13 novembre 2003
L’argomento dell’incontro di questa sera sono gli amori difficili. Intanto, che cosa possiamo dire rispetto all’amore? L’amore, fin dall’inizio, è fatto di aspettative, di attese, è fatto di un obiettivo e l’obiettivo è quello di realizzare quella scena finale in cui si dovrebbe raggiungere quella felicità, quel benessere che è vincolato alla presenza della persona amata.
Ora, nell’amore difficile che cosa accade, invece? Accade che questa scena finale, o meglio, il destino di questa scena è quello di essere continuamente rimandata, succede sempre qualcosa, un evento esterno il più delle volte, oppure un evento “interno”, tra virgolette, che può essere legato a paure, fantasie di qualunque genere, sensi di colpa, ecc., insomma, c’è la costante presenza di qualcosa che ostacola e che appunto rinvia nel tempo la realizzazione di questa scena. Scena che comunque è sempre presente, fa da sfondo a tutta la storia d’amore, ed è ciò che entrambi gli amanti puntano a realizzare.
Rispetto agli amori difficili c’è una letteratura sterminata, tutto il filone del romanzo d’amore nasce nel XII secolo con le liriche dei trovatori, con l’amor cortese, che tra le altre cose ha influenzato moltissimo anche Dante, e prosegue, attraverso varie fasi, sino al Romanticismo.
Una cosa che possiamo chiederci è questa: come mai la letteratura d’amore ha sempre preferito l’amore difficile rispetto all’amore felice, per esempio? De Rougemont è uno studioso francese che ha scritto un testo interessante, dal titolo L’amore in Occidente, e dice che l’amore felice non è raccontabile. In effetti, dice, quando un romanzo d’amore finisce? Finisce con l’ e vissero felici e contenti…, come dire, qui la storia finisce perché non c’è più nulla da raccontare. Quello che succede da lì in avanti non è raccontabile. Non è raccontabile perché non c’è più nulla da raccontare perché la tradizione vuole, per esempio, che l’eroe per raggiungere la principessa debba uccidere un drago. E, in effetti, rispetto a un romanzo d’amore, potete voi stessi porvi la questione: se questo eroe arrivasse, vedesse la principessa e si unisse a lei, cosa succede? Succede che la storia è bell’e che finita, non ci sarebbe più nulla da raccontare. Invece, il fatto stesso che debba incontrare un drago, e magari poi un altro, poi ancora deve incontrare il cavaliere nero, ecc., rende la storia interessante, avvincente, produce emozioni nel lettore.
Tornando alla nostra questione, perché questa letteratura intorno agli amori difficili ha avuto così fortuna? Intanto, cosa comporta un amore difficile, un amore ostacolato? Comporta quello che dicevamo prima rispetto al romanzo, comporta che la storia prosegue perché costringe i personaggi questa storia a fare un sacco di cose, costringe a pensare, a congetturare, a cercare soluzioni, costringe a patire, a soffrire, costringe a lottare per l’amore anelato, costringe a fare tutta una serie straordinaria di cose che continuamente danno rispetto alla storia un continuo rilancio. Pensate alle grandi storie d’amore, pensate a Shakespeare con la sua Giulietta e Romeo, a tutti i colpi di scena, i capovolgimenti, il duello, che sono tutti quegli elementi attorno ai quali ruota tutta la vicenda. Non è tanto il sentimento, la sua intensità, che viene dato in qualche modo quasi per scontato, ma è tutto ciò che accade intorno, tutto ciò che rispetto a questo sentimento interviene come impedimento, come ostacolo, come contrarietà, il motivo della storia, ciò che consente di costruirla.
Gli umani amano questa letteratura d’amore perché li costringe in qualche modo a partecipare, a essere coinvolti, a identificarsi, in ultima analisi, li costringe a sognare. Gli umani amano questo genere di letteratura, amano le storie di amori difficili, perché tutto sommato nel loro “intimo”, se lo hanno vissuto vorrebbero riviverlo, se non lo hanno vissuto vorrebbero poterlo vivere. Poi, magari, se chiedete a una persona, che è da poco innamorata, se preferisce un amore difficile o un amore felice, questa vi risponderà senza alcun dubbio alcuno che preferisce un amore felice piuttosto che un amore difficile, preferisce non avere particolari problemi prima di raggiungere la persona di cui si è innamorata.
Gli amori difficili sono preferiti proprio per questo, perché consentono questa straordinaria cosa, vale a dire, sono l’occasione per ciascuno di costruire storie, racconti, costruire il proprio romanzo, perché in effetti è proprio questo che gli umani vogliono, intorno a qualunque cosa, non solo l’amore, vogliono costruire storie e le costruiscono continuamente. Ovviamente, gli amori difficili costituiscono una delle occasioni migliori, direi privilegiate, per potere fare questo.
Facciamo un passo indietro. Dicevamo dell’ostacolo. L’ostacolo è l’elemento essenziale in una storia di amore difficile. L’amore difficile è solo un esempio, la questione dell’ostacolo ha una portata molto più ampia, perché gli ostacoli sono ciò che fanno vivere gli umani. Perché? Perché sono quelle cose che li costringe a pensare, a riflettere, a trarre considerazioni, a congetturare, ad argomentare, li costringe a cercare soluzioni e quindi, rispetto a queste soluzioni, darsi da fare, in tutti i modi possibili. È come se gli umani non potessero non fare questo.
Ma innanzitutto che cos’è che non possono non fare? Pensare. Se vi soffermate appena un attimo vi accorgete che il pensiero è inarrestabile, opera ventiquattro ore su ventiquattro, anche quando dormite. Ma che cos’è costringe gli umani a pensare? Cos’è il pensiero? Il pensiero non è altro che una stringa di proposizioni e quindi ciò che costringe gli umani a pensare è quella struttura che noi chiamiamo linguaggio.
