leibniz, “perché esiste qualcosa anziché nulla?” e la risposta è semplice: la realtà esiste parlando. Il problema è, come? Nel momento in cui incomincio a nominare le cose, e nominandole a inserirle all’interno di una combinatoria, di una struttura di relazioni, di significati, solo allora incomincio a vedere questo tavolo, perché solo a questo punto c’è un qualche cosa, e questo qualche cosa è un tavolo. Anche se mi guardo allo specchio, se non c’è una struttura che mi consenta di rilevare che c’è qualche cosa da vedere io non vedo niente, letteralmente, perché non ho nulla da vedere, solo quando questa struttura è avviata allora c’è qualche cosa da vedere, e allora la vedo, oggettivamente. Da quel momento le cose incominciano a esistere, in caso contrario no, non c’è niente, perché non c’è niente da vedere, sembra strano ma funziona così. A questo punto la questione verte su un altro aspetto che è quello che poi decide del fatto che gli umani considerino che esista una realtà fuori di loro. Certo, io vedo le cose, e mi è stato insegnato che ciò che vedo è altro da me, e quindi incomincio a credere che esista qualche cosa che sia fuori di me. Da quel momento esiste la realtà, esiste il mondo esterno, esiste tutto quanto, ma l’inganno, chiamiamolo così provvisoriamente, sta nel fatto che nessuno ha mai detto né insegnato che ciò che io vedo, ciò che incontro, è tale perché è preso in una rete di relazioni, di connessioni, che sono linguistiche, e che affermare che le cose esistono di per sé, di fatto non significa niente, assolutamente niente. Questa rete di relazioni fa esistere anche il pubblico, per esempio, che è lì di fronte a me; lo vedo perché so che c’è qualcosa da vedere e che questo qualche cosa è un “pubblico”. E c’è uno scambio, nel senso che io cerco di modificare il pubblico, per esempio parlando, e dal pubblico vengo modificato, perché immagino che il pubblico si attenda qualcosa da me, attesa alla quale rispondo.

Ma tutto questo è virtuale, non c’è nessuna realtà di riferimento, il solo riferimento è quella rete di connessioni che vi consente di comprendere ciò che dico, di accoglierlo se collima con ciò che costituisce la vostra scena, di rigettarlo in caso contrario. La realtà è l’animale fantastico del discorso occidentale. Tutto questo rappresenta il crollo totale della metafisica, di ogni certezza che tenti di trarre fondamento da qualcosa che sia fuori dalle parole, dalla scena che la costruisce. Questo è ciò con cui un analista deve confrontarsi, che deve sapere e non può non sapere, e questo è quanto di più sovversivo possa immaginarsi, ed è per questo che una formazione analitica è assolutamente sovversiva.

In questa relazione, io sono parte, e non potrei non farne parte, poiché io stesso sono un elemento di questa struttura dove le cose si connettono e si modificano tra loro ininterrottamente. Ho parlato di “struttura” utilizzando questo termine nell’accezione prettamente strutturalista. Ma tutto questo avviene perché sono parlante, se gli umani non fossero parlanti tutto ciò non sarebbe mai accaduto, nulla sarebbe mai esistito, né mai si sarebbe potuta porre una questione del genere, ma possiamo andare oltre. Come si diventa parlanti, come accade che gli umani a un certo punto parlino, come avviene questo fenomeno? Questa era una domanda alla quale pareva difficile rispondere, sembrava che per “imparare” a parlare occorresse già essere nel linguaggio, invece ci si è accorti che addestrare una macchina a pensare comporta le stesse procedure che vengono utilizzate per addestrare gli umani a parlare: gli si forniscono delle informazioni e insieme con queste i modi per usarle. Prendete un pezzo di ferro, come si fa a trasformare un pezzo di ferro in una macchina pensante, così come Turing chiamava il prototipo del suo computer. Questa era la domanda che si era posta, lui insieme con Von Neumann e molti altri: come costruire una macchina pensante? Che pensa nei limiti in cui può pensare una macchina, per il momento, ma le possibilità sono praticamente infinite. Occorre innanzitutto un dispositivo che sia in condizioni di accogliere delle informazioni e che le possa memorizzare, delle istruzioni e un sistema di procedure per eseguirle, cioè degli algoritmi. A questo punto avete una macchina pensante. Se voi togliete il sistema operativo a un computer, vi trovate ad avere a che fare con un pezzo di ferraccio inutile; se togliete da un cervello umano il sistema operativo, e cioè in questo caso il linguaggio, il cervello può essere utilizzato per farci il fritto misto, per chi piace, se no, non ha nessuna utilità.

Il fatto di essere parlanti è quella considerazione che Freud ha iniziato a fare lungo la sua opera che, pur essendo ancora fortemente metafisica, in quanto fa ancora riferimento ad aspetti naturalistici e positivisti, cioè a un qualcosa che è considerato fuori dal linguaggio, cionondimeno mostra molte aperture, come nella Psicopatologia, nell’Interpretazione dei sogni, nel saggio sul diniego, nel Motto di spirito eccetera, che sono come degli squarci, degli squarci che aprono a una questione linguistica, la questione del come le parole, le proposizioni, i discorsi, si connettono e si combinano fra loro. Queste aperture, questi squarci alludono a un’altra scena, a una scena fatta di parole, di proposizioni, di racconti, di discorsi.

La psicoanalisi come metafisica è finita, è giunta al suo compimento, ora si consegna a ciò che va aldilà della psicoanalisi, e che potremmo indicare come la scienza della parola. La parola come scienza, vale a dire come quel sapere imprescindibile in qualunque attività degli umani: la parola è la sola “certezza” di cui dispongono, è la sola cosa che, per poterla negare, si è costretti a confermare.

La parola in atto, la parola che fa, che agisce, parola che, posta in questi termini, è ciò su cui occorre insistere dal momento in cui la psicoanalisi è compiuta: così come raccontava Heidegger della filosofia, cioè della metafisica, che arrivata al compimento, alla sua fine, alla sua conclusione si consegna alla tecnica, allo stesso modo la psicoanalisi oggi si consegna alla scienza della parola perché è questa l’apertura alla quale rivolgersi per intendere come funziona il linguaggio e, di conseguenza, come necessariamente pensano gli umani in quanto fatti di linguaggio, e quindi di parole, e quindi di discorsi.

La parola, a questo punto, diventa la questione essenziale, ma non solo per la psicoanalisi, ma per gli umani, perché vivono di parola e sono fatti di parola, senza la parola non sarebbero mai esistiti; la parola è ineludibile, non può togliersi, non può eliminarsi, non può dissolversi in nessun modo, potremmo dire che è l’incontrovertibile: la parola, dicendosi, non può affermare di sé di non dirsi se non dicendosi, e da questo non c’è nessuna uscita, come dire che non c’è nessuna uscita dal linguaggio, in nessun modo.

Gli umani sono fatti di parole, questa è la portata sovversiva della psicoanalisi inventata da Freud, parole che hanno come referente altre parole, e queste altre parole, in un rinvio che non ha una fine in qualche luogo, in qualche parola ultima che non c’è. Il “fine” della parola è costruire altre parole, al solo scopo di costruire altre parole, è questo che gli umani fanno, saperlo, è ciò che fa la differenza.