Ormai, sono diverse settimane che siamo presenti qui e abbiamo avuto ciascuna volta l’occasione per parlare del linguaggio. La nostra associazione si chiama Scienza della Parola e si occupa di linguaggio in prima istanza, ovviamente anche di psicanalisi, ma, vedete, la psicanalisi può esistere o meglio si rapporta a una teoria del linguaggio, ed è proprio l’elaborazione di una teoria del linguaggio che ci ha occupati in questi ultimi dieci anni.
Che cos’è il linguaggio? Dicevamo che è una struttura, una struttura inferenziale.
L’inferenza è qualche cosa che consente di passare da un elemento linguistico a un altro. L’esempio classico di inferenza è quella del sillogismo, se A allora B, se questo allora quest’altro, se piove allora prendo l’ombrello. Ora, ciascuno di voi pensando difficilmente si accorge di quello che sta facendo, nel senso di che cosa sta funzionando non di quello che sta pensando, però se ci pensa un attimo si rende conto che il pensiero è, come dicevamo prima, inarrestabile, che ciascun singolo pensiero è legato a un altro, e questo perché ogni pensiero richiama un altro, rinvia a un altro. Questo è ciò che fa il linguaggio, la sua struttura inferenziale, cioè consente di passare da un elemento a un altro. Dicevamo prima, se A allora B, A è la premessa e B è la conclusione, quindi, data una certa cosa allora un’altra. È la struttura base, la figura base del ragionamento, voi pensate, riflettete, congetturate, considerate, partendo da un elemento e attraverso dei passaggi giungete a una conclusione. Non fate altro che continue inferenze. Questa è il modulo base, diciamo così.
Ovviamente, ciascuna volta che trovate il vostro B, la conclusione, questo B costituirà a sua volta la premessa per altre inferenze. Quindi, se c’è una certa cosa allora quest’altra, data quest’altra allora ce n’è un’altra ancora, e così via di seguito. Ciascuno pensando procede in questo modo. Verrebbe da dire che ciò che si fa pensando non è altro che il reperire da un elemento altri elementi, altre conclusioni. Qualunque considerazione voi facciate vi trovate a un certo punto a concludere, anche quando, per esempio, avete sete. Può sembrare che in questo caso questo sistema inferenziale non stia funzionando, perché quando avete sete aprite il frigorifero, prendete un bicchiere, ci versate l’acqua e bevete, finita lì. È chiaro che sta operando in questo caso una sorta di automatismo, non è che ci si mette lì ogni volta a controllare quante inferenze si fanno: ho sete, quindi, prendo un bicchiere, che se è un bicchiere allora è adatto per contenere dell’acqua, e quindi, ecc. Sono inferenze che funzionano anche se non ci si presta attenzione ma anche in questo banale esempio si parte da una premessa che è ”ho sete” e si giunge alla conclusione che consiste nell’atto del bere un bicchiere d’acqua.
Dicevamo che si cercano conclusioni. Perché si cercano conclusioni? Semplicemente per un motivo, perché è l’unico modo per potere proseguire a pensare, a parlare. Proseguire a pensare, a parlare, non è una “vostra” esigenza, come dire un’esigenza soggettiva, ma è un’esigenza del linguaggio. È il linguaggio che cerca continuamente elementi per proseguire se stesso e questi elementi sono le conclusioni. Per fare questo il linguaggio costruisce proposizioni, lo fa continuamente, quando dico che costruisce pensieri sto dicendo che costruisce proposizioni. Ovviamente, non è che costruisce qualunque cosa perché ciò che costruisce, le proposizioni che costruisce, sono vincolate a delle regole e sono inserite in un gioco, quello che noi chiamiamo gioco linguistico. Un gioco linguistico non è altro che il linguaggio in atto. Ora, parlando di gioco si parla anche di regole, regole nel senso che il gioco linguistico, come qualunque altro gioco, ha bisogno di regole per poterlo giocare. Sono per lo più regole di esclusione, e sono esattamente delle istruzioni che danno le indicazioni di come arrivare alla conclusione, all’obiettivo del linguaggio.
Gli umani non fanno altro che costruisce giochi linguistici e all’interno di questi giochi cercano conclusioni, cercano obiettivi da raggiungere, cercano soluzioni, risposte. La risposta che cos’è? È una conclusione rispetto a una domanda. Mi chiedo una certa cosa e che cosa mi attendo? Una risposta, una conclusione. Se questa risposta, se questa conclusione non arriva è come se qualcosa rimanesse in sospeso, c’è un’impossibilità a proseguire. La conclusione serve al linguaggio per potere proseguire, come all’interno di qualunque gioco la conclusione è ciò che serve per potere continuare a giocare quel gioco linguistico che sto facendo.
Dicevo che non qualunque proposizione costruisce. Certo, perché, come per ciascuno, ciò che si costruisce deve avere anche un’altra caratteristica, e cioè che deve essere vero. Quando mi chiedo qualcosa cerco una risposta falsa o una risposta vera? Di certo una risposta vera. Sono le regole quelle che mi danno l’indicazione, il modo per costruire una proposizione vera. Vera non in senso assoluto ma vera all’interno di quel gioco. Se pensate al gioco del poker, il fatto che un tris batta una coppia è vero ma è vero all’interno del gioco del poker, fuori da quel gioco non è niente, non significa nulla, non è una verità divina. E questo è ciò che ciascuno fa, cerca proposizioni vere, conclusioni vere che sono quelle che gli servono per raggiungere l’obiettivo che il suo gioco ha previsto.
È chiaro che dicendo, come dicevo prima, se A allora B, stiamo parlando di un’inferenza molto semplice, immediata, ma traducendo questa figura in quello che è il ragionamento, il pensiero, le riflessioni, le considerazioni che ciascuno fa, ci si rende conto che il passaggio da A a B può essere molto complesso, può implicare tutta una serie giri, di passaggi, di verifiche, può trovarsi di fronte a una complicazione notevole, a degli ostacoli. Stiamo ritornando all’argomento della serata.
Pensate a una dimostrazione matematica. Anche qui ci sono dei dati, delle premesse da cui si parte e si deve raggiungere una conclusione. Parlando di una dimostrazione matematica si parla di un gioco di una certa difficoltà. Ma pensate anche all’amore difficile. Si potrebbe dire che la struttura è la stessa, tuttavia sono giochi differenti che hanno regole differenti. Ma il dire che la struttura è la stessa che cosa significa? Che è il linguaggio la stessa struttura, perché è il linguaggio che consente la costruzione di questi giochi.
La dimostrazione matematica e gli amori difficili, dicevo, sono giochi linguistici che hanno regole differenti per giocarsi ma hanno entrambi questa particolarità, di essere giochi complicati, difficili. Adesso stiamo utilizzando questi due giochi a titolo di esempio, potrebbero essere infiniti gli esempi di giochi complicati. Cosa fa l’ostacolo, la complicazione? Rende più interessante il gioco, lo rende più divertente, lo rende più soddisfacente. E, in effetti, ciascuno che si trovi a dover compiere un compito di una certa difficoltà, se riesce a raggiungere il risultato, l’obiettivo che si è prefissato, è chiaro che avrà una soddisfazione, ne ricaverà un piacere, e laddove il compito è estremamente difficile la soddisfazione sarà maggiore. È un po’ come quando da ragazzini si gioca alle birille o ai soldatini, quando poi si cresce, si diventa adulti, si ha necessità di trovare, di costruire o di inventare giochi più complicati, giochi più ostacolati, vale a dire giochi con più regole di esclusione. Le regole di esclusione impediscono che in un gioco si possano fare determinate mosse e ne consente di fare altre; le regole di esclusioni creano ostacoli, maggiori difficoltà, per poter raggiungere l’obiettivo. Il fatto che ci siano più ostacoli comporta che il raggiungere la conclusione di quella partita comporti una maggiore soddisfazione, un maggiore piacere.
Ho parlato di giochi. Considerate ora l’amore. L’amore è un gioco, è una costruzione, e anche l’amore, come qualunque altro gioco, ha le sue regole. Per esempio, se doveste fare una dichiarazione d’amore certamente non utilizzerete le regole della dimostrazione matematica, non sarebbe molto efficace, non credete? E nell’amore difficile la regola fondamentale è che ci siano tanti ostacoli perché possa definirsi tale.
Vedete, gli umani hanno necessità, ricercano continuamente ostacoli e quando non ci sono se li creano. È anche per questo che sono attratti e cercano gli amori difficili, perché ne hanno bisogno, e ne hanno bisogno perché la complicazione, la contrarietà, la difficoltà, la presenza di ostacoli, sono per loro straordinarie occasioni di pensiero, non hanno bisogno di nient’altro. Occasioni di pensiero, certo, perché la presenza dell’ostacolo, come dicevamo prima, consente a ciascuno di darsi da fare, di pensare, di immaginare, di verificare, insomma, di fare tutte quelle cose che puntano a risolvere l’ostacolo, il problema.
Abbiamo già accennato in un’altra occasione che c’è l’eventualità che gli umani si costruiscano tragedie al solo scopo di poter soffrire. Ma senza arrivare alla tragedia, basti pensare alla vita difficile. Cos’è la vita difficile? È quella di cui molti si lamentano, una vita fatta di problemi, di cose impreviste che accadono, di un sacco di cose indesiderate e di cui si lamentano. Ciò di cui non si accorgono in questo caso è che la vita difficile non è una dannazione divina, ma che molto spesso, non dico sempre, è solo un loro particolare modo di giocare. Un gioco, certo, perché in questo modo soddisfano un’esigenza, l’esigenza del linguaggio di continuare a costruire proposizioni, frasi, pensieri. Costruiscono giochi, o meglio, il linguaggio costruisce giochi sempre più complicati proprio perché così trova più facilmente modo per proseguire. I problemi spesso sono considerati dal luogo comune come problemi reali, dovuti alla sfortuna, alla necessità, come se gli umani subissero tutto quello che loro accade. Il più delle volte sono le loro superstizioni, le loro fantasie a costruire questi ostacoli, questi problemi. Perché? Solo per questo, per rendere più interessante la loro vita, per renderla più piacevole, anche se può sembrare paradossale. Non più di qualche giorno fa una persona mi diceva “Se io non avessi avuto un sacco di problemi, se non mi fosse capitato questo e poi quest’altro, ecc., la vita sarebbe stata “troppo” facile”. È quel “troppo” che ha aggiunto a quel facile che ci indica la fantasia, perché è come il dire che la vita senza problemi non sarebbe stata poi granché. Pensate poi alle vecchiette che vanno al mercato, incontrano qualche conoscente e incominciano a lamentarsi di qualunque cosa, di un acciacco, ecc. Ebbene, il giorno che stanno benissimo e che incontrano la vicina di casa, c’è un disagio, perché avvertono di non avere nulla da raccontare e allora si affannano a cercare qualcosa di cui parlare; guardatele negli occhi, invece, quando hanno un problema, c’è un velo di soddisfazione, perché questo problema è per loro l’occasione di raccontare, di costruire tutta una serie di considerazioni, di attrarre anche l’attenzione dell’altro ma soprattutto perché hanno trovato qualcosa di cui parlare. E, in effetti, è solo questo che costringe gli umani a cercare ostacoli, a crearsi problemi, in taluni casi a rovinarsi la vita, a vivere tragedie, amori difficili: la loro necessità di trovare qualcosa di cui parlare.
Bene, possiamo fermarci qui per il momento. Se ci sono questioni, domande, obiezioni, aggiunte, sono felice di rispondere, altrimenti invito Luciano Faioni a fare le sue considerazioni.
Intervento di Luciano Faioni.
Da ciò che ha detto Sandro pare che gli amori interessanti, quelli che meritano di essere vissuti, siano quelli difficili. Anche nel luogo comune, in effetti, funziona così, i cosiddetti amori facili non sono mai ben considerati, sono sempre connotati negativamente. Chissà perché? comunque rimane il fatto che una qualunque difficoltà che si incontri costringe a darsi da fare, costringe a trovare i modi per eliminare la difficoltà. Ora, potrebbe in effetti apparire bizzarro che accada che qualcuno si crei delle difficoltà per risolverle, però non è poi così strano in effetti. Qualunque gioco è fatto di questo, di una serie di difficoltà da superare per giungere a un certo obiettivo. È noto da sempre che agli umani piace molto giocare. perché si fanno i rebus, le parole crociate? Sono delle difficoltà, superare queste difficoltà produce una soddisfazione. È una questione non marginale. E in amore, che è una delle attività più importanti, più significative e anche più impegnative degli umani, funziona allo stesso modo. Diceva bene Sandro che in effetti l’amore è un gioco, non sempre è chiaro quale sia l’obiettivo finale, però rimane un gioco. In quanto tale, è fatto in modo tale da raggiungere un obiettivo, qualunque esso sia, attraverso una serie di passaggi obbligati, di difficoltà. Tempo fa dicevamo proprio in questa sede che, per esempio, una fanciulla molto spesso non è interessata da un amore facilissimo, cioè già risolto, cioè generalmente non è molto interessata a un fanciullo che dichiara immediatamente il suo amore e la sua disponibilità. È per lo più attratta e affascinata da qualcuno che si sottrae, qualcuno che deve conquistare, attraverso una serie di difficoltà, una delle difficoltà può essere per esempio questa “come fare in modo che si interessi a me o che giunga ad accorgersi che è innamorato di me”. E allora si impegna a risolvere questi problemi, queste difficoltà, e quando raggiunge il suo obiettivo ecco che è soddisfatta. Non per molto, ovviamente, però come in tutti i giochi sono fatti da una serie di partite, quando la partita è terminata quella partita è chiusa, se ne può iniziare un’altra ma quella partita è chiusa. Cosa comporta che quella partita sia chiusa? Che non dà più emozioni, che abbia vinto o perso in ogni caso quella partita è terminata. Pensate a un banalissimo gioco di carte, quando è finita la partita è finita, non c’è più niente da fare, se ne può fare un’altra, però… Ecco, l’amore difficile in qualche modo prolunga la partita, la rende ardua, complessa, è come se ritardasse la conclusione. Una partita che dura pochissimo difficilmente soddisfa i giocatori, se invece è lunga, elaborata e complessa, ecco che allora diventa più interessante, più divertente. Gli umani, notava Sandro, amano il gioco, quindi, amano le difficoltà. C’è una famosa battuta di Nietzsche: due cose amano gli umani, il pericolo e il gioco; per questo cercano la donna, come il giocattolo pericoloso. Ora, giocare certo comporta il conoscer le regole di quel gioco e le regole dell’amore, come le regole di qualunque gioco, le si impara per esperienza in linea di massima, difficilmente uno le ha apprese dai manuali appositi, e man mano acquisisce un certo numero di istruzioni per fare funzionare questo gioco. C’è una sorta di contraddizione che rilevava Sandro. In effetti, ciascuna persona, se interrogata, affermerebbe che se potesse preferirebbe un amore facile anziché uno difficile. Perché? Perché immagina che l’obiettivo, il suo soddisfacimento, sia il raggiungimento della meta che si è prefissata, ma non è esattamente così, esattamente come in qualunque gioco la meta è soltanto il pretesto per giocare, l’occasione, ma l’obiettivo in realtà è giocare il gioco. È per questo che gli amori difficili, quando diventano facili, in moltissimi casi cessano. Cessano nel momento in cui, terminata la difficoltà, è come se fosse terminata la partita, “ormai, ho vinto!”, per così dire. Molte relazioni terminano, o iniziano a terminare, proprio per una cosa del genere, non ci si accorge, o uno dei due non si accorge, che per il partner è finita quella partita e che pertanto occorre iniziarne un’altra se vuole continuare a giocare, se no il gioco termina, con tutto ciò che questo comporta. Questa confusione tra l’obiettivo e l’esca per giocare in alcuni casi è drammatica. L’esca non è il raggiungimento di quell’obiettivo, cioè la meta, “voglio ottenere quella persona”; questa è l’esca per giocare, non è l’obiettivo, se si confonde nascono dei problemi nel momento stesso in cui l’obiettivo è raggiunto, allora la partita è terminata. Se ci si accorge che invece questa è l’esca per giocare allora il raggiungimento di quell’obiettivo, cioè l’ottenere quella persona, fa parte di un gioco, piacevole, divertente, tutto quello che volete, ma un gioco e la consapevolezza inevitabile è che quel gioco non termina una volta che ha raggiunto quella persona, è soltanto conclusa una partita ma il gioco continua. Come dicevo prima, questa confusione, che è frequente nelle persone, conduce in moltissimi casi alla interruzione delle relazioni: uno avverte che la partita è finita e l’altro no, e anziché rilanciare il gioco, cioè un’altra partita, continua a chiedersi cosa sia successo.
Sandro ha posto una questione molto più sottile e più radicale in tutta questa questione e ha fornito una risposta precisa a come mai succede tutto questo, cioè come mai gli umani non possano cessare di giocare. il gioco dell’amore è uno dei giochi preferiti, prioritari su altri, perché sicuramente capace di produrre emozioni molto forti, non soltanto questo, certo, anche altri giochi producono emozioni forti, il gioco d’azzardo. Chiaramente, l’emozione è tanto più forte quanto più alta è la posta in gioco, se la posta in gioco è la vita dovrebbe essere l’emozione più forte. Così si narra, tant’è che dicono che giocare alla roulette russa produca emozioni molto forti, se va bene se no… Ma la questione radicale cui accennava Sandro, e che è la questione più importante, è che tale costrizione al gioco non è casuale né una bizzarria del destino ma procede da ciò di cui gli umani sono fatti. Di che cosa sono fatti gli umani? Orientativamente, sono fatti di ciò che consente loro di definirsi tali, per esempio, e insieme con questo di pensarsi qualunque altra cosa. Sandro si chiedeva che cos’è che mi consente di pensare e quindi di sapere, di giungere a delle conclusioni, di potere credere o non credere, ecc. E’ ciò che comunemente è noto come linguaggio ma per evitare fraintendimenti, ché spesso si intende il linguaggio come una sorta di verbalizzazione di qualche altra cosa, allora indichiamo con linguaggio una struttura, una struttura molto semplice, che è quella che consente a ciascuno di pensarsi, di dirsi, di dire che esiste, che non esiste, di dire qualunque cosa e il suo contrario. In definitiva, è quella struttura che consente di giungere a una qualunque conclusione, senza la quale struttura non sarebbe possibile né pensare, né giungere a conclusioni, né per esempio sapere di esistere. Questo vi rende conto di quanto sia fondamentale questa struttura per gli umani, perché senza questa struttura non saprebbero di essere umani. Ora, una domanda banalissima che può porsi è questa: il fatto che sia il linguaggio che consente agli umani di sapere, di pensarsi, di fare qualunque cosa e il suo contrario, ha delle implicazioni oppure no? Parrebbe di sì, visto che senza linguaggio non esisterebbero, perché non avrebbero nessuna possibilità di pensare una cosa del genere. E quali sono le implicazioni, dunque? Per saperlo occorre sapere come funziona il linguaggio, ovviamente, di cosa è fatto. È fatto, come diceva in modo molto preciso Sandro, soprattutto di un sistema inferenziale. Potete pensarlo così, se volete una allegoria, come una sorta di sistema operativo che fa funzionare tutto quanto. Il sistema inferenziale è ciò che consente a ciascuno di pensare, semplicemente, senza questo non potrebbe pensare. Ma qual è l’obiettivo del linguaggio? È ciò che ciascuno ha sotto gli occhi continuamente, è ciò che non può non essere, il suo obiettivo è quello di proseguire se stesso, non ne ha altri. Qualunque altro obiettivo immagini che possa avere è un’attribuzione assolutamente gratuita, mentre l’unica cosa che non può non fare è fermarsi perché se si fermasse allora il linguaggio cesserebbe e cessando il linguaggio cesserebbe tutto. Come fa a non fermarsi mai? Costruendo giochi, giochi linguistici. Li chiamiamo giochi perché sono fatti esattamente come ciò che normalmente chiamiamo gioco, è una serie di regole che consentono, attraverso dei passaggi vincolati a delle istruzioni, di raggiungere un certo obiettivo. Ora, se il linguaggio costringe a fare questo, e non può non farlo, ecco che gli umani, a questo dire il linguaggio o dire gli umani è la stessa cosa, non può non giocare, non può non costruire giochi linguistici continuamente. Un gioco, dunque, deve arrivare a un certo obiettivo ma attraverso delle restrizioni, se no non è un gioco, è il linguaggio che funziona così, ha delle regole di esclusione, provate a togliere le regole di esclusione e il linguaggio cessa di funzionare. Nel momento in cui il linguaggio cessa di funzionare da quel momento non sarete mai esistiti. La regola di esclusione più banale è questa: provate a immaginare che una sola parola significhi simultaneamente tutte le altre, potreste parlare? Ecco, questa è una regola del linguaggio e il linguaggio costringe a costruire giochi continuamente. L’amore è uno di questi, come dicevo prima, uno dei più divertenti, più piacevoli, tutto quel che volete, però il fatto che si ponga come difficile, che esigasi essere difficile, procede dalla stessa struttura del linguaggio di cui ciascuno è fatto. È anche per questo che, come dicevamo prima, un amore facile non è di grande interesse, così come tutte le cose che vengono raggiunte immediatamente. Muovono sicuramente a fare altro, però esattamente così nello stesso modo per cui quando uno fa un gioco si diverte se il gioco è difficile, se impegna, allo stesso modo qualunque altra cosa, semplicemente per soddisfare un requisito che è quello del linguaggio, cioè costruire continuamente proposizioni. Quali proposizioni in particolare vengano costruite può essere irrilevante, ciò che conta è che vengano costruite. Ecco perché l’amore difficile, è quello più interessante, proprio perché più impegnativo, e cioè dà da fare, da pensare, da costruire storie, che è esattamente ciò che ciascuno non può non fare.
Intervento: le emozioni…
(Faioni) Nessuno sostituirebbe una cosa emozionante con un’iniezione di adrenalina, fatta per endovena, non dice niente, mentre un gioco emozionante produce sì adrenalina ma questo è un effetto collaterale. Dicevo che il gioco si fa più interessante quando la posta è più alta, e la posta più alta in genere si considera la propria vita.
(Degasperi) Certamente, le emozioni appartengono a un campo vastissimo in cui si possono fare rientrare moltissime cose, poi l’emozione è ciò che ciascuno pensa che sia, nel senso che una certa cosa può produrre in una persona determinate emozioni e in un’altra non produrle affatto. Dipende dal gioco che sta facendo, dalle regole di questo gioco…
CAMBIO CASSETTA
…. può produrre una soddisfazione che di per sé è già un’emozione, una soddisfazione enorme, dipende dal gioco e dal modo di pensare, dalle proprie superstizioni, dalle proprie fantasie, tutta una serie di cose. Come dicevo, l’emozione alla fin fine non è altro che ciò che lei pensa che sia.
Intervento: …le persone che si lamentano…
(Degasperi) Sa perché generalmente le persone si lamentano? Perché riescono così a dare un senso alla loro vita. In genere, il lamento è il cercare l’ostacolo, il problema, al di fuori del proprio discorso, come se non fosse appartenente al gioco che il proprio discorso ha costruito. Di solito, ci si lamenta di qualcosa considerandolo per lo più qualcosa che ci è capitato tra capo e collo, di cui non ci si sente responsabili. Il problema, anche se causato, come si dice nel luogo comune, da un evento esterno, ha una portata che è determinata da come viene caricato fantasmaticamente questo evento esterno. Una certa cosa accade e può produrre determinati effetti su di me mentre su di lei non produce quelli ma ne produce altri. Perché? Eppure si direbbe che è la stessa cosa che è accaduta per me come per lei. Dipende dal gioco che io sto facendo che è differente dal suo.
Intervento: …
(Degasperi) Ci sono le persone che si creano problemi o si mettono nei guai proprio e semplicemente per questo motivo, per avere un sacco di cose da fare, cose a cui pensare, a cui dedicarsi, in definitiva, per avere un problema da risolvere. La questione fondamentale in tutto ciò è quella della responsabilità. È chiaro che se penso di subire i miei problemi è perché non me ne ritengo responsabile. Se, invece, mi accorgo che tutto ciò che mi accade non è altro che una costruzione dei miei pensieri, allora non posso più dire di non essere responsabile. Dicevamo prima che avere problemi da risolvere talvolta è qualcosa che dà un senso alla vita, lo dà proprio in senso letterale, cioè danno un senso, una direzione ai miei pensieri, cioè sanno di cosa occuparsi, a cosa dedicarsi, cosa prendere in considerazione oppure no. Quando le persone si lamentano che non riescono a dare un senso alla vita si lamentano di questo, di non riuscire a trovare qualcosa che occupi e piloti i propri pensieri, qualcosa che li costringa ad andare verso una precisa direzione, altrimenti si sentono smarriti. Per fare questo si inventano le cose più strane.
Intervento:….
(Degasperi) La questione è che il linguaggio deve trovare il modo per proseguire, non può non farlo. Il lamento, enunciando una difficoltà, è qualcosa che soddisfa questa esigenza, perché consente di costruire una quantità infinita di proposizioni. La questione è che il linguaggio comunque proseguirebbe, anche senza il lamento, si tratta di trovare modi più interessanti per farlo.
Intervento: …
(Degasperi) Non necessariamente un masochismo. Diciamo che in questo caso non c’è una consapevolezza, vale a dire, la consapevolezza che ciò che è in atto è un gioco, un gioco che ha le sue regole e che quindi è costruito per un certo obiettivo. Se le cose sono considerate fuori dal gioco, se credo di subire ciò che mi accade, non posso assolutamente fare nulla, sono assolutamente irresponsabile. Se mi accorgo che sono invece responsabile, che è il mio gioco a dare una certa portata a ciò che accade, e questa portata è ciò che costruisce l’evento stesso, beh allora posso riconsiderare tutta la questione, per esempio interrogandomi sul vantaggio, sul tornaconto che posso avere dal considerare la cosa in un certo modo. Le persone si lamentano sempre e solo per una questione di piacere, perché traggono un piacere da questo. Dipende dalle fantasie. Il più delle volte non lo riconoscono e chiamano questo piacere sofferenza.
Intervento: …
(Degasperi)La sofferenza non è altro che un piacere non riconosciuto come tale, non voluto. È quel piacere di cui non accolgo la mia responsabilità. La sofferenza, lo dice il nome stesso, è qualcosa che si subisce…
Intervento: … affrontare in modo positivo i problemi negativi…
(Degasperi) Io non porrei la questione in termine di positivo/negativo. La cosa migliore è accorgersi che si sta giocando. Quando il problema è negativo? Quando penso di subirlo, mentre se mi accorgo che lo agisco, che cioè è una costruzione del mio discorso, dei miei pensieri, nel momento stesso in cui ho questa consapevolezza posso decidere se abbandonarlo o proseguirlo, diventa una mia decisione di cui sono assolutamente responsabile. Se penso, invece, di subirlo non posso abbandonarlo perché non dipende da me, è costrittivo, non ne sono responsabile.
Intervento: …perché si parla di gioco? …
(Degasperi) Ne parliamo non nel senso di qualcosa di ludico, anche ma non solo. Questo termine è intervenuto nella nostra elaborazione anni fa nel momento in cui abbiamo approcciato Wittgenstein. Lui parla di giochi linguistici. Un gioco linguistico non è altro che una sequenza di proposizioni e questa sequenza è costruita sulla base di regole. Possiamo prendere come esempio questo, ecco possiamo considerare il discorso di ciascuno come un gioco linguistico. Perché interessa alla psicanalisi questa cosa? Perché il discorso di ciascuno è un gioco linguistico che funziona sulla base di determinate regole. Ogni discorso è differente da quello di un altro, sono giochi differenti, quindi con regole differenti. Tutte le costruzioni di questo gioco, di questo discorso, i pensieri, le cose che dice, le emozioni, tutto quanto è costruito sulla base di queste regole. Non solo, ci sono anche le premesse su cui questo discorso è costruito, diciamo le sue fondamenta, sono il bagaglio, il sapere, le superstizioni, le cose che si credono, le cose che si ritengono fondamentali e alle quali non si rinuncia, i valori, sono tutte cose sulla base delle quali si costruisce tutto il resto, tutta la propria esistenza. Interessa alla psicanalisi questa cosa perché? Perché queste regole talvolta non sono conosciute, per i più vari motivi, operano senza che la persona si accorga di questo, per cui è come se la persona non si accorgesse di come sta funzionando il suo discorso, quali regole sta rispettando, quali regole lo sta facendo funzionare. Si tratta di reperire queste regole e anche le premesse sulle quali il suo discorso è costruito. Queste premesse sono proposizioni ritenute assolutamente vere, perché se le crede è perché le crede vere, nessuno crede vera qualcosa che sa essere falsa. La psicanalisi si occupa di giochi, di discorsi, e pone l’analizzante nella condizione di conoscere il funzionamento del suo discorso, che poi non è altro che il funzionamento del linguaggio. Essere consapevoli delle regole che fanno funzionare il proprio discorso, quindi, e conoscendo queste regole farle funzionare al meglio. Semplicemente questo. Una teoria del linguaggio è assolutamente necessaria rispetto alla psicanalisi, senza dover ricorrere a entità strane che non sono assolutamente provabili. La stessa nozione di inconscio, sulla base della quale si è fondata la psicanalisi, è una nozione che o lo si prende per buona oppure non è provabile. Provare l’esistenza dell’inconscio è un po’ come provare l’esistenza di dio. Mentre, invece, ciò che ci consente di proseguire il nostro lavoro è il partire da una premessa assolutamente necessaria, che non può non essere. Non è usuale questo, come sapete qualunque teoria, psicanalitica e non, parte da degli assiomi che sono indimostrabili e che prende per buoni. Essendo assolutamente arbitrari è chiaro che anche tutto ciò che si costruisce a partire da questi è a sua volta arbitrario, gratuito. Ciò che noi stiamo facendo è invece costruito su qualcosa che è assolutamente necessario che sia, che non può non essere, è l’assioma che dice che “qualunque cosa questa è un elemento linguistico”. È una proposizione che non è negabile, perché negandola si incorre in un paradosso. Non è una dimostrazione ma una costrizione logica.
(Faioni) La ragazza là in fondo mostrava una certa perplessità rispetto all’accostare la vita al gioco. In effetti, spesso si dice che la vita non è un gioco, però le pongo una questione: lei sa che cos’è la vita?
Intervento: ….
(Faioni) Dicendo che la vita è il vivere non è andata molto lontana perché a questo punto occorrerebbe specificarlo. Lei sa che da quando esistono gli umani, da quando c’è traccia di loro, è una domanda fondamentale: perché la vita e che cos’è? A questa domanda non è mai stata una risposta soddisfacente, come dire che ciascuna risposta è un’opinione. Eppure, non ci si mai posti un’altra domanda che è ancora più fondamentale che sapere che cos’è la vita, è una domanda articolata in due questioni, primo, “perché me lo chiedo?”, secondo, “che cosa mi consente di chiedermelo?”. Se io non potessi chiedermelo mai, né io né nessun altro al mondo, mai, per nessun motivo e in nessun caso, cosa succederebbe secondo lei?
Intervento: ….
(Faioni) Sarebbe come non esistere. Certo, è vero. Allora, perché io possa pormi questa domanda “che cos’è la vita?” non potrebbe porsi mai in nessun modo, quindi, non potrei neanche pormi la questione. Ora, facciamo un passo avanti ancora. Se così fosse, se non ci fosse nulla per potersi chiedere una cosa del genere, mai e per nessun motivo, allora la vita ci sarebbe?
Intervento: …
(Faioni) Riformulo la domanda. Se non ci fosse il linguaggio ci sarebbe la vita? È più semplice così?
Intervento: No.
(Faioni) Risposta esatta. Esattamente, senza il linguaggio non ci sarebbe la vita, né la sua né di nessun altro, poiché se non ci sono le condizioni per porsi la domanda circa la vita, per accorgerci dell’esistenza, allora effettivamente, non solo non c’è l’esistenza, non c’è neanche il problema. E questo ci induce a considerare che il linguaggio è la condizione non solo della vita ma dell’esistenza tout court di qualunque cosa. Qualunque esiste perché c’è il linguaggio o, più propriamente ancora, qualunque cosa in assoluto è un elemento linguistico, e siamo arrivati a fine corsa. E questa formulazione, come ricordava Sandro prima, in effetti non è dimostrabile, perché qualunque dimostrazione è confutabile, basta essere sufficientemente abili. Questa, invece, è una costrizione logica, cosa significa? Che negare questa affermazione che dice che qualunque cosa è un elemento linguistico non può farlo, perché per farlo, per negarla, ha bisogno del linguaggio stesso che vorrebbe negare e quindi non può farlo. Ecco perché è una costrizione logica ed ecco perché siamo giunti a questa considerazione che qualunque cosa questa è necessariamente un elemento linguistico e non può essere altro che questo. Da questo punto in poi si tratta di trarne tutte le conseguenze, tutte le implicazioni, infinite implicazioni, e questa è la parte difficile, perché arrivare fin qui è semplice, difficile è trarne le implicazioni necessarie di una cosa del genere, cioè dopo avere stabilito che non può non essere che così. In effetti, una delle implicazioni è proprio questa, considerare che qualunque cosa è un elemento linguistico, quindi, necessariamente inserito all’interno di un gioco linguistico. Ecco che la vita è un gioco linguistico e non può essere altrimenti.
Intervento: …Linguaggio del corpo …
(Faioni) Io ho detto prima cosa intendevo con linguaggio e torno a dirlo. Con linguaggio intendo un sistema operativo, la cosa che consente a ciascuno di voi, in questo istante e in qualunque momento, di pensare di essere vivi, di esistere, di muovere delle obiezioni, qualunque essa sia e la sua contraria, di pensare qualunque cosa, di crederla vera oppure falsa, tutte queste operazioni che fate sono consentite da un sistema operativo, questo sistema operativo l’ho chiamato linguaggio, visto che già esisteva questo termine, avrei anche potuto chiamarlo pippo, però c’è il termine linguaggio per cui ho usato questo, nell’accezione più ampia del termine. Voi state pensando in questo momento, non so che cosa, ma se state pensando è perché c’è un linguaggio. La signorina Nadia ha colto la questione in modo molto preciso e, attraverso una serie di passaggi, consentiti dal linguaggio, ha concluso in effetti che se non ci fosse il linguaggio non ci sarebbe neanche l’esistenza. È una questione logica, ma quale logica, visto che ce ne sono a bizzeffe? Ce ne è una sola che a fondamento di tutte quante, quella è fatta esattamente dello stesso materiale di cui è fatto il linguaggio, e cioè un sistema inferenziale tale per cui, per esempio, un elemento è distinguibile da qualunque altro e una serie di altre procedure che lo fanno funzionare. Supponiamo che io affermi, adesso, in questo momento, che esiste almeno una cosa fuori dal linguaggio, lo posso fare, l’ho appena fatto, ma che cosa ho detto esattamente? Che significato ha questa affermazione? Che esiste qualcosa fuori dal linguaggio. Ora, o ciò che ho affermato è vero o è falso.
Intervento: …
(Faioni) Cosa intende con significato esattamente?
Intervento: …
(Faioni) La relazione sta nel linguaggio, e cioè in quella struttura che le consente di immaginare che ci sia una relazione tra una persona e un’altra, che le consente anche di costruire un effetto di relazione, qualunque esso sia. Le consente anche di considerare se il concetto di relazione che lei utilizza sia corretto oppure no, che le consente di verificare, in base ad altre definizioni di relazione, se questo suo pensiero è corretto oppure no. Le fornisce anche un parametro, un criterio di verifica, per sapere se ciò che lei dice è vero o falso. Tutto ciò le è fornito da questa struttura, non è che ci sia una relazione tra il concetto di relazione e il linguaggio, la relazione è uno degli elementi che il linguaggio le consente di costruire, insieme con qualunque altra cosa. Lei può più facilmente, visto che chiedeva qualcosa di più utilizzabile, provare a immaginare se lei di colpo non avesse mai potuto usare il linguaggio, in nessun modo e per nessun motivo. Allora, comincia ad accorgersi che non può pensare, perché se no con che cosa pensa? Il pensiero non è altro che una sequenza di proposizioni coerenti tra loro che muovono da un elemento e giungono a un altro, pensare è questo, quindi non può più pensare. Pertanto, non può più giungere a nessuna conclusione, pertanto non può più fare domande, perché le domande vengono da una considerazione e la considerazione è fatta di questo, da un pensiero. Ecco perché senza linguaggio, senza questo sistema operativo, non esiste niente né sarebbe mai esistito. Certo, si può pensare che una cosa esista senza il linguaggio, ovviamente, di fatto le persone lo pensano, ma è un atto di fede in realtà, non è provabile, ci può credere, niente di più. È una questione estetica, cioè mi piace pensare che qualcosa non sia linguaggio, va bene, mi piace pensare che ci sia una divina provvidenza che muove tutto quanto, va bene, ma è una questione estetica, mi piace pensare così.
Intervento: …l’evoluzione…
(Faioni) Il linguaggio ha consentito di sapere che ne esiste una, per esempio. E la domanda che ci si poneva prima era molto radicale, cioè senza questa possibilità la vita esiste? È possibile pensare qualche cosa senza il linguaggio. Posso dire che esiste lo stesso, ma che cosa sto affermando esattamente? Ciò che affermo è verificabile? No, non lo è, perché non ho nessun modo per verificarlo. Posso dire che la vita esiste senza il linguaggio, ma che cosa ho fatto esattamente? Cosa ho affermato? Che differenza tra questa affermazione e il dire che esiste una divina provvidenza? Credo entrambe le cose. La questione è che in effetti in genere non ci si sofferma sulla provabilità di un’affermazione o almeno non generalmente, si considera che sia così e bell’e fatto, la vita c’è senza farsi tanti problemi. Però, se interrogata opportunamente questa affermazione si svuota, non significa niente. Ecco allora affermare non ha un grande portata, nessuno generalmente si adopera a provare ciò che afferma se non in ambiti strettissimi. Questo per due motivi, in genere perché non lo sa fare, il più delle volte perché non lo può fare, perché non c’è nessuna prova, di nessun tipo. E allora si considera che è così ma, torno a dirle, per una questione estetica, cioè mi piace pensare così. Nulla lo proibisce. Ma invece ciò che è interessante fare è giungere a delle conclusioni che possono essere provate. Cosa vuol dire provare un’affermazione? Vuol dire costruire una sequenza di passaggi tale per cui risulta necessario ciò che si afferma. Con necessario intendo che se non fosse così allora non sarebbe nulla, non sarebbe nessun’altra cosa. Affermare che qualunque cosa è un elemento linguistico è un’affermazione cosiffatta, se così non fosse allora non ci sarebbe nulla, né questa cosa né nessun’altra. Questa preferisco chiamarla costrizione logica, perché non posso fare altrimenti, da qualunque parte lei prenda questa cosa è ineluttabile, non c’è verso, non c’è verso di eliminare una cosa del genere, non c’è uscita dal linguaggio.
Intervento: …
Ricorda Gorgia? Nulla è, diceva, se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Potremmo precisare questa cosa dicendo che nulla è senza linguaggio. A questo punto è più precisa. Certo, non ci sarebbe neanche la comunicazione, non ci sarebbe lei, neanche io.